\documentclass{book} \usepackage{poetry} \usepackage{drama} \usepackage[italian]{babel}[2005/05/21 v3.8g] \usepackage[pagestyles,outermarks]{titlesec}[2005/01/22 v2.6] \usepackage{example} \TextHeight {6.5in} \TextWidth {4.3in} \headsep = 1cm \hfuzz 1pt %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% \newpagestyle {maintext} { \sethead [] [\textsl{\LetterSpace{TORQUATO TASSO}}] [] {} {\textsl{\LetterSpace{AMINTA}}} {} \setfoot [\textit{\thepage}][][] {}{}{\textit{\thepage}} } %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% \Facies \personae {\textsc{#1}{#2}\\\textsc{#1}} \Locus {\centre} \SpatiumSupra {.5\leading plus .25\leading minus .25\leading \penalty -50} \SpatiumInfra {.125\leading plus .125\leading minus .0625\leading \penalty 10000} \Forma \( {\centeredfinal} \Facies {\itshape} \SpatiumInfra {2ex plus 1ex minus .5ex} \Facies \numeri {\RelSize{-1}\oldstylenums{#1#2}} \Locus {\leftmargin + 6em} \Progressio {5\\} \Facies \tituli {\textsc{\MakeUppercase{#1}}} \SpatiumSupra {2\leading plus .5\leading minus .25\leading \penalty -10000} \SpatiumInfra {1\leading plus .25\leading minus .125\leading} \Novus \numerus \Natto \Facies {\ordinal {#1}\MakeUppercase{\theordinal}} \Novus \titulus \Atto \Facies {\thispagestyle{empty}\Nscena{0}\textsc{ATTO \Natto*{=+1}}} \SpatiumSupra {2\leading plus .5\leading \penalty -10000} \SpatiumInfra {1\leading plus .25\leading} \Novus \numerus \Nscena \Facies {\ordinal [f]{#1}\MakeUppercase{\theordinal}} \Novus \titulus \Scena \Facies {\itshape SCENA \Nscena*{=+1}} \SpatiumSupra {1\leading plus .5\leading} \SpatiumInfra {.5\leading plus .25\leading} %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% %%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%%% \begin{document} \ExampleTitle [i]{Torquato Tasso} {Aminta} {Aminta\\[.5ex]Biblioteca Universale Rizzoli, 1976} \Drama \persona*[1]{Amore} \persona*[2]{Dafne} \persona*[3]{Silvia} \persona*[4]{Aminta} \persona*[5]{Tirsi} \persona*[6]{Satiro} \persona*[7]{Nerina} \persona*[8]{Elpino} \persona*[9]{Coro} \persona*[10]{Ergasto} \Versus \cleardoublepage \titulus{{\RelSize{3}AMINTA}\\[4ex]\RelSize{2}\itshape FAVOLA BOSCARECCIA} \cleardoublepage \titulus{INTERLOCUTORI} {\Facies* \textus {\itshape } \Locus {\leftmargin + 1.25in} \Facies \personae {\textsc{#1} } \Locus {} \1, in abito pastorale; \2, compagna di Silvia; \3, amata da Aminta; \4, innamorato di Silvia; \5, compagno d'Aminta; \6, innamorato di Silvia; \7, messaggera; \10, nunzio; \8, pastore; \9 de' pastori. } \Locus \textus {+7em} \cleardoublepage \pagenumbering{arabic} \pagestyle {maintext} \thispagestyle{empty} \titulus{PROLOGO} \numerus{1} \persona{Amore \textit{in abito pastorale}} Chi crederia che sotto umane forme e sotto queste pastorali spoglie fosse nascosto un Dio? non mica un Dio selvaggio, o de la plebe de gli Dei, ma tra' grandi e celesti il pi\`u potente, che fa spesso cader di mano a Marte la sanguinosa spada, ed a Nettuno scotitor de la terra il gran tridente, ed i folgori eterni al sommo Giove. In questo aspetto, certo, e in questi panni non riconoscer\`a s\`{\i} di leggiero Venere madre me suo figlio Amore. Io da lei son constretto di fuggire e celarmi da lei, perch'ella vuole ch'io di me stesso e de le mie saette faccia a suo senno; e, qual femina, e quale vana ed ambiziosa, mi rispinge pur tra le corti e tra corone e scettri, e quivi vuol che impieghi ogni mia prova, e solo al volgo de' ministri miei, miei minori fratelli, ella consente l'albergar tra le selve ed oprar l'armi ne' rozzi petti. Io, che non son fanciullo, se ben ho volto fanciullesco ed atti, voglio dispor di me come a me piace; ch'a me fu, non a lei, concessa in sorte la face onnipotente, e l'arco d'oro. Per\`o spesso celandomi, e fuggendo l'imperio no, che in me non ha, ma i preghi, c'han forza porti da importuna madre, ricovero ne' boschi, e ne le case de le genti minute; ella mi segue, dar promettendo, a chi m'insegna a lei, o dolci baci, o cosa altra pi\`u cara: quasi io di dare in cambio non sia buono, a chi mi tace, o mi nasconde a lei, o dolci baci, o cosa altra pi\`u cara. Questo io so certo almen: che i baci miei saran sempre pi\`u cari a le fanciulle, se io, che son l'Amor, d'amor m'intendo; onde sovente ella mi cerca in vano, che rivelarmi altri non vuole, e tace. Ma per istarne anco pi\`u occulto, ond'ella ritrovar non mi possa ai contrasegni, deposto ho l'ali, la faretra e l'arco. Non per\`o disarmato io qui ne vengo, ch\'e questa, che par verga, \`e la mia face (cos\`{\i} l'ho trasformata), e tutta spira d'invisibili fiamme; e questo dardo, se bene egli non ha la punta d'oro, \`e di tempre divine, e imprime amore dovunque fiede. Io voglio oggi con questo far cupa e immedicabile ferita nel duro sen de la pi\`u cruda ninfa che mai seguisse il coro di Diana. N\'e la piaga di Silvia fia minore (ch\'e questo \`e 'l nome de l'alpestre ninfa) che fosse quella che pur feci io stesso nel molle sen d'Aminta, or son molt'anni, quando lei tenerella ei tenerello seguiva ne le caccie e ne i diporti. E, perch\'e il colpo mio pi\`u in lei s'interni, aspetter\`o che la piet\`a mollisca quel duro gelo che d'intorno al core l'ha ristretto il rigor de l'onestate e del virginal fasto; ed in quel punto ch'ei fia pi\`u molle, lancerogli il dardo. E, per far s\`{\i} bell'opra a mio grand'agio, io ne vo a mescolarmi infra la turba de' pastori festanti e coronati, che gi\`a qui s'\`e inviata, ove a diporto si sta ne' d\`{\i} solenni, esser fingendo uno di loro schiera: e in questo luogo, in questo luogo a punto io far\`o il colpo, che veder non potrallo occhio mortale. Queste selve oggi ragionar d'Amore s'udranno in nuova guisa; e ben parrassi che la mia deit\`a sia qui presente in se medesma, e non ne' suoi ministri. Spirer\`o nobil sensi a' rozzi petti, raddolcir\`o de le lor lingue il suono; perch\'e, ovunque i' mi sia, io sono Amore, ne' pastori non men che ne gli eroi, e la disagguaglianza de' soggetti come a me piace agguaglio; e questa \`e pure suprema gloria e gran miracol mio: render simili a le pi\`u dotte cetre le rustiche sampogne; e, se mia madre, che si sdegna vedermi errar fra' boschi, ci\`o non conosce, \`e cieca ella, e non io, cui cieco a torto il cieco volgo appella. \newpage \Atto \Scena \(\2, \3\) \2 Vorrai dunque pur, Silvia, dai piaceri di Venere lontana menarne tu questa tua giovinezza? N\'e 'l dolce nome di madre udirai, n\'e intorno ti vedrai vezzosamente scherzar i figli pargoletti? Ah, cangia, cangia, prego, consiglio, pazzarella che sei. \3 Altri segua i diletti de l'amore, se pur v'\`e ne l'amor alcun diletto: me questa vita giova, e 'l mio trastullo \`e la cura de l'arco e de gli strali; seguir le fere fugaci, e le forti atterrar combattendo; e, se non mancano saette a la faretra, o fere al bosco, non tem'io che a me manchino diporti. \2 Insipidi diporti veramente, ed insipida vita: e, s'a te piace, \`e sol perch\'e non hai provata l'altra. Cos\`{\i} la gente prima, che gi\`a visse nel mondo ancora semplice ed infante, stim\`o dolce bevanda e dolce cibo l'acqua e le ghiande, ed or l'acqua e le ghiande sono cibo e bevanda d'animali, poi che s'\`e posto in uso il grano e l'uva. Forse, se tu gustassi anco una volta la millesima parte de le gioie che gusta un cor amato riamando, diresti, ripentita, sospirando: ``Perduto \`e tutto il tempo, che in amar non si spende''. O mia fuggita etate, quante vedove notti, quanti d\`{\i} solitari ho consumati indarno, che si poteano impiegar in quest'uso, il qual pi\`u replicato \`e pi\`u soave! Cangia, cangia consiglio, pazzarella che sei, ch\'e 'l pentirsi da sezzo nulla giova. \3 Quando io dir\`o, pentita, sospirando, queste parole che tu fingi ed orni come a te piace, torneranno i fiumi, a le lor fonti, e i lupi fuggiranno da gli agni, e 'l veltro le timide lepri, amer\`a l'orso il mare, e 'l delfin l'alpi. \2 Conosco la ritrosa fanciullezza: qual tu sei, tal io fui: cos\`{\i} portava la vita e 'l volto, e cos\`{\i} biondo il crine, e cos\`{\i} vermigliuzza avea la bocca, e cos\`{\i} mista col candor la rosa ne le guancie pienotte e delicate. Era il mio sommo gusto (or me n'avveggio, gusto di sciocca) sol tender le reti, ed invescar le panie, ed aguzzare il dardo ad una cote, e spiar l'orme e 'l covil de le fere: e, se talora vedea guatarmi da cupido amante, chinava gli occhi rustica e selvaggia, piena di sdegno e di vergogna, e m'era mal grata la mia grazia, e dispiacente quanto di me piaceva altrui: pur come fosse mia colpa e mia onta e mio scorno l'esser guardata, amata e desiata. Ma che non puote il tempo? e che non puote, servendo, meritando, supplicando, fare un fedele ed importuno amante? Fui vinta, io te 'l confesso, e furon l'armi del vincitore umilt\`a, sofferenza, pianti, sospiri, e dimandar mercede. Mostrommi l'ombra d'una breve notte allora quel che 'l lungo corso e 'l lume di mille giorni non m'avea mostrato; ripresi allor me stessa e la mia cieca simplicitate, e dissi sospirando: ``Eccoti, Cinzia, il corno, eccoti l'arco, ch'io rinunzio i tuoi strali e la tua vita''. Cos\`{\i} spero veder ch'anco il tuo Aminta pur un giorno domestichi la tua rozza salvatichezza, ed ammollisca questo tuo cor di ferro e di macigno. Forse ch'ei non \`e bello? o ch'ei non t'ama? o ch'altri lui non ama? o ch'ei si cambia per l'amor d'altri? over per l'odio tuo? forse ch'in gentilezza egli ti cede? Se tu sei figlia di Cidippe, a cui fu padre il Dio di questo nobil fiume, ed egli \`e figlio di Silvano, a cui Pane fu padre, il gran Dio de' pastori. Non \`e men di te bella, se ti guardi dentro lo specchio mai d'alcuna fonte, la candida Amarilli; e pur ei sprezza le sue dolci lusinghe, e segue i tuoi dispettosi fastidi. Or fingi (e voglia pur Dio che questo fingere sia vano) ch'egli, teco sdegnato, al fin procuri ch'a lui piaccia colei cui tanto ei piace: qual animo fia il tuo? o con quali occhi il vedrai fatto altrui? fatto felice ne l'altrui braccia, e te schernir ridendo? \3 Faccia Aminta di s\'e e de' suoi amori quel ch'a lui piace: a me nulla ne cale; e, pur che