The Project Gutenberg EBook of Ben Hur, by Lewis Wallace This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: Ben Hur Una storia di Cristo Author: Lewis Wallace Translator: H. Mildmay Gastone Cavalieri Release Date: December 16, 2018 [EBook #58479] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK BEN HUR *** Produced by Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) LEWIS WALLACE BEN HUR UNA STORIA DI CRISTO _Prima Traduzione Italiana_ di H. MILDMAY e GASTONE CAVALIERI MILANO CASA EDITRICE BALDINI, CASTOLDI & C.º _Galleria Vittorio Emanuele 17-80_ 1900 PROPRIETÀ LETTERARIA Milano — Stabilimento Tipografico BASSI & PROTTI, — Via V. Monti, 31 AL LETTORE _Dopo che il =Quo Vadis= ha portato una vera rivoluzione nel campo dei romanzi storici, parrà per lo meno ardito presentare al pubblico una nuova opera dello stesso genere sostenendo che, per elevatezza di concetti ispiratori, e per larghezza di erudizione, l'autore di essa non sia meno raccomandabile ed encomiabile dello Sienckievicz. Non facciamo vane parole. Le quattrocento edizioni inglesi, francesi, tedesche, svedesi, rispondono del nostro giudizio. _Ben Hur_ è la produzione meravigliosa di un più meraviglioso ingegno; Lewis Wallace, noto come valoroso ufficiale distintosi nella guerra di secessione, dimorante attualmente a Crowfordsville Indiana (S. U. A.), ex diplomatico, è divenuto uno dei più popolari scrittori dei suo paese; nel volume, Gerusalemme, Antiochia; tutto l'Oriente, a differenza degli altri libri che pongono la scena principale in Roma; costumi e vita del tempo di Cristo, sono magnificamente descritti. Il prologo, l'introduzione del primo libro, benchè traducendo dal testo inglese, sono stati da noi ridotti a proporzioni alquanto più brevi e più conformi all'indole del nostro pubblico, il quale, se non li salterà a piè pari, farà cosa buona, e se ne troverà contento per la bellezza che riscontrerà nei libri seguenti, cui, Prologo e prima parte, sono necessaria seppur lunga preparazione._ I TRADUTTORI . . . . . . . Ma questa ripetizione della vecchia storia è appunto il fascino più bello del racconto famigliare. Se noi ci ripetiamo sovente dolci pensieri senza provarne noia perchè non permetteremmo ad altri di destarli in noi? J. PAUL RICHTER — _Hesp._ _Ve' d'Orïente per le vie, lontani,_ _attraversando l'aria profumata,_ _corrono i saggi addotti da le stelle..,_ . . . . . . . . . . . . . _Ma già tranquilla era la notte quando_ _Nacque il Bambino annunciator di pace._ _Tacevan l'aure di stupor percosse_ _e s'acquetavan l'onde a le carezze_ _dolci de i venti, in murmure soave_ _narranti nove gioie al cheto mare:_ _torme d'augelli s'assidean su l'onde_ _calme, trillando cantici festosi._ _La natività di Cristo._ — L'Inno — _di_ MILTON LIBRO PRIMO CAPITOLO I. Jebel es Zubleh è una catena di monti dell'estensione di oltre cinquanta miglia ma così breve in larghezza da figurare sulle carte geografiche come un misero bruco che segua, strisciando, la sua via, dal Nord al Sud. Essa sta, immobile, eretta sulle sue rupi rosse e bianche, guardando verso il disco pallido del sole nascente, e dalle sue vette si scorge solo il deserto dell'Arabia, dove i venti dell'est, così dannosi ai vigneti di Gerico, hanno, fin dai tempi più remoti, creato un campo propizio alle loro orribili battaglie. Le falde della catena del Jebel son ricoperte da uno strato fitto di sabbia lasciatevi dall'Eufrate, e destinate a rimanervi, essendo essa una linea di divisione alle praterie di Moab e Ammon all'ovest, praterìe che, una volta, facevan parte del deserto. L'arabo si parla in tutto il sud e in tutto l'oriente della Giudea: epperò, in lingua araba, Jebel significa letto d'innumerevoli canali, che, interrompendo la strada Romana — ora un semplice sentiero a paragone di una volta — strada polverosa per i pellegrini siriani provenienti dalla Mecca o diretti ad essa, formavano dei solchi, approfondentisi sempre più nel loro corso, e riversanti i torrenti nella stagione piovosa, nel Giordano, oppure nel Mar Morto. Da uno di questi canali, e più precisamente da quello che nasce ai piedi del Jebel e si estende in direzione nord-est, si forma il letto del fiume Iablok; per questo letto passava, diretto all'infinita stesa del deserto, di buon mattino, un viaggiatore, cui occorre rivolgere la nostra attenzione. All'apparenza dimostrava quarantacinque anni, e la sua barba, per l'addietro di un nero castagno, faceva bella mostra di sè fluendo, brizzolata, sul suo petto. Il suo viso era scuro come cioccolatte, e nascosto da un rosso _Kufiyeh_, nome dato dai figli del deserto, anche al giorno d'oggi, ai fazzoletti che servon loro da copricapo. Di quando in quando alzava gli occhi, ed essi erano grandi e scuri. Era vestito con abiti comunissimi nell'oriente, abiti di cui però non può esser fatta una descrizione minuta, perchè egli era nascosto sotto una piccola tenda sul dorso di un dromedario bianco, gigantesco. I popoli dell'occidente forse non si sono ancora abituati a veder i cammelli in assetto per la traversata del deserto. Altre cose, può essere, li avrebbero disinteressati a poco a poco, non questa, per la quale, ogni volta, si sentono massimamente attratti. Anche alla fine di lunghi viaggi, compìti insieme a carovane, anche dopo anni ed anni di permanenza fra i Beduini, i nativi dell'ovest, in qualunque posto si trovino, si fermano ed attendono i cammelli quando sanno ch'essi debbono passare. Il fascino di questi enormi quadrupedi non è nella figura ridicola, nei movimenti poco aggraziati, nel passo silenzioso, o nel camminare pesante: come le navi forman l'ornamento più gentile del mare, così gli animali del deserto sono, per il deserto, l'ornamento migliore. Nel cammello esso ha un misterioso rappresentante, di modo che, mentre noi lo guardiamo, il nostro pensiero si trasporta di riflesso sui misteri che incarna e in ciò consiste il miracolo dell'attrazione inspirataci. Il quadrupede, che usciva ora dal canale, avrebbe potuto pretendere il solito omaggio dei curiosi. Il colore e l'altezza del corpo, la grandezza del piede, un complesso, non grasso ma muscoloso; un collo lungo, sottile, ricurvo come quello di un cigno; il muso, con uno spazio largo fra gli occhi, e terminato a punta, in modo che un braccialetto femminile avrebbe potuto rinchiuderlo; l'andatura a passi lenti, cauta e sicura; tutto certificava il suo sangue siriano, assolutamente impareggiabile. Portava il solito frontale, che gli copriva la fronte, con una frangia scarlatta, e gli guarniva il collo con delle catene di rame, pendenti, ognuna delle quali terminava con un campanello d'argento dai leggeri tintinnii; però, al frontale, non si accompagnavano le redini per il cavaliere nè la cinghia di cuoio pel servo conducente. La sella, posta sul dorso, era una meraviglia, e presso qualsiasi popolo, che non fosse stato quello dell'Oriente, sarebbe derivata fama d'inventore a chi ne avesse costruita una di simile. Consisteva in due casse di legno, appena lunghe un quattro piedi, bilanciate, e pendenti una per parte; all'interno erano foderate, tappezzate, ed accomodate in modo da permettere al padrone di sedere o di giacere, mezzo sdraiato; sopra tutto questo ammennicolo, poi, era distesa una tenda verde, assai larga di dietro, tenuta ferma da cinghie e da correggie di cuoio strette fra loro da innumerevoli nodi. Così gl'ingegnosi figli di Cush avevano cercato di rendere comoda la via soleggiata del deserto lungo la quale si recavano tanto per loro dovere come per loro piacere. Quando il dromedario uscì dal canale, che era già giunto allo sbocco, il viaggiatore aveva passato il confine dell'El Belka, l'antico Ammon. Dinanzi a sè egli aveva il sole coperto da vapori di nebbia, e il deserto sterminato; non le regioni delle sabbie in balìa del Simun, le quali eran più lontane, ma la regione ove il verde si fa meno frequente, e dove il terreno è cosparso di ciottoli e di pietre grigie e brune. Qua e là delle acacie languenti, dei ciuffi d'erbe, dei piccoli arbusti. Quercie, rovi, e vari alberelli, eran rimasti addietro, al confine del deserto, quasi allineati, a gruppo, come se fossero venuti fin lì e poi si fossero fermati a guardare l'arida stesa, spauriti, senz'aver il coraggio d'inoltrarsi. Il giorno era alto. Quella parte di strada che era ben mantenuta stava per terminare. Il cammello sembrava più che mai seguire una direzione costrettovi dalla mano dell'uomo, tanto allungava ed affrettava il passo col muso rivolto all'ampio orizzonte, aspirando l'aria a più riprese per le larghe narici. La lettiga dondolava, si sollevava e s'abbassava come un battello alla mercè delle onde. S'udiva il fruscìo delle foglie secche calpestate e, di quando in quando, un profumo simile all'odore d'assenzio raddolciva l'aria. Allodole e rondini svolazzavano intorno, e pernici bianche s'allontanavano emettendo strani sibili. Meno di frequente una volpe od una iena correvano veloci per venir a studiare gli ospiti intrusi a una relativa distanza. A destra sorgevano le montagne della catena del Jebel; il velo grigio-perla che le copriva, cambiava, da un momento all'altro, in un colore di porpora che il sole poco dopo rendeva anche più rosso. Sopra le più alte cime un avvoltoio si aggirava, con lentezza, librandosi sulle grandi ali, ma il viaggiatore, rannicchiato sotto alla sua tenda verde, pareva non occuparsi di quanto succedeva all'intorno. I suoi occhi fissi, immobili, sembravano essere in preda ad un sogno. Uomo ed animale procedevano come guidati da una mano invisibile. Per due ore il dromedario camminò, certo della propria via, rivolto ad oriente. E il viaggiatore non cambiò mai di posizione e non guardò nè a destra nè a sinistra. Nei deserti le distanze non si misurano a miglia o a leghe, ma a _saat_ (ore) o a _manzil_ (tappe); il _saat_ corrisponde a tre leghe e mezza, il _manzil_ a quindici o venticinque; e il _saat_ è, su per giù, la velocità dei cammelli comuni. Un cammello siriano da trasporto, può, facilmente, compiere in un'ora tre leghe e mezza, e, a gran fatica, competere di velocità col vento ordinario. Il paesaggio, lungo il cammino, subì una completa trasformazione. Il Jebel si stendeva lunghissimo, come un nastro color celeste chiaro. Mucchi d'argilla e di sabbia calcarea si trovavano ad ogni passo. Di quando in quando si vedevano delle masse di pietre basaltiche, sentinelle avanzate della montagna ai confini della pianura. E, infine, stese immense di sabbia, ora piana, ora ammucchiata, ora come divisa in solchi, e simile al fondo d'un mare non molto prima agitato dalla tempesta. Anche l'atmosfera non era più la stessa di poco innanzi. Il sole, già alto, aveva trionfato della nebbia e riscaldata l'aria; pareva che, coi raggi, volesse baciar con dolcezza il viaggiatore sotto la tenda; la terra tutt'all'ingiro era illuminata da una luce biancastra, e anche il cielo aveva degli splendidi riflessi. Due ore trascorsero senza alcuna sosta e senza mutar direzione. Ormai tutto era sterile ed arido intorno. La sabbia stessa era così indurita e formava una leggiera crosta che si rompeva crepitando ad ogni passo del cammello. Il Jebel era scomparso in lontananza e pareva di essere nel letto di un oceano sconfinato. L'ombre del cammello e del suo cavaliere, che prima si disegnavano dietro ad essi, ora si riproducevano davanti, e continuavano ad essere le loro uniche compagne. Il viaggiatore però, non vedendo alcuna oasi, si sentiva preso da un forte scoraggiamento. Nessuno, è bene ricordarlo, traversa il deserto per semplice piacere. Chi compie il tragitto, costrettovi dal commercio o da ragioni famigliari, lo compie per sentieri cosparsi di ossa di morti, dimenticate a guisa di tristi emblemi funebri. Tali sono le strade interminabili che disgiungono l'ultima sorgente dalla sorgente più prossima, e pascolo da pascolo. Il cuore del più vecchio sceicco batte forte quando lo sceicco si trova solo nei tratti senza sentiero. Così il nostro amico non poteva certo essere in viaggio per puro divertimento, nè aveva l'aspetto di un fuggitivo poichè non guardava mai dietro a sè. Allorchè uno si trova in una situazione come questa, sente paura e curiosità, ma egli non era nè pauroso nè curioso. L'uomo quando si trova solo, si adatterebbe, in genere, a qualunque compagnia; il cane gli diviene un buon camerata, il cavallo un amico, ed egli non si vergognerebbe di colmarli di carezze e parlar loro d'affetto. Il cammello però non riceveva mai dall'uomo un simile tributo, una carezza, una parola gentile. A mezzogiorno preciso, il dromedario si fermò, spontaneamente, emettendo un lamento pietoso. Pareva volesse protestare per il peso soverchio e chieder un trattamento cortese e un po' di sonno. Il padrone si scosse come se si destasse dall'aver dormito a lungo. Alzò la tenda del _houdah_, guardò il sole, esaminò il paese da tutte le parti, minutamente, come per identificare la posizione. Soddisfatto poi dell'esame, respirò a pieni polmoni e scrollò il capo come per dire: «Finalmente! Finalmente!» Un momento dopo incrociò le mani sul petto, chinò la testa e pregò in silenzio. Compiuto questo dovere, si preparò a discendere. Gli uscì di bocca un suono gutturale, famigliare senza dubbio ai cammelli di Giobbe: _Ikh! Ikh!_ cioè il segnale d'inginocchiarsi. Lentamente il cammello ubbidì, prorompendo in un lungo urlo. Il cavaliere, fattosi un punto d'appoggio del magro collo dell'animale, scese sulla sabbia. CAPITOLO II. Il nostro uomo era ammirevole per le proporzioni del corpo, più tarchiato che alto. Slegando la corda di seta che gli stringeva il _kufiyeh_ alla testa, lo cacciò indietro in modo da lasciar completamente scoperto il viso, un viso energico, abbronzito; la fronte era bassa e spaziosa, il naso aquilino, gli occhi fatti a mandorla; i capelli fitti, ruvidi, di un lucido metallico, gli scendevano sulle spalle in molte treccie e gli davano un'aria originale. Assomigliava ai Faraoni o agli ultimi Tolomei: a Mizraim, padre della razza egiziana. Indossava il _kamis_, camicia di un tessuto di cotone bianco, scendente fino ai piedi, dalle maniche strette, aperta davanti, e ricamata sul collo e sul petto. Sopra questa portava un soprabito di lana marrone, chiamato _aba_, con sottana lunga, maniche corte, foderato intieramente di stoffa di seta e di cotone ed orlato tutt'all'ingiro da una lista giallo scura. I piedi erano calzati da sandali legati con striscie di pelle morbida. Una fusciacca gli attorniava la vita e fermava il _kamis_. Bisogna notare che il viaggiatore dimostrava un gran coraggio, giacchè s'arrischiava solo nella traversata del gran deserto, ch'è ritrovo di leoni, di leopardi e di uomini selvaggi. Non portava con sè alcun'arma, nemmeno il bastone adoperato per guidare i cammelli. Quindi si poteva dedurne la sua missione pacifica: o egli era straordinariamente audace o godeva di una straordinaria protezione. Le membra del viaggiatore erano indolenzite per il lungo e faticoso cammino; si stropicciò le mani, battè i piedi per terra come per isgranchirli, passeggiò in su e in giù davanti al quadrupede fedele, che s'era sdraiato socchiudendo gli occhi, felice di quel po' d'erba che aveva trovato. L'uomo, ogni tanto, si fermava, facendosi ombra col palmo della mano, e, scrutando in lontananza, il suo volto si rannuvolava come per un disinganno subìto, di guisa che chi lo avesse osservato avrebbe capito com'egli avesse atteso qualcuno e avrebbe nel medesimo tempo provato la curiosità di conoscere il motivo che aveva condotto un viaggiatore in un paese così poco civile. Sebbene ad osservarlo paresse il contrario pure non era da metter in dubbio ch'egli fosse certo dell'arrivo della persona attesa. Nel frattempo si diresse alla lettiga e, dalla cassa opposta a quella ch'egli medesimo aveva occupata, tolse una spugna, un piccolo recipiente d'acqua, e lavò gli occhi, le narici e il muso del cammello. Dalla stessa cassa tolse un panno rotondo, a righe bianche e rosse, un mucchio di bacchette ed un grosso bastone. Quest'ultimo era composto di diversi pezzi posti l'uno dentro l'altro, i quali, poi, uniti insieme, formavano un bastone più alto della sua persona. Dopo aver piantato il bastone in terra e averlo circondato di bacchette, lo coprì col panno, a guisa di tenda, e gli parve, lì sotto, di essere in una casa, molto più piccola, è vero, di quella degli Arabi, ma simile, sotto ogni aspetto, ad una di esse. Sempre dalla cassa, prese un tappeto di forma quadra, e ne ricoprì il suolo entro la capanna testè fabbricata. Preparata in tal modo la tenda, uscì, e si mise a spazzare con cura il terreno che la circondava. Eccettuato uno sciacallo che scorrazzava in distanza, e un'aquila che si dirigeva verso il sasso di Akaba, il deserto era silenzioso e vuoto come silenziosa e vuota era la volta del cielo. Il viaggiatore si rivolse al cammello dicendo a voce bassa e in una lingua sconosciuta al deserto: — «Siamo lontani da casa, o veloce mio corsiero, ma Dio è con noi. Bisogna aver pazienza.» — Levò dei fagioli da una tasca della sella, li mise in un sacco che appese sotto al collo dell'animale, e, quand'ebbe visto l'accoglienza fatta al cibo, si guardò intorno e tornò a scrutare l'immensità del deserto sul quale il sole dardeggiava infuocato. — «Verranno — disse assai calmo fra sè. — Colui che mi ha guidato li guida. Mi terrò pronto a riceverli.» — Dalle tasche interne della tenda e da un cesto di vimini che formava parte del mobilio, levò il necessario per approntare una colazione: piatti di terra, intessuti di paglia, vino in piccoli fiaschi di pelle, carne di montone affumicata, _shami_ o melagrane siriane, piene di semi, datteri dell'_El Shelebi_, eccellenti, cresciuti nei _nakhil_ o frutteti dell'Arabia Centrale; formaggio come le «fette di latte» di Davide, e pane, fatto col lievito, proveniente dal forno della città. Tutto questo egli aveva portato con sè, ed ora poneva premurosamente sotto la tenda, sul tappeto. In fine prese tre pezze di seta per coprire, secondo l'uso delle persone più altolocate dell'Oriente, le ginocchia degli invitati durante il pasto, e da ciò si poteva comprendere quante fossero le persone da lui attese a partecipare alla sua colazione. Tutto era pronto. Egli uscì dalla tenda e un punto nero gli apparve lontano, nel deserto. Rimase come pietrificato a quella vista; gli occhi gli si dilatarono, sentì un brivido pervadere la sua persona. Il punto nero si avvicinava sempre più, mutava colore ed era divenuto grande, quasi quanto una mano; infine, a poco a poco, prese proporzioni definite. Era un dromedario quasi uguale a quello del nostro viaggiatore, alto e bianco, portante un _houdah_, o lettiga dei passeggieri dell'Indostan. L'Egiziano incrociò le mani sul petto e guardò verso il cielo. — «Dio solo è grande» — esclamò reverentemente e cogli occhi pieni di lagrime. Lo straniero s'accostò e si fermò. Sembrava si ridestasse da un lungo sonno. Osservò il cammello inginocchiato, la capanna, e l'uomo che se ne stava fermo davanti alla porta, in atto di supplica; incrociò le mani, abbassò il capo e si mise a pregare silenziosamente. Poco dopo scese dal collo del cammello, e, posto il piede sulla sabbia, si avanzò verso l'Egiziano nel medesimo momento che questi muoveva ad incontrarlo. Si guardarono fissi, per un momento, poi si abbracciarono, e ognuno mise il braccio destro sulla spalla dell'altro ed il sinistro sui fianchi, posando il mento sul petto, reciprocamente, prima a sinistra, poi a destra. — «Pace sia con te, o servo del vero Dio!» — esclamò lo straniero. — «Sii il ben giunto, o fratello della vera fede! Anche a te pace» — rispose l'Egiziano con fervore. Il nuovo venuto era un uomo alto e magro, dal viso grande, dagli occhi infossati, dai capelli e dalla barba bianca, dalla carnagione di un colore tra la cannella ed il bronzo. Anch'egli era privo d'armi. Il suo costume era Indiano; gli copriva il capo uno scialle che scendeva sulla nuca a pieghe profonde, a guisa di turbante; il suo vestito era come quello dell'Egiziano, eccettuata l'_aba_, ch'era più corta, e lasciava intravvedere dei larghi calzoni ben aderenti, però, al collo del piede. In luogo dei sandali portava delle mezze scarpe di pelle rossa, terminate a punta. Meno le scarpe, dalla testa ai piedi, era vestito di tela bianca. Aveva un bel portamento, un'aria dignitosa, severa. Visvamitra, uno dei più grandi eroi ascetici dell'Iliade orientale, avrebbe potuto aver in lui un perfetto rappresentante. Era un uomo degno, in sapienza, di esser figlio di Brahma e ne incarnava la devozione. Nei suoi occhi era rispecchiata una grande vitalità, ma quando rialzò il viso dal petto dell'Egiziano, essi erano pieni di lagrime. — «Dio solo è grande!» — esclamò sciogliendosi dall'abbraccio. — «E benedetti siano quelli che lo servono!» — rispose l'Egiziano meravigliato della parafrase della sua esclamazione di poc'anzi. — «Ma attendiamo — aggiunse — attendiamo: l'altro viene laggiù.» — Si volsero verso il nord ov'era già in vista un terzo cammello, bianco come i precedenti, e che s'avanzava dondolandosi come una nave in alto mare. Attesero, rimanendo vicini l'uno all'altro e silenziosi, finchè giunse il nuovo viaggiatore che discese ed avanzò ad incontrarli. — «Pace a te, o mio fratello» — egli disse mentre abbracciava l'Indiano. E l'Indiano rispose: — «Sia fatto il volere di Dio!» — L'ultimo arrivato non rassomigliava affatto ai suoi amici; la sua persona era più snella; la carnagione bianca; un volume di capelli chiari ondulati coronava la sua testa piccola ma bella, e i suoi grandi occhi neri davano segno di molta intelligenza, di natura sincera e di un carattere forte. Aveva il capo scoperto ed era privo di armi. Sotto le pieghe della coperta bianca, ch'egli indossava con grazia, appariva una tunica scollata e dalle maniche corte, fermata alla vita da una cintura che gli scendeva quasi fino alle ginocchia, lasciando nudi il collo, le braccia, e le gambe. I piedi calzavano dei sandali. Aveva cinquant'anni e forse anche di più ma non li dimostrava. Gli anni avevano dato solo una certa austerità al suo contegno e una certa moderazione alla sua parola, ma non gli avevano aggrinzito il viso o imbiancati i capelli. Aveva un fisico robusto e un'immensa intelligenza. Non fa mestieri il dire di che paese egli fosse: s'egli non era di Atene dovevan essere Greci per lo meno i suoi antenati. Quando l'Egiziano ebbe terminato di abbracciarlo disse con voce tremula: — «Iddio mi fece arrivare qui per il primo; quindi io so di essere scelto come ospite dei miei fratelli. La tenda è al suo posto e la tavola è preparata per noi. Lasciatemi esercitare le mie mansioni.» — Prendendoli per mano li fece entrare; tolse loro i sandali, lavò loro i piedi, e gettò dell'acqua sulle loro mani, ch'essi quindi asciugarono con salviette. Poi, dopo aver lavate anche le proprie mani, egli disse; — «Bisogna aver cura della nostra persona, fratelli, come lo richiede il nostro ufficio, e mangiare per renderci forti onde compiere il nostro dovere durante il rimanente della giornata. Mentre mangeremo impareremo a conoscerci vicendevolmente, e ci diremo l'un l'altro i nostri nomi, le nostre patrie, e i nostri intenti.» — Li accompagnò al posto che aveva loro destinato e li fece sedere in modo che si potessero trovare di fronte. Contemporaneamente le loro teste si chinarono, le loro mani s'incrociarono sul petto, ed essi recitarono, in coro, ad alta voce, questo semplice ringraziamento: — «O padre dell'Universo, o nostro Dio! Tutto quello che abbiamo qui è tuo; accetta i nostri ringraziamenti e benedicici, perchè possiamo continuare sempre ad agire secondo i tuoi desideri.» — All'ultima parola essi alzarono gli occhi e si guardarono in faccia meravigliati. Ognuno di loro aveva parlato in una lingua sconosciuta agli altri; eppure tutti e tre avevan compreso perfettamente ciò che s'era detto. Le loro persone tremarono per l'emozione, perchè, dal miracolo, essi dicevano di riconoscere la presenza divina. CAPITOLO III. L'incontro di cui sopra avvenne nell'anno di Roma 747. Si era nel mese di dicembre e l'inverno regnava sopra tutte le regioni orientali del Mediterraneo. Quelli che attraversano il deserto in questa stagione non possono proseguire molto tempo senza sentirsi presi da un grande appetito. La compagnia sotto la piccola tenda non faceva certo eccezione alla regola. Aveva molta fame e quindi mangiava di gusto; dopo che fu mesciuto il vino i tre principiarono a discorrere. — «Nulla riesce di più gradito ad un viaggiatore del sentirsi chiamare per nome da un amico in paese sconosciuto» — disse l'Egiziano che aveva voluto esser l'anfitrione del pasto. «Resteremo molti giorni insieme e sarebbe ora d'incominciare a conoscerci. Così, se vi aggrada, l'ultimo venuto sarà il primo a parlare.» Principiando pian piano, come un individuo prudente, il Greco incominciò: — «Quello ch'io ho da dire, fratelli, è così strano che non so proprio donde principiare e in qual guisa parlar correttamente. Io non capisco ancora me stesso. Son tanto sicuro che ciò che sto facendo, sia ciò che vuole il maestro, che il servirlo è per me una costante estasi. Quando penso allo scopo cui debbo adempiere provo una gioia così grande che riconosco essere ciò il volere divino.» Il buon uomo si fermò, incapace di proseguire, mentre gli altri, come lui, abbassarono gli occhi. — «Nel lontano Occidente — proseguì — vi è un paese che non potrà mai esser dimenticato. Il mondo gli deve troppo ed il potersi sdebitare è cosa che arreca all'uomo un grande piacere. Non parlerò di belle arti, di filosofia, d'oratoria, di poesia, di guerra. O miei fratelli, la gloria è quella che splenderà luminosamente, e, per mezzo di essa, Colui che noi cerchiamo sarà conosciuto su tutta la terra. Il paese di cui vi parlo è la Grecia. Io sono Gaspare, figlio di Cleonte, ateniese. I miei antenati si dedicarono interamente allo studio, e da essi io ho ereditata la stessa inclinazione. Due dei nostri filosofi, i maggiori, insegnano, l'uno, che esiste un'anima in ogni uomo, e ch'essa è immortale, l'altro che vi è un Dio solo il quale è infinitamente giusto. Io scelsi fra le molte teorie quelle dei due filosofi come le sole degne di attenzione, giacchè mi pareva che vi potesse essere un legame sconosciuto fra Dio e l'anima. Su questo tema la mente può discutere fin ad un certo punto ma poi trova una barriera insormontabile, giunti alla quale si è obbligati a chieder aiuto. Così feci ma non ebbi alcuna risposta. Disperato mi allontanai dalle scuole e dalle città.» — A queste parole l'Indiano ebbe un sorriso di approvazione. — «In Tessaglia, verso settentrione, — continuò il Greco — v'è una catena di montagne famosa per esser riputata dimora degli Dei, chiamata l'Olimpo, dove Zeus, ch'era considerato il sommo di essi dai miei compatrioti, abitava. — Andai sulla vetta di quelle montagne. Trovai una caverna nel monte, dove la catena, che principia ad occidente, piega a sud-est, e là mi fermai abbandonandomi a meditare, anzi no, mi abbandonai attendendo, sapendo che ogni sospiro era una preghiera, una rivelazione. Credendo in Dio, invisibile ma supremo, credevo anche che, qualora io mi fossi commosso, egli avrebbe avuto compassione di me e mi avrebbe risposto.» — «Ed egli rispose! ed egli rispose!» — esclamò l'Indiano alzando le mani dalla pezza di seta che teneva sulle ginocchia. — «Ascoltatemi, fratelli» — disse il Greco calmandosi con difficoltà — La porta del mio eremitaggio guardava verso il mare sopra il golfo di Thermaic. Un giorno vidi cader da un battello che navigava non molto lontano, un uomo. Egli nuotò verso la riva. Io lo raccolsi e ne presi cura. Era un Ebreo, sapiente nella storia e nella legge del suo popolo; da lui appresi come esistesse davvero il Dio delle mie preghiere e come avesse composto le sue leggi e fosse stato per secoli padrone e re degli Ebrei. Ciò non era forse la Rivelazione di cui avevo sognato? La mia fede mi aveva fruttato. Iddio mi aveva risposto.» — — «Com'Egli risponde a tutti quelli che lo implorano con tale fede!» — disse l'Indiano. — «Ma ahimè! esclamò l'Egiziano, vi son pochi saggi abbastanza per capire quando egli risponda!» — — «Questo non è tutto — continuò il Greco. — L'uomo che mi è stato inviato mi ha detto di più. Disse che i profeti, che nell'epoca che seguì la prima Rivelazione passeggiavano e parlavano con Dio, dichiararono ch'egli sarebbe ritornato. Mi diede i nomi dei profeti e dei libri sacri e mi citò le loro parole. Mi disse anche che la seconda venuta era vicina ed attesa da un momento all'altro in Gerusalemme.» — Il Greco si fermò e il suo viso si rabbuiò. — «È vero — disse dopo una breve pausa — è vero che l'uomo mi ha detto che come Dio e la Rivelazione di cui mi parlava erano stati solo per gli Ebrei così lo sarebbero ancora questa volta. — «E non avverrà nulla pel resto del mondo? — chiesi — «No — fu la risposta che mi diede con voce altera. — «No, noi siamo il suo popolo preferito.» — La risposta però non mi scoraggiò. Perchè dovrebbe un simile Dio limitare il suo amore e la sua beneficenza ad un regno solo e ad una sola razza? Mi ripromisi di venir a capo d'ogni verità. Penetrai il suo orgoglio e trovai che i suoi padri erano stati tutti servi eletti per mantenere la Verità in vita perchè il mondo imparasse a conoscerla e fosse salvato. Quando l'Ebreo se ne fu andato, e mi ritrovai solo ancora, innalzai al cielo una nuova preghiera! cioè che mi fosse permesso di vedere il Re al suo arrivo e di imparare ad idolatrarlo. Una notte mi sedetti sulla soglia della porta della mia camera cercando di avvicinarmi ai misteri della mia esistenza, conoscendo ciò che significa conoscere Dio; tutto ad un tratto, nel mare ch'era sotto di me, o piuttosto nell'oscurità che copriva la sua superficie, vidi una stella che cominciava a brillare; lentamente essa spuntò; si avvicinò e si fermò sopra la collina e sopra la mia porta, di guisa che la sua luce splendeva pienamente su di me. Io caddi a terra, mi addormentai e udii in sogno una voce che mi diceva: — «O Gaspare! La tua fede ha vinto! Che tu sia benedetto! con due altre persone venute dalle estreme parti del mondo, vedrai Colui che deve venire, sarai testimonio della sua venuta, e, in qualsiasi occasione potrai testimoniare in suo favore. Di buon mattino alzati e va ad incontrarlo, fidandoti dello Spirito che ti guiderà.» — Di buon mattino mi destai sentendo in me lo Spirito e provando una luce in me assai maggiore di quella del sole. Mi tolsi il vestito da eremita e mi abbigliai da vecchio, levando da un nascondiglio il denaro che mi ero portato dalla città. Una nave passò poco lontana; le feci cenno d'arrestarsi, fui accolto a bordo, e mi feci sbarcare ad Antiochia. Là acquistai un cammello colle relative bardature. Fra i giardini e gli orti che coprono le spiaggie dell'Oronte soggiornai a Emesa, a Damasco, a Boston, a Filadelfia; quindi venni a questa volta. E così, o fratelli, voi conoscete la mia storia per intero. Ora lasciate che io ascolti la vostra.» — CAPITOLO IV. L'Egiziano e l'Indiano si guardarono reciprocamente; il primo fece un cenno colla mano; il secondo salutò e principiò: — «Nostro fratello ha parlato bene. Possan le mie parole essere così saggie come le sue.» — Egli s'interruppe, riflettè un istante, poi ricominciò: — «Voi potete chiamarmi, fratello, col nome di Melchiorre. Io vi parlo in una lingua che, se non è la più vecchia del mondo, fu almeno la prima a scriversi — intendo dire il Sanscrito dell'India. Io son Indiano di nascita. Il mio popolo fu il primo ad avviarsi pel cammino della sapienza, il primo a distinguerla nei varî rami delle scienze, il primo a renderla bella. Checchè avvenga d'ora in poi i quattro Vedi devono essere conservati perchè son le prime fonti della religione e della cultura dello spirito. Da essi derivarono gli Upa-Vedi, che come furon dettati da Brahma, trattano di medicina dell'arte della guerra, dell'architettura, della musica e delle 64 arti meccaniche: i Vedi Angas dettati da saggi ispirati e dedicati all'astronomia, alla grammatica, alla prosodia, alla pronuncia, alle bellezze ed incanti, ai riti religiosi e alle cerimonie: gli Upa-Angas scritti dal sapiente Vyâsa e dedicati alla cosmogonia, alla cronologia, e alla geografia; inoltre il Ramayana e il Mahabhârata, poemi eroici, sono destinati alla perpetuazione dei nostri Dei e dei nostri semi Dei. Questi, o fratello, sono i sûtra, o grandi libri di riti sacri. Per me ora non servono più; tuttavia in eterno resteranno ad illustrare il genio incomparabile della mia razza. Essi erano promesse di rapida perfezione. Voi chiedete perchè le promesse caddero? Ahimè! I libri stessi chiusero tutte le porte del progresso e sotto pretesto di cura delle anime i loro autori divulgarono il principio fatale che un uomo non deve dedicarsi alle scoperte o alle invenzioni perchè Iddio lo ha provveduto di tutte le cose che gli abbisognano. Quando tale comandamento divenne legge sacra la lucerna Indiana si sprofondò in un pozzo, ove, d'allora in poi, rischiarò strette mura ed acque amare. Queste allusioni, fratello, non provengono dall'orgoglio come ben capirète quando vi avrò detto che i sûtra insegnarono che v'è un Dio supremo chiamato Brahma, e anche che i Purâna o poemi sacri degli Upa-Angas, ci parlano della virtù, delle opere buone, e dell'anima. Così se mio fratello mi concederà di parlare — e l'oratore s'inchinò rispettosamente davanti al Greco — dirò che secoli avanti che il suo popolo fosse conosciuto, le due idee Dio ed Anima assorbivano già tutte le forze dell'intelletto Indiano. Per spiegarmi meglio lasciatemi dire che Brahma è indicato dagli stessi libri sacri come una triade — Brahma — Vishnù — Shiva. Di questi Brahma si dice sia stato l'autore della nostra razza, creando la quale egli la divise in quattro rami. Prima egli popolò la terra, e i cieli; indi preparò la terra per gli spiriti terrestri; dalla di lui bocca furon poi create le caste Brahmine a lui più prossime per somiglianza, più sublimi e più nobili, uniche maestre esplicatrici dei Vedi, che, nel medesimo tempo egli dettava ordinatissimi e pieni di utili cognizioni. Dalle sue braccia uscirono i Kshatriya o guerrieri; dal suo petto, la sede della vita, vennero i Vaisya, o pastori, o coltivatori, o mercanti; dal suo piede, in segno di degradazione, scaturirono i sudra, o schiavi, destinati a servire le altre classi, lavoratori, artigiani e così via. Prendete nota per di più, che la legge, nata con loro, proibiva all'uomo di una data classe di divenire membro di un'altra; il Brahmino non poteva iniziarsi ad un ordine più basso; s'egli violava le leggi del suo grado diveniva un bandito, abbandonato da tutti meno chè dai banditi compagni a lui. A questo punto l'imaginazione del Greco, precorrendo sopra a tutte le conseguenze di tale degradazione, ebbe uno slancio superiore all'interesse fin qui dimostrato ed esclamò: — «In tale stato, o fratello, si trovano quanti abbisognano di un Dio misericordioso!» — — «Sì, aggiunse l'Egiziano, di un Dio misericordioso come il nostro.» — Le ciglia dell'Indiano si contrassero dolorosamente ma quando l'emozione fu passata egli procedette con voce raddolcita. — «Io nacqui Brahmino. La mia vita, per conseguenza, fu regolata da leggi fino al minimo atto, fino alla mia ultima ora. Il primo mio cibo, il mio battesimo, la prima volta che vidi il sole, l'iniziazione mia nel primo ordine, furono celebrati con testi sacri e con rigide cerimonie. Io non potevo camminare, mangiare e dormire senza la tema di violare una legge. E vi sarebbe stato, o fratello, un castigo per l'anima mia! A seconda dei gradi di peccato, la mia anima sarebbe andata nell'uno o nell'altro dei cieli; in quello d'Idra ch'è il più basso, o nel più alto che è quello di Brahma; oppure sarebbe stata respinta per risorger alla vita sotto il corpo di un verme, d'una mosca, di un pesce, oppure di un bruto. La ricompensa per la perfetta osservanza sarebbe stata la Beatitudine, o l'assorbimento nell'Essere di Brahma che non sarebbe stato tanto un'altra esistenza quanto piuttosto un assoluto riposo.» — L'Indiano si fermò un momento per pensare, poi, continuando, disse: «Il compito dello stadio della vita di un Brahmino chiamato del primo ordine è quello della vita di studioso. Quando fui pronto ad entrare nel second'ordine — cioè quando fu il momento di ammogliarmi, di divenire capo di famiglia io dubitavo di tutto persino di Brahma: ero un eretico. Dalla profondità del pozzo, cioè dall'oscurità in cui mi trovavo nella mia ignoranza, avevo scoperto una luce verso l'alto, verso l'orifizio di esso, e desideravo intensamente di salire a livello di quella fiamma luminosa. Finalmente — oh con quali anni di fatiche affannose! — potei trovarmi in pieno giorno e ammirai il principio della vita, l'elemento principale delle religioni, il vincolo migliore fra l'anima e Dio: l'amore!» La faccia del buon uomo, tutta grinze, s'imporporò all'improvviso ed egli congiunse le mani con forza. Ne seguì un silenzio durante il quale gli altri lo guardavano, e il Greco in ispecie, cogli occhi pieni di lagrime. Finalmente egli ripigliò: — La felicità dell'amore sta nell'azione; la prova è ciò che uno è disposto di fare per altri. Io non poteva trovar un minuto di riposo. Brahma aveva riempito il mondo di tante persone misere. I Sûdra chiedevano consigli a me e così facevano i devoti e le vittime. L'isola di Gang e Lagor era situata ove le acque sacre del Gange scompaiono nell'oceano Indiano. All'ombra del tempio costruitovi pel sapiente Kapila, in una riunione di preghiere coi discepoli che la memoria beatificata dell'uomo santo tiene intorno alla casa, tentai di trovar riposo. Ma due volte all'anno venivano pellegrinaggi Indiani. La loro miseria rinforzò il mio amore. Contro il suggerimento che mi spingeva a parlare tenni il silenzio poichè una parola contro Brahma o la triade dei Sûtra mi avrebbe perduto, e mi avrebbe condannato un atto di gentilezza coi banditi Brahmini che ogni tanto si trascinavano a morire sopra le sabbie ardenti, o una benedizione concessa, o una tazza d'acqua data; ed io sarei divenuto uno di coloro che son paria per la famiglia, per il paese, per la propria casta. L'amore vinse! Io parlai ai discepoli nel tempio; mi trascinarono fuori; parlai ai pellegrini; mi cacciarono a sassate dall'isola. Sulle strade maestre tentai di predicare: i miei uditori mi fuggivano o attentavano alla mia vita. In tutta l'India infine non v'era luogo ov'io potessi trovare asilo o salvezza. Nemmeno fra i banditi, perchè, nonostante fossero caduti in peccato credevano tuttora in Brahma. Nella mia miseria cercavo un po' di solitudine, nella quale nascondermi da tutti meno che da Dio. Seguii il corso del Gange fino alla sorgente all'Hymalaya. Quando entrai nel valico a Hurdwar, dove il fiume, nella sua immacolata purezza, slancia la sua corrente fra le bassure melmose, pregai per la mia razza, e mi credetti perduto a lei per sempre. Fra gole, fra rupi, attraverso ghiacciai, vicino a cime che sembravano attingere le stelle, continuai la mia via fino al Lang Tso, un lago di meravigliose bellezze, addormentato ai piedi del Tigri Gange, e del Kailas Parbot, giganti che sfoggiano la loro corona di neve biancheggiante in eterno di faccia al sole. Là, al centro della terra, dove l'Indo, il Gange ed il Brahmaputra, nascono per correre nei loro alvei rispettivi; dove l'umanità prese la sua dimora e si divise per popolare il mondo, lasciando Balk, la madre delle città, ad attestare il gran fatto; dove la Natura, ritornata alle sue primitive condizioni e sicura nelle sue immensità, invita il sapiente e l'esiliato con promessa di salvezza ad uno e di solitudine all'altro, là io mi recai per restar solo con Dio, pregando, digiunando, attendendo la morte.» — La sua voce si abbassò e le mani ossute si strinsero in una fervida stretta. — «Una notte camminavo presso la spiaggia del lago e parlavo al silenzio ascoltatore: — «Quando verrà Iddio a redimerci? Non vi sarà mai salvezza?» — allorchè, all'improvviso una luce cominciò ad ardere tremula fuori dell'acqua; una stella si sollevò e si mosse verso di me, soffermandosi sul mio capo. Lo splendore mi abbagliò. Mentre giacevo a terra udii una voce di dolcezza infinita: — «Il tuo amore ha vinto. Che tu sia benedetto, o figlio dell'India! La Redenzione è prossima. Con due altri dell'estreme parti della terra tu vedrai il Redentore e sarai testimone della sua venuta. Di buon mattino alzati, va ad incontrare queste due persone e poni tutta la tua fede nello Spirito che ti guiderà.» — E da allora la luce rimase meco: così sapevo ch'era la presenza visibile dello Spirito. Il mattino dopo cominciai a far ritorno nel mondo abitato, dalla via donde ero venuto. In una fenditura della montagna avevo trovato una pietra di notevole valore che vendetti a Hurdwar. Da Lahwe, per Cabul, e Yezd giunsi ad Ispahan. Là comperai il cammello e quindi fui condotto a Bagdad, non aspettando le carovane. Viaggiai solo senza paura perchè lo Spirito era ed è tuttora con me. Quale gloria è la nostra, o fratelli! Noi vedremo il Redentore, gli parleremo, lo adoreremo! Ho finito.» — CAPITOLO V. Il Greco proruppe in vivaci espressioni di gioia e congratulazioni; dopo le quali l'Egiziano prese a dire con gravità caratteristica: — «Vi saluto, mio fratello, voi avete molto sofferto ed io gioisco del vostro trionfo. Se entrambi desiderate ascoltarmi vi dirò chi sono e come fui indotto a venire. Attendetemi un momento.» — Uscì; diede un'occhiata ai cammelli e poi riprese il suo posto. — «Le vostre parole, fratello, le aveva dettate lo Spirito — disse per incominciare — e lo Spirito me le fa comprendere. Ciascuno di voi parlò particolarmente dei vostri paesi: in ciò v'era un gran motivo che adesso vi spiegherò: lasciatemi ora dirvi di me e del mio popolo. Io sono Balthasar, Egiziano.» — Le ultime parole furon dette adagio ma con tale dignità che ambedue gli uditori s'inchinarono all'oratore. — «Vi sono parecchie glorie che posso attribuire alla mia razza — continuò — ma io mi contenterò di una. La storia cominciò con noi. Noi fummo i primi a perpetrare gli eventi tenuti dagli annali. Così noi non abbiamo tradizioni, ed invece della poesia vi offriamo certezza. Sulle facciate dei palazzi e dei templi, sugli obelischi, sulle pareti delle tombe, noi scrivemmo i nomi dei nostri re e le loro gesta; e ai delicati papiri noi confidammo la sapienza dei nostri filosofi ed i segreti della nostra religione — tutti i segreti meno uno — del quale vi parlerò ora. Più antico dei Vedi, o Melchiorre; più antico delle canzoni d'Omero o delle metafisiche di Platone, o mio Gaspare, più vecchie dei libri Sacri o dei re dei Chinesi, o di quelli di Syddàrtha, più vecchio della Genesi di Mosè l'Ebreo; più vecchio di tutti insomma gli annali umani sono le scritture di Menes, il nostro primo Re.» — Riposando un istante egli fissò i suoi grandi occhi dolcemente sul Greco dicendo: — «Nella giovinezza dell'Ellade quali, o Gaspare, furono i Maestri dei suoi maestri?» — Il Greco s'inchinò sorridendo. — «Da questi annali» — continuò Balthasar — «noi sappiamo che quando i padri vennero dal lontano deserto, dalle fonti dei tre fiumi Sacri, — dal vecchio Iran del quale voi parlaste, o Melchiorre — recarono con sè la storia del mondo e del Diluvio quale fu tramandata dai figli di Noè agli Ariani, e insegnarono i concetti di Dio, del Creatore, dell'Anima, immortale come Dio. Quando il compito, che ora ci chiama, sarà felicemente terminato, se vorrete venire con me, vi mostrerò la biblioteca Sacra del nostro sacerdozio; fra tanti il Libro dei Morti, nel quale è il rituale che deve essere osservato dall'anima dopo che la Morte l'ha inviata al Giudizio eterno. Queste idee — Dio e l'anima Immortale — furon portate da Mizraim al di là del deserto, sino alle rive del Nilo, facili e semplici nella loro primitiva purezza, come è tutto ciò che proviene direttamente dalle mani di Dio. Tale era pure il primo rito — una canzone ed una preghiera, adatta per un'anima gioconda, piena di speranze ed innamorata del suo Creatore.» A questo punto il Greco alzò le mani esclamando: — «Oh la luce si fa dinanzi ai miei occhi!» — «Ed in me pure» — disse l'Indiano con egual fervore. L'Egiziano li guardò benignamente, poi proseguì dicendo: — «La religione è soltanto una legge che lega l'Uomo al suo Creatore: nella sua purezza non ha che questi elementi: Dio, l'anima e il loro mutuo riconoscimento, dai quali, allorchè sono messi in pratica, nascono l'Adorazione, l'Amore e la Ricompensa. Tale, fratelli miei, era la religione di nostro padre Mizraim nella sua primitiva semplicità. La maledizione delle maledizioni è che gli uomini non la lasciarono stare così.» — Egli si fermò come pensando in che modo dovesse continuare. — «Parecchie nazioni hanno amato le dolci acque del Nilo» — aggiunse — «l'Etiope, l'Ebrea, l'Africana, la Persiana, la Macedone, la Romana, delle quali nazioni, tutte, eccettuata l'Ebrea, ne furono, ora l'una ora l'altra, padrone. Tale succedersi di popoli corruppe l'antica fede Mizraimica. La Valle delle Palme divenne una Valle degli Dei. Di un Dio se ne fecero otto ognuno rappresentante un principio costitutivo della Natura, con Ammon Re alla testa. Poi vennero Isis e Osiris, poi furono divinizzate le qualità umane come la Forza, la Sapienza, l'Amore ed il Piacere». — «In tutto ciò spirava l'antica follìa!» — gridò il Greco, con moto istintivo. L'Egiziano s'inchinò e procedette: — «Ancora qualche parola, o fratelli: gli annali mostrano come Mizraim abbia trovato il Nilo in possesso degli Etiopi, un popolo di genio e di fantasia, totalmente dato all'adorazione della natura. Il poetico Persiano, sacrificò al Sole come l'imagine più perfetta di Ormuzd, suo Dio. I devoti figli del lontano Oriente, intagliarono nel legno e nell'avorio le loro divinità; ma l'Etiopia, senza scritture, senza libri, si abbassava al culto degli animali, degli uccelli, e degli insetti, tenendo il gatto sacro per il Re, il toro per Iris, lo scarabeo per lo Phtah. Così nacque la religione del nuovo impero. Allora s'innalzarono i magnifici monumenti che ingombrano la spiaggia del fiume ed il deserto: l'obelisco, il labirinto, la piramide e la tomba del re, confusa con la tomba del coccodrillo. In tale profondo avvilimento, o fratelli, erano caduti i figli di Ario!» Qui per la prima volta la calma abbandonò l'Egiziano; sebbene il suo aspetto fosse tranquillo la sua voce lo tradiva. — «Non disperate troppo, o miei amici — ricominciò — non tutti dimenticarono Dio. Poco fa dissi, forse vi ricorderete, che ai papiri confidammo tutti i segreti della nostra religione, meno uno: di quello parlerò adesso. Una volta avemmo per Re un certo Faraone che si prestava ad ogni genere di riforme e di innovazioni. Per stabilire il nuovo sistema cercò di far dimenticare intieramente quello vecchio. Gli Ebrei allora abitarono con noi come schiavi. Si ostinarono ad adorare il loro Dio, e quando la persecuzione divenne intollerabile, furono liberati in un modo che mai si potrà dimenticare. Mosè, anch'egli un Ebreo, venne al palazzo e domandò il permesso che gli schiavi, milioni di numero, lasciassero il paese. La domanda veniva a nome del Dio d'Israele. Faraone si rifiutò. Sentite ciò che ne seguì. Prima, tutta l'acqua, tanto quella dei laghi e dei fiumi come quella nei pozzi e nei recipienti si cambiò in sangue. Ancora il monarca si rifiutò. Allora nacquero delle rane che coprirono tutta la terra. L'altro si mantenne sempre ostinato. Allora Mosè gettò un pugno di cenere nell'aria e la peste prese gli Egiziani. Poi tutto il bestiame tranne quello degli Ebrei venne a morire. Le locuste divorarono quanto di verde era nella valle. A mezzodì il giorno si mutò in un'oscurità così profonda che le lampade non facevano luce. Finalmente durante la notte tutti i primogeniti degli Egiziani morirono; neppur quello di Faraone si salvò. Allora egli cedette. Ma quando gli Ebrei se ne andarono egli li inseguì col suo esercito. All'ultimo momento il mare si divise, cosicchè i fuggitivi poterono scampare. Quando i persecutori vollero imitarli le onde si precipitarono loro addosso e travolsero cavalli, cocchieri e Re. Voi avete parlato di rivelazioni, o mio Gaspare...» — Gli occhi celesti del Greco brillarono. — «Io appresi qual'era la storia degli Ebrei — gridò egli — voi la confermate, o Balthasar!» — — «Sì, ma per bocca mia parla l'Egitto, non Mosè. Io interpreto i marmi. I sacerdoti di quell'epoca scrivevano alla loro maniera ciò di cui eran testimoni. Così vengo al segreto non riferito dagli annali. Al nostro paese abbiamo sempre avuto, dai tempi di quello sfortunato Faraone due religioni, una privata, l'altra pubblica; una di Dei innumerevoli adottata dal popolo; l'altra di un Dio solo adorato dal clero. Rallegratevi con me, o fratelli! Tutti i flagelli inventati dai tiranni, furono vani. La verità gloriosa è vissuta; e proprio questo è il suo giorno!» — Il corpo deperito dell'Indiano si curvò in segno di gioia ed il Greco gridò forte: — «Mi sembra di sentire il deserto stesso cantare.» — Da un vicino ruscelletto d'acqua l'Egiziano bevve un sorso e procedette: — «Io nacqui ad Alessandria, principe e sacerdote, ed ebbi un'educazione adatta alla mia classe. Ben presto però mi disgustai. Parte della fede imposta, era che dopo la morte, oltre la distruzione del corpo, l'anima cominciasse la sua lenta ascensione sino alla più alta ed ultima esistenza; e questo indipendentemente dalla vita vissuta in terra. Quando udii del Regno della Luce del Persiano, del suo paradiso attraverso il ponte Chinevat, ove vanno solo i buoni, il pensiero mi tormentò, ed in tale modo che tanto di giorno come di notte fantasticai sulle idee della transmigrazione Eterna. Se, come m'insegnò il mio maestro, Dio era giusto, perchè non v'era alcuna distinzione tra i buoni e i cattivi? Finalmente venni alla conclusione che la morte fosse soltanto il punto di separazione fra i cattivi, che venivano abbandonati e puniti, e i fedeli che venivano innalzati ad una vita più nobile; non il ricovero di Budda nè il riposo negativo di Brahma, o Melchiorre; nè il soggiorno agli Elisi, ch'è tutto ciò che il Cielo permette secondo la fede olimpica, o Gaspare; ma vita — vita attiva, allegra, eterna. Vita assieme a Dio! — La scoperta mi trascinò ad un'altra inchiesta. Perchè deve la verità esser tenuta come un segreto a conforto egoista del clero? Il motivo per tale segreto non v'era più. La filosofia ci aveva almeno data la tolleranza. In Egitto avevamo Roma invece di Rameses. Un giorno nel Bruccheio, il quartiere più bello e più abitato di Alessandria, predicai. L'Oriente e l'Occidente mi diedero uditori. Studenti che frequentavano la Biblioteca, sacerdoti del Serapeo, oziosi del Museo, patroni dello stadio, paesani del Rhacotis, una folla, insomma, si fermò per sentirmi. Predicai su Dio, sull'anima, sul giusto e l'ingiusto e sul Cielo, ricompensa alle vite virtuose. Voi, o Melchiorre, foste preso a sassate: i miei uditori dapprima furono sorpresi, poi risero. Parlai di nuovo ed essi mi fecero bersaglio di epigrammi, coprirono il mio Dio di ridicolo ed offuscarono il mio paradiso collo scherno. Per non dilungarmi troppo, io cedetti dinanzi a loro.» — L'Indiano sospirò dicendo: — «L'uomo è nemico dell'uomo, o fratelli!» — Balthasar riprese: «Io pensai a lungo intorno alla ragione dell'insuccesso dell'impresa. Rimontando il fiume, ad una giornata di viaggio dalla città, si trova un villaggio di pastori e di orticultori; presi un battello e mi vi ci recai. Sul far della sera chiamai a raccolta la popolazione, uomini e donne, i poveri tra i poveri; tenni loro il medesimo discorso che avevo tenuto nel Bruccheio: essi non risero. Alla terza riunione, venne formata una società religiosa. Allora tornai in città. Andando alla riva del fiume, sotto le stelle che mi sembravano così brillanti e vicine, mi venne quest'idea: D'incominciare una riforma, di non andare nei palazzi dei grandi e dei ricchi, bensì nei tuguri dei poveri e degli umili. Mi proposi di sacrificare la mia vita. Come primo passo affittai le mie vaste proprietà affinchè il reddito fosse certo aiuto ai sofferenti. Da quel dì, o fratelli, peregrinai lungo il Nilo, nei villaggi, e presso tutte le tribù, predicando un Dio, una vita retta, e la ricompensa in Cielo. Feci del gran bene; non sta a me il dirlo. Io pure so che una parte del mondo è pronta per ricevere Colui che noi andiamo a cercare.» — Un rossore si diffuse sulle guancie abbronzate dell'oratore, ma passato che fu, egli riprese: — «Gli anni trascorsi così, o fratelli miei, furon tormentati da un solo pensiero. Qualora morissi che diverrebbe, della causa da me iniziata? Finirebbe con me? Avevo sognato tante volte di un'organizzazione come della meta conveniente a coronare il mio lavoro. Per non nascondervi nulla vi dirò che avevo provato a metterla ad effetto, ma fallii. Fratelli, il mondo è ora in tali condizioni che per ristorare la fede Mizraimica il riformatore deve avere di più dell'umana sanzione; non deve venire solamente in nome di Dio, egli deve avere le prove soggette alla sua parola; egli deve dimostrare tutto ciò che dice, perfino Iddio. Così preoccupata è la mente di miti e di sistemi, è tale l'affluire ovunque di false divinità in terra, nell'aria, nel cielo, che il ritorno alla prima religione non può compiersi che attraverso vie sanguinose, attraverso campi di persecuzione; cioè come dire che i convertiti devono essere disposti a morire piuttosto che disdirsi. E chi, in quest'epoca, può portare la fede degli uomini a tal punto se non Dio medesimo? Per redimere la razza, non intendo dire di distruggerla; per redimerla, Egli deve manifestarsi ancora una volta: Egli deve venire in persona.» — Un'emozione intensa s'impadronì di tutti e tre. — «Non andiamo noi forse a cercarlo?» — esclamò il Greco. — «Voi comprenderete perchè fallii nell'impresa d'organizzare — disse l'Egiziano allorchè l'emozione fu passata. — Io non avevo l'approvazione divina. Il sapere che il mio lavoro si sarebbe perduto mi rendeva estremamente infelice. Io credevo nella preghiera, e, per rendere le mie orazioni pure e forti, come voi, fratelli miei, mi ritirai dal mondo abitato e cercai conforto nella solitudine. Andai al di là della quinta cataratta, al di là dell'incontro dei fiumi in Sennar, al di là di Bahr el Abiad, nella parte più sconosciuta dell'Africa. In quei luoghi, una montagna celeste come il cielo, getta una fresc'ombra su tutta la parte occidentale del deserto, e, con le sue cascate di neve disciolta alimenta un vasto lago formatosi all'est della sua base. Il lago è la sorgente del gran fiume. Per più di un anno la montagna mi diede ricetto. I datteri mi nutrirono: le preghiere sollevarono il mio spirito. Una sera andai nell'orto vicino al lago e pregai così: — «Il mondo sta per morire. Quando verrai? Perchè non potrò io vedere la Redenzione, o mio Dio?» — L'acqua cristallina brillava al riflesso delle stelle. Una di esse parve abbandonare il suo posto e innalzarsi alla superficie dove diventò di uno splendore tale da abbagliare gli occhi. Poi si mosse verso di me e si fermò sopra il mio capo, apparentemente a portata di mano. Caddi a terra e mi coprii il viso. Una voce che non era terrena mi disse: — «Le tue fatiche hanno vinto. Che tu sia benedetto, o figlio di Mizraim! La Redenzione verrà. Con due altri, venuti dalle estreme parti del mondo, tu vedrai il Salvatore. Di buon mattino alzati e va ad incontrarli e quando sarete giunti tutti alla città santa di Gerusalemme, chiedete al popolo: «Dov'è colui ch'è nato Re degli Ebrei? Poichè noi abbiamo veduto la sua stella sorgere dall'Est e siamo inviati qui per adorarlo.» — Poni tutta la tua fiducia nello Spirito che ti guiderà.» — E la luce divenne per me una Rivelazione indubitabile e rimase mia unica inspiratrice ed unica guida. Essa mi condusse per la via del fiume a Memfi dove mi preparai ad attraversare il deserto. Comperai il mio cammello e venni qua senza riposarmi dalla via di Suez e Kufileh attraverso le pianure di Moab ed Ammon. Iddio è con noi, o fratelli.» — Egli fece una pausa; poi con prontezza insolita si alzarono tutti e si guardarono. — «Dissi che v'era un motivo che c'inspirava a dire in un certo modo dei nostri popoli e delle loro tradizioni — proseguì. — Colui che noi andiamo a cercare era chiamato Re degli Ebrei; con quel nome noi dobbiamo chiedere di lui. Ma ora che ci siamo incontrati, che ci siamo uditi, possiamo conoscerlo come Redentore, non solo degli Ebrei, ma di tutte le nazioni della terra. Il Patriarca, che sopravvisse al Diluvio, aveva seco tre figli, e le loro famiglie, dalle quali il mondo fu ripopolato. Nella vecchia Ariana Vaêjo, la conosciutissima regione di Siria nel cuor dell'Asia, essi si divisero. L'India e il lontano Oriente ricevettero i figli del primo figlio; i discendenti del minore, dal Nord, sbarcarono in Europa; quelli del secondo (attraverso i deserti vicino al mar Rosso), passarono in Africa: e, sebbene per la massima parte abitino ancora in tende nomadi, alcuni di essi divennero edificatori di case lungo il Nilo.» — I tre unirono le palme mossi da un medesimo impulso. — «Potrebbe esservi alcunchè di meglio ordinato? di più chiaramente divino?» — esclamarono ad una voce. Balthasar continuò: — «Quando avremo trovato il Signore, o fratelli, tutte le generazioni venture s'inginocchieranno a lui in segno di omaggio, imitandoci. E quando ci divideremo, per andar ognuno per la nostra via, il mondo avrà imparato una nuova dottrina — e cioè che il Paradiso può esser meritato non solo colla spada, non solo colla saggezza umana, ma bensì colla Fede, coll'Amore, colle Opere Buone.» — Vi fu un silenzio interrotto da sospiri e santificato con lagrime poichè la gioia che li riempiva tutti era ineffabile. Le loro mani si disgiunsero ed insieme si protesero fuor della tenda. Il deserto era calmo come il cielo. Il sole tramontava rapidamente. I cammelli dormivano. Poco dopo la tenda fu levata, e gli avanzi dei viveri rimessi nelle casse; gli amici montarono in sella e s'avviarono in fila diretti dall'Egiziano. Il loro cammino nella rigida notte era rivolto all'occidente. I cammelli camminavano a trotto sicuro mantenendo le distanze e la linea retta così esattamente che quelli che seguivano parevano camminare sulle orme del capo. I cavalieri non parlarono una sol volta durante il tragitto. A poco a poco spuntò la luna. E mentre le tre bianche ed alte figure avanzavano a passo silenzioso, sembravano, alla luce d'opale, spettri in fuga dinanzi ad ombre odiose. Tutto ad un tratto, nell'aria, avanti a loro, sulla cima di una bianca collina, scintillò una fiamma sottile; mentre la guardavano l'apparizione si mutò in un fuoco di un immenso splendore. I loro cuori batterono forte; le loro anime fremettero; essi gridarono ad