non sia mio, sia di chi vuole; ma esser non pu\`o mio, s'io lui non voglio; n\'e, s'anco egli mio fosse, io sarei sua. \2 Onde nasce il tuo odio? \\ \3 Dal suo amore. \2 Piacevol padre di figlio crudele. Ma quando mai dai mansueti agnelli nacquer le tigri? o dai bei cigni i corvi? O me inganni, o te stessa. \\ \3 Odio il suo amore, ch'odia la mia onestate, ed amai lui, mentr'ei volse di me quel ch'io voleva. \2 Tu volevi il tuo peggio: egli a te brama quel ch'a s\'e brama. \\ \3 Dafne, o taci, o parla d'altro, se vuoi risposta. \\ \2 Or guata modi! guata che dispettosa giovinetta! Or rispondimi almen: s'altri t'amasse, gradiresti il suo amore in questa guisa? \3 In questa guisa gradirei ciascuno insidiator di mia virginitate, che tu dimandi amante, ed io nimico. \2 Stimi dunque nemico il monton de l'agnella? de la giovenca il toro? Stimi dunque nemico il tortore a la fida tortorella? Stimi dunque stagione di nimicizia e d'ira la dolce primavera, ch'or allegra e ridente riconsiglia ad amare il mondo e gli animali e gli uomini e le donne? e non t'accorgi come tutte le cose or sono innamorate d'un amor pien di gioia e di salute? Mira l\`a quel colombo con che dolce susurro lusingando bacia la sua compagna. Odi quell'usignuolo che va di ramo in ramo cantando: ``Io amo, io amo''; e, se no 'l sai, la biscia lascia il suo veleno e corre cupida al suo amatore; van le tigri in amore; ama il leon superbo; e tu sol, fiera pi\`u che tutte le fere, albergo gli dineghi nel tuo petto. Ma che dico leoni e tigri e serpi, che pur han sentimento? amano ancora gli alberi. Veder puoi con quanto affetto e con quanti iterati abbracciamenti la vite s'avviticchia al suo marito; l'abete ama l'abete, il pino il pino, l'orno per l'orno e per la salce il salce e l'un per l'altro faggio arde e sospira. Quella quercia, che pare s\`{\i} ruvida e selvaggia, sent'anch'ella il potere de l'amoroso foco; e, se tu avessi spirto e senso d'amore, intenderesti i suoi muti sospiri. Or tu da meno esser vuoi de le piante, per non esser amante? Cangia, cangia consiglio, pazzarella che sei. \newpage \3 Or su, quando i sospiri udir\`o de le piante, io son contenta allor d'esser amante. \2 Tu prendi a gabbo i miei fidi consigli e burli mie ragioni? O in amore sorda non men che sciocca! Ma va pure, ch\'e verr\`a tempo che ti pentirai non averli seguiti. E gi\`a non dico allor che fuggirai le fonti, ov'ora spesso ti specchi e forse ti vagheggi, allor che fuggirai le fonti, solo per tema di vederti crespa e brutta; questo averratti ben; ma non t'annuncio gi\`a questo solo, ch\'e, bench'\`e gran male, \`e per\`o mal commune. Or non rammenti ci\`o che l'altr'ieri Elpino raccontava, il saggio Elpino a la bella Licori, Licori ch'in Elpin puote con gli occhi quel ch'ei potere in lei dovria col canto, se 'l dovere in amor si ritrovasse? E 'l raccontava udendo Batto e Tirsi gran maestri d'amore, e 'l raccontava ne l'antro de l'Aurora, ove su l'uscio \`e scritto: ``Lungi, ah lungi ite, profani''. Diceva egli, e diceva che glie 'l disse quel grande che cant\`o l'armi e gli amori, ch'a lui lasci\`o la fistola morendo, che l\`a gi\`u ne lo 'nferno \`e un nero speco, l\`a dove essala un fumo pien di puzza da le triste fornaci d'Acheronte; e che quivi punite eternamente in tormenti di tenebre e di pianto son le femine ingrate e sconoscenti. Quivi aspetta ch'albergo s'apparecchi a la tua feritate; e dritto \`e ben ch'il fumo tragga mai sempre il pianto da quegli occhi, onde trarlo giamai non pot\'e la pietate. Segui, segui tuo stile, ostinata che sei. \3 Ma che fe' allor Licori? e com' rispose a queste cose? \\ \2 Tu de' fatti propri nulla ti curi, e vuoi saper gli altrui. Con gli occhi gli rispose. \3 Come risponder sol pot\'e con gli occhi? \2 Risposer questi con dolce sorriso, volti ad Elpino: ``Il core e noi siam tuoi; tu bramar pi\`u non d\'ei: costei non puote pi\`u darti''. E tanto solo basterebbe per intiera mercede al casto amante, se stimasse veraci come belli quegli occhi, e lor prestasse intera fede. \3 E perch\'e lor non crede? \\ \2 Or tu non sai ci\`o che Tirsi ne scrisse, allor ch'ardendo forsennato egli err\`o per le foreste, s\`{\i} ch'insieme movea pietate e riso ne le vezzose ninfe e ne' pastori? N\'e gi\`a cose scrivea degne di riso, se ben cose facea degne di riso. Lo scrisse in mille piante, e con le piante crebbero i versi; e cos\`{\i} lessi in una: ``Specchi del cor, fallaci infidi lumi, ben riconosco in voi gli inganni vostri: ma che pro', se schivarli Amor mi toglie?'' \3 Io qui trapasso il tempo ragionando, n\'e mi sovviene ch'oggi \`e 'l d\`{\i} prescritto ch'andar si deve a la caccia ordinata ne l'Eliceto. Or, se ti pare, aspetta ch'io pria deponga nel solito fonte il sudore e la polve, ond'ier mi sparsi seguendo in caccia una damma veloce, ch'al fin giunsi ed ancisi. \\ \2 Aspetterotti, e forse anch'io mi bagner\`o nel fonte. Ma sino a le mie case ir prima voglio, ch\'e l'ora non \`e tarda, come pare. Tu ne le tue m'aspetta ch'a te venga, e pensa in tanto pur quel che pi\`u importa de la caccia e del fonte; e, se non sai, credi di non saper, e credi a' savi. \Scena \(\4, \5\) \4 Ho visto al pianto mio risponder per pietate i sassi e l'onde, e sospirar le fronde ho visto al pianto mio; ma non ho visto mai, n\'e spero di vedere, compassion ne la crudele e bella, che non so s'io mi chiami o donna o fera: ma niega d'esser donna, poich\'e nega pietate a chi non la negaro le cose inanimate. \5 Pasce l'agna l'erbette, il lupo l'agne, ma il crudo Amor di lagrime si pasce, n\'e se ne mostra mai satollo. \\ \4 Ahi, lasso, ch'Amor satollo \`e del mio pianto omai, e solo ha sete del mio sangue; e tosto voglio ch'egli e quest'empia il sangue mio bevan con gli occhi. \\ \5 Ahi, Aminta, ahi, Aminta, che parli? o che vaneggi? Or ti conforta, ch'un'altra troverai, se ti disprezza questa crudele. \\ \4 Ohim\`e, come poss'io altri trovar, se me trovar non posso? Se perduto ho me stesso, quale acquisto far\`o mai che mi piaccia? \\ \5 O miserello, non disperar, ch'acquisterai costei. La lunga etate insegna a l'uom di porre freno ai leoni ed a le tigri ircane. \4 Ma il misero non puote a la sua morte indugio sostener di lungo tempo. \5 Sar\`a corto l'indugio: in breve spazio s'adira e in breve spazio anco si placa femina, cosa mobil per natura pi\`u che fraschetta al vento e pi\`u che cima di pieghevole spica. Ma, ti prego, fa ch'io sappia pi\`u a dentro de la tua dura condizione e de l'amore; ch\'e, se ben confessato m'hai pi\`u volte d'amare, mi tacesti per\`o dove fosse posto l'amore. Ed \`e ben degna la fedele amicizia ed il commune studio de le Muse ch'a me scuopra ci\`o ch'agli altri si cela. \\ \4 Io son contento, Tirsi, a te dir ci\`o che le selve e i monti e i fiumi sanno, e gli uomini non sanno. Ch'io sono omai s\`{\i} prossimo a la morte, ch'\`e ben ragion ch'io lasci chi ridica la cagion del morire, e che l'incida ne la scorza d'un faggio, presso il luogo dove sar\`a sepolto il corpo essangue; s\`{\i} che talor passandovi quell'empia si goda di calcar l'ossa infelici co 'l pi\`e superbo, e tra s\'e dica: ``\`E questo pur mio trionfo''; e goda di vedere che nota sia la sua vittoria a tutti li pastori paesani e pellegrini che quivi il caso guidi; e forse (ahi, spero troppo alte cose) un giorno esser potrebbe ch'ella, commossa da tarda pietate, piangesse morto chi gi\`a vivo uccise, dicendo: ``Oh pur qui fosse, e fosse mio!'' Or odi. \\ \5 Segui pur, ch'io ben t'ascolto, e forse a miglior fin che tu non pensi. \4 Essendo io fanciulletto, s\`{\i} che a pena giunger potea con la man pargoletta a c\^orre i frutti dai piegati rami degli arboscelli, intrinseco divenni de la pi\`u vaga e cara verginella che mai spiegasse al vento chioma d'oro. La figliuola conosci di Cidippe e di Montan, ricchissimo d'armenti, Silvia, onor de le selve, ardor de l'alme? Di questa parlo, ahi lasso; vissi a questa cos\`{\i} unito alcun tempo, che fra due tortorelle pi\`u fida compagnia non sar\`a mai, n\'e fue. Congiunti eran gli alberghi, ma pi\`u congiunti i cori; conforme era l'etate, ma 'l pensier pi\`u conforme; seco tendeva insidie con le reti ai pesci ed agli augelli, e seguitava i cervi seco e le veloci damme: e 'l diletto e la preda era commune. Ma, mentre io fea rapina d'animali, fui non so come a me stesso rapito. A poco a poco nacque nel mio petto, non so da qual radice, com'erba suol che per se stessa germini, un incognito affetto, che mi fea desiare d'esser sempre presente a la mia bella Silvia; e bevea da' suoi lumi un'estranea dolcezza, che lasciava nel fine un non so che d'amaro; sospirava sovente, e non sapeva la cagion de' sospiri. Cos\`{\i} fui prima amante ch'intendessi che cosa fosse Amore. Ben me n'accorsi al fin: ed in qual modo, ora m'ascolta, e nota. \\ \5 \`{E} da notare. \4 A l'ombra d'un bel faggio Silvia e Filli sedean un giorno, ed io con loro insieme, quando un'ape ingegnosa, che, cogliendo sen' giva il mel per que' prati fioriti, a le guancie di Fillide volando, a le guancie vermiglie come rosa, le morse e le rimorse avidamente: ch'a la similitudine ingannata forse un fior le credette. Allora Filli cominci\`o lamentarsi, impaziente de l'acuta puntura: ma la mia bella Silvia disse: ``Taci, taci, non ti lagnar, Filli, perch'io con parole d'incanti leverotti il dolor de la picciola ferita. A me insegn\`o gi\`a questo secreto la saggia Aresia, e n'ebbe per mercede quel mio corno d'avolio ornato d'oro''. Cos\`{\i} dicendo, avvicin\`o le labra de la sua bella e dolcissima bocca a la guancia rimorsa, e con soave susurro mormor\`o non so che versi. Oh mirabili effetti! Sent\`{\i} tosto cessar la doglia, o fosse la virtute di que' magici detti, o, com'io credo, la virt\`u de la bocca, che sana ci\`o che tocca. Io, che sino a quel punto altro non volsi che 'l soave splendor degli occhi belli, e le dolci parole, assai pi\`u dolci che 'l mormorar d'un lento fiumicello che rompa il corso fra minuti sassi, o che 'l garrir de l'aura infra le frondi, allor sentii nel cor novo desire d'appressare a la sua questa