una voce sola: — «La stella! La stella! Iddio è con noi!» — CAPITOLO VI. Ad oriente, nelle mura di Gerusalemme, si trovano le porte di Betlemme e di Joppa. Il recinto che le circonda è uno dei posti più importanti della città. Molto prima che Davide aspirasse a Sion, si trovava in quel posto una cittadella. Quando il figlio di Jesse scacciò Jebusite, e cominciò a fabbricare, la cittadella divenne l'estremità nord-ovest della nuova mura, difese da una torre più imponente di quella antica. Tanto il campo come la porta, non di meno, non furon toccati, per la ragione che le strade le quali s'incontravano e si dividevano davanti ad essi non potevan essere trasportate a nessun altro punto, mentre il recinto che le circondava era diventato un vero centro di mercato. Ai tempi di Salomone v'era in quella località gran traffico dovuto in parte ai commercianti Egiziani e ai ricchi negozianti di Tiro e di Sidone. Sono passati quasi tremila anni; eppure ancor oggi v'esistono traccie di commercio. Un pellegrino in cerca di merce non ha che a rivolgersi alla porta di Joppa. Qualche volta la scena riesce assai animata e fa pensare che cosa dev'esser stato questo sito ai giorni di Erode il Costruttore. Il lettore deve trasportarsi col pensiero a quei tempi, e a quel mercato. Secondo il Calendario degli Ebrei l'incontro degli uomini saggi, descritto nei capitoli precedenti, ebbe luogo nel pomeriggio del 25º giorno del terzo mese dell'anno, cioè il 25 di dicembre; l'anno era il secondo della 193.ma Olimpiade o il 747 di Roma, il 67º di Erode il Grande, ed il 35º anno del suo regno; il quarto prima dell'Era Cristiana. L'ora del giorno, secondo il costume giudaico cominciava col sole, la prima ora essendo la prima dopo il levar del sole; così, per esser precisi, il mercato di Joppa, durante la prima ora del giorno, era molto animato. Le porte massiccie eran state aperte fino dall'alba. Il commercio sempre crescente aveva invaso anche un vicolo stretto ed una corte sotto le mura della grande torre. Siccome Gerusalemme è situata sulla parte montuosa del paese, l'aria del mattino era piuttosto fredda. I raggi del sole, che promettevano di riscaldare l'aria, si fermavano provocanti sui merli delle torri, dalle quali s'udiva il tubare dei piccioni e lo stormire delle loro ali. Per far conoscenza col popolo della città santa, e per comprendere le pagine seguenti, sarà necessario di fermarsi alla porta e di passare in rivista la scena. Migliore opportunità di questa non può esser offerta per conoscere il popolino. La scena appare, a tutta prima, una gran confusione, di rumori, di colori e di cose. Questo avviene specialmente nel vicolo e nella corte. Il terreno è selciato da larghe ed irregolari piastre che ripercuotono il calpestìo ed il vocìo. Unendoci alla folla e prendendo un po' di famigliarità cogli affari del mercato, ci sarà possibile di fare l'analisi di questo popolo. In un angolo, un asino, sonnecchiava sotto il peso dei panieri ricolmi di lenticchie, di fagiuoli, di cipolle e di citrioli, provenienti freschi dalle terrazze e dai giardini di Galilea. Quando non era occupato a servire ai clienti, il padrone gridava, vantando ai passanti la sua merce. Nulla di più semplice del suo costume: portava dei sandali; aveva una greggia coperta incrociata su di una spalla e fermata alla vita da una cintura di cuoio. Là vicino, assai più imponente e grottesco, sebbene non così paziente come l'asino, stava inginocchiato un cammello, ossuto, grigio, con dei lunghi, irti peli rossicci sotto alla gola, il collo ed il corpo; e carico di ceste e di scatole curiosamente accomodate su di un'enorme sella. Il proprietario era un Egiziano piccolo e snello. La sua carnagione aveva preso il colore delle strade polverose e delle sabbie del deserto. Portava uno smunto _tarbooshe_, una blusa sciolta, senza maniche, senza cintura, e cadente, larga, dal collo alle ginocchia. I suoi piedi erano nudi. Il cammello, irrequieto pel carico, si lagnava, di quando in quando, mostrando i denti, e l'uomo passeggiava, indifferentemente, in su ed in giù, tenendo le briglie e vantando i suoi frutti freschi provenienti dagli orti di Kedron: uva, datteri, fichi, mele e melagrane. Ad un lato, ove la strada sboccava nella corte, eran sedute delle donne colle spalle rivolte al muro. Il loro abito era quello comune alla classe più modesta del paese; una veste di tela che s'estendeva per tutta la lunghezza della persona, leggermente attillata alla vita, ed un velo abbastanza ricco perchè, dopo aver coperto la testa, potesse avvolgere le spalle. La loro merce era contenuta in una quantità di vasi di terra come quelli tuttora adoperati in Oriente per trasportare l'acqua dei pozzi, ed in bottiglie di pelle. In mezzo ai vasi e alle bottiglie, rotolando sul terreno sabbioso, noncurante della folla e del freddo, giuocava, spesso in pericolo, ma incolume, una mezza dozzina di bambini, seminudi, coi corpi abbronzati, e che cogli occhi neri lucenti come perle nere, e i folti capelli neri attestavano il sangue d'Israele. Qualche volta le madri mostravano i visi liberi dai loro veli e con ostentazione gridavano la propria merce: nelle bottiglie vino, nei vasi bevande spiritose. Le loro preghiere si perdevano di solito tra il frastuono generale esse ricavavano un ben meschino guadagno a cagione dei molti concorrenti: uomini tarchiati, dalle gambe nude, dalle tuniche sudicie, dalla barba lunga, erranti di qua e di là colle bottiglie legate dietro le spalle, gridando: «vino dolce! uva di Engaddi!» I venditori di uccelli non fanno meno chiasso — colombe, anitre, spesso usignuoli, ma più di frequente piccioni, sono venduti ai compratori che, ricevendoli, non pensano alla vita pericolosa di coloro che li prendono, arrampicandosi sulle più alte rupi, sospesi ora all'orlo dei precipizi colle mani e coi piedi, e ora dondolanti in una cesta fra i crepacci delle montagne. Confusi con essi, dei merciaiuoli ambulanti di gioielli, uomini furbi, vestiti di scarlatto e di bleu, con dei turbanti bianchi, e coscienti dell'abbaglio che produce un nastro colla lucentezza dell'oro, o un braccialetto, o una collana, o un anello per le dita o pel naso; girovaghi venditori d'utensili domestici, venditori di vesti, venditori al minuto d'unguenti per ungere i corpi delle persone, venditori insomma di qualsiasi articolo sì di lusso che d'uso, i quali tirando, qua e là con forza delle corde, ora con grida, ora con lusinghe, s'affaticavano; venditori d'animali, asini, cavalli, vitelli, pecore, capre belanti, e goffi cammelli; animali di tutte le specie eccettuato il maiale, che era proibito dalle leggi ebraiche. Tutte queste scene potevano vedersi, a ogni piè sospinto per l'antico mercato. CAPITOLO VII. Fermiamoci alla porta, appena fuori di essa, dove la gente affluiva e donde partiva; guardiamo ed ascoltiamo aprendo bene occhi ed orecchie. Giungiamo proprio in tempo opportuno! Ecco due uomini ragguardevoli che si avanzano in modo da esserci bene in vista. — «Dio, come fa freddo!» — diceva uno di essi ch'era ricoperto d'una gagliarda armatura e portava sul capo un elmo di rame e sul petto una corazza lucente. — «Come fa freddo! ti ricordi, mio caro, quel sotterraneo nel Comitium, che la storia dice servire d'entrata al mondo intero? Per Plutone! Io potrei fermarmi lì questa mane, finchè mi sono scaldato!» — L'individuo interrogato lasciò cadere il cappuccio del suo mantello militare, e, scoprendo il viso, rispose con un sorriso ironico: — «Gli elmi delle legioni che vinsero Marco Antonio eran ricoperti di neve Gallica; ma tu — mio povero amico — sei appena giunto dall'Egitto ed hai ancor vivo il ricordo dell'estate.» — Dette queste parole sparvero entrando in città. Quando anche non avessero parlato, dall'armatura e dal passo pesante, si sarebbero giudicati soldati romani. Dietro ad essi veniva un Ebreo, magro di statura, dalle spalle ricurve, vestito d'una tonaca rossa; gli occhi e il viso erano ombreggiati dalla lunga capigliatura scomposta. Egli era solo. Quelli che l'incontravano ridevano, se non facevano di peggio, perchè egli era un Nazzareno appartenente alla setta spregevole che rifiutava i Libri di Mosè e si dedicava ai riti e non si tagliava i capelli mentre duravano i voti. Mentre questa abbominevole figura si allontanava, avveniva un improvviso tumulto nella folla che si divideva prontamente a destra e a sinistra con pungenti esclamazioni. Cagione di ciò era un individuo che lineamenti e costume rivelavano Ebreo. Il suo mantello di tela bianca, era allacciato al collo con dei cordoni di seta gialla svolazzanti liberamente sulle spalle; il suo abito riccamente ricamato, una fusciacca rossa con frangie d'oro gli girava parecchie volte intorno alla vita; la sua fisonomia era calma, egli sorrideva anche a coloro che in modo rozzamente frettoloso, gli facevano largo. Un lebbroso? No; egli era solo un Samaritano. La folla che si allontanava, se interrogata, avrebbe risposto che egli era un mulatto, un assiro; il solo contatto del suo abito era così ripugnante che un Israelita, nemmeno se in agonia, avrebbe a prezzo di tale contatto accettata la vita. Quando Davide pose sul monte Sion il suo trono col solo aiuto di Giuda, le dieci tribù si stabilirono a Sheckem, una città molto più vecchia e a quel tempo infinitamente più ricca di sacre memorie. L'unione finale delle tribù non acquetò la disputa cominciata. I Samaritani difendevano i loro tabernacoli per Gerizim e mentre sostenevano superiore la loro santità, ridevano degli irati dottori di Gerusalemme. Il tempo non mitigò il loro odio. Sotto Erode la conversione alla fede era aperta a tutto il mondo eccetto che ai Samaritani. A loro soli era proibita assolutamente, e per sempre, la comunanza cogli Ebrei. Mentre il Samaritano si incamminava sotto l'arco della porta di là uscirono tre uomini così diversi da tutti quelli da noi finora veduti. Essi erano di una statura straordinaria, e di una straordinaria complessione; i loro occhi erano azzurri e la loro carnagione tanto delicata che il loro sangue traspariva attraverso la pelle come azzurre pennellate; i loro capelli pure chiari e corti, le teste piccole e rotonde, riposavano ferme sui colli come tronchi d'albero, tuniche di lana aperte sul petto, senza maniche, fermate con una larga cintura, avvolgevano il loro corpo lasciando scoperte le braccia e le gambe talmente forti che si sarebbero dette di gladiatori; e quando vi aggiungessimo i loro modi trascurati, confidenziali ed insolenti, non ci meraviglieremo che il popolo lasciasse loro il passo, si fermasse e si voltasse addietro dopo che erano passati per dar loro un'ultima occhiata. Erano giuocatori nell'arena, lottatori, corridori, pugillatori, schermidori, professionisti sconosciuti nella Giudea prima della venuta dei Romani, i quali, eccettuato il tempo che dedicavano all'addestrarsi e al gironzolare pei giardini reali, si facevano vedere seduti in compagnia delle guardie alla porta del palazzo, o forse erano ospiti provenienti dalla Cesarea, Sebaste o Gerico, dove Erode, più Greco che Ebreo, e con tutto l'amore di un Romano amante di giuochi e di spettacoli sanguinosi, aveva fabbricato vasti teatri e vi teneva ora delle scuole di scherma come quelle d'uso nelle provincie galliche, o nelle tribù slave del Danubio. — «Per Bacco! — esclamò uno di essi, portando il pugno all'altezza della spalla — i cranî degli avversarî non hanno lo spessore di un guscio d'ovo!» — Lo sguardo brutale che accompagna quel gesto ci disgusta e noi siamo lieti di rivolgerci a qualche cosa di più piacevole. Di rimpetto a noi sta un banco di frutta. Il proprietario è calvo, ha il viso lungo e un naso fatto a guisa del becco di un falco. È seduto sopra un tappeto disteso sulla sabbia e volge le spalle al muro; sopra la sua testa pende una misera tenda; intorno a lui, alla mano, disposti sopra piccoli sgabelli, stanno scatole piene di mandorle, uva, fichi e melegrane. Gli si avvicina un uomo che non possiamo a meno di guardare, ma per ben altra ragione di quella che ci fece alzare gli occhi sui gladiatori: egli è veramente bello, un bellissimo Greco. Una corona di mirto alla quale sono ancora attaccati pallidi fiori e bacche mature, gli tiene fermi i capelli e circonda le sue tempia. La sua tunica scarlatta è fatta di una morbida stoffa di lana; sotto alla cintura di cuoio di bufalo, allacciata davanti da una fibbia d'oro lucente, gli cade la sottana fino alle ginocchia con profonde pieghe e guarnizioni dello stesso metallo; una sciarpa, pure di lana, mista di bianco e di giallo, gli circonda il collo. Le braccia e le gambe sono scoperte, sono bianche come l'avorio, d'un candore che rivela l'uso continuo di bagni, d'olio, di spazzole e di forbici. Il venditore, fermo al suo posto, si piega in avanti, e alzando le mani, colle palme all'ingiù e le dita distese. — «Che hai questa mattina, o figlio di Pafo?» — gli domandò il giovane Greco guardando più alle scatole che al Cipriotto. — «Io ho fame; che hai da colazione?» — — «Frutta genuine del Pedio, come ne fanno uso solo i cantanti di Antiochia ogni mattina per rinforzare la loro voce» — rispose il venditore in tono lento e nasale. — «Non me ne importa un fico dei cantanti di Antiochia» — esclamò il Greco. — «Tu sei, come sono io, un adoratore di Afrodite, quindi ti assicuro che le loro voci sono fredde come il vento del Caspian. Vedi tu questa cintura? è un regalo della grande Salomè.» — — «La sorella del Re!» — esclamò il Cipriotto con un altro inchino. — «È di un gusto regale e ammirevole. E perchè no? Essa è più greca del Re. Ma... la mia colazione? Ecco il tuo danaro. Rame rosso di Cipro. Dammi dell'uva e...» — — «Non vuoi anche dei datteri?» — — «Non sono arabo.» — — «Neppure dei fichi?» — — «Questo sarebbe come prendermi per un Ebreo. No, solo dell'uva desidero. Per i Greci nulla vi è di migliore del vino.» — Questo cantore azzimato, in mezzo alla confusione del mercato è una figura che difficilmente si dimentica, ma, come per sfidarci al paragone, un'altra persona lo segue destando tutta la nostra meraviglia. Egli s'avanza piano piano, colla testa bassa; si ferma ad intervalli, rivolgendo gli occhi al cielo, come per pregare. Un simile tipo non può trovarsi che in Gerusalemme. Appesa ad un nastro che gli tiene fermo il mantello sporge sulla fronte una busta di pelle, di forma quadrata; un'altra uguale è legata da una fettuccia al braccio sinistro, gli orli del suo abito sono ornati di una frangia alta: e da questi indizi, dal suo costume e dall'odore di santità intensa che si diffonde intorno a lui, lo riconosciamo per un Fariseo di una società religiosa, una setta politica, il cui bigottismo e il cui potere porteranno in breve tempo molti dispiaceri al mondo. La folla è assai densa al di là delle porte sulla strada di Joppa. Lasciando il Fariseo siamo attratti da alcuni gruppi di persone, le quali, ad agevolare il nostro studio, se ne stanno opportunamente in disparte. Vediamo, primo fra essi, un uomo di nobile aspetto, dalla carnagione chiara e fine, dagli occhi neri e lucenti, dalla barba lunga ed abbondante, ricco d'unguenti, vestito riccamente in modo adatto alla stagione. Teneva in mano un bastone e portava sospeso al collo, per mezzo di un cordone un grande sigillo d'oro. Era scortato da parecchi servi; alcuni di essi portavano delle piccole spade alle cinture, e, quando gli rivolgevano la parola, lo facevano col massimo rispetto. Il resto della carovana consisteva in due Arabi genuini, magri come un filo, col viso abbronzato, colle guancie infossate, e cogli occhi d'una lucidezza quasi malvagia; sopra alla loro testa portavano dei rossi _tarbooshes_; sopra i loro _abas_, avviluppanti la spalla sinistra ed il braccio destro, delle coperte di lana. C'era un gran contrattare perchè gli Arabi stavano vendendo i cavalli offrendoli con tutto il loro ardore e con voci squillanti. Il personaggio elegante lasciava parlare i suoi servi, di quando in quando rispondeva con gran dignità; ad un tratto, scorgendo il Cipriotto, si fermò e comprò dei fichi. Se dopo che l'intera compagnia ha passata la porta vicino al Fariseo noi ci portiamo dal venditore di frutta, egli ci racconterà con grandi reverenze come lo straniero fosse un Ebreo, uno dei principi della città che ha viaggiato ed imparato a distinguere la differenza che passa tra l'uva comune di Siria e quella di Cipro. E così, fin verso mezzodì, e qualche volta più tardi, vi è costante corrente d'affari alla porta di Joppa, affari d'ogni sorta, che fanno intervenire al mercato rappresentanti di ogni tribù di Israele, di tutte quelle sette fra cui l'antica fede è stata suddivisa e frazionata, di tutte le religioni e le divisioni sociali, di tutta la plebe avventurosa, che, gaudente e tumultuante, gozzoviglia alle spalle d'Erode e dei Cesari suoi successori. In altre parole, Gerusalemme, ricca nella storia sacra, più ricca nelle sacre profezie, — la Gerusalemme di Salomone, nella quale l'argento era abbondante come le pietre, e i cedri numerosi come i siccomori della valle — non era che una copia di Roma, un centro di pratiche profane, una sede di potere pagano. Un re Ebreo indossò un giorno vestiti sacerdotali ed andò nel Tempio a offrire incenso. Ne venne fuori un lebbroso; ma, nell'epoca della quale parliamo, Pompeo entrò nel tempio di Erode ed anche nell'ehal, e sortì senza timore, non trovando che una stanza vuota, e di Dio non una vestigia. CAPITOLO VIII. Torniamo alla corte descritta come parte del mercato della porta di Joppa. Erano le tre di giorno e parecchia gente era andata via; nondimeno la folla continuava ad accorrere senz'alcun'apparente diminuzione. Dei nuovi venuti, v'era un gruppo laggiù vicino alla parete, composto di un uomo, una donna e un asino, gruppo che meritava di essere notato. L'uomo era vicino alla testa dell'animale e teneva in mano una redine di cuoio appoggiandosi sopra un bastone che sembrava fosse stato scelto per il doppio uso di pungolo e di sostegno; il suo abito era come quello degli Ebrei che gli erano attorno, eccetto che aveva l'apparenza d'essere nuovo. Il mantello lo ravvolgeva fino alla testa, e la veste, che copriva la sua persona dal collo alle calcagna, era, probabilmente, quella ch'ei soleva indossare alla Sinagoga nei giorni festivi. Il viso però era scoperto e dimostrava una cinquantina d'anni, ciò che confermava il grigio screziante la sua barba nera. Guardava intorno a sè, per metà curioso e per metà smarrito, come un forestiere od un provinciale. L'asino mangiava tranquillamente una bracciata d'erba della quale vi era abbondanza al mercato. Il suo naturale restìo non ammetteva che lo si disturbasse e non si rammentava già più della donna seduta sul suo dorso e accoccolata sulla sella imbottita. Una veste di stoffa di lana scura copriva completamente la persona di lei, mentre un bianco velo le adornava il capo ed il collo. Ogni tanto, spinta dalla curiosità di vedere e di sentire qualche cosa, ella si tirava da parte il velo, ma così poco che il volto non restava del tutto visibile. Finalmente vi fu chi si accostò all'uomo e gli chiese: — «Non siete voi Giuseppe da Nazareth?» — Chi lo interrogava gli stava proprio vicino. — «Così mi chiamo — rispose Giuseppe voltandosi con gravità. — E voi? Ah! pace sia con voi, amico mio, Rabbi Samuele!» — — «Lo stesso v'auguro anch'io». — Il Rabbi si fermò guardando la donna, poi aggiunse: — «Pace a voi, alla vostra casa, e ai vostri servi». — Ciò detto egli si mise una mano sul petto, e abbassò il capo in segno di saluto verso la donna, che, vedendolo, aveva già sollevato il velo abbastanza per lasciar scorgere un viso d'adolescente. Giuseppe e il Rabbi si porsero le destre come per avvicinarle vicendevolmente alle labbra; però, all'ultimo momento, le mani si lasciarono e ognuno baciò la propria, portando poi le palme alla fronte. — «V'è così poca polvere sopra i vostri abiti — disse il Rabbi, famigliarmente, che arguisco voi abbiate passata la notte in questa città dei nostri padri. — «No, — rispose Giuseppe, — poichè non potendo arrivare che a Betania prima che sopraggiungesse la notte rimanemmo laggiù nel Khan e ripigliammo il cammino allo spuntar del giorno». — — «Il viaggio che dovrete fare sarà lungo allora; non sarà terminato a Joppa spero». — — «No, terminerà a Betlemme». — Il contegno del Rabbi, prima aperto ed amichevole, divenne chiuso e minaccioso, ed egli emise una specie di grugnito anzichè tossire come di consueto. — Sì, sì, capisco — diss'egli. Voi siete nato a Betlemme e vi ci recate con vostra figlia per esser computati fra i pagatori di tasse come ordinò Cesare. I figli di Giacobbe sono come erano le tribù in Egitto: solo essi non hanno nè un Mosè nè un Giosuè. Come son decaduti i possenti!» — Giuseppe rispose senza scomporsi: — «La donna non è mia figlia». — Ma il Rabbi s'era infatuato in politica e proseguì senza notare la spiegazione: — «Cosa stanno facendo i fanatici laggiù nella Galilea?» — — «Io sono un falegname, e Nazareth è un villaggio — disse Giuseppe prudentemente. — La strada sulla quale si trova il mio banco di operaio non è una via che conduce ad alcuna città. Spaccando e segando assi non trovo tempo per prender parte alle discussioni dei partiti». — «Ma voi siete un Ebreo» — disse con serietà il Rabbi — e siete un'Ebreo discendente di Davide. Possibile che voi possiate trovar piacere nel pagar qualsiasi tassa all'infuori del siclo dato per antico costume a Jeova?» — Giuseppe si mantenne calmo. — «Io non mi lamento» — continuò l'altro — dell'aumento della tassa. Un denario è una bagatella. È l'imposizione che io ritengo un'offesa. Che cos'è il pagarla se non una sottoscrizione alla tirannia? Ditemi: è vero che Giuda pretende esser il Messia? Voi vivete fra i suoi seguaci.» — — «Io intesi dire dai suoi seguaci ch'egli era il Messia.» — Il velo della donna si alzò con rapidità e per un secondo tutto il suo volto fu visibile. Gli occhi del Rabbi si volsero verso di lei e fecero in tempo a vedere un sembiante di rara bellezza, reso più attraente da uno sguardo di intenso interesse; ma un lieve rossore si sparse per le sue gote e sulla sua fronte ed il velo tornò a coprirla agli occhi dei curiosi. Colui che discorreva di politica dimenticò il suo tema favorito. — «Vostra figlia è avvenente» — disse parlando quasi fra sè. — «Non è mia figlia» — replicò Giuseppe. La curiosità del Rabbi era aumentata; accortosene il Nazareno si affrettò a soggiungere. — «Essa è figlia di Ioachim e d'Anna di Betlemme dei quali avrete almeno udito parlare, poichè erano gente di gran fama.» — «Sì, — rimarcò il Rabbi rispettoso — ne ho udito parlare. Erano discendenti in linea retta da Davide e li conobbi, assai bene.» — — «Ebbene ora sono morti» — procedette il Nazareno. «Morirono a Nazareth. Ioachim non era ricco, pure lasciò una casa e un giardino da dividersi tra le sue figlie, Marianna e Maria. Queste è una delle due figlie, e per salvare la sua parte di proprietà, la legge l'obbligò a sposare un prossimo parente. Adesso essa è mia moglie.» — — «E voi eravate suo parente?» — — «Ero suo zio.» — — «Comprendo. E siccome siete nati a Betlemme così Cesare vi obbliga a condurre colà vostra moglie per computarla tra le persone tassabili.» — Il Rabbi giunse le mani e guardò sdegnosamente il cielo esclamando: — «Il Dio d'Israele vive ancora! La vendetta è sua!» — Detto ciò si voltò e bruscamente partì. Un forestiero lì vicino, osservando lo sbigottimento di Giuseppe, disse tranquillamente: — «Il Rabbi Samuele è un fanatico. Giuda stesso non è più feroce.» — Giuseppe non volendo parlare con quell'uomo, finse di non sentire e si affacendò a raccogliere il fascio d'erba che l'asino aveva sparpagliato; poi s'appoggiò al suo bastone, aspettando. Dopo un'oretta la comitiva oltrepassò il cancello, e, voltandosi a sinistra, prese la via che conduce a Betlemme. La discesa della valle di Hinnom era abbastanza scoscesa, ed era adorna qua e là, di olivi selvatici. Con molta sollecitudine e tenerezza il Nazareno camminava a fianco della donna tenendo nelle mani la cinghia di cuoio del somarello. Alla loro sinistra, a sud est, attorno al Monte Sion, sorgevano le mura della città, e alla loro destra si vedevano delle ripide colline che formavano i confini della valle. Lentamente passarono il basso stagno del Gihon nel quale il sole rifletteva l'ombre rimpicciolite dei colli, e procedettero adagio adagio tenendosi paralleli all'acqua dallo stagno di Salomone sino al luogo ove era un casino rustico, luogo detto oggi Colle del Cattivo Consiglio. Giunti colà principiarono a discendere verso il piano di Refraim. Il sole riverbava i suoi raggi fortissimi sulla facciata della famosa località e al bacio dei suoi raggi Maria lasciò cader addietro il velo e scoprì il capo. Giuseppe le raccontò la storia dei Filistei qui sorpresi nel campo da Davide. Ma nel suo racconto era minuzioso e parlava dandosi un'aria solenne e modi che parevano quelli di uno sciocco. Ella non lo ascoltava sempre. Tanto per mare che per terra gli Ebrei, ove s'incontrino, sono riconoscibili. Il tipo fisico della razza è stato sempre il medesimo; però, fra individuo e individuo, vi sono delle dissomiglianze. Il figlio di Jesse ci fu descritto rubicondo e bellissimo di aspetto. Gli uomini, d'allora in poi, si regolarono su quel tipo per giudicare gli Ebrei e dalla fisonomia dell'antenato, pretesero di conoscere quella dei discendenti. Così tutti i nostri Salomoni hanno bei visi e capelli e barba castagna, quando sono all'ombra, e color d'oro quando sono al sole. Così ci fanno credere che fossero le ciocche di Assalonne, il prediletto di Davide. E, non essendovi una storia autentica, la tradizione ci ha detto non meno bene di lei della quale discorriamo ora e che seguiremo nella città del biondo re che fu così bello. Ella non aveva più di quindici anni. Le sue fattezze, la sua voce e i suoi modi eran quelli tra la fanciullezza e l'età dello sviluppo. Il suo viso era di un'ovale perfetto; la sua carnagione più chiara che bella; il naso regolare; le labbra, leggermente dischiuse, erano rosse come fragole mature, dando alla bocca ardore e tenerezza; gli occhi erano celesti e grandi, dalle lunghe palpebre, e dalle lunghe ciglia, ed in armonia con tutto ciò un volume immenso di capelli d'oro, tenuti nel modo concesso alle giovani spose Ebree, spioventi cioè per la vita sino a toccar la sella sulla quale essa sedeva. La gola ed il collo erano morbide, lanuginose, come talvolta si può osservare in alcune donne, e che mettono in un'artista il dubbio se si tratti di un effetto di linee o di colori. Aveva anche altre indefinibili bellezze, ad esempio un'aria di purezza che solo un'anima angelica può dimostrare, e un certo che di etereo che sembrava non poter essere toccato da mani mortali. Spesso, aveva le labbra tremule, e sollevava i begli occhi al cielo, divenuto anch'esso più chiaro; o incrociava, le mani sul petto come in atto di adorazione o di preghiera o alzava il capo come chi ascolta attento una voce che chiami dall'alto. Ogni tanto, interrompendo le sue noiose narrazioni, Giuseppe si voltava a guardarla, e, ammirando l'espressione del suo viso irraggiato di luce, dimenticava i suoi ragionamenti, e, chinando il capo, fantasticando, continuava a camminare. Così essi terminarono di percorrere la gran pianura e infine raggiunsero il colle Mar Elias, dal quale, attraverso la valle, ammirarono Betlemme. Là si fermarono e riposarono, mentre Giuseppe indicava a Maria i luoghi sacri. Poi scesero nella valle e andarono ad un pozzo che recava istoriato uno dei meravigliosi fatti d'armi di Davide. Lo spazio angusto era pieno di gente e di animali. Giuseppe ebbe il dubbio, se la città fosse così affollata, che la gentile sua compagna, avesse potuto trovarvi ricovero. Senza por tempo in mezzo egli corse avanti, passò la colonna marmorea che indicava la tomba di Rachele, e, pel versante fiorito, non salutando alcuna delle persone che incontrò per via, continuò a correre finchè si fermò davanti alla porta del Khan che allora era fuori dalle mura del villaggio vicino a un crocicchio di strade. CAPITOLO IX. Per capire a fondo ciò che accade al Nazareno il lettore deve ricordarsi che le taverne dell'Oriente eran ben diverse da quelle dell'occidente. Esse erano dai Persiani chiamate Khan e fatte nel modo più semplice; erano recinti chiusi, senza casa o tetto, spesso privi di un cancello o d'una porta. Le loro abitazioni erano scelte a seconda dell'ombra, della sicurezza, o della possibilità di attinger acqua. Tali erano le taverne che ripararono Giacobbe allorchè andò in Paden Aran per cercarvi moglie. Simili a quella possono oggi vedersene delle altre nelle oasi del deserto. Però alcune di esse, in ispecie quelle sulla strada che divideva due grandi città, come Gerusalemme ed Alessandria, erano edifici principeschi che constatavan la pietà dei Re che li avevano fabbricati. Solitamente però non erano che la casa od il podere di uno sceicco nei quali, come in quartieri generali, egli conduceva la sua tribù. L'ospitare i viaggiatori era l'ultimo dei loro usi; erano mercati, fattorie, e fortezze; luoghi d'assemblea, ed abitazioni per i mercanti ed artigiani, come luoghi di ricovero per i viandanti vagabondi e sorpresi dalla notte. La conduzione di questi alberghi colpiva singolarmente i forestieri. Non v'era nè oste nè ostessa, nè cameriere, nè cuoco, nè cucina; nè guardiano alla porta. Gli ospiti che arrivavano, vi