mia bocca; e fatto non so come astuto e scaltro pi\`u de l'usato (guarda quanto Amore aguzza l'intelletto!) mi sovvenne d'un inganno gentile, co 'l qual io recar potessi a fine il mio talento: ch\'e, fingendo ch'un'ape avesse morso il mio labro di sotto, incominciai a lamentarmi di cotal maniera, che quella medicina, che la lingua non richiedeva, il volto richiedeva. La semplicetta Silvia, pietosa del mio male, s'offr\`{\i} di dar aita a la finta ferita, ahi lasso, e fece pi\`u cupa e pi\`u mortale la mia piaga verace, quando le labra sue giunse a le labra mie. N\'e l'api d'alcun fiore coglion s\`{\i} dolce il mel ch'allora io colsi da quelle fresche rose, se ben gli ardenti baci, che spingeva il desire a inumidirsi, raffren\`o la temenza e la vergogna, o felli pi\`u lenti e meno audaci. Ma mentre al cor scendeva quella dolcezza mista d'un secreto veleno, tal diletto n'avea che, fingendo ch'ancor non mi passasse il dolor di quel morso, fei s\`{\i} ch'ella pi\`u volte vi replic\`o l'incanto. Da indi in qua and\`o in guisa crescendo il desire e l'affanno impaziente che, non potendo pi\`u capir nel petto, fu forza che scoppiasse; ed una volta che in cerchio sedevam ninfe e pastori, e facevamo alcuni nostri giuochi, ch\'e ciascun ne l'orecchio del vicino mormorando diceva un suo secreto, ``Silvia,''le dissi ``io per te ardo, e certo morr\`o, se non m'aiti.'' A quel parlare chin\`o ella il bel volto, e fuor le venne un improviso, insolito rossore che diede segno di vergogna e d'ira; n\'e ebbi altra risposta che un silenzio, un silenzio turbato e pien di dure minaccie. Indi si tolse, e pi\`u non volle n\'e vedermi n\'e udirmi. E gi\`a tre volte ha il nudo mietitor tronche le spighe, ed altretante il verno ha scossi i boschi de le lor verdi chiome; ed ogni cosa tentata ho per placarla, fuor che morte. Mi resta sol che per placarla io mora; e morr\`o volontier, pur ch'io sia certo ch'ella o se ne compiaccia, o se ne doglia: n\'e so di tai due cose qual pi\`u brami. Ben fora la piet\`a premio maggiore a la mia fede, e maggior ricompensa a la mia morte; ma bramar non deggio cosa che turbi il bel lume sereno agli occhi cari, e affanni quel bel petto. \5 \`E possibil per\`o che, s'ella un giorno udisse tai parole, non t'amasse? \4 Non so, n\'e 'l credo; ma fugge i miei detti come l'aspe l'incanto. \\ \5 Or ti confida, ch'a me d\`a il cuor di far ch'ella t'ascolti. \4 O nulla impetrerai, o, se tu impetri ch'io parli, io nulla impetrer\`o parlando. \5 Perch\'e disperi s\`{\i}? \\ \4 Giusta cagione ho del mio disperar, che il saggio Mopso mi predisse la mia cruda ventura, Mopso ch'intende il parlar degli augelli e la virt\`u de l'erbe e de le fonti. \5 Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso c'ha ne la lingua melate parole, e ne le labra un amichevol ghigno, e la fraude nel seno, ed il rasoio tien sotto il manto? Or su, sta di bon core, ch\'e i sciaurati pronostichi infelici, ch'ei vende a' mal accorti con quel grave suo supercilio, non han mai effetto: e per prova so io ci\`o che ti dico; anzi da questo sol ch'ei t'ha predetto mi giova di sperar felice fine a l'amor tuo. \\ \4 Se sai cosa per prova, che conforti mia speme, non tacerla. \5 Dirolla volontieri. Allor che prima mia sorte mi condusse in queste selve, costui conobbi, e lo stimava io tale qual tu lo stimi; in tanto un d\`{\i} mi venne e bisogno e talento d'irne dove siede la gran cittade in ripa al fiume, ed a costui ne feci motto; ed egli cos\`{\i} mi disse: ``Andrai ne la gran terra, ove gli astuti e scaltri cittadini e i cortigian malvagi molte volte prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni di noi rustici incauti; per\`o, figlio, va su l'avviso, e non t'appressar troppo ove sian drappi colorati e d'oro, e pennacchi e divise e foggie nove; ma sopra tutto guarda che mal fato o giovenil vaghezza non ti meni al magazzino de le ciancie: ah fuggi, fuggi quell'incantato alloggiamento''. ``Che luogo \`e questo?'' io chiesi; ed ei soggiunse: ``Quivi abitan le maghe, che incantando fan traveder e traudir ciascuno. Ci\`o che diamante sembra ed oro fino, \`e vetro e rame; e quelle arche d'argento, che stimeresti piene di tesoro, sporte son piene di vesciche bugge. Quivi le mura son fatte con arte, che parlano e rispondono ai parlanti; n\'e gi\`a rispondon la parola mozza, com'Eco suole ne le nostre selve, ma la replican tutta intiera intiera: con giunta anco di quel ch'altri non disse. I trespidi, le tavole e le panche, le scranne, le lettiere, le cortine, e gli arnesi di camera e di sala han tutti lingua e voce: e gridan sempre. Quivi le ciancie in forma di bambine vanno trescando, e se un muto v'entrasse, un muto ciancerebbe a suo dispetto. Ma questo \`e 'l minor mal che ti potesse incontrar: tu potresti indi restarne converso in selce, in fera, in acqua, o in foco: acqua di pianto, e foco di sospiri''. Cos\`{\i} diss'egli; ed io n'andai con questo fallace antiveder ne la cittade; e, come volse il Ciel benigno, a caso passai per l\`a dov'\`e 'l felice albergo. Quindi uscian fuor voci canore e dolci e di cigni e di ninfe e di sirene, di sirene celesti; e n'uscian suoni soavi e chiari; e tanto altro diletto, ch'attonito godendo ed ammirando, mi fermai buona pezza. Era su l'uscio, quasi per guardia de le cose belle, uom d'aspetto magnanimo e robusto, di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi s'egli sia miglior duce o cavaliero; che, con fronte benigna insieme e grave, con regal cortesia invit\`o dentro, ei grande e 'n pregio, me negletto e basso. Oh che sentii? che vidi allora? I' vidi celesti dee, ninfe leggiadre e belle, novi Lini ed Orfei; ed oltre ancora, senza vel, senza nube, e quale e quanta a gl'immortali appar, vergine Aurora sparger d'argento e d'or rugiade e raggi; e fecondando illuminar d'intorno vidi Febo, e le Muse, e fra le Muse Elpin seder accolto; ed in quel punto sentii me far di me stesso maggiore, pien di nova virt\`u, pieno di nova deitade, e cantai guerre ed eroi, sdegnando pastoral ruvido carme. E se ben poi (come altrui piacque) feci ritorno a queste selve, io pur ritenni parte di quello spirto; n\'e gi\`a suona la mia sampogna umil come soleva, ma di voce pi\`u altera e pi\`u sonora emula de le trombe, empie le selve. Udimmi Mopso poscia, e con maligno guardo mirando, affascinommi; ond'io roco divenni, e poi gran tempo tacqui: quando i pastor credean ch'io fossi stato visto dal lupo, e 'l lupo era costui. Questo t'ho detto, acci\`o che sappi quanto il parlar di costui di fede \`e degno; e d\'ei bene sperar, sol perch\'e ei vuole che nulla speri. \\ \4 Piacemi d'udire quanto mi narri. A te dunque rimetto la cura di mia vita. \\ \5 Io n'avr\`o cura. Tu fra mezz'ora qui trovar ti lassa. \9 O bella et\`a de l'oro, non gi\`a perch\'e di latte sen' corse il fiume e still\`o mele il bosco; non perch\'e i frutti loro dier da l'aratro intatte le terre, e gli angui errar senz'ira o tosco; non perch\'e nuvol fosco non spieg\`o allor suo velo, ma in primavera eterna, ch'ora s'accende e verna, rise di luce e di sereno il cielo; n\'e port\`o peregrino o guerra o merce agli altrui lidi il pino; ma sol perch\'e quel vano nome senza soggetto, quell'idolo d'errori, idol d'inganno, quel che dal volgo insano onor poscia fu detto, che di nostra natura 'l feo tiranno, non mischiava il suo affanno fra le liete dolcezze de l'amoroso gregge; n\'e fu sua dura legge nota a quell'alme in libertate avvezze, ma legge aurea e felice che natura scolp\`{\i}: ``S'ei piace, ei lice''. Allor tra fiori e linfe traen dolci carole gli Amoretti senz'archi e senza faci; sedean pastori e ninfe meschiando a le parole vezzi e susurri, ed ai susurri i baci strettamente tenaci; la verginella ignude scopria sue fresche rose, ch'or tien nel velo ascose, e le poma del seno acerbe e crude; e spesso in fonte o in lago scherzar si vide con l'amata il vago. Tu prima, Onor, velasti la fonte dei diletti, negando l'onde a l'amorosa sete; tu a' begli occhi insegnasti di starne in s\'e ristretti, e tener lor bellezze altrui secrete; tu raccogliesti in rete le chiome a l'aura sparte; tu i dolci atti lascivi festi ritrosi e schivi; ai detti il fren ponesti, ai passi l'arte; opra \`e tua sola, o Onore, che furto sia quel che fu don d'Amore. E son tuoi fatti egregi le pene e i pianti nostri. Ma tu, d'Amore e di Natura donno, tu domator de' Regi, che fai tra questi chiostri, che la grandezza tua capir non ponno? Vattene, e turba il sonno agl'illustri e potenti: noi qui, negletta e bassa turba, senza te lassa viver ne l'uso de l'antiche genti. Amiam, ch\'e non ha tregua con gli anni umana vita, e si dilegua. Amiam, ch\'e 'l Sol si muore e poi rinasce: a noi sua breve luce s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce. \Atto \Scena \(\6 solo\) \6 Picciola \`e l'ape, e fa col picciol morso pur gravi e pur moleste le ferite; ma qual cosa \`e pi\`u picciola d'Amore, se in ogni breve spazio entra, e s'asconde in ogni breve spazio? or sotto a l'ombra de le palpebre, or tra' minuti rivi d'un biondo crine, or dentro le pozzette che forma un dolce riso in bella guancia; e pur fa tanto grandi e s\`{\i} mortali e cos\`{\i} immedicabili le piaghe. Ohim\`e, che tutte piaga e tutte sangue son le viscere mie; e mille spiedi ha ne gli occhi di Silvia il crudo Amore. Crudel Amor, Silvia crudele ed empia pi\`u che le selve! Oh come a te confassi tal nome, e quanto vide chi te 'l pose! Celan le selve angui, leoni ed orsi, dentro il lor verde: e tu dentro al bel petto nascondi odio, disdegno ed impietate, fere peggior ch'angui, leoni ed orsi ch\'e si placano quei, questi placarsi non possono per prego n\'e per dono. Ohim\`e, quando ti porto i fior novelli, tu li ricusi, ritrosetta, forse perch\'e fior via pi\`u belli hai nel bel volto. Ohim\`e, quando io ti porgo i vaghi pomi, tu li rifiuti, disdegnosa, forse perch\'e pomi pi\`u vaghi hai nel bel seno. Lasso, quand'io t'offrisco il dolce mele, tu lo disprezzi, dispettosa, forse perch\'e mel via pi\`u dolce hai ne le labra. Ma, se mia povert\`a non pu\`o donarti cosa ch'in te non sia pi\`u bella e dolce, me medesmo ti dono. Or perch\'e iniqua scherni e abborri il dono? non son io da disprezzar, se ben me stesso vidi nel liquido del mar, quando l'altr'ieri taceano i venti ed ei giacea senz'onda. Questa mia faccia di color sanguigno, queste mie spalle larghe, e queste braccia torose e nerborute, e questo petto setoso, e queste mie velate coscie son di virilit\`a, di robustezza indicio; e, se no 'l credi, fanne prova. Che vuoi tu far di questi tenerelli, che di molle lanugine fiorite hanno a pena le guancie? e che con arte dispongono i capelli in ordinanza? Femine nel sembiante e ne le forze sono costoro. Or di' ch'alcun ti segua per le selve e pei monti, e 'ncontra gli orsi ed incontra i cinghiai per te combatta. Non sono io brutto, no, n\'e tu mi sprezzi perch\'e s\`{\i} fatto io sia, ma solamente perch\'e povero sono. Ahi, ch\'e le ville seguon l'essempio de le gran cittadi! e veramente il secol d'oro \`e questo, poich\'e sol vince l'oro e regna l'oro. O chiunque tu fosti, che insegnasti primo a vender l'amor, sia maledetto il tuo cener sepolto e l'ossa fredde, e non si trovi mai pastore o ninfa che lor dica passando: ``Abbiate pace''; ma le bagni la pioggia e mova il vento, e con pi\`e immondo la greggia il calpesti e 'l peregrin. Tu prima svergognasti la nobilt\`a d'amor; tu le sue liete dolcezze inamaristi. Amor venale, amor servo de l'oro \`e il maggior mostro ed il pi\`u abominabile e il pi\`u sozzo, che produca la terra o 'l mar fra l'onde. Ma perch\'e in van mi lagno? Usa ciascuno quell'armi che gli ha date la natura per sua salute: il cervo adopra il corso, il leone gli artigli, ed il bavoso cinghiale il dente; e son potenza ed armi de la donna bellezza e leggiadria; io, perch\'e non per mia salute adopro la violenza, se mi fe' natura atto a far violenza ed a rapire? Sforzer\`o, rapir\`o quel che costei mi niega, ingrata, in merto de l'amore; che, per quanto un caprar test\'e mi ha detto, ch'osservato ha suo stile, ella ha per uso d'andar sovente a rinfrescarsi a un fonte; e mostrato m'ha il loco. Ivi io disegno tra i cespugli appiattarmi e tra gli arbusti, ed aspettar fin che vi venga; e, come veggia l'occasion, correrle addosso. Qual contrasto col corso o con le braccia potr\`a fare una tenera fanciulla contra me s\`{\i} veloce e s\`{\i} possente? Pianga e sospiri pure, usi ogni sforzo di piet\`a, di bellezza: che, s'io posso questa mano ravvoglierle nel crine, indi non partir\`a, ch'io pria non tinga l'armi mie per vendetta nel suo sangue. \Scena \(\2, \5\) \2 Tirsi, com'io t'ho detto, io m'era accorta ch'Aminta amava Silvia; e Dio sa quanti buoni officii n'ho fatti, e son per farli tanto pi\`u volontier, quant'or vi aggiungi le tue preghiere; ma torrei pi\`u tosto a domar un giuvenco, un orso, un tigre, che a domar una semplice fanciulla: fanciulla tanto sciocca quanto bella, che non s'avveggia ancor come sian calde l'armi di sua bellezza e come acute, ma ridendo e piangendo uccida altrui, e l'uccida e non sappia di ferire. \5 Ma quale \`e cos\`{\i} semplice fanciulla che, uscita da le fascie, non apprenda l'arte del parer bella e del piacere, de l'uccider piacendo, e del sapere qual arme fera, e qual dia morte, e quale sani e ritorni in vita? \\ \2 Chi \`e 'l mastro di cotant'arte? \\ \5 Tu fingi, e mi tenti: quel che insegna agli augelli il canto e 'l volo, a' pesci il nuoto ed a' montoni il cozzo, al toro usar il corno, ed al pavone spiegar la pompa de l'occhiute piume. \2 Come ha nome 'l gran mastro? \\ \5 Dafne ha nome. \2 Lingua bugiarda! \\ \5 E perch\'e? tu non sei atta a tener mille fanciulle a scola? Bench\'e, per dir il ver, non han bisogno di maestro: maestra \`e la natura, ma la madre e la balia anco v'han parte. \2 In somma, tu sei goffo insieme e tristo. Ora, per dirti il ver, non mi risolvo se Silvia \`e semplicetta come pare a le parole, a gli atti. Ier vidi un segno che me ne mette in dubbio. Io la trovai l\`a presso la cittade in quei gran prati ove fra stagni giace un'isoletta, sovra essa un lago limpido e tranquillo, tutta pendente in atto che parea vagheggiar se medesma, e 'nsieme insieme chieder consiglio a l'acque in qual maniera dispor dovesse in su la fronte i crini, e sovra i crini il velo, e sovra 'l velo i fior che tenea in grembo; e spesso spesso or prendeva un lingustro, or una rosa, e l'accostava al bel candido collo, a le guancie vermiglie, e de' colori fea paragone; e poi, s\`{\i} come lieta de la vittoria, lampeggiava un riso che parea che dicesse: ``Io pur vi vinco, n\'e porto voi per ornamento mio, ma porto voi sol per vergogna vostra, perch\'e si veggia quanto mi cedete''. Ma, mentre ella s'ornava e vagheggiava, rivolse gli occhi a caso, e si fu accorta ch'io di lei m'era accorta, e vergognando rizzossi tosto, e fior lasci\`o cadere. In tanto io pi\`u ridea del suo rossore, ella pi\`u s'arrossia del riso mio. Ma, perch\'e accolta una parte de' crini e l'altra aveva sparsa, una o due volte con gli occhi al fonte consiglier ricorse, e si mir\`o quasi di furto, pure temendo ch'io nel suo guatar guatassi; ed incolta si vide, e si compiacque perch\'e bella si vide ancor che incolta. Io me n'avvidi, e tacqui. \\ \5 Tu mi narri quel ch'io credeva a punto. Or non m'apposi? \2 Ben t'apponesti; ma pur odo dire che non erano pria le pastorelle, n\'e le ninfe s\`{\i} accorte; n\'e io tale fui in mia fanciullezza. Il mondo invecchia, e invecchiando intristisce. \\ \5 Forse allora non usavan s\`{\i} spesso i cittadini ne le selve e ne i campi, n\'e s\`{\i} spesso le nostre forosette aveano in uso d'andare a la cittade. Or son mischiate schiatte e costumi. Ma lasciam da parte questi discorsi; or non farai ch'un giorno Silvia contenta sia che le ragioni Aminta, o solo, o almeno in tua presenza? \2 Non so. Silvia \`e ritrosa fuor di modo. \5 E costui rispettoso \`e fuor di modo. \2 \`E spacciato un amante rispettoso: consiglial pur che faccia altro mestiero, poich'egli \`e tal. Chi imparar vuol d'amare, disimpari il rispetto: osi, domandi, solleciti, importuni, al fine involi; e se questo non basta, anco rapisca. Or non sai tu com'\`e fatta la donna? Fugge, e fuggendo vuol che altri la giunga; niega, e negando vuol ch'altri si toglia; pugna, e pugnando vuol ch'altri la vinca. Ve', Tirsi, io parlo teco in confidenza: non ridir ch'io ci\`o dica. E sovra tutto non porlo in rime. Tu sai s'io saprei renderti poi per versi altro che versi. \5 Non hai cagion di sospettar ch'io dica cosa giamai che sia contra tuo grado. Ma ti prego, o mia Dafne, per la dolce memoria di tua fresca giovanezza, che tu m'aiti ad aitar Aminta miserel, che si muore. \\ \2 Oh che gentile scongiuro ha ritrovato questo sciocco di rammentarmi la mia giovanezza, il ben passato e la presente noia! Ma che vuoi tu ch'io faccia? \\ \5 A te non manca n\'e saper, n\'e consiglio. Basta sol che ti disponga a voler. \\ \2 Or su, dirotti: debbiamo in breve andare Silvia ed io al fonte che s'appella di Diana, l\`a dove a le dolci acque fa dolce ombra quel platano ch'invita al fresco seggio le ninfe cacciatrici. Ivi so certo che tuffer\`a le belle membra ignude. \5 Ma che per\`o? \\ \2 Ma che per\`o? Da poco intenditor! s'hai senno, tanto basti. \5 Intendo; ma non so s'egli avr\`a tanto d'ardir. \\ \2 S'ei non l'avr\`a, stiasi, ed aspetti ch'altri lui cerchi. \\ \5 Egli \`e ben tal che 'l merta. \2 Ma non vogliamo noi parlar alquanto di te medesmo? Or su, Tirsi, non vuoi tu inamorarti? sei giovane ancora, n\'e passi di quattr'anni il quinto lustro, se ben sovviemmi quando eri fanciullo; vuoi viver neghittoso e senza gioia? ch\'e sol amando uom sa che sia diletto. \5 I diletti di Venere non lascia l'uom che schiva l'amor, ma coglie e gusta le dolcezze d'amor senza l'amaro. \2 Insipido \`e quel dolce che condito non \`e di qualche amaro, e tosto sazia. \5 \`E meglio saziarsi, ch'esser sempre famelico nel cibo e dopo 'l cibo. \2 Ma non, se 'l cibo si possede e piace, e gustato a gustar sempre n'invoglia. \5 Ma chi possede s\`{\i} quel che gli piace che l'abbia sempre presso a la sua fame? \2 Ma chi ritrova il ben, s'egli no 'l cerca? \5 Periglioso \`e cercar quel che trovato trastulla s\`{\i}, ma pi\`u tormenta assai non ritrovato. Allor vedrassi amante Tirsi mai pi\`u, ch'Amor nel seggio suo non avr\`a pi\`u n\'e pianti n\'e sospiri. A bastanza ho gi\`a pianto e sospirato. Faccia altri la sua parte. \\ \2 Ma non hai gi\`a goduto a bastanza. \\ \5 N\'e desio goder, se cos\`{\i} caro egli si compra. \2 Sar\`a forza l'amar, se non fia voglia. \5 Ma non si pu\`o sforzar chi sta lontano. \2 Ma chi lung'\`e d'Amor? \\ \5 Chi teme e fugge. \2 E che giova fuggir da lui, c'ha l'ali? \5 Amor nascente ha corte l'ali: a pena pu\`o su tenerle, e non le spiega a volo. \2 Pur non s'accorge l'uom quand'egli nasce; e, quando uom se n'accorge, \`e grande, e vola. \5 Non, s'altra volta nascer non l'ha visto. \2 Vedrem, Tirsi, s'avrai la fuga e gli occhi come tu dici. Io ti protesto, poi che fai del corridore e del cerviero, che, quando ti vedr\`o chieder aita, non moverei, per aiutarti, un passo, un dito, un detto, una palpebra sola. \5 Crudel, daratti il cor vedermi morto? Se vuoi pur ch'ami, ama tu me: facciamo l'amor d'accordo. \\ \2 Tu mi scherni, e forse non merti amante cos\`{\i} fatta: ahi quanti n'inganna il viso colorito e liscio! \5 Non burlo io, no; ma tu con tal protesto non accetti il mio amor, pur come \`e l'uso di tutte quante; ma, se non mi vuoi, viver\`o senza amor. \\ \2 Contento vivi pi\`u che mai fossi, o Tirsi, in ozio vivi: ch\'e ne l'ozio l'amor sempre germoglia. \5 O Dafne, a me quest'ozii ha fatto Dio: colui che Dio qui pu\`o stimarsi; a cui si pascon gli ampi armenti e l'ampie greggie da l'uno a l'altro mare, e per li lieti colti di fecondissime campagne, e per gli alpestri dossi d'Apennino. Egli mi disse, allor che suo mi fece: ``Tirsi, altri scacci i lupi e i ladri, e guardi i miei murati ovili; altri comparta le pene e i premii a' miei ministri; ed altri pasca e curi le greggi; altri conservi le lane e 'l latte, ed altri le