dimoravano quanto volevano. Ma bisognava che si portassero con sè i cibi e gli utensili da cucina oppure che li comperassero dai venditori del Khan. La stessa regola valeva pel letto e per il foraggio per le bestie. Acqua, ricovero, riposo e protezione eran tutto ciò che si poteva richiedere dal proprietario, ed era gratuito. La pace della Sinagoga era talvolta disturbata da disputanti schiamazzatori, ma quella dei Khan mai. Le case e tutte le loro attinenze erano sacre: un pozzo non lo era di più. Il Khan, a Betlemme, davanti al quale Giuseppe e sua moglie si fermarono, era un buon esemplare della sua specie, non essendo nè molto primitivo nè molto principesco. L'edifizio era puramente orientale; cioè era un blocco quadrangolare di pietre greggie ad un solo piano, col tetto piatto, esternamente non interrotto da alcuna finestra, con una sola entrata principale, un portone fatto a volta, dal lato est o facciata. La strada era così vicina alla porta che la polvere copriva per metà l'architrave. Un riparo fatto di roccie cominciava all'angolo sud-est del fabbricato, si estendeva per molti metri giù pel pendìo, ad un punto del quale si divideva all'ovest verso un promontorio di pietra calcarea, formando ciò ch'è più essenziale ad un Khan ragguardevole, cioè una sicura staccionata per gli animali. In un villaggio come Betlemme, siccome non v'era che uno sceicco, non ci poteva essere più di un Khan; e sebbene nato in quel luogo, il Nazareno, dopo aver a lungo vissuto altrove, non aveva alcun diritto ad ospitalità nella città. Inoltre, l'enumerazione per la quale egli veniva poteva essere lavoro di settimane o di mesi. I legati Romani, nelle provincie, erano conosciuti per pigri, e, mettere sè stesso e la moglie per un periodo così incerto a carico di conoscenti o di parenti, non era possibile. Così, prima di avvicinarsi alla gran casa, mentre saliva il versante, cercando nei posti più scoscesi di sollecitare l'asino, il timore di non poter trovare da accomodarsi nel Khan divenne una dolorosa ansietà, perchè egli trovò la via affollata di uomini e di ragazzi, che, con gran chiasso, spingevano il loro bestiame, cavalli e cammelli, su e giù per la valle, alcuni per abbeverarli, altri alle vicine caverne. Ed allorchè si avvicinò, il timore non si mitigò scoprendo una folla che stipava la porta dello stabile, mentre l'attiguo recinto, largo com'era, sembrava già pieno. — «Noi non possiamo arrivare alla porta. — disse Giuseppe col suo parlare lento — fermiamoci qui e cerchiamo di sapere, se possiamo, ciò che è accaduto.» — La moglie, senza rispondere, tranquillamente si tirò indietro il velo. L'aspetto affaticato che prima mostrava il suo viso mutò, assumendo un che di interessante. Ella si trovò vicino ad un gruppo di persone che non potean esser altro che un oggetto di curiosità per lei, benchè fosse abbastanza frequente il ritrovarne nei Khan comuni agli stradoni che le gran carovane solevano attraversare. V'erano uomini a piedi che correvano di qua e di là parlando con voce stridula e in tutte le lingue di Siria; uomini a cavallo che urlavano; uomini sui cammelli; uomini che si affaticavano dietro ai buoi infuriati e alle pecore impaurite; uomini che vendevano pane e vino; e, fra la moltitudine, una turba di ragazzi apparentemente a caccia di una muta di cani. Tutti e tutto sembravano muoversi nel medesimo tempo. Forse la bella spettatrice era troppo stanca per esser a lungo attratta da quella scena; dopo un po' ella sospirò e si accomodò sul suo cuscino, e, come se fosse un ora di pace e di riposo, o in aspettativa di qualcuno, guardò lontano al sud e alle alte rupi del monte del Paradiso, che eran leggermente arrossate dal sole che tramontava. Mentre ella stava guardando un uomo si spinse fuori della folla e fermandosi vicino all'asino osservò, incuriosita, il gruppo. Il Nazareno gli chiese: — «Poichè io sono ciò che credo voi siate, buon amico, — un figlio di Giuda — posso domandarvi la causa di questo assembramento?» — Lo straniero si voltò bruscamente, ma, visto l'aspetto solenne di Giuseppe, fu così compreso della sua profonda, lenta voce e dal suo discorso che alzò la mano in cenno di saluto e rispose: — «Pace sia con voi, o Rabbi! Io sono un figlio di Giuda e vi risponderò. Abito in Beth-Dagon che, voi sapete, è ciò che una volta era la terra della tribù di Dan.» — — «Sulla via fra Joppa e Modin — interruppe Giuseppe.» — — «Oh voi siete stato in Beth-Dagon — disse l'uomo raddolcendo sempre più il suo viso. — Che persone girovaghe siamo sempre noi, figli di Giuda! Son parecchi anni che manco dal luogo — il vecchio Ephrath come lo chiamava nostro padre Iacob. Ci ritorno ora che si è diffuso l'editto che richiede agli Ebrei d'esser computati per le tasse nella città della loro nascita. Questo è ciò che vengo a far qui, Rabbi.» — Il viso di Giuseppe rimase impassibile mentre osservò: — «Io pure venni per questo con mia moglie.» — Lo straniero lanciò uno sguardo a Maria e tacque. Ella guardava in alto, verso la nuda cima del Gedor. Il sole accarezzò il suo viso rivolto all'insù e le illuminò gli occhi; sulle sue labbra dischiuse corse un fremito. In quel momento tutta l'umanità della sua bellezza sembrava purificata: ell'era come sono immaginati da noi coloro che siedono vicino alle porte del Cielo. I Beth-Dagon videro l'originale di ciò che secoli dopo divenne una visione pel genio di Sanzio il divino e lo rese immortale.» — — «Di che cosa stavo parlando? Ah! ora mi ricordo. Stavo per dire che allorquando udii dell'ordine di venir qui andai in collera. Ma pensai poi alla vecchia collina, alla città e alla valle sovrastante alla profondità del Kedron; ai vigneti e agli orti e ai campi di grano, fruttiferi fin dai giorni di Booz e di Ruth; alle montagne conosciute — Gedor qua — Gibeah un po' più lontano e Mar Elias là — che, quando ero ragazzo, erano per me i confini del mondo; perdonai i tiranni e venni — io con Rachele, mia moglie — e Deborah e Micol le nostre rose di Sharon.» — L'uomo si fermò di nuovo guardando bruscamente Maria, che ora lo guardava e lo ascoltava. Poi disse: — «Rabbi, non vorrebbe vostra moglie andar dalla mia? La potete veder laggiù coi bambini, sotto all'olivo, allo svolto della strada. Vi accerto — egli si voltò verso Giuseppe e parlò in tono sicuro — che il Khan è pieno. È inutile chiederlo alla porta.» — La volontà di Giuseppe era malferma e la sua mente vagolava nel vuoto; egli esitò ma rispose: «L'offerta è gentile. Che vi sia o no posto per noi nella casa verremo a trovar la vostra famiglia. Lasciatemi discorrere col portinaio. Torno subito.» — E mettendo le redini nelle mani dello straniero si spinse fra la folla rumorosa. Il portinaio sedeva sopra un ceppo di cedro fuor della porta. Al muro, dietro di lui, stava appesa una freccia. Un cane gli era accovacciato vicino, sul ceppo. — «La pace di Jeova sia con voi» — disse Giuseppe, finalmente, affrontando il portinaio. — «Ciò che dite vi sia ricambiato e qualora lo sia si moltiplichi molte volte per voi e per i vostri figli — replicò il guardiano gravemente, però senza muoversi. — «Io son di Betlemme — disse Giuseppe nel modo più calmo — non vi sarebbe posto per me?» — — «Non ce n'è più.» — — «Voi avrete udito parlare di me, Giuseppe di Nazareth. Questa è la casa dei miei padri. Io son discendente di Davide.» — Queste parole davano speranza al Nazareno. Se gli fallivano, sforzi ulteriori sarebbero stati vani, anche quelli dell'offerta di molti sicli. L'essere un figlio di Giuda era una cosa grande nell'opinione della stessa tribù ma l'esser della casa di Davide era anche cosa maggiore; su lingua di Ebreo non vi poteva esser vanto più fiero. Mille anni e più erano trascorsi da che il pastore fanciullo era divenuto successore di Saul e aveva fondato una famiglia. — Guerre, calamità, altri re ed innumerevoli fatti, causa della mutevole fortuna, ritornarono i suoi dipendenti al medesimo livello degli Ebrei comuni; il pane ch'essi mangiarono venne dal lavoro penoso se non dal più umile; non di meno essi ebbero sempre il prestigio della gloriosa tradizione, prestigio mantenuto religiosamente, e vantarono la genealogia; non avrebbero potuto rimaner oscuri perchè dovunque si recavano pel regno d'Israele godevano di un riverente rispetto. Così avveniva a Gerusalemme e altrove; certo uno della sacra discendenza poteva con ragione fare assegnamento su ciò per entrare alla porta del Khan di Betlemme. Dicendo come disse Giuseppe: — «Questa era la casa dei miei padri» — era dir la verità, semplice e pura, poichè quella era la stessa casa ove aveva signoreggiato Ruth come moglie di Booz; la stessa nella quale eran nati Jesse ed i suoi dieci figli, Davide il minore; la stessa casa in cui Samuele era venuto a cercare il re e lo aveva trovato; la stessa che Davide aveva dato al figlio di Barzillai; la stessa casa dove Geremia, con la preghiera, aveva salvato i fuggiaschi della sua razza che rinculavano innanzi ai Babilonesi. Il tentativo non rimase senz'effetto. Il portinaio scese dal ceppo e appoggiandosi la mano sulla barba disse con rispetto: — «Rabbi, io non vi posso dire quando si sia aperta questa porta per dar il benvenuto al viaggiatore, ma fu più di mill'anni fa, e in tutto questo tempo non vi è alcun uomo che l'abbia trovata chiusa, salvo quando non vi era posto per dargli da riposare. Perciò una giusta ragione deve avere il guardiano che dica di no ad uno della discendenza di Davide. Se vorrete venire con me vi farò vedere che non v'è un posto per dormire libero in tutta la casa; nè nelle camere, nè nelle stalle, nè nella corte e neppure sul tetto. Posso chiedervi quando siete arrivato?» — — «Proprio ora.» — Il guardiano sorrise. — «Lo straniero che abita con te sarà come uno nato insieme a te e tu l'amerai come te stesso. Non è questa la legge?» — Giuseppe era silenzioso. — «Se questa è la legge posso io dire ad uno arrivato da tempo: va per la tua via perchè v'è qui un altro a prendere il tuo posto?» — Giuseppe si mantenne sempre calmo. — E se così dicessi, a chi pretendesse il posto? guardate quanti stanno aspettando; alcuni attendono da mezzogiorno.» — — «Chi è tutta questa gente? — domandò Giuseppe additando la folla. — E perchè è qui a quest'ora?» — — «Verrà per quello che indubbiamente avrà condotto qui voi, Rabbi; pel decreto di Cesare — e il guardiano gettò uno sguardo interrogativo al Nazareno poi continuò: — tale motivo portò la maggior parte di coloro che alloggiano qui. E ieri arrivò la carovana diretta da Damasco all'Arabia e al Basso Egitto. Questi che voi vedete appartengono a quella carovana, uomini e cammelli.» — Giuseppe persisteva. — «La corte è grande» — disse. — «Sì, ma è ingombra di merci e di balle di seta, di caffè, di aromi e di ogni qualità d'oggetti.» — Allora, per un momento, il viso del richiedente perdette la sua passività; gli occhi immobili e alteri s'abbassarono. Con calore egli disse: «Non importa per me, ma io ho mia moglie con me e la notte è fredda, più fredda su quest'altura che non la notte di Nazareth. Mia moglie non può già rimanersene all'aria aperta. Che vi sia posto in città?» — — «Questa gente — il guardiano fece un cenno colla mano additando la folla davanti alla porta — ha investigato la città in tutti i sensi e trovò ogni casa piena.» — Giuseppe guardò ancora una volta a terra dicendo mezzo fra sè: — «Ella è così giovane! se le facessi un letto sulla collina il gelo l'ucciderebbe!» Poi parlò di nuovo al guardiano: — «Può essere che abbiate conosciuti i di lei genitori, Joachim e Anna, una volta stabiliti a Betlemme, e, come me, discendenti da Davide.» — — «Sì, li conobbi. Erano buona gente. Li conobbi quand'ero giovane.» — Questa volta gli occhi del guardiano si chinarono a terra come per riflettere. Ad un tratto alzò il capo: — «Se non posso trovarvi un posto non posso mandarvi via. Rabbi, farò tutto ciò che potrò per voi. Di quanti è composta la vostra carovana?» — Giuseppe esitò un po' e poi rispose: — «Mia moglie ed un amico con la sua famiglia proveniente da Beth-Dagon, una piccola città vicino a Joppa; in tutto siamo in sei.» — — «Va bene, non rimarrete fuori; conducete qui gli altri, ma fate presto perchè quando il sole scende, dalla montagna vien subito la notte e la notte dev'esser vicina: il sole è quasi sceso.» — — «Vi do la benedizione del forestiere, quella dell'ospite seguirà.» — Così dicendo il Nazareno ritornò felice a Maria e all'uomo di Beth Dagon. Quest'ultimo condusse con sè la sua famiglia; le donne cavalcavano degli asini. La moglie aveva l'aspetto di una matrona; le figlie eran imagine di ciò che essa doveva esser stata in gioventù. Mentre si avvicinavano alla porta il guardiano li giudicò a prima vista per gente di condizione mediocre. — «Questa è colei della quale vi parlai — disse il Nazareno — e questi sono i nostri amici.» — Il velo di Maria, si rialzò. — «Occhi celesti e capelli d'oro» — mormorò il guardiano tra sè non osservando che lei. «Così era il giovine Re allorchè andò a cantare davanti a Saulle.» — Poi prese le redini di cuoio dalle mani di Giuseppe e disse a Maria: — «Pace a voi, o figli di Davide, — poi rivolgendosi agli altri: — Pace a voi tutti! — poi a Giuseppe: — Rabbi, seguitemi.» — La carovana fu condotta in un andito lastricato di pietra dal quale entrarono nella corte del Khan. Per un forestiero la scena sarebbe stata curiosa ma gli ospiti non osservavano che i porticati che si offrivano ai loro sguardi da tutti i lati affollati come la corte. Da un vicolo riservato a deposito di mercanzie, e poi da un passaggio simile a quello dell'ingresso, essi entrarono nel recinto vicino alla casa e passarono vicino ai cammelli, agli asini ed ai cavalli legati a gruppi e assonnati; in mezzo ad essi v'erano guardiani e uomini di paesi diversi; ed essi pure dormivano o sorvegliavano silenziosamente. Gli ospiti andavano adagio adagio giù pel declivio del cortile affollato, perchè gli asini, pigri, avevano dei ghiribizzi affatto originali. Finalmente voltarono per una via che conduceva al grigio promontorio calcareo dominante il Khan all'ovest. — «Andiamo nella grotta» — disse Giuseppe laconicamente. La guida indugiò finchè Maria gli giunse al fianco. — «La grotta alla quale noi andiamo — egli le disse — deve essere stata un tempo appartenente al vostro antenato. Dal campo sotto di noi e dal pozzo giù nella valle egli soleva condurvi il suo greggie per sicurezza, e poi, quando fu Re, ritornò qui, nella vecchia casa, per riposo e per salute portandosi dietro molti animali. Le mangiatoie sono ancor tali e quali erano allora. È meglio un letto per terra dove dormì lui che uno nel cortile o fuori sulla via. Ah! ecco la casa dinanzi alla grotta!» — Questo discorso non deve esser giudicato come giustificazione all'alloggio offerto. Non v'era bisogno di giustificazioni. Il sito era il migliore che ci fosse a loro disposizione. Gli ospiti eran gente semplice che si accostumava facilmente alle evenienze della vita. Eran Ebrei di Betlemme, abituati a quelle caverne, perchè le loro località abbondavano di grotte grandi e piccole, alcune delle quali servivano di abitazione fin dal tempo degli Emim e degli Horites. Non v'era alcuna offesa per loro nel fatto che la caverna dove erano stati messi era stata ed era una scuderia. Essi appartenevano ai discendenti di una razza di pastori, le greggie dei quali abitualmente dividevano coi padroni le abitazioni ed i viaggi. Seguendo l'uso derivato da Abramo, i padiglioni dei Beduini ricevevano tuttora egualmente cavalli e persone. Giuseppe e gli altri obbedirono volentieri il guardiano, ed ammirarono la casa provando una gran curiosità. Tutto ciò che si associava alla storia di Davide li interessava. L'edificio era basso e stretto, senza finestre, e di poco sporgente dalla roccia alla quale era unito per di dietro. Nella bianca facciata v'era una porta fissata su enormi cardini e imbrattata di creta ocracea. Mentre si toglieva la stanga di legno dalla serratura, le donne si eran appoggiate ai loro cuscini. All'aprirsi della porta il guardiano gridò; — «Entrate!» — Gli ospiti entrarono e si guardarono attorno. Capirono subito che la casa non era che una fabbrica posta a dissimulare l'ingresso di una caverna probabilmente di quaranta piedi di lunghezza, nove o dieci di altezza e dodici o quindici di larghezza. La luce raggiava attraverso alla porta sopra un pavimento ineguale, piovendo sopra a dei mucchi di grano, di foraggio, di terraglie e di masserizie che occupavano il centro della caverna. Ai lati si trovavano delle mangiatoie abbastanza basse per le pecore, e fatte di pietra, murate con della calcina resistente. Non vi erano fiancate o stalli di alcun genere. Polvere e piccole paglie ingiallivano il pavimento e riempivano tutti i crepacci ed i vani ingombri di ragnatele che scendevano dal soffitto come pezzi di tela sucida. Il luogo era abbastanza pulito ed in apparenza comodo quanto può essere una qualunque delle stalle di un Khan vero e proprio. Difatti il primo progetto dei costruttori era stato di fare una caverna, non una stalla. — «Entrate — disse la guida. — Questi mucchi di paglia che son per terra servono per far riposare dei viaggiatori quand'essi capitano qui come siete capitati voi. Prendete tutto ciò che avete bisogno.» — Poi si rivolse a Maria. — «Credete di poter riposare qui?» — — «Il sito è santificato» — ella rispose.» — — «Allora io vi lascio. Pace sia con voi tutti!» — Quando se ne fu andato essi si affaccendarono per rendere la caverna abitabile. CAPITOLO X. Ad una certa ora, durante la sera, le grida e lo strepito della gente cessarono. Ogni Israelita, se non era già in piedi, si alzò assumendo un'aria solenne, e, guardando verso Gerusalemme, incrociò le mani sul petto pregando: era la nona ora sacra allorchè i sacrifici venivano offerti nel tempo sul Moriah e si supponeva che Dio fosse là. Quando le mani degli adoratori s'abbassarono la commozione seguì di bel nuovo e tutti si affrettarono a mangiare e a preparare il loro misero letto. Poco più tardi i lumi vennero spenti, e tutti tacquero addormentandosi. Verso la mezzanotte qualcuno sul tetto gridò: — «Che luce è quella del Cielo? Svegliatevi fratelli, svegliatevi e guardate!» — La gente, mezzo addormentata, s'alzò e guardò; poi si svegliò del tutto, quasi sbalordita. E lo strepito si sparse per la corte a basso, e nelle stalle; in breve tutti gli abitanti della casa, della corte e del recinto, erano fuori fissando il cielo. Un raggio di luce al di sopra delle più vicine stelle, declinava obliquamente verso la terra; e diffondeva intorno un rosso di uno splendore elettrico. L'apparizione parve riposarsi sulla vicina montagna a sud-est della città formando una pallida corona lungo la cima del colle. Il Khan fu toccato luminosamente di modo che quelli che erano sul tetto si videro reciprocamente i visi tutti pieni di meraviglia. Per parecchi minuti la luce rimase ferma, poi si affievolì e allora la meraviglia si cangiò in terrore e timore; i timidi tremarono; i più forti si parlarono a bassa voce. — «Vedeste voi mai nulla di eguale?» — chiese uno. — «Sembrava proprio che la luce fosse su quelle montagne. Non posso dire che cosa sia, nè vidi mai alcun che di simile» — fu la risposta. — «Che possa essere una stella scoppiata e caduta?» — chiese un altro. — «Quando una stella cade la sua luce si spegne.» — — «Ho capito! — gridò uno. — I pastori han visto un leone e hanno acceso un fuoco per tenerlo lontano dal loro gregge.» — Gli uomini che stavan dietro a chi aveva parlato così, diedero in un lungo sospiro di sollievo e dissero: — «Si, dev'essere così. Le greggie pascolavano giù nella valle oggi». — Un astante tornò a rannuvolare gli animi. — «No, no; anche se tutte le legne che si trovan nella valle di Giuda fossero riunite in un enorme fascio e venisse loro appiccato il fuoco, la fiamma non darebbe una luce così intensa e così alta.» — Dopo si fece un silenzio sul tetto della casa, interrotto solo una volta, mentre il mistero continuava a rimaner impenetrato. — «Fratelli! — esclamò un Ebreo di aspetto venerando: ciò che noi vedemmo era la scala che nostro padre Giacobbe vide in sogno. Benedetto sia il Signore dei nostri Padri!» — CAPITOLO XI. Ad un miglio e mezzo, forse a due miglia al sud-est di Betlemme, v'è una pianura separata dalla città da una lieve salita. Essendo ben riparata dai venti del nord, la valle era ricoperta di siccomori, di quercie nane e di pini, mentre, nelle vallette e nei burroni attigui, v'erano boschi d'olivi e di gelsi; tutto ciò insomma che in tale stagione è prezioso per il sostentamento delle pecore, e delle capre. Dalla parte più lontana della città, vicinissimo ad un promontorio, v'era un altura detta _màràh_ o capanna per le pecore, vecchia di parecchi secoli. In qualche incursione, da lungo dimenticata, l'edificio era stato scoperto e quasi demolito. L'umile recinto rimase tuttavia intatto il che era la cosa più importante pei pastori che pascolavan i loro armenti più in là della casa stessa. Il muro di pietra, attorno al recinto era dell'altezza di un uomo, però non così alto da impedire talvolta ad una pantera o ad un leone, affamati dalla solitudine, di saltar dentro arditamente. Nella parte interna del muro, come sicurezza maggiore al pericolo continuo, era stata piantata una siepe, idea assai fortunata perchè ora una rondine non poteva penetrare nei cespugli più alti, muniti com'erano di enormi spine puntute al pari dei chiodi. Il giorno degli avvenimenti, che si compirono nei precedenti capitoli, un certo numero di pastori in cerca di strade nuove pel loro gregge, si dirigevano a questa pianura e sin dal mattino di buon'ora i boschetti avevan echeggiato di chiamate, di colpi di scure e di belati di pecore e di capre, dei tintinnii di campanelli, del mugghiar del bestiame e dell'abbaiar dei cani. Quando il sole tramontò, essi si diressero verso il _màràh_ e verso il cader della notte avevan tutto in salvo nei campi; poi accesero il fuoco più vicino alla porta, fecero una modesta cena e si sedettero a chiacchierare lasciando uno di essi a far la guardia. Ve n'erano sei di codesti uomini, escludendo il guardiano, e, poco dopo, si riunirono in gruppo vicino al fuoco, alcuni sedendosi, altri giacendo bocconi. Siccome, abitualmente, essi andavano a capo scoperto, i loro capelli pendevano a fitte ciocche, ruvidi, bruciati dal sole, sui loro colli. La barba copriva loro le gole e scendeva fluente sul petto; mantelli dalla pelle di capretto e di agnello, con sopra il vello, li coprivano dalla nuca fino alle ginocchia lasciando le braccia scoperte; larghe cinture attillavano il vestito alla vita; i sandali eran della qualità più ordinaria; dalle loro spalle destre pendevano dei sacchetti contenenti viveri e pietre, scelte per servire alle fionde, delle quali eran armati; per terra, vicino a ciascuno, giaceva il proprio arco, come arma di difesa. Tali erano i pastori della Giudea! In apparenza ruvidi e selvaggi come i cani magri che sedevano vicino a loro, attorno al fuoco; venendoli però a conoscere erano schietti e di cuore tenero: conseguenza questa dovuta in parte alla vita primitiva che conducevano, ma principalmente al loro pensiero costante delle cose belle e gentili. Essi si posero a parlare fra loro; ed i loro discorsi non s'aggiravan che sul loro greggie, tema alquanto arido pel mondo, pure un tema che rappresentava tutto il mondo per essi. I grandi eventi che maturarono le nazioni e cambiarono i padroni del mondo, sarebbero state bagatelle per loro, se per caso essi fossero venuti a conoscerli. Di quello che stava facendo Erode in questa o quella città, costruendo palazzi e ginnasi e seguendo pratiche proibite, giungeva loro notizia di tanto in tanto. Come era uso di quei tempi, Roma non attendeva che le persone si informassero di lei: essa faceva sì che tutti sapessero della sua potenza. Sopra le colline lungo le quali egli conduceva il suo greggie, o nelle corti ov'egli lo ricoverava, non di rado il pastore era sorpreso dal suono di trombe e facendo capolino dalla capanna scorgeva una coorte, qualche volta una legione in marcia; e quando i brillanti pennacchi scomparivano e le truppe eran passate, egli pensava al significato delle aquile, agli elmi dorati dei soldati, e alla bellezza di una vita così diversa dalla sua. Pure questi uomini, rozzi e semplici com'erano, avevano cognizioni e saggezza tutte proprie. Al sabato solevano purificarsi, ed andare nelle Sinagoghe, a sedersi sulle panche più lontane dall'arca. Quando il _hazan_ portava la Torah in giro, nessuno la baciava con maggior zelo; allorchè lo sheliach leggeva il testo, nessuno ascoltava l'interprete con fede più assoluta; e nessuno riteneva più di lui del discorso del predicatore, o se ne dava pensiero dopo. In un verso del Shema essi trovarono tutte le dottrine e tutta la legge della loro modesta vita; seppero che il loro Signore era un Dio, e che dovevano amarlo con tutta l'anima. Ed essi l'amavano, e tale era la loro saggezza, che sorpassava quelle dei Re. Mentre chiaccheravano e avanti che la prima veglia fosse finita, uno dopo l'altro, i pastori si addormentarono, ciascuno sdraiato nel posto ove era seduto. La notte, come la maggior parte delle notti d'inverno nei paesi montuosi, era chiara, frizzante, e splendente di stelle. Non v'era vento. L'atmosfera non era mai stata così pura, e la calma regnava silenziosa; era un sacro raccoglimento, pareva che il cielo si chinasse per sussurrare qualche cosa di buono alla terra che ascoltava. Presso la porta, rannicchiato nel suo mantello, il guardiano passeggiava; a volte si fermava, attratto da un rumore fra il gregge addormentato, o dallo strido di uno sciacallo vagante lontano sui monti. La mezzanotte non giungeva mai; ma finalmente suonò. Il suo compito era terminato; ora incominciava l'ora del sonno col quale il lavoro benedice i suoi figli affaticati! Egli si mosse verso il fuoco, ma si fermò; attorno a lui splendeva una luce delicata e bianca come quella della luna. Aspettò ansioso. La luce si ingrandì; le cose dapprima invisibili, apparvero; egli vide tutto il campo, e tutto ciò che esso conteneva di messi. Un brivido più acuto di quello dell'aria frizzante — un brivido di timore — lo pervase. Egli guardò in alto; le stelle non c'erano più; la luce si affievoliva languidamente; mentre egli guardava, assunse un color argenteo vivo: allora, terrorizzato, gridò, — «Svegliatevi, svegliatevi!» — I cani si alzarono ed abbaiando si misero a correre. Il gregge si riunì sbalordito. Gli uomini balzarono in piedi, con le armi in mano. — «Cos'è accaduto?» — domandarono ad una voce. — «Guardate!» — gridò il guardiano, — «il cielo arde!» — Tutto ad un tratto la luce divenne di uno splendore abbagliante, e essi si coprirono gli occhi, e s'inginocchiarono; poi, mentre le loro anime erano accasciate dal timore, coprendosi il volto, caddero accecati e tramortiti, e sarebbero certamente morti dallo spavento, se una voce non avesse esclamato: — «Non temete!» — Essi ascoltarono. — «Non temete. Porto delle buone nuove che procureranno a tutti una gioia immensa.» — La voce, d'una dolcezza e d'una serenità più che umana, bassa, e chiara, penetrò in tutto il loro essere, e li rassicurò. Si alzarono sulle ginocchia, e, guardando rispettosamente, videro, nel centro di un globo luminoso, l'apparizione di un uomo, coperto di una veste tutta bianca; sopra le spalle aveva le ali lucenti e spiegate; sulla fronte gli splendeva una stella, di uno splendore incessante, lucente come Espero le sue mani erano rivolte a loro in atto di benedizione; il suo viso era sereno e divinamente bello. Essi avevano sovente udito parlare, ed avevano loro stessi, nella loro ignoranza, parlato di angeli; ed ora non dubitarono, ma si dissero internamente che la gloria di Dio era a loro vicina, e che questi era colui, che, in antico, era comparso innanzi al profeta, sulle rive dell'Ulai. Subito l'angelo continuò: — «Per voi è nato, in questo giorno, nella città di Davide, un Salvatore, ch'è Cristo, il nostro Dio!» — Ancora vi fu una pausa, mentre le parole si infiggevano nelle loro menti. — «E questo sia per voi un indizio», — disse poi il messo celeste. — «Voi troverete il bambino, avvolto in fascie, coricato in una greppia.» — L'angelo non parlò più; le buone nuove erano state date; però rimase lì, per un po'. Ad un tratto la luce, della quale egli era il centro, divenne rosea ed incominciò ad oscillare; poi, più in alto, a una distanza visibile, gli uomini videro uno sfolgorìo di ali bianche, ed un andirivieni di forme radiose, e udirono voci come di una riunione di persone, che cantassero all'unisono. — «Gloria a Dio nel cielo, e sulla terra pace e benevolenza verso gli uomini.» — Non una volta ma molte volte ciò fu ripetuto, poi l'araldo, alzò gli occhi; le sue ali si aprirono maestosamente, mostrando la parte superiore bianca come la neve e l'inferiore variopinta come madreperla. Quando furon aperte del tutto egli si librò lentamente, e, senza sforzo, si allontanò cinto dalla luce come da un nembo sfolgorante. Per lungo tempo ancora, dopo ch'egli se n'era andato, dal cielo si udì il ritornello, diventato fioco per la distanza: — «Gloria a Dio in cielo, e in terra pace, e benevolenza verso gli uomini.» — Allorchè i pastori ritornarono completamente in sè, si fissarono l'un l'altro stupiti, finchè uno di essi disse: — «Era Gabriele, il messo che Dio invia agli uomini.» — Nessuno rispose. — «Cristo