dispensi: tu canta, or che se' 'n ozio''. Ond'\`e ben giusto che non gli scherzi di terreno amore, ma canti gli avi del mio vivo e vero non so s'io lui mi chiami Apollo o Giove, ch\'e ne l'opre e nel volto ambi somiglia, gli avi pi\`u degni di Saturno o Celo: agreste Musa a regal merto; e pure, chiara o roca che suoni, ei non la sprezza. Non canto lui, per\`o che lui non posso degnamente onorar, se non tacendo e riverendo; ma non fian giamai gli altari suoi senza i miei fiori, e senza soave fumo d'odorati incensi: ed allor questa semplice e devota religion mi si torr\`a dal core, che d'aria pasceransi in aria i cervi, e che, mutando i fiumi e letto e corso, il Perso bea la Sona, il Gallo il Tigre. \2 Oh, tu vai alto; or su, discendi un poco al proposito nostro. \\ \5 Il punto \`e questo: che tu, in andando al fonte con colei, cerchi d'intenerirla: ed io fra tanto procurer\`o ch'Aminta l\`a ne venga. N\'e la mia forse men difficil cura sar\`a di questa tua. Or vanne. \\ \2 Io vado, ma il proposito nostro altro intendeva. \5 Se ben ravviso di lontan la faccia, Aminta \`e quel che di l\`a spunta. \`E desso. \Scena \(\4, \5\) \4 Vorr\`o veder ci\`o che Tirsi avr\`a fatto: e, s'avr\`a fatto nulla, prima ch'io vada in nulla, uccider vo' me stesso inanzi a gli occhi de la crudel fanciulla. A lei, cui tanto piace la piaga del mio core, colpo de' suoi begli occhi, altrettanto piacer devr\`a per certo la piaga del mio petto, colpo de la mia mano. \5 Nove, Aminta, t'annuncio di conforto: lascia omai questo tanto lamentarti. \4 Ohim\`e, che di'? che porte? O la vita o la morte? \5 Porto salute e vita, s'ardirai di farti loro incontra; ma fa d'uopo d'esser un uom, Aminta, un uom ardito. \4 Qual ardir mi bisogna, e 'ncontra a cui? \5 Se la tua donna fosse in mezz'un bosco, che, cinto intorno d'altissime rupi, desse albergo a le tigri ed a' leoni, v'andresti tu? \\ \4 V'andrei sicuro e baldo pi\`u che di festa villanella al ballo. \5 E s'ella fosse tra ladroni ed armi, v'andresti tu? \\ \4 V'andrei pi\`u lieto e pronto che l'assetato cervo a la fontana. \5 Bisogna a maggior prova ardir pi\`u grande. \4 Andr\`o per mezzo i rapidi torrenti, quando la neve si discioglie e gonfi li manda al mare; andr\`o per mezzo 'l foco e ne l'inferno, quando ella vi sia, s'esser pu\`o inferno ov'\`e cosa s\`{\i} bella. Ors\`u, scuoprimi il tutto. \\ \5 Odi. \\ \4 Di' tosto. \5 Silvia t'attende a un fonte, ignuda e sola. Ardirai tu d'andarvi? \\ \4 Oh, che mi dici? Silvia m'attende ignuda e sola? \\ \5 Sola, se non quanto v'\`e Dafne, ch'\`e per noi. \4 Ignuda ella m'aspetta? \\ \5 Ignuda: ma... \4 Ohim\`e, che ``ma''? Tu taci; tu m'uccidi. \5 Ma non sa gi\`a che tu v'abbi d'andare. \4 Dura conclusion, che tutte attosca le dolcezze passate. Or, con qual arte, crudel, tu mi tormenti? Poco dunque ti pare che infelice io sia, che a crescer vieni la miseria mia? \5 S'a mio senno farai, sarai felice. \4 E che consigli? \\ \5 Che tu prenda quello che la fortuna amica t'appresenta. \4 Tolga Dio che mai faccia cosa che le dispiaccia; cosa io non feci mai che le spiacesse, fuor che l'amarla: e questo a me fu forza, forza di sua bellezza, e non mia colpa. Non sar\`a dunque ver ch'in quanto io posso, non cerchi compiacerla. \\ \5 Ormai rispondi: se fosse in tuo poter di non amarla, lasciaresti d'amarla, per piacerle? \4 N\'e questo mi consente Amor ch'io dica, n\'e ch'imagini pur d'aver gi\`a mai a lasciar il suo amor, bench'io potessi. \5 Dunque tu l'ameresti al suo dispetto, quando potessi far di non amarla. \4 Al suo dispetto no, ma l'amerei. \5 Dunque fuor di sua voglia. \\ \4 S\`{\i} per certo. \5 Perch\'e dunque non osi oltra sua voglia prenderne quel che, se ben grava in prima, al fin, al fin le sar\`a caro e dolce che l'abbi preso? \\ \4 Ahi, Tirsi, Amor risponda per me; ch\'e quanto a mezz'il cor mi parla, non so ridir. Tu troppo scaltro sei gi\`a per lungo uso a ragionar d'amore: a me lega la lingua quel che mi lega il core. \5 Dunque andar non vogliamo? \\ \4 Andare io voglio, ma non dove tu stimi. \\ \5 E dove? \\ \4 A morte, s'altro in mio pro' non hai fatto che quanto ora mi narri. \\ \5 E poco parti questo? Credi tu dunque, sciocco, che mai Dafne consigliasse l'andar, se non vedesse in parte il cor di Silvia? E forse ch'ella il sa, n\'e per\`o vuol ch'altri risappia ch'ella ci\`o sappia. Or, se 'l consenso espresso cerchi di lei, non vedi che tu cerchi quel che pi\`u le dispiace? Or dove \`e dunque questo tuo desiderio di piacerle? E s'ella vuol che 'l tuo diletto sia tuo furto o tua rapina, e non suo dono n\'e sua mercede, a te, folle, che importa pi\`u l'un modo che l'altro? \\ \4 E chi m'accerta che il suo desir sia tale? \\ \5 Oh mentecatto! Ecco, tu chiedi pur quella certezza ch'a lei dispiace, e dispiacer le deve dirittamente, e tu cercar non d\'ei. Ma chi t'accerta ancor che non sia tale? Or s'ella fosse tale, e non v'andassi? Eguale \`e il dubbio e 'l rischio. Ahi, pur \`e meglio come ardito morir, che come vile. Tu taci, tu sei vinto. Ora confessa questa perdita tua, che fia cagione di vittoria maggiore. Andianne. \\ \4 Aspetta. \5 Che ``Aspetta''? non sai ben che 'l tempo fugge? \4 Deh, pensiam pria se ci\`o dee farsi, e come. \5 Per strada penserem ci\`o che vi resta; ma nulla fa chi troppe cose pensa. \9 Amore, in quale scola, da qual mastro s'apprende la tua s\`{\i} lunga e dubbia arte d'amare? Chi n'insegna a spiegare ci\`o che la mente intende, mentre con l'ali tue sovra il ciel vola? Non gi\`a la dotta Atene, n\'e 'l Liceo ne 'l dimostra; non Febo in Elicona, che s\`{\i} d'Amor ragiona come colui ch'impara: freddo ne parla, e poco; non ha voce di foco, come a te si conviene; non alza i suoi pensieri a par de' tuoi misteri. Amor, degno maestro sol tu sei di te stesso, e sol tu sei da te medesmo espresso; tu di legger insegni ai pi\`u rustici ingegni quelle mirabil cose che con lettre amorose scrivi di propria man negli occhi altrui; tu in bei facondi detti sciogli la lingua de' fedeli tuoi; e spesso (oh strana e nova eloquenza d'Amore!) spesso in un dir confuso e 'n parole interrotte meglio si esprime il core, e pi\`u par che si mova, che non si fa con voci adorne e dotte; e 'l silenzio ancor suole aver prieghi e parole. Amor, leggan pur gli altri le socratiche carte, ch'io in due begli occhi apprender\`o quest'arte; e perderan le rime de le penne pi\`u saggie appo le mie selvaggie, che rozza mano in rozza scorza imprime. \Atto \Scena \( \5, \9\) \5 Oh crudeltate estrema, oh ingrato core, oh donna ingrata, oh tre fiate e quattro ingratissimo sesso! E tu, natura, negligente maestra, perch\'e solo a le donne nel volto e in quel di fuori ponesti quanto in loro \`e di gentile, di mansueto e di cortese, e tutte l'altre parti obliasti? Ahi, miserello, forse ha se stesso ucciso; ei non appare; io l'ho cerco e ricerco omai tre ore nel loco ov'io il lasciai e nei contorni: n\'e trovo lui n\'e orme de' suoi passi. Ahi, che s'\`e certo ucciso! Io vo' novella chiederne a que' pastor che col\`a veggio. Amici, avete visto Aminta, o inteso novella di lui forse? \\ \9 Tu mi pari cos\`{\i} turbato: e qual cagion t'affanna? Ond'\`e questo sudor, e questo ansare? Havvi nulla di mal? fa che 'l sappiamo. \5 Temo del mal d'Aminta: avetel visto? \9 Noi visto non l'abbiam dapoi che teco, buona pezza, part\`{\i}; ma che ne temi? \5 Ch'egli non s'abbia ucciso di sua mano. \9 Ucciso di sua mano? or perch\'e questo? che ne stimi cagione? \\ \5 Odio ed Amore. \9 Duo potenti inimici, insieme aggiunti, che far non ponno? Ma parla pi\`u chiaro. \5 L'amar troppo una ninfa, e l'esser troppo odiato da lei. \\ \9 Deh, narra il tutto; questo \`e luogo di passo, e forse intanto alcun verr\`a che nova di lui rechi: forse arrivar potrebbe anch'egli istesso. \5 Dirollo volontier, ch\'e non \`e giusto, che tanta ingratitudine e s\`{\i} strana senza l'infamia debita si resti. Presentito avea Aminta (ed io fui lasso, colui che rifer\`{\i}'lo e che 'l condussi: or me ne pento) che Silvia dovea con Dafne ire a lavarsi ad una fonte. L\`a dunque s'invi\`o dubbio ed incerto, mosso non dal suo cor, ma sol dal mio stimolar importuno; e spesso in forse fu di tornar indietro, ed io 'l sospinsi, pur mal suo grado, inanzi. Or quando omai c'era il fonte vicino, ecco, sentiamo un feminil lamento; e quasi a un tempo Dafne veggiam, che battea palma a palma; la qual, come ci vide, alz\`o la voce: ``Ah, correte,'' grid\`o ``Silvia \`e sforzata''. L'inamorato Aminta, che ci\`o intese, si spicc\`o com'un pardo, ed io segu\`{\i}'lo; ecco miriamo a un'arbore legata la giovinetta, ignuda come nacque, ed a legarla fune era il suo crine: il suo crine medesmo in mille nodi a la pianta era avvolto; e 'l suo bel cinto, che del sen virginal fu pria custode, di quello stupro era ministro, ed ambe le mani al duro tronco le stringea; e la pianta medesma avea prestati legami contra lei: ch'una ritorta d'un pieghevole ramo avea a ciascuna de le tenere gambe. A fronte a fronte un satiro villan noi le vedemmo, che di legarla pur allor finia. Ella quanto potea faceva schermo; ma che potuto avrebbe a lungo andare? Aminta, con un dardo che tenea ne la man destra, al satiro avventossi come un leone, ed io fra tanto pieno m'avea di sassi il grembo, onde fuggissi. Come la fuga de l'altro concesse spazio a lui di mirare, egli rivolse i cupidi occhi in quelle membra belle, che, come suole tremolare il latte ne' giunchi, s\`{\i} parean morbide e bianche. E tutto 'l vidi sfavillar nel viso; poscia accostossi pianamente a lei tutto modesto, e disse: ``O bella Silvia, perdona a queste man, se troppo ardire \`e l'appressarsi a le tue dolci membra, perch\'e necessit\`a dura le sforza: necessit\`a di scioglier questi nodi; n\'e questa grazia, che fortuna vuole conceder loro, tuo mal grado sia''. \9 Parole d'ammollir un cor di sasso. Ma che rispose allor? \\ \5 Nulla rispose, ma disdegnosa e vergognosa a terra chinava il viso, e 'l delicato seno, quanto potea torcendosi, celava. Egli, fattosi inanzi, il biondo crine cominci\`o a sviluppare, e disse in tanto: ``Gi\`a di nodi s\`{\i} bei non era degno cos\`{\i} ruvido tronco: or, che vantaggio hanno i servi d'Amor, se lor commune \`e con le piante il prezioso laccio? Pianta crudel, potesti quel bel crine offender tu, ch'a te feo tanto onore?'' Quinci con le sue man le man le sciolse, in modo tal che parea che temesse pur di toccarle, e desiasse insieme; si chin\`o poi per islegarle i piedi; ma come Silvia in libert\`a le mani si vide, disse in atto dispettoso: ``Pastor, non mi toccar: son di Diana; per me stessa sapr\`o sciogliermi i piedi''. \9 Or tanto orgoglio alberga in cor di ninfa? Ahi d'opra graziosa ingrato merto! \5 Ei si trasse in disparte riverente, non alzando pur gli occhi per mirarla, negando a se medesmo il suo piacere, per t\^orre a lei fatica di negarlo. Io, che m'era nascoso, e vedea il tutto ed udia il tutto, allor fui per gridare; pur mi ritenni. Or odi strana cosa. Dopo molta fatica ella si sciolse; e, sciolta a pena, senza dire ``A Dio'', a fuggir cominci\`o com'una cerva; e pur nulla cagione avea di tema, ch\'e l'era noto il rispetto d'Aminta. \9 Perch\'e dunque fuggissi? \\ \5 A la sua fuga volse l'obligo aver, non a l'altrui modesto amore. \\ \9 Ed in quest'anco \`e ingrata. Ma che fe' 'l miserello allor? che disse? \5 No 'l so, ch'io, pien di mal talento, corsi per arrivarla e ritenerla, e 'nvano, ch'io la smarrii; e poi tornando dove lasciai Aminta al fonte, no 'l trovai; ma presago \`e il mio cor di qualche male. So ch'egli era disposto di morire, prima che ci\`o avvenisse. \\ \9 \`E uso ed arte di ciascun ch'ama minacciarsi morte; ma rade volte poi segue l'effetto. \5 Dio faccia ch'ei non sia tra questi rari. \9 Non sar\`a, no. \\ \5 Io voglio irmene a l'antro del saggio Elpino: ivi, s'\`e vivo, forse sar\`a ridotto, ove sovente suole raddolcir gli amarissimi martiri al dolce suon de la sampogna chiara, ch'ad udir trae dagli alti monti i sassi, e correr fa di puro latte i fiumi, e stillar mele da le dure scorze. \Scena \(\4, \2, \7\) \4 Dispietata pietate fu la tua veramente, o Dafne, allora che ritenesti il dardo; per\`o che 'l mio morire pi\`u amaro sar\`a, quanto pi\`u tardo. Ed or perch\'e m'avvolgi per s\`{\i} diverse strade e per s\`{\i} varii ragionamenti in vano? di che temi? ch'io non m'uccida? Temi del mio bene. \2 Non disperar, Aminta, ch\'e, s'io lei ben conosco, sola vergogna fu, non crudeltate, quella che mosse Silvia a fuggir via. \4 Ohim\`e, che mia salute sarebbe il disperare, poich\'e sol la speranza \`e stata mia rovina; ed anco, ahi lasso, tenta di germogliar dentr'al mio petto, sol perch\'e io viva: e quale \`e maggior male de la vita d'un misero com'io? \2 Vivi, misero, vivi ne la miseria tua; e questo stato sopporta sol per divenir felice, quando che sia. Fia premio de la speme, se vivendo e sperando ti mantieni, quel che vedesti ne la bella ignuda. \4 Non pareva ad Amor e a mia fortuna ch'a pien misero fossi, s'anco a pieno non m'era dimostrato quel che m'era negato. \7 Dunque a me pur convien esser sinistra c\`ornice d'amarissima novella! Oh per mai sempre misero Montano, qual animo fia 'l tuo quando udirai de l'unica tua Silvia il duro caso? Padre vecchio, orbo padre: ahi, non pi\`u padre! \2 Odo una mesta voce. \\ \4 Io odo 'l nome di Silvia, che gli orecchi e 'l cor mi fere; ma chi \`e che la noma? \\ \2 Ella \`e Nerina, ninfa gentil che tanto a Cinzia \`e cara, c'ha s\`{\i} begli occhi e cos\`{\i} belle mani e modi s\`{\i} avvenenti e graziosi. \7 E pur voglio che 'l sappi e che procuri di ritrovar le reliquie infelici, se nulla ve ne resta. Ahi Silvia, ahi dura infelice tua sorte! \4 Ohim\`e, che fia? che costei dice? \\ \7 Dafne! \2 Che parli fra te stessa, e perch\'e nomi tu Silvia, e poi sospiri? \\ \7 Ahi, ch'a ragione sospiro l'aspro caso! \\ \4 Ahi, di qual caso pu\`o ragionar costei? Io sento, io sento che mi s'agghiaccia il core e mi si chiude lo spirto. \`E viva? \2 Narra, qual aspro caso \`e quel che dici? \7 O Dio, perch\'e son io la messaggiera? E pur convien narrarlo. Venne Silvia al mio albergo ignuda; e quale fosse l'occasion, saper la d\'ei; poi rivestita mi preg\`o che seco ir volessi a la caccia che ordinata era nel bosco c'ha nome da l'elci. Io la compiacqui: andammo, e ritrovammo molte ninfe ridotte; ed indi a poco ecco, di non so d'onde, un lupo sbuca, grande fuor di misura, e da le labra gocciolava una bava sanguinosa; Silvia un quadrello adatta su la corda d'un arco ch'io le diedi, e tira e 'l coglie a sommo 'l capo: ei si rinselva, ed ella, vibrando un dardo, dentro 'l bosco il segue. \4 Oh dolente principio; ohim\`e, qual fine gi\`a mi s'annuncia? \\ \7 Io con un altro dardo seguo la traccia, ma lontana assai, ch\'e pi\`u tarda mi mossi. Come furo dentro a la selva, pi\`u non la rividi: ma pur per l'orme lor tanto m'avvolsi, che giunsi nel pi\`u folto e pi\`u deserto; quivi il dardo di Silvia in terra scorsi, n\'e molto indi lontano un bianco velo, ch'io stessa le ravvolsi al crine; e, mentre mi guardo intorno, vidi sette lupi che leccavan di terra alquanto sangue sparto intorno a cert'ossa affatto nude; e fu mia sorte ch'io non fui veduta da loro, tanto intenti erano al pasto; tal che, piena di tema e di pietate, indietro ritornai; e questo \`e quanto posso dirvi di Silvia; ed ecco 'l velo. \4 Poco p\`arti aver detto? Oh velo, oh sangue, oh Silvia, tu se' morta! \\ \2 Oh miserello, tramortito \`e d'affanno, e forse morto. \7 Egli rispira pure: questo fia un breve svenimento; ecco, riviene. \4 Dolor, che s\`{\i} mi crucii, ch\'e non m'uccidi omai? tu sei pur lento! Forse lasci l'officio a la mia mano. Io son, io son contento ch'ella prenda tal cura, poi che tu la ricusi, o che non puoi. Ohim\`e, se nulla manca a la certezza omai, e nulla manca al colmo de la miseria mia, che bado? che pi\`u aspetto? O Dafne, o Dafne, a questo amaro fin tu mi salvasti, a questo fine amaro? Bello e dolce morir fu certo allora che uccidere io mi volsi. Tu me 'l negasti, e 'l Ciel, a cui parea ch'io precorressi col morir la noia ch'apprestata m'avea. Or che fatt'ha l'estremo de la sua crudeltate, ben soffrir\`a ch'io moia, e tu soffrir lo dei. \2 Aspetta a la tua morte, sin che 'l ver meglio intenda. \4 Ohim\`e, che vuoi ch'attenda? Ohim\`e, che troppo ho atteso, e troppo inteso. \7 Deh, foss'io stata muta! \4 Ninfa, dammi, ti prego, quel velo ch'\`e di lei solo e misero avanzo, s\`{\i} ch'egli m'accompagne per questo breve spazio e di via e di vita che mi resta, e con la sua presenza accresca quel martire, ch'\`e ben picciol martire, s'ho bisogno d'aiuto al mio morire. \7 Debbo darlo o negarlo? La cagion perch\'e 'l chiedi fa ch'io debba negarlo. \4 Crudel, s\`{\i} picciol dono mi nieghi al punto estremo? E in questo anco maligno mi si mostra il mio fato. Io cedo, io cedo: a te si resti; e voi restate ancora, ch'io vo per non tornare. \2 Aminta, aspetta, ascolta... Ohim\`e, con quanta furia egli si parte! \7 Egli va s\`{\i} veloce, che fia vano il seguirlo; ond'\`e pur meglio ch'io segua il mio viaggio; e forse \`e meglio ch'io taccia e nulla conti al misero Montano. \9 Non bisogna la morte, ch'a stringer nobil core prima basta la fede, e poi l'amore. N\'e quella che si cerca \`e s\`{\i} difficil fama seguendo chi ben ama, ch'amore \`e merce, e con amar si merca. E cercando l'amor si trova spesso gloria immortal appresso. \Atto \Scena \(\2, \3, \9\) \2 Ne porti il vento, con la ria novella, che s'era di te sparta, ogni tuo male e presente e futuro. Tu sei viva e sana, Dio lodato, ed io per morta pur ora ti tenea: in tal maniera m'avea Nerina il tuo caso dipinto. Ahi, fosse stata muta, ed altri sordo! \3 Certo 'l rischio fu grande, ed ella avea giusta cagion di sospettarmi morta. \2 Ma non giusta cagion avea di dirlo. Or narra tu qual fosse 'l rischio, e come tu lo fuggisti. \\ \3 Io, seguitando un lupo, mi rinselvai nel pi\`u profondo bosco, tanto ch'io ne perdei la traccia. Or, mentre cerco di ritornare onde mi tolsi, il vidi, e riconobbi a un stral che fitto gli aveva di mia man press'un orecchio. Il vidi con molt'altri intorno a un corpo d'un animal ch'avea di fresco ucciso, ma non distinsi ben la forma. Il lupo ferito, credo, mi conobbe, e 'ncontro mi venne con la bocca sanguinosa. Io l'aspettava ardita, e con la destra vibrava un dardo. Tu sai ben s'io sono maestra di ferire, e se mai soglio far colpo in fallo. Or, quando il vidi tanto vicin, che giusto spazio mi parea a la percossa, lanciai un dardo, e 'n vano: ch\'e, colpa di fortuna o pur mia colpa, in vece sua colsi una pianta. Allora pi\`u ingordo incontro ei mi venia; ed io che 'l vidi s\`{\i} vicin, che stimai vano l'uso de l'arco, non avendo altr'armi, a la fuga ricorsi. Io fuggo, ed egli non resta di seguirmi. Or odi caso: un vel, ch'aveva involto intorno al crine, si spieg\`o in parte, e giva ventilando, s\`{\i} ch'ad un ramo avviluppossi. Io sento che non so chi mi tien e mi ritarda. Io, per la tema del morir, raddoppio la forza al corso, e d'altra parte il ramo non cede, e non mi lascia; al fin mi svolgo del velo, e alquanto de' miei crini ancora lascio svelti co 'l velo; e cotant'ali m'impenn\`o la paura ai pi\`e fugaci, ch'ei non mi giunse e salva uscii del bosco. Poi, tornando al mio albergo, io t'incontrai tutta turbata, e mi stupii vedendo stupirti al mio apparir. \\ \2 Ohim\`e, tu vivi, altri non gi\`a. \\ \3 Che dici? ti rincresce forse ch'io viva sia? M'odii tu tanto? \2 Mi piace di tua vita, ma mi duole de l'altrui morte. \\ \3 E di qual morte intendi? \2 De la morte d'Aminta. \\ \3 Ahi, come \`e morto? \2 Il come non so dir, n\'e so dir anco s'\`e ver l'effetto; ma per certo il credo. \3 Ch'\`e ci\`o che tu mi dici? ed a chi rechi la cagion di sua morte? \\ \2 A la tua morte. \3 Io non t'intendo. \\ \2 La dura novella de la tua morte, ch'egli ud\`{\i} e credette, avr\`a porto al meschino il laccio o 'l ferro od altra cosa tal che l'avr\`a ucciso. \3 Vano il sospetto in te de la sua morte sar\`a, come fu van de la mia morte; ch'ognuno a suo poter salva la vita. \2 O Silvia, Silvia, tu non sai n\'e credi quanto 'l foco d'amor