il Signore, è nato; non disse egli così?» — insistè quegli. Allora un altro: — «Questo è infatti ciò ch'egli disse.» — — «E non disse anche che egli nacque nella città di Davide, ch'è la nostra Betlemme, laggiù? E che troveremmo un bambino in fascie?» — — «E coricato in una greppia.» — Colui che aveva parlato per primo, contemplò pensosamente il fuoco, poi finalmente disse, come uno cui fosse venuta un'improvvisa risoluzione: — «Non v'è che un sito in Betlemme ove siano greppie e, cioè la caverna vicino al vecchio Khan. Fratelli, andiamo dunque a vedere questo miracolo. I preti ed i dottori hanno, per lungo tempo, cercato Cristo. Adesso egli è nato, ed il Signore ci ha dato un'indizio pel quale noi lo conosceremo. Andiamo ad adorarlo.» — — «Ma il gregge?» — — «Il Signore lo proteggerà. Facciamo presto.» — Allora tutti si alzarono e lasciarono il _màràh_. . . . . . . . Discesero il monte ed attraverso la città arrivarono alle porte del Khan, ov'era un uomo che vigilava. — «Cosa volete?» — egli domandò. — «Abbiamo visto ed udito delle grandi cose, stanotte,» — essi risposero. — «Ebbene, noi pure abbiamo visto grandi cose, ma non abbiamo udito nulla. Che cosa avete udito?» — — «Andiamo nella caverna ch'è nel recinto, onde potercene accertare; là vi diremo tutto.» — — «Guardate per conto vostro. Perderete il vostro tempo.» — — «No; Cristo è nato.» — — «Cristo? Come lo sapete voi?» — — «Andiamo, se volete, a vedere!» — L'uomo rise ironicamente. — «Proprio Cristo? Come farete a conoscerlo?» — — «Egli nacque questa notte e giace in una greppia, così ci fu detto; e non v'è che un sito in Betlemme con greppie.» — — «La caverna?» — — «Sì. Venite con noi.» — Essi attraversarono la corte senza che alcuno se n'accorgesse, benchè parecchi fossero alzati e parlassero della luce meravigliosa. La porta della caverna era aperta. Una lanterna la rischiarava all'interno, ed essi entrarono senza cerimonie. — «Pace a voi,» — disse il guardiano a Giuseppe ed all'uomo di Beth-Dagon. — «Qui v'è della gente in cerca di un bambino, nato stanotte, e che dovrà riconoscere col trovarlo in fascie e giacente nella greppia.» — Il viso del Nazareno ebbe una contrazione improvvisa, ma poi, voltandosi, egli disse: — «Il bambino è qui.» — Essi furono condotti davanti ad una delle greppie, dove era il bambino. Fu portata una lanterna, ed i pastori rimasero muti. Il piccolo non si mosse: era come tutti gli altri neonati. — «Dov'è la madre?» — domandò il guardiano. Una delle donne prese il bambino, ed andò da Maria, coricata lì vicino, e lo mise nelle sue braccia. Allora gli astanti si riunirono vicino ai due. — «È Cristo!» — disse un pastore, infine. — «Cristo!» — tutti ripeterono, inginocchiandosi in atto d'adorazione. Uno di essi ripetè, per parecchie volte: — «È il Signore, e la sua gloria è al di sopra della terra e del cielo.» — E gli uomini, fiduciosi, baciarono l'orlo della veste di Maria, e, coi visi radianti di gioia, partirono. Nel Khan, a tutta la gente alzata, che si spingeva fra di loro, essi raccontarono questa storia; per la città, e per tutta la via di ritorno al _màràh_, essi cantarono il ritornello degli angeli: — «Gloria a Dio in cielo, e in terra pace e benevolenza verso gli uomini!» — L'eco del fatto andò lontana, confermata dalla luce da tutti veduta; ed il giorno appresso, e per i giorni seguenti, la caverna fu visitata da folla curiosa, della quale alcune persone credettero, mentre, la maggior parte, risero e canzonarono. CAPITOLO XII. L'undicesimo giorno dalla nascita del bambino nella caverna, press'a poco a metà giornata, i tre Re Magi si avvicinarono a Gerusalemme, per la via del Schekem. Dopo aver traversato Brook Cedron, essi incontrarono molte persone, delle quali nessuna mancò di fermarsi e di seguirli curiosamente con lo sguardo. La Giudea era, per necessità, un passaggio internazionale; essa era un rialzo stretto di terra, formato probabilmente dalla pressione del deserto all'est e dal mare all'ovest; sopra l'altura, pertanto, la natura aveva tracciato la linea di traffico tra l'est ed il sud; in questo consistevano le sue ricchezze. In altre parole, le ricchezze di Gerusalemme eran costituite dalle tasse che essa metteva sul commercio di transito. In nessun altro posto, per conseguenza, meno che in Roma, v'erano assemblee sì costanti di tante persone di diverse nazioni; in nessun'altra città il forestiero era più famigliare agli abitanti, che nelle sue mura e nei suoi dintorni. Eppure questi tre uomini eccitarono la meraviglia di tutti quelli che incontrarono sulla via che conduce alle porte. Un bambino, che faceva parte di un gruppo di donne sedute sul margine della strada, di faccia alle Tombe dei Re, e vide arrivare la compagnia, immediatamente cominciò a battere le sue manine, e gridò: — «Guarda, guarda! Che bei campanelli! Che enormi cammelli!» — I campanelli erano d'argento; i cammelli, come già abbiamo veduto, erano di una bianchezza e di una dimensione rara, e si movevano con dignità singolare; i finimenti rivelavano la traversata fatta del deserto, i lunghi viaggi, ed anche la ricchezza dei padroni, che sedevano sotto ai loro piccoli baldacchini, precisamente come quando si incontrarono al di là del Jebel. Pure non erano nè i campanelli nè i cammelli, nè i loro finimenti, nè il portamento dei cavalieri, che destarono tanto stupore; era la domanda che fece l'uomo che cavalcava pel primo. L'accesso a Gerusalemme, dal nord, si compie attraverso una pianura che s'abbassa verso il sud, lasciando la porta che conduce a Damasco in una valle o conca. La via è stretta, ma assai frequentata, ed in certi punti alquanto difficile a cagione dei ciottoli sparpagliati qua e là dall'acqua piovana. — Tuttavia, sopra ogni lato, anticamente, si estendevano dei campi ricchi e dei magnifici boschetti d'olivi, che devono esser stati, per la rigogliosa vegetazione, molto ammirati, specialmente dai viaggiatori stanchi della desolazione del deserto. In questa via i tre uomini si fermarono davanti alla compagnia ch'era di fronte alle Tombe. — «Buona gente» — disse Balthasar, dando una lisciatina alla sua barba increspata, e piegandosi sulla sella: — «non è vicina Gerusalemme?» — — «Sì,» — rispose la donna, nelle braccia della quale erasi rifugiato il bambino. — «Se gli alberi, su quell'altura, fossero un po' più bassi, potreste vedere le torri della piazza del mercato.» — Balthasar lanciò un'occhiata al Greco ed all'Indiano, poi domandò: — «Dov'è colui che è nato Re degli Ebrei?» — Le donne si guardarono senza rispondere. — «Non avete udito parlare di lui?» — — «No.» — — «Ebbene; dite a tutti che noi abbiamo veduto la sua stella nell'est, e che siamo venuti per adorarlo.» — Dopo ciò gli amici proseguirono per la loro via. Ad altri essi fecero la medesima domanda, con uguale risultato. Una gran compagnia che incontrarono e che si recava alla grotta di Geremia, fu così stupita dall'inchiesta e dall'aspetto dei viaggiatori, che tornò indietro, e li seguì in città. I tre uomini eran tanto preoccupati dall'idea della loro missione, che non si accorsero del panorama che ora si offriva innanzi a loro, in tutta la sua magnificenza: il villaggio che pel primo li ricevette sul Bezetha; Mizpah e Olivet, alla loro sinistra; le mura dietro il villaggio, con le sue quaranta alte e solide torri, costruite in parte come fortificazioni ed in parte per ornamento; le stesse mura elevate, piegantisi a destra, con parecchie svolte, e qua e là una porta che conduceva ai tre bianchi e grandi edifizi, Fasel, Marianna, e Ippico; Sion, la più alta delle colline, coronata di palazzi di marmo, e mai sì bella; i terrazzi rilucenti del tempio sul Moriah, riconosciuti come una delle meraviglie del mondo; le montagne regali che accerchiavano la città sacra, la quale sembrava costruita nel fondo di un'immenso bacino. Essi arrivarono, alfine, ad una torre di grande altezza che dominava la porta, la quale, a quel tempo, corrispondeva alla presente Porta di Damasco, e segnava l'incontro delle tre vie da Sheckem, Serico, e Gibeon. Una guardia romana custodiva il passaggio. Intanto, le persone che seguivano i cammelli, formavano una carovana, sufficiente per attirare gli oziosi sulla porta; cosicchè, quando Balthasar si fermò per parlare alla sentinella, i tre uomini divennero il centro di un circolo, ansioso di sapere tutto ciò che era accaduto. — «A voi sia pace», — disse l'Egiziano, con voce chiara. La sentinella non rispose. — «Noi siamo venuti da lontano in cerca di uno ch'è nato Re degli Ebrei. Potete dirci dove egli sia?» — Il soldato rialzò la visiera del suo elmo, e chiamò forte. Alla destra del passaggio, apparve un ufficiale. — «Lasciate passare», — egli gridò, alla folla che ora si era accostata ancor più; e, siccome sembrava restia ad obbedire, si avanzò, facendo girare rapidamente la sua lancia, ora a destra, ora a sinistra, e così fece del largo. — «Che cosa vorreste?» — domandò a Balthasar, parlando nella lingua della città. E Balthasar rispose nella medesima lingua: — «Dov'è colui ch'è nato Re degli Ebrei?» — — «Erode?» — domandò l'ufficiale, confuso. — «Il regno di Erode è di Cesare; non di Erode. Non v'è altro Re degli Ebrei.» — — «Ma noi abbiamo visto la sua stella, e siamo venuti per adorarlo.» — Il Romano rimase perplesso. — «Proseguite», — egli disse, finalmente. — «Proseguite il vostro cammino. Io non sono un Ebreo. Portate la questione davanti ai dottori, nel tempio od a Hannas, il sacerdote, oppure, e ciò sarà meglio ancora, a Erode stesso. Se v'è un'altro Re degli Ebrei egli lo saprà trovare.» — Ciò detto, fece largo agli stranieri, onde passassero oltre la porta. Ma prima di entrare nella via angusta, Balthasar indugiò e trattenne gli amici dicendo: — «Ci siamo sufficientemente annunziati. A mezzanotte tutta la città avrà udito parlare di noi e della nostra missione. Adesso andiamo al Khan». — CAPITOLO XIII. Quella sera, prima del tramonto, alcune donne lavavano della biancheria, sull'ultimo gradino della scalinata che conduceva allo stagno di Siloam. Ognuna di esse era inginocchiata davanti ad un gran vaso di terra. Una ragazzina ai piedi della scala, forniva loro, dell'acqua, e riempiva l'anfore mentre cantava. La canzone era allegra, e, senza dubbio, allietava il loro lavoro. Di tanto in tanto esse si alzavano sulla punta dei piedi e guardavano su per l'altura di Ophel, ed attorno alla cima di quel che ora è il monte dell'Offesa, allora debolmente rischiarato dal sole morente. Mentre esse affaticavano le mani, strofinando e torcendo la biancheria nei bacini, due altre donne vennero a loro, ognuna con un'anfora vuota sulle spalle. — «La pace sia con voi» — disse una delle nuove venute. Le lavandaie tralasciarono il lavoro e si alzarono, asciugandosi le mani, e scambiando il saluto. — «È quasi notte. — È ora di tralasciare.» — — «Non v'è fine al lavoro,» — fu la risposta. — «Ma v'è un'ora per riposare, e....» — — «Per sentire ciò che vi può esser di nuovo» — suggerì un'altra. — «Che novità avete?» — — «Come? non avete sentito nulla?» — — «No.» — — «Dicono che sia nato Cristo,» — disse l'altra principiando a raccontare. Era curioso il vedere i visi delle lavandaie illuminarsi per l'interesse; le anfore, in un attimo, furono tramutate in sedili per le proprietarie che sedettero in giro e si fecero attente. — «Cristo?» interruppero le ascoltatrici curiose. — «Così dicono». — — «Chi lo dice?» — — «Tutti; è una voce comune». — — «V'è almeno chi lo creda?» — — «Ieri tre uomini attraversarono Cedron sulla via di Sheckem» — rispose l'oratrice cercando di dissipare l'incertezza. — «Ognuno di essi guidava un cammello d'un bianco candido e più grande di alcun altro mai visto in Gerusalemme». — Gli occhi e le bocche delle donne si spalancarono. Per provare com'erano grandi e ricchi gli uomini la narratrice continuò: — «Essi sedevano sotto a tende di seta, le fibbie delle loro selle erano d'oro, come la frangia delle loro briglie; i campanelli erano d'argento, e sembravano produrre col loro suono una vera armonia. Nessuno li conosceva. Uno di essi parlò e rivolse a tutti quelli che si trovavano sulla strada, anche alle donne ed ai fanciulli, questa domanda: — «dov'è colui ch'è nato Re degli Ebrei?» — Nessuno rispose, nessuno capì quello che volevano dire; così essi passarono oltre dicendo questa frase: — «Noi abbiamo visto la sua stella a levante, e siamo venuti ad adorarlo.» — Lasciarono la questione da decidere al Romano ch'era alla porta; e questi, certo sapiente non più dei semplici viandanti, la lasciò chiarire ad Erode.» — — «Dove sono essi adesso?» — — «Al Khan. Centinaia di persone sono già state a vederli e ve ne vanno ancora a centinaia.» — — «Chi sono?» — — «Nessuno lo sa. Si dice che siano Persiani, uomini sapienti i quali parlano colle stelle. — Profeti forse come Elia e Geremia.» — — «Che cosa vogliono dire, dicendo Re degli Ebrei?» — — «Intendono Cristo, e dicono ch'egli sia appena nato.» — Una delle donne sorrise e riprese il suo lavoro dicendo: — «Bene, dopo che l'avrò visto ci crederò.» — Un'altra seguì il suo esempio: — «Bene, quando io lo vedrò far risuscitare un morto ci crederò,» — Una terza disse calmamente: — «Egli è stato annunciato da molto tempo. Mi basterà vedergli risanare un lebbroso.» — Esse si fermarono a discorrere finchè calò la notte, e, favorite dall'aria frizzante, si diressero verso casa. . . . . . . . A sera avanzata, sul principio della prima veglia, ebbe luogo nel palazzo del monte Sion un'assemblea di forse cinquanta persone, le quali non si riunivano mai se non per ordine d'Erode, e solo quando egli chiedeva di conoscere qualcheduno dei misteri più profondi della legge e della storia ebraica. Era insomma un'assemblea composta dei maestri dei collegi sacri, dei principali sacerdoti e dei dottori più conosciuti per fama nella città, dei capi dei differenti partiti, dei commentatori delle differenti credenze, principi dei Sadduce, oratori farisei, calmi e posati filosofi del Socialismo degli Esseni. La camera dove si teneva l'adunanza apparteneva ad una delle corti interne del palazzo. Essa era abbastanza vasta e di stile romano. Il terreno era pavimentato in marmo; le pareti, senza finestre, erano dipinte a quadri color giallo zafferano; un divano ricoperto di cuscini gialli, formato in guisa da formare la lettera U, coll'insenatura rivolta alla porta, occupava il centro della camera. Nell'arco del divano, o per meglio dire nella curva della lettera, si trovava un immenso tripode d'oro, curiosamente intarsiato d'oro e d'argento. Appeso a metà del soffitto, con sette braccia, ognuna delle quali portava una lampada accesa, v'era un gran lampadario trattenuto da una corda. Tanto il divano come la lampada erano di stile ebraico puro. La comitiva dai costumi uniformi, eccettuato nei colori, si accomodò sul divano secondo l'uso Orientale. Era composta in gran parte di uomini d'età avanzata; i loro visi erano coperti da folte barbe; avevano nasi larghi e grandi occhi neri, ombreggiati da folte ciglia; il loro portamento era grave, dignitoso, quasi patriarcale. In breve questa era l'adunanza del Sinedrio. Quegli che sedeva davanti al tripode, nel posto che si può chiamare il centro del divano, avendo tanto a destra che a sinistra i suoi colleghi, evidentemente era il presidente dell'adunanza, e avrebbe subito attirata l'attenzione dello spettatore. Egli era di una complessione gigantesca, ma ridotto ad una magrezza spaventosa; dalla veste bianca, che gli scendeva dalle spalle formando profonde pieghe, non si scorgevano indizi di carne: non si vedeva null'altro che un orribile ed angoloso scheletro. Le sue mani, mezzo nascoste dalle maniche di seta rigata in bianco e rosso, erano appoggiate sulle ginocchia. Mentre parlava alzava di quando in quando, tremando, il pollice della mano destra e sembrava incapace d'altri movimenti. La sua testa era calva e lucida; pochi capelli, d'un bianco argenteo, gli circondavano la nuca; le sue tempia erano profondamente incavate; profonde rughe gli solcavano la fronte sporgente; gli occhi avevano lo sguardo velato e smarrito; il naso era affilato; la parte inferiore del volto era coperta da una barba fluente e bianca come quella d'Aronne. Tale era Hillele il Babilone! Alla stirpe dei profeti, da lungo tempo estinti in Israele, succedettero molti dottori fra i quali egli primeggiava per saggezza, e assomigliava ad un profeta in tutto, meno che nella sua ispirazione divina. All'età di centosei anni, egli era ancora il Rabbino maggiore del Grande Collegio. Sulla tavola davanti a lui era disteso un rotolo di pergamena, vergata in caratteri ebraici, e ritto, dietro a lui, stava un paggio riccamente vestito. Una discussione aveva avuto luogo, ed ora ch'era finita, ciascuno stava in attitudine di riposo. Il venerando Hillele, senza muoversi, chiamò il paggio: — «Vien qui.» — Il giovane s'avanzò rispettosamente. — «Va e di' al Re che siamo pronti a dargli una risposta.» — Il ragazzo ubbidì. Poco dopo entrarono due ufficiali, e si fermarono ritti uno a ciascun lato della porta. Li seguiva lentamente un personaggio strano: un vecchio avvolto in un abito di porpora, orlato di scarlatto, stretto alla vita da una fascia d'oro, sottile e pieghevole come pelle; le fibbie delle sue scarpe luccicavano di pietre preziose, una stretta corona di filigrana splendeva da una _tarbooshe_ della più soffice felpa cremisi, che, avvolgendogli la testa, gli scendeva sulle spalle e sulla nuca, lasciando scoperti la gola ed il collo. Un pugnale pendeva al suo fianco. Camminava con passo titubante appoggiandosi con tutto il suo peso ad un bastone. Raggiunto il divano si fermò ed alzò gli occhi da terra: accorgendosi solo allora della compagnia, vivamente eccitato dalla presenza d'essa, si alzò volgendo lo sguardo altero, tetro, sospettoso e minaccioso, come di persona spaventata ed in cerca d'un nemico. Tale era Erode il Grande, una persona avvilita dalle orribili malattie, una coscienza macchiata di delitti, una mente intelligentissima, un'anima gemella a quella di Cesare: aveva sessantatre anni, ma custodiva con gelosa vigilanza il suo trono, spadroneggiando con potenza assoluta e inesorabile crudeltà. Vi fu un'agitazione generale nell'assemblea; i più vecchi si inchinavano riverenti, i più nobili si alzavano, o s'inginocchiavano colle braccia sul petto. Dopo aver osservato intorno a sè, Erode s'avanzò sino al tripode dirimpetto al venerabile Hillele che incontrò il suo freddo sguardo abbassando la testa ed alzando le mani. — «La risposta» — disse il Re, con aria altera, rivolgendosi a Hillele, e, piantandoglisi davanti col suo bastone, ripetè: — «La risposta!» — Gli occhi del patriarca, splendevano dolcemente: egli rispose alzando la testa e fissando l'inquisitore, mentre i suoi colleghi gli prestavano una speciale attenzione: — «La pace del Signore, d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe sia teco, o Re!» — Dal tono della voce sembrava che invocasse qualcheduno, poi, avendo cambiato tono, continuò: — «Tu ci hai chiesto dove si suppone sia per nascere Cristo.» — Il Re fece un segno d'approvazione, sebbene i suoi occhi malvagi restassero fissi sul saggio: — «Questa è la domanda» — disse. — «Allora, o Re, io parlo per me e pei miei fratelli qui presenti, e dico: — «in Betlemme, nella Giudea.» — Hillele diede un'occhiata alla pergamena sul tripode, e facendo cenno col suo dito tremulo, continuò. — «In Betlemme nella Giudea, com'è scritto dal profeta: «E tu, Betlemme nella terra di Giudea, non sei affatto l'ultima fra le terre di Giuda perchè da te uscirà un governatore che saprà dominar il mio popolo Israele.» — Il viso d'Erode si rannuvolò, e mentre pensava i suoi occhi si posarono sulla pergamena. I presenti non respiravano nemmeno, ed erano silenziosi come lui. Finalmente egli si volse e lasciò la camera. — «Fratelli» — Hillele disse — «abbiamo terminato.» — La compagnia si alzò e partì in gruppi. — «Simeone» — chiamò Hillele. Un uomo, sulla cinquantina, ma ancora nel fior della vitalità, gli rispose e si diresse verso di lui che soggiunse: — «Prendi la sacra pergamena, figlio mio, ed arrotolala accuratamente.» — L'ordine fu eseguito. — «Offrimi il tuo braccio; monterò in lettiga.» — L'uomo robusto s'inchinò; il vecchio accettò l'aiuto offertogli, e si diresse con fatica alla porta. Così se ne andarono il famoso Rabbino e Simeone, suo figlio, il quale doveva essere il suo successore in saggezza e sapienza. . . . . . . . I re magi si trovavano ancora svegli a sera avanzata sotto un'arcata del Khan. Le pietre che servivano loro da giacigli erano alte in modo ch'essi potevano guardare, attraverso l'arco della finestra, l'immensità del cielo. Mentre ammiravano le stelle scintillanti, pensavano alla prossima Rivelazione. Cosa accadrebbe? Si trovavano alfine in Gerusalemme; alla porta avevano chiesto di Colui che cercavano; avevano annunziata la sua nascita; ora non restava loro che di trovarlo. Colla speranza di riuscire s'affidarono allo Spirito, ed in attesa d'udire la voce di Dio od un segno dal cielo, non potevano prender sonno. Mentre si trovavano così agitati e commossi, un uomo s'avanzò: — «Svegliatevi» — disse loro, — «vi porto un messaggio che non può essere protratto.» — I tre si alzarono. — «Per parte di chi?» — domandò l'Egiziano. — «Di Erode, il Re.» — Ognuno si sentì correre un fremito nelle ossa. — «Siete forse il custode del Khan?» — chiese Balthasar. — «Sì.» — — «Cosa desidera il Re?» — — «Il messaggero aspetta; egli vi risponderà.» — — «Allora ditegli d'attenderci.» — — «Voi avevate detto il giusto, buoni fratelli!» — soggiunse il Greco dopo che il custode se ne fu andato. — «La domanda che fu diretta ai viandanti ed alle guardie alla porta, ci ha resi oggetto di curiosità. Io sono impaziente; facciamo presto.» — Si alzarono; calzarono i loro sandali, si misero i mantelli e s'avviarono. — «Vi saluto; la pace sia con voi, e scusatemi; il mio padrone, il Re, mi ha mandato ad invitarvi al palazzo, dove egli desidera parlarvi segretamente.» — Così il messaggero adempì il suo dovere. Essi si guardarono a vicenda, alla luce d'una lampada appesa nell'entrata, e s'accorsero che lo Spirito era con loro. L'Egiziano si diresse verso il custode, e disse piano, in modo da non essere udito dagli altri: — «Voi sapete in che posto si trova la nostra roba nella corte, e dove riposano i nostri cammelli. Preparate, durante la nostra assenza, tutto l'occorrente per la nostra partenza se essa sarà necessaria.» — — «Potete andarvene sicuri; fidate in me,» — rispose il custode. — «La volontà del Re è la nostra» — disse Balthasar al messaggero. — «Noi vi seguiremo.» — Le strade della città santa erano strette come lo sono ora, ma non così neglette e sudicie; perchè Erode non soddisfatto dalla sola bellezza, voleva pulizia e comodità. Guidati dalla luce pallida delle stelle essi ascesero lentamente la collina. Giunsero, finalmente, ad una porta innalzata nel mezzo della strada. Alla luce dei fuochi che ardevano in due gran bracieri, intravvidero la struttura dell'edificio, e le guardie che s'appoggiavano ai lati della porta. Entrarono nell'edificio senza che la sentinella li fermasse; attraversarono passaggi, porte e cortili, alcuni in piena oscurità; salirono molte scale, passarono per innumerevoli corridoi e per infinite camere, e furono condotti ad una torre d'una immensa altezza. Ad un tratto la guida si fermò, ed additando una porta aperta, disse loro: — «Entrate. Il Re è là.» — L'aria della camera era impregnata dal profumo del legno di sandalo, e tutto all'intorno era ordinato e disposto riccamente. Un tappeto era disteso nel bel mezzo del pavimento, e, sopra al tappeto, era collocato un trono. I visitatori ebbero solo il tempo di ricevere una confusa idea del luogo, di un'insieme di ottomane e di letti intarsiati e dorati, di ventagli, di vasi, di strumenti musicali, di candele d'oro brillanti di luce intensa; di mura dipinte nello stile della voluttuosa scuola Greca, un solo sguardo alle quali avrebbe fatto nascondere con sacro orrore la testa ad un Fariseo. Erode ch'era seduto sul trono per riceverli, vestito come alla conferenza coi dottori e coi sacerdoti, richiamò tutta la loro attenzione. Essi s'avanzarono e s'inginocchiarono, senza essere invitati, sull'orlo del tappeto. Il Re toccò un campanello. Un servitore entrò e posò tre sgabelli davanti al trono. — «Sedetevi» — disse il monarca, benignamente. — «Dalla porta del Nord» — egli continuò quando essi si furono accomodati — «ho avuto in questo pomeriggio l'avviso dell'arrivo di tre stranieri, curiosamente vestiti come se fossero provenienti da lontani paesi. Siete voi?» — L'Egiziano, dopo di aver rivolto un'occhiata al Greco ed all'Indiano, rispose facendo una profonda riverenza: — «Di certo se noi non fossimo quegli stranieri, il potente Erode, la cui fama corre pel mondo intero, non ci avrebbe fatti chiamare.» — Erode approvò con un cenno della mano. — «Chi siete, donde venite?» — domandò, ed aggiunse in tono espressivo: — «Lasciate che ognuno parli di se stesso.» — Essi si spiegarono, alludendo brevemente alle città, ai loro paesi nativi ed alla strada percorsa sino a Gerusalemme. Non soddisfatto, Erode aggiunse: — «Cosa domandaste all'ufficiale che si trovava alla porta?» — — «Gli domandammo dov'è colui ch'è nato Re degli Ebrei.» — — «Comprendo ora perchè il popolo era così curioso. Voi mi meravigliate. C'è un'altro Re degli Ebrei?» — L'Egiziano non impallidì: — «Ce n'è uno appena nato.» — Il viso scuro del monarca assunse un'espressione di dolore come s'egli si rammentasse d'un episodio straziante. — «Non a me, non a me» — esclamò. Forse gli passavano davanti le immagini accusatrici dei figli uccisi; riavendosi dall'emozione chiese con voce ferma: — «Dov'è il nuovo Re?» — — «Questo, o Re, è ciò che desideriamo sapere.» — — «Voi mi dite di un miracolo — un enigma di molto superiore a quello di Salomone» — disse poi: — «Come vedete, sono in quel periodo di vita in cui la curiosità è sfrenata come lo è nell'infanzia, allorchè lo scherzare con essa è crudeltà. Proseguite, ed io vi rispetterò come i Re si rispettano l'un l'altro. Ditemi tutto ciò che sapete del nuovo Re, ed io mi unirò a voi nel cercarlo; e quando l'avremo trovato, farò ciò che vorrete; lo porterò a Gerusalemme e l'alleverò nella reggia; adoprerò la mia grazia con Cesare per la sua promozione e la sua gloria. La gelosia non albergherà fra noi, ve lo giuro. Ma prima ditemi come, separati sì ampiamente da mari e deserti, sieti arrivati ad udire parlare di lui.» — — «Ve lo diremo sinceramente, o Re.» — — «Parlate,» — disse Erode. Balthasar si alzò in piedi, e disse dolcemente: — «V'è un Dio Onnipotente.» — Erode si scosse in modo impercettibile. — «Egli ci disse di venire in qua, assicurandoci che avremmo trovato il Redentore del mondo; che l'avremmo veduto ed adorato, di prestar fede ch'Egli era venuto; e, come segnale, ognuno di noi doveva vedere una stella. Il suo Spirito rimase con noi, o Re, il suo Spirito è con noi anche adesso!» — Una commozione irresistibile, opprimente, s'impossessò dei tre. Il Greco a stento represse un grido. L'occhio di Erode si fissò rapidamente dall'uno all'altro; egli era più sospettoso e scontento di prima. — «Credo che voi mi canzoniate» — egli disse — «ma, se non è, continuate. Che cosa produrrà la venuta del nuovo Re?» — — «La salvezza degli uomini.» — — «Da che cosa?» — — «Dalla loro malvagità.» — — «Come?» — — «Per mezzo delle azioni divine — l'Amore, la Fede, e le opere Buone.» — — «Allora» — Erode si fermò, e nel suo sguardo nessun uomo avrebbe potuto leggere quale sentimento spirasse — «voi siete gli araldi di Cristo. È questo tutto?» — Balthasar s'inchinò lentamente: — «Noi siamo i vostri servi, o Re.» — Il monarca toccò un campanello, e l'inserviente apparve. — «Portate i regali» — gli disse. L'inserviente uscì, ma ritornò poco dopo, ed inginocchiandosi innanzi agli ospiti, diede a ciascheduno un manto azzurro e rosso scarlatto, e una cintura d'oro. Essi espressero la loro gratitudine con inchini all'orientale. — «Ancora una parola» — disse Erode allorchè la cerimonia finì. — «All'ufficiale della porta, e poc'anzi innanzi a me, voi parlaste d'aver veduto uno stella nell'Oriente.» — — «Sì» — disse Balthasar — «la sua stella, la stella del neonato.» — — «Quando vi apparve?» — — «Quando fummo comandati di venire qua.» — Erode si alzò, significando che l'udienza era finita. Scendendo dal trono verso di loro, disse con grande amabilità: — «Se, come credo, o uomini illustri, voi siete gli araldi di Cristo appena nato, sappiate che ho consultato coloro che sono i più sapienti riguardo alle cose ebraiche, ed essi dissero concordi che dovrebbe essere nato nella Betlemme di Giudea. Io vi dico: — «Andate oltre, andate e cercate diligentemente il giovane bimbo: e quando l'avrete trovato, avvisatemi, affinchè io possa venire ad adorarlo. Che il vostro tragitto non venga disturbato da alcun ostacolo. Pace sia con voi!» — E avvoltosi nel suo manto lasciò la stanza. La guida li diresse verso la strada, e poscia al Khan, alla porta del quale il Greco disse: — «Andiamo a Betlemme, o fratelli, come ci consigliò il Re.» — — «Sì» — gridò l'Indiano — «lo Spirito ci protegge.» — — «Così sia» — disse Balthasar, con egual ardore. — «I cammelli sono pronti.» — Essi diedero dei regali al castaldo, montarono in sella, richiesero le indicazioni per andare alla Porta di Joppa, e partirono. Al loro arrivo le grandi