possa in un petto, che petto sia di carne e non di pietra, com' \`e cotesto tuo: ch\'e, se creduto l'avessi, avresti amato chi t'amava pi\`u che le care pupille degli occhi, pi\`u che lo spirto de la vita sua. Il credo io ben, anzi l'ho visto e sollo: il vidi, quando tu fuggisti, o fera pi\`u che tigre crudel, ed in quel punto, ch'abbracciar lo dovevi, il vidi un dardo rivolgere in se stesso, e quello al petto premersi disperato, n\'e pentirsi poscia nel fatto, che le vesti ed anco la pelle trapassossi, e nel suo sangue lo tinse; e 'l ferro saria giunto a dentro, e passato quel cor che tu passasti pi\`u duramente, se non ch'io gli tenni il braccio, e l'impedii ch'altro non fesse. Ahi lassa, e forse quella breve piaga solo una prova fu del suo furore e de la disperata sua costanza, e mostr\`o quella strada al ferro audace, che correr poi dovea liberamente. \3 Oh, che mi narri? \\ \2 Il vidi poscia, allora ch'intese l'amarissima novella de la tua morte, tramortir d'affanno, e poi partirsi furioso in fretta, per uccider se stesso; e s'avr\`a ucciso veracemente. \\ \3 E ci\`o per fermo tieni? \2 Io non v'ho dubbio. \\ \3 Ohim\`e, tu no 'l seguisti per impedirlo? Ohim\`e, cerchiamo, andiamo, che, poi ch'egli moria per la mia morte, de' per la vita mia restare in vita. \2 Io lo seguii, ma correa s\`{\i} veloce che mi spar\`{\i} tosto dinanzi, e 'ndarno poi mi girai per le sue orme. Or dove vuoi tu cercar, se non n'hai traccia alcuna? \3 Egli morr\`a, se no 'l troviamo, ahi lassa; e sar\`a l'omicida ei di se stesso. \2 Crudel, forse t'incresce ch'a te tolga la gloria di quest'atto? esser tu dunque l'omicida vorresti? e non ti pare che la sua cruda morte esser debb'opra d'altri che di tua mano? Or ti consola, ch\'e, comunque egli muoia, per te muore, e tu sei che l'uccidi. \3 Ohim\`e, che tu m'accori, e quel cordoglio ch'io sento del suo caso inacerbisce con l'acerba memoria de la mia crudeltate, ch'io chiamava onestate; e ben fu tale, ma fu troppo severa e rigorosa; or me n'accorgo e pento. \\ \2 Oh, quel ch'io odo! Tu sei pietosa, tu, tu senti al core spirto alcun di pietate? oh che vegg'io? tu piangi, tu, superba? Oh maraviglia! Che pianto \`e questo tuo? pianto d'amore? \3 Pianto d'amor non gi\`a, ma di pietate. \2 La piet\`a messaggiera \`e de l'amore, come 'l lampo del tuono. \\ \9 Anzi sovente quando egli vuol ne' petti virginelli occulto entrare, onde fu prima escluso da severa onest\`a, l'abito prende, prende l'aspetto de la sua ministra e sua nuncia, pietate; e con tai larve le semplici ingannando, \`e dentro accolto. \2 Questo \`e pianto d'amor, ch\'e troppo abonda. Tu taci? ami tu, Silvia? ami, ma in vano. Oh potenza d'Amor, giusto castigo manda sovra costei. Misero Aminta! Tu, in guisa d'ape che ferendo muore e ne le piaghe altrui lascia la vita, con la tua morte hai pur trafitto al fine quel duro cor, che non potesti mai punger vivendo. Or, se tu, spirto errante, s\`{\i} come io credo, e de le membra ignudo, qui intorno sei, mira il suo pianto, e godi: amante in vita, amato in morte; e s'era tuo destin che tu fossi in morte amato, e se questa crudel volea l'amore venderti sol con prezzo cos\`{\i} caro, desti quel prezzo tu ch'ella richiese, e l'amor suo col tuo morir comprasti. \9 Caro prezzo a chi 'l diede; a chi 'l riceve prezzo inutile, e infame. \\ \3 Oh potess'io con l'amor mio comprar la vita sua; anzi pur con la mia la vita sua, s'egli \`e pur morto! \\ \2 O tardi saggia, e tardi pietosa, quando ci\`o nulla rileva! \Scena \( \10, \9, \3, \2\) \10 Io ho s\`{\i} pieno il petto di pietate e s\`{\i} pieno d'orror, che non rimiro n\'e odo alcuna cosa, ond'io mi volga, la qual non mi spaventi e non m'affanni. \9 Or ch'apporta costui, ch'\`e s\`{\i} turbato in vista ed in favella? \10 Porto l'aspra novella de la morte d'Aminta. \\ \3 Ohim\`e, che dice? \10 Il pi\`u nobil pastor di queste selve, che fu cos\`{\i} gentil, cos\`{\i} leggiadro, cos\`{\i} caro a le ninfe ed a le Muse, ed \`e morto fanciullo, ahi, di che morte! \9 Contane, prego, il tutto, acci\`o che teco pianger possiam la sua sciagura e nostra. \3 Ohim\`e, ch'io non ardisco appressarmi ad udire quel ch'\`e pur forza udire. Empio mio core, mio duro alpestre core, di che, di che paventi? Vattene incontra pure a quei coltei pungenti che costui porta ne la lingua, e quivi mostra la tua fierezza. Pastore, io vengo a parte di quel dolor che tu prometti altrui, ch\'e a me ben si conviene pi\`u che forse non pensi; ed io 'l ricevo come dovuta cosa. Or tu di lui non mi sii dunque scarso. \10 Ninfa, io ti credo bene, ch'io sentii quel meschino in su la morte finir la vita sua co 'l chiamar il tuo nome. \2 Ora comincia omai questa dolente istoria. \10 Io era a mezzo 'l colle, ove avea tese certe mie reti, quanto assai vicino vidi passar Aminta, in volto e in atti troppo mutato da quel ch'ei soleva, troppo turbato e scuro. Io corsi, e corsi tanto che 'l giunsi e lo fermai; ed egli mi disse: ``Ergasto, io vo' che tu mi faccia un gran piacere: quest'\`e, che tu ne venga meco per testimonio d'un mio fatto; ma pria voglio da te che tu mi leghi di stretto giuramento la tua fede di startene in disparte e non por mano, per impedirmi in quel che son per fare''. Io (chi pensato avria caso s\`{\i} strano, n\'e s\`{\i} pazzo furor?), com' egli volse, feci scongiuri orribili, chiamando e Pane e Pale e Priapo e Pomona, ed Ecate notturna. Indi si mosse, e mi condusse ov'\`e scosceso il colle, e gi\`u per balzi e per dirupi incolti strada non gi\`a, ch\'e non v'\`e strada alcuna, ma cala un precipizio in una valle. Qui ci fermammo. Io, rimirando a basso, tutto sentii raccapricciarmi, e 'ndietro tosto mi trassi; ed egli un cotal poco parve ridesse, e serenossi in viso; onde quell'atto pi\`u rassicurommi. Indi parlommi s\`{\i}: ``Fa che tu conti a le ninfe e ai pastor ci\`o che vedrai''. Poi disse, in gi\`u guardando: ``Se presti a mio volere cos\`{\i} aver io potessi la gola e i denti de gli avidi lupi, com'ho questi dirupi, sol vorrei far la morte che fece la mia vita: vorrei che queste mie membra meschine s\`{\i} fosser lacerate, ohim\`e, come gi\`a foro quelle sue delicate. Poi che non posso, e 'l cielo dinega al mio desire gli animali voraci, che ben verriano a tempo, io prender voglio altra strada al morire: prender\`o quella via che, se non la devuta, almen fia la pi\`u breve. Silvia, io ti seguo, io vengo a farti compagnia, se non la sdegnerai; e morirei contento, s'io fossi certo almeno che 'l mio venirti dietro turbar non ti dovesse, e che fosse finita l'ira tua con la vita. Silvia, io ti seguo, io vengo''. Cos\`{\i} detto, precipitossi d'alto co 'l capo in giuso; ed io restai di ghiaccio. \2 Misero Aminta! \\ \3 Ohim\`e! \9 Perch\'e non l'impedisti? Forse ti fu ritegno a ritenerlo il fatto giuramento? \10 Questo no, ch\'e, sprezzando i giuramenti, vani forse in tal caso, quand'io m'accorsi del suo pazzo ed empio proponimento, con la man vi corsi, e, come volse la sua dura sorte, lo presi in questa fascia di zendado che lo cingeva; la qual, non potendo l'impeto e 'l peso sostener del corpo, che s'era tutto abandonato, in mano spezzata mi rimase. \\ \9 E che divenne de l'infelice corpo? \\ \10 Io no 'l so dire: ch'era s\`{\i} pien d'orrore e di pietate, che non mi diede il cor di rimirarvi, per non vederlo in pezzi. \\ \9 O strano caso! \3 Ohim\`e, ben son di sasso, poi che questa novella non m'uccide. Ahi, se la falsa morte di chi tanto l'odiava a lui tolse la vita, ben sarebbe ragione che la verace morte di chi tanto m'amava togliesse a me la vita; e vo' che la mi tolga, se non potr\`o co 'l duol, almen co 'l ferro, o pur con questa fascia, che non senza cagione non segu\`{\i} le ruine del suo dolce signore, ma rest\`o sol per fare in me vendetta de l'empio mio rigore e del suo amaro fine. Cinto infelice, cinto di signor pi\`u infelice, non ti spiaccia restare in s\`{\i} odioso albergo, ch\'e tu vi resti sol per instrumento di vendetta e di pena. Dovea certo, io dovea esser compagna al mondo de l'infelice Aminta. Poscia ch'allor non volsi, sar\`o per opra tua sua compagna a l'inferno. \9 Cons\`olati, meschina, che questo \`e di fortuna e non tua colpa. \3 Pastor, di chi piangete? Se piangete il mio affanno, io non merto pietate, ch\'e non la seppi usare; se piangete il morire del misero innocente, questo \`e picciolo segno a s\`{\i} alta cagione. E tu rasciuga, Dafne, queste tue lagrime, per Dio. Se cagion ne son io, ben ti voglio pregare, non per piet\`a di me, ma per pietate di chi degno ne fue, che m'aiuti a cercare l'infelici sue membra e a sepelirle. Questo sol mi ritiene, ch'or ora non m'uccida: pagar vo' questo ufficio, poi ch'altro non m'avanza, a l'amor ch'ei portommi; e se ben quest'empia mano contaminare potesse la piet\`a de l'opra, pure so che gli sar\`a cara l'opra di questa mano; ch\'e so certo ch'ei m'ama, come mostr\`o morendo. \2 Son contenta aiutarti in questo ufficio; ma tu gi\`a non pensare d'aver poscia a morire. \3 Sin qui vissi a me stessa, a la mia feritate: or, quel ch'avanza, viver voglio ad Aminta; e, se non posso a lui, viver\`o al freddo suo cadavero infelice. Tanto, e non pi\`u, mi lice restar nel mondo, e poi finir a un punto e l'essequie e la vita. Pastor, ma quale strada ci conduce a la valle, ove il dirupo va a terminare? \\ \10 Questa vi conduce; e quinci poco spazio ella \`e lontana. \2 Andiam, che verr\`o teco e guiderotti; ch\'e ben rammento il luogo. \\ \3 A Dio, pastori; piagge, a Dio; a Dio, selve; e fiumi, a Dio. \10 Costei parla di modo, che dimostra d'esser disposta a l'ultima partita. \9 Ci\`o che morte rallenta, Amor, restringi, amico tu di pace, ella di guerra, e del suo trionfar trionfi e regni; e mentre due bell'alme annodi e cingi, cos\`{\i} rendi sembiante al ciel la terra, che d'abitarla tu non fuggi o sdegni. Non sono ire l\`a su: gli umani ingegni tu placidi ne rendi, e l'odio interno sgombri, signor, da' mansueti cori, sgombri mille furori; e quasi fai col tuo valor superno de le cose mortali un giro eterno. \Atto \(\8, \9\) \8 Veramente la legge con