porte erano socchiuse ed essi entrarono in aperta campagna, prendendo la via ultimamente fatta da Giuseppe e Maria. Mentre si avanzavano sulla pianura di Rephaim, apparve una luce dapprima debole e lontana. I loro cuori battevano forte. La luce si faceva rapidamente più intensa; essi chiusero gli occhi allo splendore ardente; quando si azzardarono a guardare nuovamente, ecco che la stella, bella come nessun'altra nel cielo, si abbassò, e, lentamente, si avvicinò a loro. Essi giunsero le loro mani, e gridarono, godendo di una gioia immensa: — «Iddio è con noi! Iddio è con noi!» — e così ripeterono per tutta la via, finchè la stella, innalzatasi sulla valle, al di là del Mar Elias, ristette ancora al di sopra d'una casa, sulla cima della collina, vicino alla città. CAPITOLO XIV. Cominciava la terza veglia, ed a Betlemme albeggiava sopra i monti, ad oriente, ma così debolmente, che nella valle era ancora notte. Il guardiano, sul tetto del vecchio Khan, tremando dal freddo, stava ascoltando i primi suoni coi quali la vita, svegliandosi, accoglie il giorno, allorchè una luce si mosse dalla collina verso la casa. Egli la credette una torcia in mano a qualcheduno; dopo un momento la prese per una meteora: lo splendore crebbe, pertanto, finchè divenne una stella. Atterrito egli gridò e condusse tutti quelli ch'erano entro le mura, sul tetto. Il fenomeno, con movimento curioso, continuava ad avvicinarsi; le rupi, gli alberi, e le vie al disotto di esso, splendevano come se rischiarate dalla luce del lampo; subito il suo splendore divenne acciecante. I più timidi fra gli ammiratori, caddero in ginocchio e pregarono, coi loro visi nascosti; i più arditi, coprendosi gli occhi, s'appiattarono, ed ogni tanto gettavano paurosamente delle occhiate furtive. Dopo un po', il Khan, tutto all'intorno, era rischiarato da una luce insopportabile pel suo vivo bagliore. Quelli che si azzardarono a guardare, videro la stella ancora ferma sopra la casa, di fronte alla caverna dove era nato il Bambino. Nel bel mezzo di questa scena, vennero i tre Re Magi, ed alla porta smontarono dei loro cammelli, e chiesero di entrare. Appena il guardiano ebbe potuto frenare il suo terrore per badare a loro, levò la stanga ed aprì la porta. I cammelli sembravano spettri, alla luce soprannaturale, e, oltre all'aspetto fantastico, v'erano nei visi e nei modi dei tre visitatori una veemenza ed una esaltazione che eccitarono ancor più i timori del guardiano; egli per un po' non potè rispondere alla domanda che gli venne fatta: — «Non è questa Betlemme della Giudea?» — Ma nel frattempo altri vennero, e diedero in vece sua la risposta. — «No, questo non è che il Khan; la città si trova più in là.» — — «Non v'è qui un bambino appena nato?» — Gli astanti si guardarono reciprocamente meravigliandosi, mentre alcuni di essi risposero: — «Sì, sì.» — — «Mostratecelo!» — disse il Greco impazientemente. — «Mostratecelo!» — gridò Balthasar, interrompendo la sua gravità; — «poichè noi abbiamo veduto la sua stella, quella che voi ammirate laggiù sopra alla casa, e siamo venuti per adorarlo.» — L'Indiano giunse le mani, esclamando: — «Iddio realmente esiste! Fate presto, fate presto! Il Salvatore è trovato. Benedetti, benedetti siamo noi sopra tutti gli uomini!» — La gente venne giù dal tetto, e seguì i forestieri, mentre essi furono condotti, attraverso la corte, nel recinto; alla vista della stella ancora sopra la caverna, benchè meno incandescente di prima, alcuni si volsero spaventati; la maggior parte però li seguì. Mentre i forestieri si avvicinavano alla casa, la stella si alzò; quando furono alla porta, essa andava dileguandosi in alto; quando entrarono era sparita. E nei testimoni di ciò che allora accadde, entrò la convinzione che una divina relazione passasse fra la stella e gli stranieri. Quando la porta si aprì tutti affollarono la caverna. La stanza era illuminata da una lanterna, abbastanza luminosa per porre in grado i forestieri di trovare la madre, ed il bambino, sveglio sulle sue ginocchia. — «È tuo il bambino?» — domandò Balthasar a Maria. Essa rispose: — «Egli è mio figlio!» — Ed essi caddero in ginocchio e l'adorarono. Era un bambino come gli altri bambini: sulla sua testa non v'era nè un'aureola nè una corona; le sue labbra si aprivano, ma non per parlare; se udiva le loro espressioni di gioia, le loro invocazioni, le loro preghiere, non faceva segni di sorta. Il bambino guardava più alla fiamma della lanterna che a loro. Dopo un po' essi si alzarono, e, ritornando ai cammelli, tolsero dalle selle regali di oro, d'incenso e di mirra, che posero davanti al bambino, riverenti. Essi lo adoravano senza esitare. Perchè? La loro fede si basava sui segni mandati da Colui, che, d'allora in poi, si rivelò come nostro Padre; e, per essi, la sua promessa bastava. Pochi v'erano che videro i segni e li compresero — a Madre e Giuseppe, i pastori ed i Re; pure tutti credettero ugualmente, che cioè, Iddio per ora era tutto, ed il Bambino nulla. Ma verrà un tempo che tutto dipenderà dal Figlio. Felici coloro che crederanno in Lui!... FINE DEL LIBRO PRIMO. LIBRO SECONDO Arde una fiamma in cor, che non si appaga Dell'angusta prigion, ma inquieta aspira A volar oltre i consueti fini Del desiderio, ed una volta accesa, Eternamente, inestinguibil, brucia, E l'uom sospinge ad avventate eccelse, Nè mai si stanca tranne di quïete. PELLEGRINAGGIO DI AROLDO. CAPITOLO I. È necessario che il lettore si porti innanzi venticinque anni, al principio dell'amministrazione di Valerio Grato, quarto governatore imperiale della Giudea. — Un periodo notevole per le agitazioni politiche che angustiarono Gerusalemme, prodromi del conflitto finale fra i Romani e gli Ebrei. Nell'intervallo erano avvenuti parecchi cambiamenti, specie d'ordine politico. Erode il grande era morto un anno dopo la nascita del Bambino e morto così miseramente da giustificare l'opinione che correva nel mondo cristiano, che egli fosse cioè stato colpito dall'ira divina. Come tutti i grandi reggitori di popoli che dedicano tutta la loro vita a rafforzare la potenza che hanno creato, egli aveva sognato di tramandare il trono e la corona, di diventare il fondatore di una dinastia. Con questo intento, nel suo testamento, spartì le terre fra i suoi tre figli Antipate, Filippo ed Archelao, e, a quest'ultimo, diede la dignità regia. Il testamento fu necessariamente sottoposto ad Augusto imperatore, il quale ne ratificò tutte le disposizioni, tranne una sola: rifiutò ad Archelao il titolo di Re finchè non avesse dato prova di capacità e fedeltà. Lo creò invece Etnarca, e come tale lo lasciò governare nove anni, a capo dei quali, essendosi egli dimostrato impari all'alto ufficio e inabile a frenare gli elementi turbolenti che si agitavano intorno a lui, lo mandò in esilio nelle Gallie. Cesare non si accontentò di deporre Archelao. Colpì il popolo di Gerusalemme in un modo che ferì nel vivo l'orgoglio dei superbi custodi del Tempio. Ridusse la Giudea in provincia Romana e la aggiunse alla prefettura di Siria. Di modo che, in vece di un principe governante regalmente nel palazzo che Erode aveva costruito sul monte Sion, la città cadde nelle mani di un ufficiale subordinato, di un impiegato chiamato Procuratore, il quale comunicava con la corte di Roma per via del Legato di Siria, residente in Antiochia. — Per rendere più dolorosa la ferita, al Procuratore non fu permesso di stabilirsi a Gerusalemme; questo onore fu invece concesso a Cesarea. Ma la maggior umiliazione di tutte, la più irritante, la più voluta, fu l'annessione della Samaria, — la disprezzata Samaria, unita alla Giudea come parte della stessa provincia! Quale dolore per i bigotti separatisti o Farisei il vedersi sospinti e derisi alla presenza del Procuratore in Cesarea, dai devoti di Gerizim! Fra tante lagrime una consolazione sola rimaneva al popolo caduto: Il Pontefice occupava il palazzo di Erode sulla Piazza del Mercato e vi teneva la sembianza d'una corte. Quale fosse in realtà la sua autorità si può facilmente comprendere. Il Procuratore si riserbava il diritto di vita e di morte. La giustizia era amministrata in suo nome e secondo i decreti di Roma. Sintomo ancora più significante: il palazzo reale era contemporaneamente occupato dagli ufficiali delle imposte imperiali con tutto il suo corpo di assistenti, registratori, collettori, informatori e spie. Ciò non di meno agli ostinati sognatori di una libertà futura, era di una certa soddisfazione il pensare che il principale personaggio nel palazzo era un Ebreo. La sua sola presenza in esso, giorno per giorno, rammentava loro i patti e le promesse dei profeti e i tempi in cui Jeova reggeva le tribù per mano dei figli d'Aronne: era per essi un segno visibile che Egli non li aveva abbandonati; così le loro speranze li tenevan desti e li abituavano a sopportare pazientemente la servitù, mentre aspettavano sempre l'avvento del figlio di Giuda che doveva regnare in Israele. La Giudea era stata provincia di Roma per oltre ottant'anni — periodo di tempo più che sufficiente per far conoscere ai Cesari il carattere del popolo, per fargli apprendere che l'Ebreo con tutto il suo orgoglio, poteva essere governato quietamente purchè venisse rispettata la sua religione. — Ispirandosi a questi concetti i predecessori di Grato si erano costantemente guardati dall'ingerirsi nelle pratiche religiose dei loro sudditi. Egli invece seguì un'indirizzo diverso; uno dei suoi fatti fu quello di spogliare Hannas delle sue dignità di primo Sacerdote, e di dare il suo posto ad Ismaele figlio di Fabo. Sia che quest'atto fosse emanato da Augusto o procedesse da Grato medesimo, la sua sconvenienza divenne ben presto apparente. Non esporremo al lettore un capitolo di politica Ebrea, ma due parole sopra questo argomento sono essenziali per la retta intelligenza del racconto. In questo tempo esistevano in Giudea due partiti: il partito dei nobili, e il partito separatista o popolare. Alla morte di Erode, i due partiti si collegarono contro Archelao: combattendolo nei templi e nel palazzo, a Gerusalemme e a Roma, qualche volta con gli intrighi, qualche volta con le armi, in aperta guerra. Più d'una volta i tranquilli colonnati del Moriah risuonarono delle grida dei combattenti. Finalmente riuscirono a cacciarlo in esilio. Durante tutta questa lotta gli alleati miravano ai vari loro scopi: i nobili odiavano Jvazar, il primo Sacerdote; mentre i Separatisti erano suoi gelosi seguaci. Quando crollò l'edificio di Erode con Archelao, Jvazar condivise la sua sorte. Hannas, figlio di Set, fu scelto dai nobili a coprire l'alto ufficio. Questo produsse la scissura violenta dei due partiti, che si fronteggiarono in fiera inimicizia. Nel corso della loro lotta contro lo sfortunato Etnarca i nobili avevano creduto opportuno di piegarsi dalla parte di Roma. Prevedendo che, quando si fosse abbandonato l'attuale ordinamento, sarebbe stato necessario un nuovo assetto politico, suggerirono la conversione della Giudea in provincia. Questo fatto fornì ai separatisti un nuovo pretesto ed una nuova arma; e quando la Samaria fu incorporata nella provincia, i nobili decaddero ad una esigua minoranza, con nessuno che li sorreggesse all'infuori della corte imperiale, del prestigio della loro casta e della loro ricchezza. Ad onta di tutto ciò per quindici anni, sino all'avvento di Valerio Grato, riuscirono a mantenersi tanto nel palazzo quanto nel Tempio. Hannas, l'idolo del suo partito, aveva usato fedelmente del suo potere nell'interesse del suo imperiale patrono. Una guarnigione romana occupava la torre di Antonia; una guardia romana presidiava le porte del palazzo; un giudice romano amministrava la giustizia in materia civile e penale; il sistema fiscale romano, applicato senza pietà, gravava sulla città e sulla campagna. Ogni giorno, ogni ora, in mille modi, il popolo era angariato ed offeso, imparando a sue spese la differenza fra una vita indipendente e una vita di servitù. Pure Hannas lo conteneva in una tranquillità relativa. Roma non aveva amico più fedele, e la sua mancanza si fece subito sentire. Dopo aver consegnato i suoi indumenti ad Ismaele, il nuovo Sacerdote, egli passò difilato dai cortili del Tempio ai concilî dei Separatisti, mettendosi alla testa di una nuova coalizione. Grato, il Procuratore, privato così di ogni sostegno, vide i fuochi, che in quindici anni si erano andati gradatamente spegnendo, divampare improvvisamente. Dopo un mese da che Ismaele aveva assunta la nuova carica, il Romano trovò necessario visitarlo in Gerusalemme. Quando, dall'alto delle mura, accolta da un coro di fischi e di urli, gli Ebrei videro la sua guardia entrare per la porta settentrionale della città e marciare verso la torre di Antonia, compresero il vero scopo della visita. — Una intiera coorte di legionari fu aggiunta alla guarnigione, e il giogo poteva ora essere aggravato impunemente. Se il Procuratore avesse stimato opportuno di dare un esempio, Dio solo avrebbe potuto salvare la prima vittima! CAPITOLO II. Tenendo presenti queste spiegazioni, il lettore è invitato a recarsi in uno dei giardini del palazzo sul monte Sion. L'ora è la meridiana di un giorno di luglio, quando il calore dell'estate è più intenso. Il giardino è limitato da ogni banda da fabbricati, alcuni dei quali a due piani, il primo con le porte e le finestre ombreggiate da verande, il superiore terminante con terrazzi adornati insieme e protetti da forti balaustre. Qua e là la continuità degli edifici è interrotta da bassi colonnati che permettono la circolazione dei venti, e lasciano intravvedere altri lati del palazzo, ponendone in rilievo tutta la maestà e la ricchezza. Il giardino non è meno bello. Viottoli ombrosi serpeggiano attraverso prati e cespugli, sopra i quali si elevano alcuni alberi altissimi, rari esemplari di palme e gruppi di carrubi, noci e albicocchi. Il terreno va lentamente degradando dal centro, dove è scavato un profondo bacino di marmo, interrotto tratto tratto da piccole bocche, che, aperte, versano l'acqua nei rigagnoli scorrenti paralleli al sentiero, sapiente artificio per sottrarre il luogo all'aridità troppo prevalente in tutta quella regione. Non lontano dalla fontana scintilla la superficie di un piccolo stagno che alimenta un gruppo di canne e di leandri, sul genere di quelli che crescono sulle rive del Giordano e del mar Morto. Fra le piante e lo stagno, indifferenti ai raggi che il sole piove loro addosso attraverso l'aria afosa, due giovani, uno di diciannove, l'altro di diciasette anni, ragionano fra loro in serio colloquio. A prima vista si direbbero fratelli: belli l'uno e l'altro, entrambi neri di chiome e di occhi, dai volti abbronzati, di statura proporzionata alla differenza della loro età. Il maggiore ha la testa scoperta. Una tunica sciolta, cadente fino ai ginocchi, e un mantello azzurro, gettato negligentemente per terra, formavano il suo abbigliamento. Il costume lascia esposte le braccia e le gambe, brune come il volto: ciò nonostante una certa grazia di modi, il taglio aristocratico del viso, l'inflessione della voce, dimostrano chiaramente la sua condizione. La tunica, di soffice lana, grigia al bavaro e alle maniche, con gli orli listati di rosso, stretta intorno alla vita da una corda di seta, lo dice Romano. E se nel discorrere, lancia tratto tratto uno sguardo pieno di alterigia sopra il compagno, e gli parla come ad un inferiore, lo si può quasi scusare, perchè appartiene ad una stirpe nobile persino in Roma, una circostanza che in quei tempi giustificava ogni arroganza. Nelle terribili guerre fra il primo Cesare e i suoi grandi nemici, un Messala era stato amico di Bruto. Dopo Filippi, senza disdoro al suo nome, egli si riconciliò col vincitore, e più tardi, quando Ottavio lottò per l'impero, Messala gli diede il suo appoggio. Ottavio, diventato imperatore Augusto, si ricordò dei servigi resi da lui, e colmò la sua famiglia di onori. Fra le altre cose, essendo stata la Giudea ridotta in provincia, mandò il figlio del suo vecchio cliente a Gerusalemme, coll'incarico di riscuotere le imposte della regione e in questo ufficio egli era rimasto, dividendo il palazzo col Primo Sacerdote. Il giovane di cui parliamo era figlio all'uomo testè descritto, e nel volto e negli atti, mostrava troppo spesso di ricordarsi dei rapporti corsi fra l'avo e i più illustri romani del suo tempo. Il compagno di Messala era di corporatura più esile, e le sue vesti, di finissima e candida tela di lino, erano tagliate secondo la foggia allora prevalente in Gerusalemme. Un panno gli copriva la testa, stretto con un nastro giallo, e disposto in modo da partirsi sulla fronte, e cadere indietro sulla nuca. Un osservatore, esperto nelle distinzioni delle razze, e studioso più dei tratti che degli abbigliamenti, avrebbe tosto notata la sua origine Ebrea. La fronte del Romano era alta e stretta, il naso acuto ed aquilino, le labbra erano fine e diritte, gli occhi freddi e prossimi alle sopracciglia. La fronte dell'Israelita invece era bassa ed ampia, il naso era lungo e con le narici tumide; il labbro superiore sporgente leggermente sopra l'inferiore, curvandosi agli angoli come l'arco di Cupido: fattezze che aggiunte, alla rotondità del mento, agli occhi grandi, al puro ovale delle guancie soffuse di rosso, davano al suo volto tutta la dolcezza, la forza e la venustà proprie alla sua razza. La bellezza del Romano era castigata e severa, quella dell'Ebreo ricca e voluttuosa. — «Non dicevi che il nuovo Procuratore doveva arrivare domani?» — La domanda proveniva dal minore degli amici ed era formulata in greco, a quel tempo linguaggio dominante nella buona società della Giudea. Era passato dal palazzo all'accampamento e nella scuola, e di là, nessuno seppe bene, come e quando, nel Tempio medesimo, nei sacri corridoi e nei chiostri del Tempio. — «Sì, domani» — rispose Messala. — «Chi te lo ha detto?» — — «Ho inteso Ismaele, il nuovo governatore del Palazzo — voi lo chiamate Primo Sacerdote — che ne parlava a mio padre jeri sera. Certo la notizia sarebbe stata più attendibile se fosse venuta da un Egiziano, la cui razza ha dimenticato ciò che sia la verità, o anche da un Idumeo, il cui popolo non ha mai saputo ciò che la verità fosse; ma per essere proprio certo, ho veduto un centurione della Torre stamane, e mi disse che stavano facendo preparativi per il suo ricevimento; che gli armajuoli stavano forbendo gli elmi, gli scudi, e indorando le aquile e le sfere; che gli appartamenti, da lungo tempo disabitati, venivano spolverati ed arieggiati come per un aumento della guarnigione — la guardia del corpo, probabilmente, del grande uomo.» — È impossibile di rendere perfettamente il modo con cui questa risposta fu data, perchè i punti più notevoli e più caratteristici sfuggono costantemente al potere della penna. La fantasia del lettore dovrà venire in suo aiuto; e a questo fine dobbiamo ricordare che la riverenza era una qualità che tramontava rapidamente nel mondo romano, o meglio che andava giù di moda. La vecchia religione aveva quasi cessato di essere una fede; tutt'al più era una semplice veste, o un'espressione del pensiero, protetta principalmente dai sacerdoti che trovavano il loro tornaconto nei servizi del Tempio, e dai poeti, che, nei loro versi, non potevano far senza le loro divinità famigliari: vi sono cantori in questa età che loro assomigliano. Come la filosofia prendeva il posto della religione, la ironia sostituiva rapidamente la riverenza, tantochè, nell'opinione dei Latini, essa era, in ogni discorso, anche nelle piccole diatribe famigliari, ciò che è il sale per le vivande, l'aroma pel vino. Il giovane Messala, educato in Roma, e tornato da poco, aveva acquistato queste abitudini e questi modi: il movimento quasi impercettibile della palpebra inferiore, lo sdegnoso arricciar delle labbra, la languida pronuncia affettata come il miglior modo per esprimere l'idea di una generale indifferenza, ma più ancora per le occasioni che porgeva per certe pause rettoriche, si stimavano di prima importanza, affinchè l'ascoltatore afferrasse bene il concetto e gustasse appieno il frizzo di un epigramma. Una tale pausa avvenne nella risposta testè riferita alla fine dell'allusione all'Egiziano e all'Idumeo. Il rosso sulle guancie del giovanetto Ebreo si fece più scuro, ed egli non rispose, guardando distrattamente nella profondità dello stagno. — «Noi ci dicemmo addio in questo giardino». — «La pace del Signore sia con te!» — furono le ultime tue parole. — «Gli Dei ti salvino!» — dissi io. — «Ti ricordi? quanti anni sono trascorsi da quel tempo?» — — «Cinque» — rispose l'altro, fissando l'acqua. — «Ebbene, tu hai ragione di essere riconoscente verso — chi dovrei dire? — gli Dei? Non importa chi. — Tu sei cresciuto assai bene; i Greci ti chiamerebbero bellissimo — felice creazione degli anni! Se Giove si accontentasse di un solo Ganimede, quale coppiere saresti per l'imperatore!» — — «Dimmi o mio Giuda, perchè ti interessa tanto la venuta del Procuratore?» — Giuda fissò gli occhi sopra il suo interlocutore collo sguardo grave, pensieroso, penetrante in quello del Romano, mentre rispose: — «Sì, cinque anni. Io ricordo la tua partenza; tu andavi a Roma; io ti vidi partire e piansi, perchè ti amavo. Gli anni sono passati, e tu ritorni a me come un principe — non lo dico per celia; e pure — pure — io desidererei che tu fossi il Messala di quando partisti!» — Le narici del Romano si contrassero in un movimento ironico, e più affettata del solito suonò la sua voce, quando rispose: — «Non un Ganimede, ma un oracolo o mio Giuda. Qualche lezione dal mio maestro di rettorica presso il Foro — io ti darò una lettera per lui, quando nella tua saggezza ti piegherai a seguire i miei consigli — un po' di pratica nell'arte del mistero, e Delfo ti accoglierà come Apollo medesimo. Al suono della tua voce solenne, la Pizia scenderà dal suo tripode. Seriamente, o mio amico, in che cosa differisco dal Messala che partì? Io intesi discutere una volta il più grande logico della terra. Il tema della sua dissertazione era la disputa. Ricordo un suo detto: «Comprendi bene il tuo avversario prima di rispondergli.» — E, francamente, non ti comprendo.» — Il giovane arrossì sotto lo sguardo cinico dell'altro; ma rispose con fermezza: «Tu hai approfittato delle occasioni che ti furono offerte, vedo; dalle tue scuole hai riportato molta sapienza e molte grazie. Tu parli con la scioltezza di un maestro, ma il tuo dire punge. Il mio Messala, quando mi abbandonò, non aveva veleno nella sua natura; per tutto l'oro del mondo non avrebbe voluto offendere la sensibilità di un amico.» — Il Romano sorrise, come se avesse inteso un complimento, e rialzò ancora più fieramente la bella testa patrizia. — «O mio austero Giuda, non siamo a Dodona o a Pito. Abbandona quel tuo fare da oracolo e discendi a spiegazioni terrene. In che ti ho offeso?» — L'altro respirò a lungo, e giuocherellando con la corda che gli stringeva la vita: — «In questi anni anch'io appresi qualche cosa. Hillele non sarà pari al filosofo che tu ascoltasti, e Simeone e Sciamma sono, senza dubbio, inferiori al tuo maestro presso il Foro. La loro sapienza non batte strade vietate; quelli che seggono ai loro piedi si alzano ricchi soltanto della scienza di Dio, della Legge e di Israele, imbevuti di amore e di rispetto per tutto ciò che a quelli si riferisce. Frequentando il Grande Collegio e meditando su quanto vi ascoltai, ho appreso che la Giudea d'oggi non è più quella d'una volta. Io apprezzo la differenza che corre fra un regno indipendente e una piccola provincia soggetta. Sarei più vile, più abbietto di un Samaritano, se non risentissi umiliazione pel mio paese. Ismaele non è il legittimo Sacerdote, e non lo potrà mai essere, vivo l'illustre Hannas. Eppure egli è un Levita, uno di quei devoti che per migliaia d'anni hanno servito il Signore Iddio e la nostra religione. La sua....» — Messala lo interruppe con un riso mordace. — «Ora ti comprendo! Ismaele, tu dici, è un usurpatore. Ciò non di meno ti fa male che si possa prestar fede ad un Idumeo piuttosto che a lui. È questo che ti ha punto! Per l'ebbro figlio di Semele, che cosa significa esser Ebreo! Cambiano gli uomini e le cose, il cielo stesso e la terra; ma un Ebreo mai. Per lui non vi ha passato o futuro; egli è oggi ciò che i suoi avi furono prima di lui. Guarda! su questa sabbia io descrivo un cerchio. Ora dimmi che altro è la vita di un Ebreo? Gira e rigira, qui Abramo, là Isacco, Giacobbe; Dio nel mezzo. Per il Tonante, il cerchio è troppo grande. Lo rifaccio....» — Si arrestò, puntò il pollice per terra e descrisse con le dita un cerchio intorno ad esso. — «Vedi, questa impronta del pollice è il Tempio, la linea formata dalle dita la Giudea. All'infuori di questo spazio non esiste nulla di buono! Le arti? Erode fu costruttore di palazzi, quindi è maledetto. La pittura, la scoltura Guardarle è un peccato. La poesia l'avete inchiodata sugli altari. In guerra tutto ciò che conquistate in sei giorni lo perdete nel settimo. Questa è la vostra vita e la vostra mèta. E non vuoi che rida? contento dell'adorazione di un tal popolo, che cosa è mai il vostro Dio a petto del nostro Giove romano, che ci presta le sue aquile perchè le nostre armi conquistino l'universo? Hillele, Simeone, Sciammai, Abtalione, che valgono essi di fronte a quei maestri che insegnano che tutto ciò che si può apprendere è degno di essere appreso?» — L'Ebreo balzò in piedi, con le guancie rosse al pari del fuoco. — «No, no; siediti, mio Giuda, siediti.» — esclamò Messala, stendendogli la mano. — «Tu mi schernisci.» — — «Ascoltami ancora un poco. Presto, — il Romano sorrise con disprezzo — mi verranno in mente Giove e tutta la sua famiglia greca e romana, come al solito, e allora addio serietà! Io ti sono riconoscente d'esser venuto dalla vecchia casa de' tuoi padri per darmi il benvenuto e rinnovare l'affetto della nostra infanzia, se possiamo.» — «Andate,» — disse il mio maestro, nell'ultima sua lezione. — «Andate, e se volete raggiunger la mèta, ricordatevi che Marte regna ed Eros ha ricuperata la vista.» — Egli voleva dire che l'amore è nulla, la guerra tutto. Così è in Roma. Il matrimonio è il primo passo verso il divorzio. La virtù è una qualità da bottegaio. Cleopatra, morendo, ci legò le sue arti, ed è vendicata. Essa ha un successore sotto il tetto di ogni Romano. Il mondo corre per la stessa strada. Abbasso Eros, evviva Marte! Io sarò soldato, ma tu, o mio Giuda, — io ti compiango, — che cosa sarai tu?» — L'Ebreo si avvicinò allo stagno. Messala continuò. — «Sì, ti compiango, mio bellissimo Giuda. Dal collegio alla Sinagoga; poi al Tempio, quindi — oh, gloria suprema! — ad un seggio nel Sinedrio. Una bella vita, davvero! Gli dei ti aiutino! Mentre io....» — Giuda lo guardò e vide l'orgoglio imporporargli le gote e sfavillare negli occhi, mentre ei proseguiva; — «Ah, la terra non è tutta quanta conquistata! Il mare chiude isole ignote. Nel settentrione vi sono popoli ancora sconosciuti. La gloria di continuare la marcia d'Alessandro nell'ultimo Oriente offre nuovi allori. Vedi quante vie si aprono ad un Romano?» — Tacque un istante, e poi riprese col solito tono di persona annoiata: — «Una campagna nell'Africa, un'altra contro gli Sciti, poi il comando di una legione! Qui terminano i sogni di molti. Non il mio. Per Giove, che idea! Rinuncierò alla legione per una prefettura. Pensa alla vita di un Romano danaroso — oro, vino, donne, giuochi, poeti a banchetto, intrighi di corte, dadi tutto l'anno. — Questa sarebbe una degna mèta alla mia esistenza. Una grassa prefettura? O mio Giuda, ecco la Siria! La Giudea è ricca e Antiochia è una capitale degna degli Dei. Io sarò il successore di Cirenio, e tu, — tu dividerai la mia fortuna.» — I sofisti e i retori che affollavano i pubblici ritrovi di Roma, e che avevano quasi il monopolio dell'istruzione della gioventù patrizia, avrebbero approvato questi detti di Messala nei quali avrebbero riconosciuto gran parte dei loro insegnamenti; ma nel giovane Ebreo facevano l'impressione di una sgradevole novità, ben diversa dalla solennità dei discorsi e delle conversazioni a cui era abituato. Di più, egli apparteneva ad una razza le cui leggi, costumanze ed abitudini di pensiero, vietavano la ironia e lo scherno. Molto naturalmente quindi egli ascoltò l'amico con varî sentimenti; sdegno dapprima, poi incertezza nel come dovesse prenderlo. Quelle arie di superiorità assunte da Messala lo avevano offeso sin da principio. Presto divennero insopportabili. Anche quella pioggia frizzante di detti satirici destò la sua ira. Per l'Ebreo dell'età di Erode il patriotismo era una passione selvaggia appena celata sotto il manto di una velata pacatezza di modi, e così connessa con la sua storia, con la religione e con Dio, da balzare fuori immediatamente al menomo dileggio di essi. Non è quindi esagerazione l'affermare che il discorso di Messala, progredendo lentamente fino all'ultima sua pausa, cagionò la più acuta tortura al suo uditore, il quale a questo punto, lo interruppe con un sorriso studiato. — «Sono pochi coloro che permettono che il proprio avvenire sia fatto oggetto di scherno. Io non sono di quelli o Messala.» — Il Romano lo osservò un istante, poi rispose: — «Perchè non si dovrebbe dire il vero scherzando, anche sotto forma di parabola? La grande Fulvia andò a pescare l'altro giorno, pigliò più pesci di tutte le sue compagne. Si disse che essa avesse fatta indorare la punta del suo amo.» — — «Allora tu non scherzavi soltanto?» — — «Mio Giuda, m'accorgo che non ti ho offerto abbastanza,» — rispose il Romano rapidamente, con gli occhi scintillanti. — «Quando sarò Prefetto e dominerò sulla Giudea, ti farò primo Sacerdote.» — L'Ebreo si voltò adirato. — «Non andare in collera» — disse Messala. L'altro si fermò irresoluto. — «Per gli Dei, mio Giuda, come scotta il sole!» — esclamò il patrizio, osservando la perplessità dell'altro. — «Andiamo all'ombra». — Giuda rispose freddamente: — «È meglio che ci lasciamo, sarebbe stato anche meglio che io non fossi venuto. Cercavo un amico, e trovo....» — — «Un Romano» — disse Messala. L'Ebreo strinse i pugni, ma, padroneggiandosi con uno sforzo, si allontanò. Messala si alzò, prese il mantello dal sedile, e gettatoselo sopra le spalle, seguì Giuda. Raggiuntolo, gli pose una mano sulla spalla e continuò il cammino. — «Con la mia mano sulla tua spalla, eravamo avvezzi a camminare da fanciulli. Procediamo così fino al cancello.» — Messala cercava d'esser serio e gentile, ma non poteva cancellare dal suo volto la solita espressione satirica. Giuda lo lasciò fare. — «Tu sei un ragazzo, io sono un uomo; lasciami parlare come tale.» — La compiacenza del Romano rasentava la superbia. Mentore consigliando il giovane Telemaco non avrebbe potuto parlare con più disinvoltura. — «Credi tu nelle Parche? Ah, dimenticavo! tu sei un Sadduceo: gli Esseni sono i soli che abbiano giudizio fra voi: essi credono nelle tre sorelle. Così faccio io. Costantemente esse ci attraversano il sentiero. Se covo un grande disegno, se lavoro per attuarlo, proprio quando sto per stringere il mondo nel pugno, intendo dietro di me lo stridere delle forbici. Mi volto, e la scorgo, Atropo maledetta! Ma, mio Giuda, perchè andasti in collera quando parlai di succedere al vecchio Cirenio? Tu pensavi che io volessi arricchirmi depredando questa tua Giudea? Supponiamolo; ciò è quanto farà forse un'altro Romano. Perchè non lo dovrei fare io?» — Giuda rallentò il passo. — «Altri stranieri, prima dei Romani, dominarono sulla Giudea,» — disse alzando la mano. — «Dove sono ora, o Messala? Essa ha sopravvissuto a tutti. Ciò che è stato avverrà ancora.» — Messala disse ancora con pacatezza: — «Le Parche hanno seguaci anche all'infuori degli Esseni. Ben tornato, o Giuda, nel grembo della fede!» — — «No, Messala, non contarmi fra quelli. La mia fede poggia sulla rocca che fu il fondamento della fede de' miei padri prima di Abramo; sopra la parola del Signore Iddio di Israele.» — — «Troppa foga, mio Giuda. Come un simile scoppio di passione da parte mia, avrebbe incollerito il mio maestro! Io vorrei giovarti, o bello al pari di Ganimede; seriamente vorrei giovarti. Io ti voglio bene, tutto il bene di cui sono capace. Ti dissi che ho intenzione di diventar soldato. Perchè non vuoi fare altrettanto? Perchè non uscire dal cerchio angusto, che, come ti ho dimostrato, è tutta quanta la vita che permettono le tue leggi e i tuoi costumi?» — L'Ebreo non gli diede alcuna risposta. — «Chi sono i saggi ai giorni nostri?» — continuò Messala. — «Non quelli che esauriscono le loro forze in vane dispute intorno a cose morte; intorno a Baal, Giove e Jeova, o intorno a filosofie e religioni. Citami un grande nome, o Giuda; non mi importa dove tu possa cercarlo; in Roma, nell'Egitto, in Oriente, o qui in Gerusalemme, — e Plutone mi prenda, se non appartenne ad un uomo che foggiò la sua fama con gli strumenti che gli fornì il presente; che nulla tenne per sacro che non contribuisca a questo fine; che nulla sprezzò di quanto a questo fine condusse. Non fu così di Erode, non fu così dei Maccabei? E il primo, e il secondo Cesare? Segui il loro esempio. Comincia subito. Ecco Roma, pronta ad aiutarti, come aiutò l'Idumeo Antipatro.» — Il giovanetto Ebreo tremò di collera, e, trovandosi già vicino al cancello del giardino, affrettò i suoi passi, desideroso di fuggire. — «O Roma, Roma!» — mormorò. — «Sii saggio» — continuò Messala. — «Abbandona le fole di Mosè e le tradizioni; guarda in faccia alle cose. Guarda in faccia alle Parche, e ti diranno che Roma è il mondo. Chiedi loro che cosa è la Giudea, e ti risponderanno che è ciò che Roma vuole.» — Erano giunti all'uscita. Giuda si fermò e tolse dolcemente la mano dell'amico dalla sua spalla, poi si voltò verso Messala, con le lacrime agli occhi. — «Io ti comprendo, perchè sei Romano; tu non puoi comprender me. Io sono un Israelita. Tu mi hai cagionato un grande dolore, oggi, convincendomi che non potremo mai essere gli amici di una volta, mai! Dividiamoci. La pace del Dio dei miei padri sia con te!» — Messala gli tese la mano: l'Ebreo passò sotto il portone. Quando egli si fu allontanato il Romano, rimase muto un istante; poi varcò anch'egli la porta, crollando la testa. — «Sia,» — mormorò. — «Eros è morto, Marte regni!» — CAPITOLO III. Dall'ingresso della città Sacra, corrispondente all'attuale porta di Santo Stefano, volgeva verso occidente una via parallela alla facciata settentrionale della Torre di Antonia e non molto distante da questo celebre castello. Continuando nella medesima direzione fino alla valle Tiropea, che seguiva per un breve tratto verso sud, essa piegava di nuovo ad occidente fino ad arrivare a quella che la tradizione chiama porta del Giudizio, per quindi volgersi decisamente verso Sud. Il viaggiatore, o lo studioso famigliare con la sacra località, riconoscerà in questa strada una parte della via Dolorosa, di tanto e così melanconico interessamento per tutti i Cristiani. Siccome per lo scopo nostro non necessita la descrizione di tutta la via, sarà sufficiente di indicare una casa, la quale merita un esame più attento, sorgente all'ultimo angolo di essa. L'edificio guardava verso occidente e verso settentrione, forse quattrocento piedi di lunghezza per ciascun lato, e, come la maggior parte delle case di una certa pretesa in Oriente, aveva due piani, ed era perfettamente quadrangolare. La via dal lato occidentale misurava circa dodici piedi di larghezza, quella a nord non più di dieci; e chi fosse passato rasente a quelle mura e avesse guardato in alto, sarebbe stato colpito dalla rude, incompleta, ma forte ed imponente apparenza che presentavano, perchè erano formate da larghi blocchi di pietra non tagliati, ma posti l'uno sull'altro come uscivano dalla cava. Un perito dell'epoca lo avrebbe chiamato stile fortilizio, se le finestre, adorne fuor dell'usato, e la finitezza e l'eleganza delle porte non avessero mitigata questa impressione. Le finestre verso occidente erano in numero di quattro, quelle a settentrione soltanto due, tutte all'altezza del secondo piano. Le porte erano semplici interruzioni delle mura del piano inferiore, ed oltre ad essere tempestate di chiodi e difese da catenacci quasi a resistere ai colpi d'un ariete, erano protette da cornici di marmo artisticamente lavorate e di così ardita proiezione da rivelare apertamente al visitatore non ignaro degli usi del popolo, che il ricco proprietario del palazzo era un Sadduceo in politica ed in religione. Dopo essersi separato dal Romano sulla Piazza del Mercato, il giovane Ebreo aveva risalita questa strada e s'era fermato davanti alla porta occidentale del palazzo da noi descritto. Gli fu aperta la porta ed egli entrò frettolosamente senza rispondere all'inchino rispettoso del guardiano. Per renderci conto della struttura interna della casa e per apprendere le ulteriori vicende del giovane, seguiamolo. Il passaggio in cui era stato accolto rassomigliava ad una stretta galleria, con tavolati di legno alle pareti e volta adorna di trafori. Panche di pietra, lucide per lungo uso, la fiancheggiavano. Una quindicina di passi lo portava ad un cortile limitato ad ogni lato da edifici a due piani; il pian terreno era circondato da colonnati, mentre il superiore terminava in una terrazza difesa da una robusta balaustrata. I servitori che andavano e venivano sui terrazzi, il rumore dei macinatoi in lavoro, la biancheria svolazzante su corde tese da parte a parte; le galline e i piccioni liberi e vaganti per il cortile; le capre, le mucche, gli asini e i cavalli posti sotto i colonnati; un grande serbatoio d'acqua evidentemente destinato all'uso comune, rivelavano gli scopi domestici del cortile. Nel lato orientale il muro era interrotto da un altro passaggio simile al primo, e, attraverso a questo, il giovane pervenne in una seconda corte, spaziosa e quadrata, allietata da cespugli fioriti e da viti, cui, un bacino di marmo, aggiungeva bellezza e frescura. I colonnati, qui, erano più alti, ombreggiati da cortine a strisce gialle e rosse, e le colonne avevano sembianza di steli intrecciati. Una gradinata verso sud immetteva ai terrazzi del piano superiore, sopra i quali erano tese grandi tende a proteggerli contro i raggi del sole. Un'altra gradinata conduceva dai terrazzi sul tetto, l'orlo del quale, per tutta la periferia, era adorno di una cornice scolpita e di un parapetto di terracotta rosso vivo. Dappertutto si scorgeva una scrupolosa pulizia che non permetteva alla polvere di adunarsi negli angoli, e non lasciava una foglia secca sopra i cespugli, contribuendo così ad accentuare l'impressione complessivamente deliziosa; tantochè, un visitatore, respirando quell'aria tranquilla e dolce, riceveva un'idea della raffinatezza e della coltura della famiglia che andava a trovare. Fatti alcuni passi nel secondo cortile, il giovine piegò a destra, e scegliendo un sentiero attraverso i cespugli, giunse alla scala ed ascese al terrazzo, il pavimento del quale era coperto di piastrelle bianche e nere, rese lucide dallo stropiccìo continuo dei piedi. Alzando le tende di una portiera situata a settentrione, entrò in un appartamento che il cadere della tenda ripiombò nell'oscurità. Ciò non di meno procedette con passo sicuro verso un divano sopra il quale si gettò bocconi, riposando con la fronte appoggiata alle braccia incrociate. Verso il crepuscolo una donna venne alla porta e chiamò; non avendo ottenuta risposta, sospinse la portiera ed entrò. — «La cena è pronta e cade la notte. Non hai fame?» — gli chiese. — «No» — rispose egli. — «Sei ammalato?» — — «Ho sonno.» — — «Tua madre ha chiesto di te.» — — «Dov'è?» — — «Nel padiglione sopra il tetto.» — Egli si scosse e si alzò. — «Bene, portami qualche cosa da mangiare.» — — «Che cosa desideri?» — — «Quel che ti piace, Amrah. Non sono ammalato, ma sono indifferente alla vita. Essa non mi sembra così piacevole come mi apparve stamane. Un nuovo male, o mia Amrah; e tu che mi conosci così bene, tu che non mi sei mai venuta meno, pensa a ciò che può sostituire i cibi e le medicine. Portami ciò che vuoi!» — Le domande di Amrah, e la voce con cui erano state fatte, bassa, dolce e premurosa, rivelavano rapporti di famigliarità fra quei due. Essa pose la mano sulla fronte di lui, e poi, quasi fosse soddisfatta dell'esame, uscì dicendo: — «Vedrò.» — In breve ritornò recando su di un vassoio di legno una scodella di latte, alcune focaccie di pane bianco, un delicato pasticcio di grano macinato, un uccello lessato, miele e sale. Ad una estremità del vassoio stava una coppa d'argento piena di vino, all'altra una lucerna di bronzo accesa. Così illuminata, la stanza era visibile: le pareti di stucco levigato, la volta interrotta da grandi travi di quercia, annerite e macchiate dalla pioggia e dal tempo; il pavimento coperto di piccole piastrelle azzurre e bianche, resistenti e ben conservate. Alcune sedie con le gambe intagliate a somiglianza di gambe di leoni; un divano di poco rialzato sopra il suolo, guarnito di stoffa azzurra e in parte coperto da un immenso scialle di lana — in una parola, una camera da letto ebrea. La luce lasciò vedere anche la donna. Avvicinando una sedia al divano, essa vi pose il vassoio e poi si inginocchiò vicino al suo signore, pronta a servirlo. Il suo volto era quello di una persona di cinquant'anni, scura di carnagione, nera d'occhi, i quali, in quel momento, erano raddolciti da un'espressione di tenerezza quasi materna. Un turbante bianco copriva la sua testa, lasciando esposta parte delle orecchie e in quelle i segni che rivelavano la sua condizione, — dei fori praticati con una grossa lesina. Era una schiava, di origine Egiziana, alla quale neppure il sacro cinquantesimo anno avrebbe potuto portare la libertà; nè essa l'avrebbe accettata, perchè il ragazzo, cui stava attendendo, formava la gioia della sua vita. Essa lo aveva allattato infante, lo aveva curato bambino, e non poteva tralasciare di servirlo. Per il suo affetto egli non sarebbe mai stato un uomo. Egli parlò una sola volta durante il pasto. — «Ti ricordi, o mia Amrah» — disse — «di quel Messala che soleva venire a trovarmi per giorni intieri?» — — «Lo rammento.» — — «Egli andò a Roma alcuni anni fa, ed è ritornato oggi. Sono stato a fargli visita.» — Un brivido scosse il giovane. — «Io avevo indovinato che ti era accaduto qualche cosa di grave.» — disse Amrah, con profonda sollecitudine. — «Io non ho mai amato Messala. Dimmi tutto.» — Ma egli era tornato sopra pensieri, e alle sue ripetute domande rispose soltanto: — «Egli è molto mutato, ed io non voglio aver nulla più a che fare con lui.» — Quando Amrah portò via il vassoio, egli uscì insieme a lei, e salì dal terrazzo sopra il tetto. Il lettore saprà qualche cosa degli usi a cui si adibiscono i tetti delle case, in Oriente. In quanto ai costumi, il clima è dappertutto il miglior legislatore. L'estate Siriaca, di giorno, costringe le persone a cercare riparo sotto i colonnati ombrosi; ma di notte ne li chiama fuori non appena l'ombre cominciano ad avvolgere lentamente i fianchi delle montagne, come i veli che coprono i cantori Circei. Ma quelle sono lontane, mentre il tetto è vicino, abbastanza rialzato sopra il livello della pianura scintillante, per essere visitato dai freschi venticelli notturni, e per lasciar mirare in tutto il suo splendore la volta stellata del cielo. Così tutta la famiglia si raduna sul tetto, che diviene luogo di giuochi, camera da letto, alcova, sala da musica, da danza, da conversazione, da meditazione e da preghiera. Le ragioni che, in climi più freddi, suggeriscono la decorazione dell'interno delle case, in Oriente consigliano l'abbellimento del tetto. Il parapetto ordinato da Mosè divenne un trionfo dell'arte vasellaria e statuaria. Più tardi, sopra di esso, si elevarono torri, semplici e fantastiche; più tardi ancora principi e imperatori adornarono le sommità delle loro case di padiglioni di marmo e di oro. L'ultimo portato di questo lusso stravagante furono i giardini pensili di Babilonia. Il giovane attraversò lentamente in tutta la sua lunghezza il tetto e si avvicinò ad una torre costruita sull'angolo nord-est del palazzo. Se fosse stato un forestiero avrebbe gettato uno sguardo sull'edificio e avrebbe veduto, per quanto l'ombra crepuscolare lo permetteva, un ammasso oscuro di pietre, con finestre a pilastri e graticci, terminato da una cupola. Egli, rapido, entrò passando invece sotto una cortina mezzo rialzata. Nell'interno regnava l'oscurità, tranne che ai quattro lati ove erano delle aperture arcuate attraverso le quali appariva il cielo illuminato di stelle. In uno dei vani, appoggiata ad un cuscino del divano, appariva la figura di una donna, confusamente, attraverso bianchi drappeggiamenti. Al suono dei suoi passi, il ventaglio che ella teneva in mano cessò di agitarsi, luccicando là dove i raggi delle stelle si rifrangevano nelle gemme di cui era tempestato. La donna si alzò a sedere e chiese: — «Giuda, mio figlio, sei tu?» — — «Sono io, madre,» — egli rispose, accelerando il passo. Si avvicinò, e si inginocchiò dinanzi a lei, mentr'essa lo cinse con le sue braccia e lo strinse al petto colmandolo di baci. CAPITOLO IV. La madre riprese la sua comoda posizione, sopra il cuscino, mentre il figlio prese posto sul divano, appoggiandole il capo sul grembo. Entrambi, guardando fuori attraverso la finestra, potevano vedere un mare di tetti più bassi: più lontano, verso occidente, le cime nereggianti dei monti, e il cielo, brulicante di stelle. La città era tranquilla. Non si udiva che il fruscìo del vento. — «Amrah mi dice che t'è successo qualche cosa di grave» — essa cominciò, accarezzando le sue guancie. — «Quando il mio Giuda era bambino, io lasciava che piccole cose lo infastidissero, ma ora egli è un uomo. Egli non deve dimenticare» — la sua voce si fece molto dolce — «che un giorno egli dovrà essere il mio eroe.» — Essa parlava un idioma quasi caduto in disuso nel paese, ma che alcuni pochi, ricchi di cuore come di beni, conservavano nella sua purezza per distinguersi ancora meglio dai Pagani, — l'idioma in cui Rebecca e Rachele cantarono a Beniamino. Queste parole sembrarono render il giovane pensieroso, ma, dopo qualche istante, egli prese la mano con cui essa gli faceva vento, e disse — «Oggi, o madre, ho dovuto riflettere su molte cose che prima non avevano rattristata la mia mente. Dimmi, anzitutto, che cosa dovrò diventare un giorno?» — — «Non te l'ho già detto? Devi diventare il mio eroe.» — Egli non poteva scorgere il volto di lei, ma sapeva che essa scherzava. Divenne ancora più serio. — «Tu sei molto buona, molto cara, o madre. Nessuno ti amerà più di me.» — Le baciò e ribaciò più volte la mano. — «Io credo di intendere perchè cerchi di evitare la mia domanda,» — continuò. — «Fin'ora la mia vita ti ha appartenuto. Come dolce, come soave è stato il tuo impero su di me! Io vorrei che durasse in eterno. Ma ciò non deve essere. È volontà del Signore che un giorno io divenga padrone di me stesso; sarà un giorno di separazione, e quindi un giorno crudele per te. Siamo serî e coraggiosi. Io sarò il tuo eroe, ma tu devi indicarmi il cammino per divenirlo. Tu conosci la legge: — «Ogni figlio di Israele deve avere una occupazione.» — Io non sono esente dalla legge, e domando ora: Devo occuparmi degli armenti, o coltivare i campi, o segar legna, o diventare dottore od avvocato? Che cosa devo essere? Cara, buona mamma, aiutami a rispondere.» — — «Gamaliele ti ha forse tenuto un discorso,» — essa osservò, pensierosa. — «Se è così, io non lo intesi.» — — «Allora sei andato a passeggio con Simeone, il quale, mi dicono, eredita l'ingegno della sua famiglia.» — — «No, io non l'ho veduto. Io sono stato sul Mercato e non nel Tempio. Ho fatto visita al giovane Messala.» — Un certo cambiamento nella sua voce, attirò l'attenzione della madre. Un presentimento affrettò i battiti del suo cuore; il ventaglio si arrestò di nuovo. — «Messala? E che cosa potè egli dirti per turbarti così?» — — «Egli è molto mutato.» — — «Vuoi dire che è ritornato Romano.» — — «Sì.» — — «Romano!» — essa continuò, quasi fra sè. — «Per tutto il mondo, questo significa tiranno! Quanto tempo è rimasto assente?» — — «Cinque anni.» — Essa alzò il capo e guardò lontano, nella notte. — «I costumi della Via Sacra vanno bene nella strade dell'Egiziano e in Babilonia; ma in Gerusalemme, nella nostra Gerusalemme, impera il Patto.» — E assorta in questo pensiero, ricadde indietro sui cuscini. Egli fu il primo a parlare. — «Ciò che disse Messala fu abbastanza mordace in sè; ma, se aggiungi il modo in cui si espresse, alcuni dei suoi detti furono intollerabili.» — — «Credo di intenderti. Roma, i suoi poeti, i suoi oratori, i suoi senatori, i suoi cortigiani, sono pazzi per l'affettazione di ciò che essi chiamano satira...» — — «Io suppongo che tutti i grandi popoli siano orgogliosi,» — egli proseguì, senza badare all'interruzione; — «ma l'orgoglio di quel popolo è diverso da ogni altro. In questi ultimi tempi è cresciuto a tal misura che appena ne sfuggono gli Dei.» — — «Gli Dei ne sfuggono!» — riprese la madre. — «Più d'un Romano ha accettato l'adorazione dei suoi simili come un suo diritto divino.» — — «Messala ha sempre avute le sue qualità cattive. Quando era bambino io l'ho visto schernire stranieri che persino Erode riceveva con onori: ma almeno risparmiava la Giudea. Per la prima volta, quest'oggi, scherzò sui nostri costumi e su Dio. Come tu mi avresti imposto, io mi sono separato per sempre da lui. Ed ora, o mia cara madre, io vorrei sapere con maggiore certezza se vi è qualche giusto fondamento nel disprezzo del Romano. In che sono io il suo inferiore? Siamo forse un popolo più vile? Perchè dovrei io, anche al cospetto di Cesare, provare la paura dello schiavo? Dimmi specialmente perchè, se io ho un'anima, e così credo, non posso andare alla conquista degli onori di questo mondo ovunque essi siano? Perchè non posso brandire la spada e combattere in guerra? Poeta, perchè non potrò cantare tutti i temi? Io potrò lavorare il metallo, potrò essere guardiano di armenti, mercante, e perchè non anche artista come i Greci? Dimmi, o mia madre, e questo è il riassunto dei miei dolori, — perchè non potrà un figlio di Israele fare tutto ciò che può un Romano?» — Il lettore rintraccierà l'origine di queste domande al colloquio sulla Piazza del Mercato; la madre, ascoltandolo con l'attenzione di tutte le sue facoltà, da indizî che sarebbero sfuggiti ad un uditore più indifferente, dalle connessioni del soggetto, dallo scopo delle domande, forse dall'accento stesso e dal tono della sua voce, non fu meno rapida nel balzare alla medesima illazione. Essa si alzò diritta e con voce rapida e penetrante come quella del figlio, rispose: — «Vedo, vedo! — Per le amicizie della sua infanzia Messala era quasi un Ebreo; se fosse rimasto fra noi si sarebbe, forse, convertito, tanto possono, su di noi, le influenze che maturan la nostra vita. Ma gli anni passati in Roma hanno prevalso. Io non mi meraviglio del mutamento: pure, — la sua voce si abbassò — avrebbe potuto trattare più benignamente almeno te. È un indole dura e crudele quella che può dimenticare i primi affetti di gioventù!» — Con la mano gli sfiorò leggermente la fronte, le dita si impigliarono nei capelli di lui, e indugiarono amorevolmente in essi, mentre gli occhi fissavano le stelle più alte e più splendenti. Fra il suo orgoglio e quello del figlio passava una corrente di perfetta simpatia. Voleva rispondergli; nello stesso tempo non avrebbe voluto per nulla al mondo che la risposta non lo accontentasse, nè fargli una confessione di inferiorità che avrebbe potuto fiaccare il suo spirito per tutta la vita. Esitò, temendo di affidarsi alle proprie forze. — «Ciò che tu proponi, o mio Giuda, non è argomento che possa esser trattato degnamente da una donna. Lascia che sospendiamo il discorso sino a domani, e ci consiglieremo col saggio Simeone....» — — «Non mandarmi dal Rabbino,» — egli disse seccamente. — «Lo farò venire da noi.» — — «No, io cerco qualche cosa di più di una semplice informazione. Egli potrebbe darmela forse meglio di te, o madre, ma tu puoi darmi ciò che egli non può — la risolutezza che è l'anima della nostra anima.» — Mentre i suoi occhi vagavano pel firmamento, ella cercò di comprendere tutto il significato di quelle domande. — «Abbi coraggio, o mio figlio. Messala discende da una stirpe illustre. La sua famiglia si distinse attraverso a molte generazioni. Nei giorni della Roma repubblicana — quanti anni fa non so — i suoi antenati erano famosi per virtù civili e militari. Io mi ricordo di un solo console di quel nome; ma la sua famiglia era fra quelle dei senatori e la protezione ne era ricercata come quella di uomini influenti e ricchi. Ma se oggi il tuo amico si vantò dei suoi avi, avresti potuto ridurlo al silenzio enumerando i tuoi. Se egli parlò delle età attraverso le quali si possono seguire il suo lignaggio, le gesta, la potenza, la ricchezza, della sua famiglia, — e queste allusioni, tranne nel caso che grandi ragioni lo richieggano, sono indizî d'un'anima piccina — avresti potuto sfidarlo al paragone.» — Dopo una breve pausa, in cui raccolse i pensieri, la madre proseguì: — «Una delle idee prevalenti in questa età è l'importanza data alla nobiltà delle stirpi e delle famiglie. Un Romano che vanti per questo la sua superiorità sopra un figlio di Israele sarà sempre sconfitto. La sua origine data dalla fondazione di Roma; i più illustri fra di essi non possono ripeterla ad un tempo più remoto; alcuni pretendono di farlo ma non possono convalidare il loro asserto con altre prove, che col riferirsi alla tradizione. Messala in ogni modo non lo potrebbe. Veniamo a noi. Noi lo potremmo?» — Se un poco più di luce vi fosse stata nella stanza si sarebbe visto l'orgoglio imporporare le gote della donna e scintillarle negli occhi. — «Immaginiamo che il Romano ci sfidasse, io potrei rispondergli senza millanteria e senza paura.» — La sua voce esitò; una mesta ricordanza mutò la forma del suo discorso. — «Tuo padre, o mio Giuda, dorme in pace coi padri suoi; ma io mi rammento, come se fosse jeri, il giorno in cui, lui ed io, accompagnati da molti amici festanti, ci recammo al Tempio, alla presenza del Signore. Sacrificammo le colombe, e, al sacerdote, diedi il tuo nome che egli scrisse davanti a me: «Giuda, figlio di Iamar, della Casa dei Hur.» Questo nome fu poi ricopiato nel registro messo a parte per gli atti della santa famiglia.