che Amore il suo imperio governa eternamente non \`e dura, n\'e obliqua; e l'opre sue, piene di providenza e di mistero, altri a torto condanna. Oh con quant'arte, e per che ignote strade egli conduce l'uom ad esser beato, e fra le gioie del suo amoroso paradiso il pone, quando ei pi\`u crede al fondo esser de' mali! Ecco, precipitando, Aminta ascende al colmo, al sommo d'ogni contentezza. Oh fortunato Aminta, oh te felice tanto pi\`u, quanto misero pi\`u fosti! Or co 'l tuo essempio a me lice sperare, quando che sia, che quella bella ed empia, che sotto il riso di piet\`a ricopre il mortal ferro di sua feritate, sani le piaghe mie con piet\`a vera, che con finta pietate al cor mi fece. \9 Quel che qui viene \`e il saggio Elpino, e parla cos\`{\i} d'Aminta come vivo ei fosse, chiamandolo felice e fortunato: dura condizione degli amanti! Forse egli stima fortunato amante chi muore, e morto al fin piet\`a ritrova nel cor de la sua ninfa; e questo chiama paradiso d'Amore, e questo spera. Di che lieve merc\'e l'alato Dio i suoi servi contenta! Elpin, tu dunque in s\`{\i} misero stato sei, che chiami fortunata la morte miserabile de l'infelice Aminta? e un simil fine sortir vorresti? \\ \8 Amici, state allegri, che falso \`e quel romor che a voi pervenne de la sua morte. \\ \9 Oh che ci narri, e quanto ci racconsoli! E non \`e dunque il vero che si precipitasse? \\ \8 Anzi \`e pur vero, ma fu felice il precipizio, e sotto una dolente imagine di morte gli rec\`o vita e gioia. Egli or si giace nel seno accolto de l'amata ninfa, quanto spietata gi\`a, tanto or pietosa; e le rasciuga da' begli occhi il pianto con la sua bocca. Io a trovar ne vado Montano, di lei padre, ed a condurlo col\`a dov'essi stanno; e solo il suo volere \`e quel che manca, e che prolunga il concorde voler d'ambidue loro. \9 Pari \`e l'et\`a, la gentilezza \`e pari, e concorde il desio; e 'l buon Montano vago \`e d'aver nipoti e di munire di s\`{\i} dolce presidio la vecchiaia, s\`{\i} che far\`a del lor volere il suo. Ma tu, deh, Elpin, narra qual dio, qual sorte nel periglioso precipizio Aminta abbia salvato. \\ \8 Io son contento: udite, udite quel che con quest'occhi ho visto. Io era anzi il mio speco, che si giace presso la valle, e quasi a pi\`e del colle, dove la costa face di s\'e grembo; quivi con Tirsi ragionando andava pur di colei che ne l'istessa rete lui prima, e me dapoi, ravvolse e strinse, e proponendo a la sua fuga, al suo libero stato, il mio dolce servigio, quando ci trasse gli occhi ad alto un grido: e 'l veder rovinar un uom dal sommo, e 'l vederlo cader sovra una macchia, fu tutto un punto. Sporgea fuor del colle, poco di sopra a noi, d'erbe e di spini e d'altri rami strettamente giunti e quasi in un tessuti, un fascio grande. Quivi, prima che urtasse in altro luogo, a cader venne; e bench'egli co 'l peso lo sfondasse, e pi\`u in giuso indi cadesse, quasi su' nostri piedi, quel ritegno tanto d'impeto tolse a la caduta, ch'ella non fu mortal; fu nondimeno grave cos\`{\i}, ch'ei giacque un'ora e piue stordito affatto e di se stesso fuori. Noi muti di pietate e di stupore restammo a lo spettacolo improviso, riconoscendo lui; ma conoscendo ch'egli morto non era, e che non era per morir forse, mitighiam l'affanno. Allor Tirsi mi di\`e notizia intiera de' suoi secreti ed angosciosi amori. Ma, mentre procuriam di ravvivarlo con diversi argomenti, avendo in tanto gi\`a mandato a chiamar Alfesibeo, a cui Febo insegn\`o la medica arte, allor che diede a me la cetra e 'l plettro, sopragiunsero insieme Dafne e Silvia, che, come intesi poi, givan cercando quel corpo che credean di vita privo. Ma, come Silvia il riconobbe, e vide le belle guancie tenere d'Aminta iscolorite in s\`{\i} leggiadri modi, che viola non \`e che impallidisca s\`{\i} dolcemente, e lui languir s\`{\i} fatto che parea gi\`a negli ultimi sospiri essalar l'alma, in guisa di baccante gridando e percotendosi il bel petto, lasci\`o cadersi in su 'l giacente corpo, e giunse viso a viso e bocca a bocca. \9 Or non ritenne adunque la vergogna lei, ch'\`e tanto severa e schiva tanto? \8 La vergogna ritien debile amore: ma debil freno \`e di potente amore. Poi, s\`{\i} come ne gli occhi avesse un fonte, inaffiar cominci\`o co 'l pianto suo il colui freddo viso, e fu quell'acqua di cotanta virt\`u, ch'egli rivenne; e gli occhi aprendo, un doloroso ``ohim\`e'' spinse dal petto interno; ma quell'``ohim\`e'', ch'amaro cos\`{\i} dal cor partissi, s'incontr\`o ne lo spirto de la sua cara Silvia, e fu raccolto da la soave bocca, e tutto quivi subito raddolcissi. Or chi potrebbe dir come in quel punto rimanessero entrambi, fatto certo ciascun de l'altrui vita, e fatto certo Aminta de l'amor de la sua ninfa, e vistosi con lei congiunto e stretto? Chi \`e servo d'Amor, per s\'e lo stimi. Ma non si pu\`o stimar, non che ridire. \9 Aminta \`e sano s\`{\i}, ch'egli sia fuori del rischio de la vita? \\ \8 Aminta \`e sano, se non ch'alquanto pur graffiat'ha 'l viso, ed alquanto dirotta la persona; ma sar\`a nulla, ed ei per nulla il tiene. Felice lui, che s\`{\i} gran segno ha dato d'amore, e de l'amor il dolce or gusta, a cui gli affanni scorsi ed i perigli fanno soave e dolce condimento; ma restate con Dio, ch'io vo' seguire il mio viaggio, e ritrovar Montano. \9 Non so se il molto amaro, che provato ha costui servendo, amando, piangendo e disperando, raddolcito puot'esser pienamente d'alcun dolce presente; ma, se pi\`u caro viene e pi\`u si gusta dopo 'l male il bene, io non ti cheggio, Amore, questa beatitudine maggiore; bea pur gli altri in tal guisa: me la mia ninfa accoglia dopo brevi preghiere e servir breve; e siano i condimenti de le nostre dolcezze non s\`{\i} gravi tormenti, ma soavi disdegni e soavi ripulse, risse e guerre a cui segua, reintegrando i cori, o pace o tregua. \newpage \titulus{EPILOGO} \persona{Venere} Scesa dal terzo cielo, io che sono di lui regina e dea, cerco il mio figlio fuggitivo Amore. Quest'ier mentre sedea nel mio grembo scherzando, o fosse elezion o fosse errore, con un suo strale aurato mi punse il manco lato, e poi fugg\`{\i} da me ratto volando per non esser punito; n\'e so dove sia gito. Io che madre pur sono, e son tenera e molle, volta l'ira in pietate, usat'ho poi per ritrovarlo ogn'arte. Cerc'ho tutto il mio cielo in parte in parte, e la sfera di Marte, e l'altre rote e correnti ed immote; n\'e l\`a suso ne' cieli \`e luogo alcuno ov'ei s'asconda o celi. Tal ch'ora tra voi discendo, mansueti mortali, dove so che sovente e' fa soggiorno, per aver da voi nova se 'l fuggitivo mio qua gi\`u si trova. N\'e gi\`a trovarlo spero tra voi, donne leggiadre, perch\'e, se ben d'intorno al volto ed a le chiome spesso vi scherza e vola, e se ben spesso fiede le porte di pietate ed albergo vi chiede, non \`e alcuna di voi che nel suo petto dar li voglia ricetto, ove sol feritate e sdegno siede. Ma ben trovarlo spero ne gli uomini cortesi, de' qual nessun si sdegna d'averlo in sua magione; ed a voi mi rivolgo, amica schiera. Ditemi, ov'\`e il mio figlio? Chi di voi me l'insegna, vo' che per guiderdone da queste labbra prenda un bacio quanto posso condirlo pi\`u soave; ma chi me 'l riconduce dal volontario esiglio,. altro premio n'attenda, di cui non pu\`o maggiore darli, la mia potenza, se ben in don li desse tutto 'l regno d'Amore; e per lo Stige io giuro che ferme servar\`o l'alte promesse. Ditemi, ov'\`e il mio figlio? Ma non risponde alcun: ciascun si tace. Non l'avete veduto? Forse ch'egli tra voi dimora sconosciuto, e dagli omeri suoi spiccato aver de' l'ali e deposto gli strali, e la faretra ancor depost'e l'arco, onde sempre va carco, e gli altri arnesi alteri e trionfali. Ma vi dar\`o tai segni che conoscer ai segni facilmente il potrete, ancor che di celarsi a voi s'ingegni. Egli, ben che sia vecchio e d'astuzia e d'etate, picciolo \`e s\`{\i}, ch'ancor fanciuilo sembra al viso ed a le membra, e 'n guisa di fanciullo sempre instabil si move, n\'e par che luogo trove in cui s'appaghi, ed ha giuoco e trastullo di puerili scherzi; ma il suo scherzar \`e pieno di periglio e di danno. Facilmente s'adira, facilmente si placa; e nel suo viso vedi quasi in un punto e le lagrime e 'l riso. Crespe ha le chiome e d'oro, e 'n quella guisa appunto che Fortuna si pinge, ha lunghi e folti in su la fronte i crini, ma nuda ha poi la testa a gli opposti confini. Il color del suo volto pi\`u che fuoco \`e vivace; ne la fronte dimostra una lascivia audace; gli occhi infiammati e pieni d'un ingannevol riso volge sovente in biechi; e pur sott'occhio quasi di furto mira, n\'e mai con dritto guardo i lumi gira. Con lingua che dal latte par che si discompagni, dolcemente favella, ed i suoi detti forma tronchi e imperfetti; di lusinghe e di vezzi \`e pieno il suo parlare, e son le voci sue sottili e chiare. Ha sempre in bocca il ghigno, e gl'inganni e la frode sotto quel ghigno asconde, come tra fronde e fior angue maligno. Questi da prima altrui tutto cortese e um\`{\i}le a i sembianti ed al volto, qual povero peregrin albergo chiede per grazia e per mercede; ma poi che dentro \`e accolto, a poco a poco insuperbisce, e fassi oltra modo insolente; egli sol vuol le chiavi tener de l'altrui core, egli scacciarne fuore gli antichi albergatori, e 'n quella vece ricever nova gente; ei far la ragion serva e dar legge a la mente: cosi divien tiranno d'ospite mansueto, e persegue ed ancide chi li s'oppone e chi li fa divieto. Or ch'io v'ho dato i segni e degli atti e del viso e de' costumi suoi, s'egli \`e pur qui fra voi datemi, prego, del mio figlio aviso. Ma voi non rispondete? Forse tenerlo ascoso a me volete? Volete, ah folli, ah sciocchi, tenere ascoso Amore? Ma tosto uscir\`a fuore da la lingua e da gli occhi per mille, indici aperti: tal, io vi rendo certi, ch'averr\`a quello a voi, ch'avvenir suole a colui che nel seno crede nasconder l'angue, che co' gridi e co 'l sangue al fin lo scuopre. Ma poi che qui no 'l trovo, prima ch'al ciel ritorni andr\`o cercando in terra altri soggiorni. \endVersus \endDrama \end{document}