[1] [1] In questi giorni fu scoperta presso Babilonia un'iscrizione ebraica col nome di _Ur_, compagno di Giosuè. (_N. d. T._) Io non so quando ebbe principio questa costumanza della registrazione. So che era già in uso prima della fuga dall'Egitto. Hillele afferma che Abramo fece fare questi annali per proprio conto col suo nome e i nomi de' suoi figli, mosso dalla promessa del Signore che separò lui e la sua stirpe da tutte le altre razze, e la creò la prima, la più grande, l'eletta della terra. Il patto con Giacobbe, diceva la stessa cosa. «Nella tua semenza tutte le nazioni del mondo saranno benedette». Così disse l'Angelo ad Abramo: «E la terra su cui giaci, io la dono a te ed alla tua semenza.» Così parlò il Signore istesso a Giacobbe addormentato a Bethel sulla strada di Haran. Più tardi uomini saggi cominciarono a pensare ad una giusta partizione della terra promessa, e, affinchè fosse conosciuto chi in quel giorno avesse diritto ad una porzione, fu iniziato il Libro delle Generazioni. — Il beneficato avrebbe potuto essere il più umile della famiglia eletta, perchè il Signore Iddio non conosce distinzioni di rango e di ricchezza. Così, affinchè la verità apparisse chiara agli uomini che dovevano esser testimoni al grande avvenimento, ed essi potessero attribuirne la gloria a chi spettava, si richiese la tenuta degli annali con scrupolosa esattezza. Furono così tenuti?» — Il ventaglio si agitò in silenzio qualche minuto, finchè egli impazientito, ripetè la domanda della madre: — «Gli annali sono perfettamente esatti?» — — «Hillele disse che lo sono, e di quanti si occuparono dell'argomento egli è il meglio edotto. Il nostro popolo fu spesso negligente di alcune parti della legge, ma mai di questa. Il buon Rabbino ha egli stesso studiato il Libro delle Generazioni attraverso tre periodi, dalla promessa sino all'apertura del Tempio, sino alla cattività e sino ai giorni nostri. Solo una volta furono interrotti gli annali, e questo avvenne verso la fine del secondo periodo. Ma quando la nazione ritornò dal lungo esiglio, quale primo dovere verso Dio, Zerubbabele ristaurò i Libri, permettendoci nuovamente di seguire la discendenza delle famiglie Ebree per duemil'anni. Ed ora....» — Si arrestò un istante, come per agevolare al suo ascoltatore la comprensione di quanto aveva detto. — «Ed ora che cosa diviene il superbo vanto del Romano? per questo paragone i figli d'Israele che vegliano sugli armenti sul monte Rephaim, laggiù, sono più nobili del più illustre dei Marcii.» — — «Ed io, madre? che dicono i Libri di me?» — — «Ciò che io ho detto sin'ora aveva relazione colla tua domanda. Io ti risponderò. Se Messala fosse presente, egli potrebbe dire, come altri han detto, che la traccia del tuo lignaggio si smarrisce quando gli Assiri presero Gerusalemme, e distrussero il Tempio, con tutti i suoi cimelii preziosi. Ma tu potresti opporgli il pio lavoro di Zerubbabele, e rispondere, in verità, che la genealogia Romana terminò quando i barbari d'occidente entrarono in Roma e si accamparono, sei mesi, nelle sue vie desolate. Il Governo teneva forse gli annali gentilizî? Se fu così che avvenne di essi in quei giorni funesti? No, no; la verità parla, alla fondazione del Tempio, e indietro, fino, alla marcia dall'Egitto, onde abbiamo l'assoluta certezza che tu discendi in linea diretta da Hur, compagno di Giosuè. In quanto agli antenati, il tuo onore non è dunque grande? Desideri di indagare più oltre? Prendi la _Torah_ ed apri il Libro dei Numeri, e settantadue generazioni dopo Adamo troverai il capostipite della tua casa.» — Il silenzio regnò per qualche tempo, nella stanza sopra il tetto. — «Io ti ringrazio, o madre» — disse Giuda stringendo le mani di lei nelle sue — «io ti ringrazio di tutto cuore. Avevo ragione di non chiamare il buon Rabbino; egli non avrebbe potuto soddisfarmi come tu lo hai fatto. Ma, per nobilitare veramente una famiglia, basta il solo tempo?» — — «Ah, tu dimentichi, tu dimentichi! Le nostre pretese non poggiano unicamente sul tempo; il favore del Signore è la nostra gloria precipua.» — — «Tu parli della razza, ed io, madre, della famiglia, della nostra famiglia. Negli anni dopo Abramo che cosa ha operato, che cosa ha conseguito? Quali sono le grandi gesta che la innalzano sopra il livello de' suoi pari?» — Essa esitò, pensando che forse si era tutto questo tempo ingannata sul conto suo. I ragguagli che egli cercava potevano avere uno scopo ulteriore, che non la soddisfazione dell'orgoglio offeso. La gioventù non è che un guscio dipinto in cui risiede quella meraviglia che è lo spirito dell'uomo il quale non aspetta che una certa età per far pompa di sè, più precoce negli uni che negli altri. Essa tremava pensando che questo poteva essere il momento decisivo della vita di Giuda; che, come i bambini appena nati tendono le loro mani inesperte ad afferrare le ombre e piangendo, così l'anima sua, ancora cieca, brancolava in cerca del suo ignoto avvenire. Quelli a cui un giovane viene chiedendo: «Chi sono io e che cosa devo essere?» hanno bisogno di usare di tutta la loro prudenza. Ogni parola della loro risposta potrà essere, nella vita futura, ciò che l'impronta delle dita dell'artefice è per la creta che egli sta modellando. — «Io provo il sentimento, o mio Giuda» — ella disse, accarezzandogli il capo con la mano che egli aveva stretta fra le sue — «io provo il sentimento di chi lotta contro un avversario ancora sconosciuto. Se Messala è il tuo nemico, dimmi tutto quanto ti ha detto.» — CAPITOLO V. Il giovane Israelita raccontò il suo colloquio con Messala, fermandosi specialmente sulle espressioni di scherno usate da costui contro gli Ebrei, i loro costumi e la loro vita. Temendo di parlare, la madre ascoltò in silenzio. Giuda si era recato in Piazza del Mercato attratto dall'affetto per un suo compagno d'infanzia che egli credeva di trovare quale era cinque anni prima, quando egli era partito: aveva all'opposto incontrato un uomo, che invece di ricordargli le risa ed i trastulli passati, gli aveva parlato del futuro, gli aveva fatto balenare alla mente la gloria dei conquistatori, le loro ricchezze, la loro potenza, e il visitatore era tornato a casa ferito nell'orgoglio, ma animato da una naturale ambizione; la madre, gelosa, lo intuì, e non sapendo quale piega potessero prendere le aspirazioni del figlio, s'intimorì subito. Se ella lo avesse distolto dalla fede dei suoi padri? Agli occhi di lei questa conseguenza apparve più terribile di tutte le altre. Non scorgeva che un solo mezzo per evitarla, e si accinse a questo compito con tutte le forze della sua intelligenza, acuite a tal punto dall'affetto, che, il suo dire, diventò quasi maschile nella foga, e, a momenti, assunse quasi l'ispirazione di un poeta. — «Non v'è mai stato un popolo» — cominciò — «che non si sia creduto almeno pari a qualunque altro; mai una grande nazione che non si sia creduta massima fra tutte. Quando il Romano, guarda dall'alto in basso Israele non fa che ripetere la follìa dell'Egizio, dell'Assiro, del Macedone; e siccome Dio è dalla nostra parte, il risultato è sempre il medesimo.» — La sua voce divenne più sicura. — «Non vi è una legge che determini la superiorità dei popoli; quindi vana è la pretesa e inutili sono le dispute. Un popolo sorge; percorre il suo cammino, e muore o di morte naturale o per insidia di un altro che gli succede nella sua potenza, occupa il suo posto, e sopra i suoi monumenti scrive nomi nuovi; tale è la storia. Se dovessi esprimere simbolicamente Dio e l'uomo nella forma più semplice, io traccerei una linea retta ed un cerchio; e della linea direi: — «Questo è Dio, perchè egli solo procede diritto in eterno; e del cerchio: Questo è l'uomo: tale è il suo cammino.» — Io non intendo dire che non vi sia differenza fra la vita delle singole nazioni; non ve ne sono due che abbian vite compagne. Tuttavia la differenza non consiste, come alcuni sostengono, nell'ampiezza del cerchio che descrivono o nello spazio di terra che coprono, ma dall'altezza della sfera ove si compie il loro ambito, le più alte sfere essendo le più vicine a Dio. Se ci fermassimo qui, o mio figlio, abbandoneremmo il tema della nostra conversazione senza averlo trattato. Continuiamo. Vi sono dei segni coi quali si misura l'altezza del cerchio che compie ogni nazione del quale dirò solo che è base a questi, paragoniamo l'Ebreo col Romano. La vita quotidiana del popolo è il più semplice di tali segni del quale dirò solo che Israele ha dunque talora dimenticato Dio, mentre il Romano non lo ha mai conosciuto; il paragone dunque non regge. Il tuo amico, — il tuo amico d'una volta, — ci rimproverò — se bene intesi, — la mancanza di poeti, artisti e guerrieri; col che volle significare che noi non abbiamo avuto grandi uomini, un altro dei segni di cui parlo. Per comprendere bene questa accusa è necessario premettere una definizione. Un grande uomo, o mio figlio, è uno che nella sua vita dimostra di esser stato protetto, se non chiamato da Dio. Il Signore adoperò un Persiano per punire i nostri padri apostati, riducendoli in cattività; un altro Persiano fu eletto per ricondurre i loro figli in Terra Santa; più grande di entrambi, però, fu il Macedone per opera del quale fu vendicata la devastazione della Giudea e la rovina del Tempio. Lo speciale merito di questi uomini fu che ciascuno di loro fu scelto dal Signore per eseguire un disegno divino; nè scema la loro gloria pel fatto che furono pagani. Tieni presente questa definizione mentre procedo. Vi è un'opinione, secondo la quale la guerra costituisce la più nobile occupazione dell'uomo, e che antepone la gloria dei campi di battaglia a tutte le altre. Non ti inganni questa comune opinione del mondo. È una legge che finchè vi sia qualche cosa che non intendiamo, noi dobbiamo adorarla. La preghiera del barbaro è un urlo di paura di fronte alla forza, la sola qualità divina che egli arriva chiaramente a concepire; d'onde la sua fede negli eroi. Che cosa è Giove se non un eroe Romano? La grande gloria dei Greci è d'aver posto pei primi l'Intelligenza sopra la Forza. In Atene l'oratore e il filosofo furono più venerati del guerriero. L'auriga e il corridore veloce sono ancora gli idoli dell'arena, ma le corone di semprevivi sono riserbate al più dolce cantore. Sette città si contesero l'onore di aver dato i natali ad un poeta. Ma l'Elleno non fu il primo a negare la vecchia fede barbarica. No, mio figlio; quella gloria è nostra: Dio si rivelò ai nostri padri; nella nostra religione l'urlo della paura ha ceduto il posto all'Osanna e al Salmo. Così l'Ebreo ed il Greco, alla testa dell'umanità, l'avrebbero condotta sempre più in alto ed avanti. Ma, ahimè! L'ordinamento del mondo poggia sulla guerra come sopra una condizione eterna. Perciò, sopra l'Intelligenza, e sopra Dio, il Romano ha innalzato il suo Cesare, la concentrazione di tutta la potenza conseguibile, la negazione di ogni altra grandezza. L'impero dei Greci fu la primavera dell'ingegno. Quale schiera di pensatori l'Intelletto produceva in cambio della libertà che godeva! Ogni cosa ottima aveva la sua gloria, e in ogni cosa regnava una perfezione così assoluta che in tutto, tranne in guerra, il Romano, ha piegato la testa, e si è abbassato all'imitazione. Un Greco è ora il modello degli oratori nel Foro; ascolta, e in ogni canzone Romana intenderai il ritmo del Greco; se un Romano parla saggiamente di morale, di astrazioni, o di misteri della natura, o è un plagiario, o un discepolo di qualche scuola che ebbe un Greco a suo fondatore. In null'altro che nella guerra, lo ripeto, Roma può accampare pretese di originalità. I suoi giuochi e i suoi spettacoli sono invenzioni greche rese più feroci col sangue per appagare la ferocia della plebaglia; la sua religione, se così si può chiamare, è un centone a cui hanno contribuito le fedi di tutti i popoli; i suoi Dei più venerati sono quelli dell'Olimpo, — lo stesso Marte, lo stesso Giove che vantano tanto. Così avviene, o mio figlio, che solo in tutto il mondo il nostro Israele può lottare con la superiorità del Greco, e contendergli la palma dell'originalità dell'Intelletto. L'egoismo del Romano è cieco, impenetrabile come la sua corazza, davanti alle buone qualità degli altri popoli. Oh, predoni spietati! Sotto l'urto dei loro talloni la terra trema come il grano battuto dalla grandine! Noi siamo caduti insieme agli altri, — ahi, ch'io debba dirtelo, figliuol mio! — Essi si sono impadroniti delle nostre cariche più eccelse, occupano i luoghi più sacri, e chi ne prevede la fine? Ma, questo io so, — potranno ridurre la Giudea come una mandorla frantumata dai martelli, e divorare Gerusalemme, che ne è l'olio e la dolcezza; ma la gloria degli uomini di Israele rimarrà come un faro nei cieli, inarrivabile alle loro mani; perchè la nostra storia è la storia di Dio, che scrisse con le nostre mani, parlò con le nostre lingue, fonte suprema egli medesimo di tutto il bene che fu nostro; che visse con noi, legislatore sul Sinai, guida nel deserto, in guerra duce, Re nel governo; che nei momenti di dubbio sollevò le tende del padiglione lucente in cui dimora, e, come uomo che parli ad uomini, ci indicò il giusto e retto cammino della vita, e con solenni promesse ci avvinse a Lui con patti eterni. O mio figlio, può darsi che coloro con cui Jeova dimorò, terribile famigliare, non abbiano nulla appreso da Lui? Che nella loro vita e nelle loro azioni le comuni qualità degli uomini non siano state conservate in qualche modo e colorite dall'influenza divina? che il loro genio, anche dopo tanto lasso di secoli, non ritenga in sè qualche scintilla celeste?» — Per qualche tempo il silenzio della stanza non fu rotto che dal fruscìo del ventaglio. — «Nell'arte scultoria e della pittura,» — proseguì — «Israele non ha avuto cultori.» — La confessione era fatta con rammarico, perchè dobbiamo ricordare che essa apparteneva alla setta dei Sadduei, la fede dei quali, a differenza di quella dei Farisei, permetteva l'amore per il bello in tutte le sue forme e manifestazioni, indipendentemente dalle sue origini. — «Pure, chi non vuol condannarci ingiustamente,» continuò, «non deve dimenticare che l'abilità delle nostre dita fu contenuta dal divieto: «Tu non farai per te alcuna figura scolpita, o la immagine di chicchessia,» il che i Sopherim malvagiamente estesero oltre lo spirito della disposizione. E neppure dobbiamo dimenticare che molto tempo prima che Dedalo apparisse nell'Attica e con le sue immagini di legno trasformasse la scoltura in modo da rendere possibili le scuole di Corinto e di Egina e i trionfi del Pecile e del Campidoglio, molto tempo prima di Dedalo, dico, due Israeliti, Bezaleel ed Aholiab, i mastri-artefici del primo tabernacolo, rinomati per la loro perizia in tutti i rami dell'arte, foggiarono i cherubini che troneggiavano sopra l'arca. D'oro battuto, non cesellato, erano fatte quelle statue, divine insieme ed umane nell'aspetto. «Ed esse stenderanno le loro ali dall'alto.... e i loro volti si guarderanno....» Chi nega che fossero bellissime? o che non fossero le prime statue?» — — «Ora comprendo perchè i Greci ci hanno sorpassato,» — disse Giuda, con profondo interesse.» — E l'Arca? Maledetti siano i Babilonesi che l'hanno distrutta!» — — «Non dir così, Giuda; sii credente. Non fu distrutta, solo andò perduta, nascosta troppo bene in qualche caverna nei monti. Un giorno, — Hillele e Sciammai lo assicurano entrambi, — un giorno, quando il Signore vorrà, sarà trovata, ed Israele danzerà davanti ad essa, cantando come nei tempi andati. E quelli che allora guarderanno in volto i cherubini d'oro, quantunque si siano già beati dell'aspetto della marmorea Minerva, saranno pronti a baciare la mano dell'Ebreo, per amore del suo genio sopito pel corso di tante migliaia d'anni.» — La madre, trasportata da varie passioni, aveva parlato con la foga e la veemenza di un oratore; ed ora, per riposarsi, e ricuperare il filo dei suoi pensieri, fece una breve pausa. — «Tu sei tanto buona, o mia madre,» — egli disse con riconoscenza, — «che non mi stancherò mai di ripetertelo. Nè Sciammai, nè Hillele avrebbero potuto parlar meglio. Io sono ritornato un vero figlio di Israele.» — — «Adulatore!» — esclamò. Tu non sai che io non ho fatto che ripetere gli argomenti che intesi esporre da Hillele in una conversazione che egli ebbe in mia presenza con un sofista di Roma.» — — «Ma almeno la foga della parola era tua.» — Essa riprese: — «Dove eravamo? Ah sì! Rivendicavo ai nostri padri Ebrei la gloria di aver costruito le prime statue. Ma l'abilità dello scultore, o mio Giuda, non esaurisce l'arte, come l'arte non è che una parziale estrinsecazione della grandezza. Io m'immagino la processione dei grandi uomini discendere la scalea dei secoli, divisi in gruppi a seconda delle nazionalità. Qui gli Indiani, là gli Egizii, più in là gli Assiri. Li accompagna il suono di fanfare; stendardi sventolano sopra i loro capi. A destra e sinistra, spettatrici riverenti, stanno le innumere generazioni. Mentre avanzano, mi par d'intendere il Greco esclamare: — «Largo! Alla testa di tutti vengono gli Elleni!» — E il Romano protesta: — «Silenzio! il posto che fu tuo ora è mio; vi abbiamo lasciato indietro come la polvere che calcammo sotto i piedi!» — E durante tutto questo tempo, dalla coda della processione al principio di essa, perdentesi nel lontano futuro, splende una luce sconosciuta al cuore dei contendenti, ma che li guida e li spinge eternamente: la luce della Rivelazione. E chi sono i lampadofori? Ah, il vecchio sangue Giudeo! Come esso brulica e fermenta al solo pensarvi! Per questa luce vi riconosciamo, o tre volte benedetti, padri della nostra stirpe, servi del Signore, custodi dei patti! Voi siete i duci dell'umanità, morta e vivente. Vostra è l'avanguardia: e quand'anche ogni Romano fosse per Cesare, non la perderete!» — Giuda era profondamente commosso. — «Non arrestarti, ti prego. Io odo la musica dei tamburelli. Attendo Miriam e le donne che seguirono il suo canto e la sua danza!» — Essa rientrò in perfetta padronanza di sè e con prontezza di spirito seppe approfittare della commozione del giovine. — «Sta bene, mio figlio. Se tu senti il tamburello della profetessa, puoi fare ciò che ti domando. Immagina di trovarti con me al ciglio della strada per cui passano gli eletti di Israele alla testa della processione. Ecco che avanzano, — prima i patriarchi, poi i padri della tribù. Mi par quasi d'intendere il tinnire dei sonagli dei loro cammelli e il muggito degli armenti. Chi è quegli che cammina da solo fra le schiere? Un vegliardo, ma dallo sguardo limpido, dall'andatura franca. Egli vide il Signore faccia a faccia! Guerriero, poeta, oratore, legislatore, profeta, la sua grandezza è come quella del sole in sul mattino, che col suo splendore offusca tutte le altre faci, anche quella del primo e più illustre dei Cesari. Dopo di lui i giudici. Quindi i Re, — il figlio di Jesse, l'eroe nei combattimenti, il cantore di carmi imperituri come la _canzone del mare_; e suo figlio, che, avanzando tutti gli altri principi in ricchezza e sapienza, e mutando il deserto in fertili campi e floride città, non si dimenticavano di questa Gerusalemme che il Signore elesse per sua sede terrena. Piega il capo, mio figlio! Questi che vengono sono i primi e gli ultimi della loro razza. I loro visi sono rivolti in alto, quasi intendessero una voce dal Cielo e stessero in ascolto. La loro vita fu piena di afflizioni. Le loro vesti esalano il tanfo della tomba e della caverna. Una donna parla fra di essi. — «Esaltate la gloria del Signore, perchè suo è il trionfo!» — China la fronte nella polvere davanti a loro! I principi impallidirono al loro appressarsi, le nazioni tremarono al suono della loro voce e gli elementi divennero loro docili servitori e flessibili stromenti. Nelle loro mani recavano ogni bene ed ogni male. Vedi il Tisbita e il suo servitore Elia! Vedi il mesto figliuolo di Hilkiah, e lui, il Reggente di Chebar! E dei tre figli di Giuda che ripudiarono l'immagine del Babilonese, vedi Colui, che, alla cena dei mille capitani, confuse gli astrologhi! E più in là, — o mio figlio, bacia nuovamente la polvere! — Ecco il cortese figlio di Amoz, dalle cui labbra uscì la promessa del Messia venturo!» — Mentre parlava, il ventaglio si agitava violentemente; adesso si arrestò, ed ella, abbassando la voce: — «Tu sei stanco,» — disse. — «No» — egli rispose. — «Stavo ascoltando una nuova canzone di Israele.» — La madre, desiderosa di raggiungere il suo intento, lasciò cadere, come se le tornasse inosservato, il complimento. — «Come meglio ho potuto, o Giuda, ho fatto passare innanzi ai tuoi occhi i grandi uomini della nostra nazione, — patriarchi, legislatori, guerrieri, poeti, reggenti. Ora veniamo a Roma. A Mosè contrapponi Cesare; a Davide, Tarquinio; Silla ai Maccabei; ai migliori fra i consoli i giudici; ad Augusto, Salomone, e avrai finito; il paragone cessa a questo punto. Ma pensa ai profeti — grandi fra i grandi!» — Rise sdegnosamente. — «Scusami. Mi venne in mente quell'indovino, che ammonì Caio Giulio contro gli Idi di Marzo, ed ebbe il presagio cercando nelle viscere dei polli gli auspicî che il suo padrone sprezzava. Pensa invece ad Elia seduto sulla vetta della collina che fronteggia la strada di Samaria, in mezzo ai corpi fumanti di capitani e soldati, nell'atto d'ammonire il figlio di Ahab, predicendogli l'ira di Dio. Finalmente, o mio Giuda, se un tale paragone è lecito — come giudicheremo Jeova e Giove se non dagli atti dei loro fedeli? Quanto al tuo avvenire, mio figlio...» — La sua voce ebbe un tremito e le parole uscivano, a stento, dalle sue labbra: — Quanto al tuo avvenire, mio figlio, servi Iddio, il Signore Iddio d'Israele, non Roma. Per un figlio di Abramo non vi ha gloria se non sul cammino di Dio....» — — «Potrò dunque andare soldato?» — chiese Giuda. — «Perchè no? Mosè non chiamò il Signore: «Dio delle armi?» — Seguì un lungo silenzio. — «Hai il mio permesso, — «essa disse finalmente» — purchè tu serva il Signore, e non Cesare.» — Egli fu soddisfatto della condizione impostagli, e, dopo un poco, si addormentò. Allora essa si alzò, gli mise un cuscino sotto la testa, e, copertolo con uno scialle, lo baciò teneramente, ed uscì. CAPITOLO VI. L'uomo probo, come il malvagio, deve morire; ma sicuri nei dettami della nostra fede, noi diciamo di lui: — «Non importa, aprirà gli occhi in Cielo.» — Affine a questo risveglio è in questa vita il destarsi da un sonno salutare alla piena coscienza! Quando Giuda si svegliò, il sole era già alto sulle montagne; i piccioni volavano a stormi per l'aria, con le ali bianche, aperte e tese; e, verso oriente, egli vide il Tempio, monumento d'oro in risalto coll'azzurro del cielo. Ma questi essendo oggetti famigliari ai suoi occhi, non ricevettero da lui che un rapido sguardo. Sulla sponda del divano una fanciulla appena quindicenne sedeva, accompagnando il canto al suono di un _nebel_, appoggiato sopra le ginocchia, e che essa toccava con grazia. A lei si volse, ascoltando, e questo è quanto udì: Non ti svegliare, ascoltami, E sopra i flutti azzurri Manda il tuo spirto a me; Con placidi sussurri Viene il corteo dei sogni A ragionar con te. Tu scegli il più bel sogno Di quanti il paradiso Dischiude oggi per te; Scegli, e mi dica, cara. Mi dica il tuo sorriso Che in sogno pensi a me. Essa depose l'istrumento, e, piegando le sue mani sopra le ginocchia, aspettò ch'egli parlasse. Noi approfitteremo di questo momento per aggiungere alcuni particolari intorno alla famiglia, nella vita domestica della quale siamo penetrati. I favori di Erode avevano accumulato, nelle mani di alcuni, vastissimi beni. Quando a queste sostanze si aggiungeva una nobiltà di lignaggio, la discendenza per esempio da qualche famoso capo tribù, il felice individuo, nelle cui mani le ricchezze si concentravano, era reputato Principe di Gerusalemme, distinzione che gli meritava l'omaggio dei suoi compaesani più poveri, e il rispetto, se non altro, di quei Gentili, coi quali gli affari o le funzioni sociali lo mettevano in contatto. In questa classe nessuno s'era, nella vita pubblica e privata, guadagnata più alta stima del padre del giovanetto di cui abbiam seguito i passi. Pur serbando vivo il ricordo della sua nazionalità, egli aveva fedelmente servito il suo Re in patria e all'estero. I suoi doveri lo condussero qualche volta a Roma, dove la sua condotta gli attirò l'attenzione di Augusto, che gli concesse intera la sua amicizia. La casa era piena di testimonianze di questi favori regali; toghe di porpora, scranni d'avorio, _paterae_ d'oro, pregevoli sopra tutto perchè provenienti dall'imperatore. Un uomo siffatto non poteva che essere ricco; ma la sua ricchezza non derivava interamente dalla generosità dei suoi reali protettori. Egli aveva obbedito la legge che gli prescriveva di abbracciare una professione, ma invece di una, ne seguì parecchie. Centinaia di pastori che curavano gli armenti sulle pianure e sui colli, fino alle lontane falde del Libano, lo chiamavano padrone. Nelle città e nei porti di mare aveva fondato case commerciali; le sue navi gli recavano l'argento della Spagna, che allora possedeva le più ricche miniere conosciute; mentre, le sue carovane, arrivavano due volte all'anno dall'oriente, cariche di sete e di droghe. Egli era un Ebreo in tutto il significato della parola, ossequioso della legge e dei riti; fedele al suo posto nella Sinagoga e nel Tempio, profondamente versato nelle sacre Scritture. Si compiaceva della compagnia dei dotti, e la sua ammirazione per Hillele confinava con l'adorazione. Non di meno non era affatto separatista; la sua ospitalità accoglieva stranieri di ogni terra, e i bigotti Farisei lo accusavano di avere più volte invitato a cena dei Samaritani. Se fosse stato un pagano, e fosse vissuto più a lungo, il mondo avrebbe forse udito parlare di lui come del rivale di Erode Attico; invece egli morì in mare, dieci anni prima del secondo periodo del nostro racconto, nel fiore dell'età, con dolore di tutta la Giudea. Conosciamo già due membri della sua famiglia, la vedova e il figlio; non rimane che a conoscer la figlia, la giovinetta che abbiamo udito cantare al letto del fratello. Essa aveva nome Tirzah, e, nel vedere quei due l'uno accanto all'altro, si comprendeva come fossero fratelli. Le sembianze della giovinetta avevano la regolarità di quelli di Giuda e denotavano il tipo ebraico, possedendo inoltre il medesimo fascino dell'ingenuità dell'espressione, propria ai giovani. La vita casalinga e la semplicità dei costumi ebraici, permettevano un'abbigliamento confidenziale come quello in cui ora appariva. Una camicetta, che era abbottonata sulla spalla destra e passava sotto il braccio sinistro, celava a mezzo il busto, mentre lasciava nude le braccia. Una cintura raccoglieva le pieghe della veste, indicando il principio della sottana. L'acconciatura del capo era semplice e graziosa: un berretto di seta di Tiro, e, sopra ad esso un velo, della medesima stoffa, multicolore, stupendamente ricamato e disposto in tenui pieghe così da porre in rilievo la forma del capo, senza renderla goffa; il tutto terminato da un fiocco pendente dalla cima del berretto. Portava anelli alle dita e alle orecchie, braccialetti d'oro ai polsi e alle caviglie; e, intorno al suo collo, pendeva una collana d'oro con una rete curiosa di catenelle da cui pendevano ciondoli di perle. Gli orli delle ciglia erano dipinte come pure le estremità delle dita. I capelli cadevano in lunghe treccie sopra le spalle, mentre due riccioli scendevano su ciascuna gota a coprire le orecchie. In complesso, una creatura di sorprendente grazia, eleganza e bellezza. — «Gentilissima, mia Tirzah» — disse Giuda guardandola. — «Chi è gentile? La canzone?» — chiese quella. — «Sì, e anche la cantatrice. Il concetto è greco. Dove l'hai imparata?» — — «Ti ricordi quel Greco che cantò in teatro il mese scorso? Dicevano che era stato cantante alla corte di Erode e di sua sorella Salomè. Sai, venne proprio dopo i lottatori, e il teatro risuonava di clamori. Alla prima nota si fece un così profondo silenzio, che potei udire ogni parola. Ecco come ho potuto imparare la canzone.» — — «Ma egli cantava in greco.» — — «Ed io la canto in ebraico.» — — «Oh! oh! Io sono orgoglioso della mia sorellina. Ne sai delle altre?» — — «Molte, ma adesso non ce ne occupiamo. Amrah mi manda a te per dirti che ti porterà la colazione e che non è necessario che tu discenda. Deve essere qui a momenti. Essa ti crede ammalato, dice che una terribile disgrazia ti è capitata ieri. Che cos'è stato? Dimmelo, ed io aiuterò Amrah a curarti. Essa conosce tutti i farmaci degli Egizî, che furono sempre degli stupidi; ma io ho molte ricette degli Arabi, i quali....» — — «Sono ancora più stupidi degli Egizi» — osservò egli, crollando il capo. — «Credi? Sta bene, allora,» — replicò essa, avvicinando la mano all'orecchia sinistra, — «non ce ne occuperemo. Io ho qui qualche cosa di meglio e di più sicuro, l'amuleto, che, molti anni fa, quanti non ricordo, un mago persiano diede alla nostra gente. Guarda, l'iscrizione è quasi cancellata.» — Gli porse l'orecchino, che egli prese, e le restituì ridendo. — «Fossi anche moribondo, o mia Tirzah, non potrei adoperare l'amuleto. È una reliquia pagana, vietata ad ogni figlia o figlio d'Abramo. Prendilo, ma non portarlo più.» — — «Vietato? Baie! Ho veduto la madre di nostro padre portarlo tutte le domeniche di sua vita. Ha guarite non so quante persone, ma certo più di tre. È stato approvato, vedine il segno, dai Rabbini.» — — «Io non ho fede negli amuleti.» — Essa alzò gli occhi meravigliati sul viso del fratello. — «Che cosa direbbe Amrah?» — — «Il padre e la madre di Amrah credevano nei rimedi e nei sortilegi.» — — «E Gamaliele?» — — «Egli le chiama maledette invenzioni di miscredenti.» — Tirzah guardò l'anello dubbiosamente. — «Che cosa devo farne?» — — «Portalo, sorellina. Accresce la tua bellezza, quantunque credo che tu non ne abbia bisogno.» — Soddisfatta, ritornò l'amuleto all'orecchio proprio nel momento in cui Amrah entrò nella stanza recando il vassoio col catino, coll'acqua e coll'asciugamano. Non essendo Giuda un Fariseo, le abluzioni furono semplici e brevi. La schiava uscì e Tirzah si accinse ad acconciargli i capelli, tirando fuori di tanto in tanto un piccolo specchio metallico che portava alla cintura, alla foggia delle donne ebraiche, e porgendoglielo affinchè egli si accertasse della maestrìa con cui procedeva nell'artistico lavoro. Frattanto la conversazione non languiva. — «Che cosa ne dici, Tirzah? Io parto.» — Essa lasciò cadere le mani per lo stupore. — «Parti? Quando? Dove? Perchè?» — Egli rise. — «Quante domande in una volta sola! come sei curiosa!» — Poi facendosi più serio: — «Tu conosci la legge; essa prescrive a ciascuno una professione. Nostro padre ce ne fornì l'esempio. Tu stessa mi disprezzeresti se io consumassi nell'ozio quanto la sua industria e la sua sapienza accumularono. Vado a Roma.» — — «Oh, voglio venir con te!» — — «Tu devi tener compagnia alla mamma. Se la lasciassimo entrambi, ne morrebbe.» — Il volto di Tirzah impallidì. — «Ah sì, ma tu? è proprio necessario che tu vada? Anche qui in Gerusalemme puoi trovare tutto quanto è necessario per diventar commerciante, se è questo il tuo ideale.» — — «Io non penso a questo. La legge non richiede che il figlio segua la professione del padre.» — — «Che altro vuoi diventare?» — — «Soldato!» — rispose egli con una certa fierezza. — «Ma ti uccideranno!» — — «Sia, se tale è la volontà di Dio. Ma, Tirzah, tutti i soldati non muoiono uccisi!» — Essa gli gettò le braccia al collo come per trattenerlo: — «Siamo tanto felici! Resta a casa, fratello!» — — «La casa non rimarrà sempre così. Tu stessa la abbandonerai fra breve.» — — «Mai!» — Egli sorrise della violenza colla quale eran state pronunciate le sue parole. — «Uno di questi giorni verrà un principe di Giuda o di qualche altra tribù a chiedere la mia Tirzah, e la porterà con sè, a illuminare col suo sorriso un'altra casa. Che sarà allora di me?» — Essa rispose con un sorriso. — «La guerra è un mestiere» — egli continuò. — «Per impararlo bene bisogna andare a scuola, e la migliore delle scuole è un accampamento romano.» — — «Vuoi combattere per Roma?» — chiese Tirzah spaventata. — «Anche tu, così giovane, lo temi? Tutto il mondo dunque la odia! Sì, mia Tirzah, voglio combattere per essa, purchè in compenso mi insegni un giorno come combattere contro di lei.» — — «Quando partirai?» — In quella si udirono i passi di Amrah che ritornava. — «Sst!» — fece egli. — «Non farle saper nulla.» — La schiava fedele recava la colazione che depose sopra uno sgabello. Poi attese coll'asciugamano sulle braccia. Essi immersero le dita in una ciotola e le stavano sciacquando, quando un rumore li colpì. Stettero in ascolto ed intesero i suoni d'una musica militare proveniente dalla strada che fronteggiava il lato settentrionale della casa. — «Sono soldati del Pretorio! Voglio vederli!» — egli gridò, ballando dal divano e correndo verso l'uscio. In un attimo si trovò chino sopra il parapetto di tegole che fronteggiava il tetto, così intento nello spettacolo da non accorgersi della presenza di Tirzah, che lo aveva seguito, ed ora stava al suo fianco. Dal punto dove si trovavano si godeva un'ampia vista di tetti e di comignoli, spingentisi fin sotto alla mole irregolare della Torre di Antonia, la quale, come abbiamo già osservato, serviva di cittadella alla guarnigione ed era sede del governatore. La strada, larga non più di dieci piedi, era attraversata da ponti, quali coperti, quali no, e questi cominciavano ad affollarsi di uomini, donne e fanciulli, allettati dalla _musica_. Adoperiamo questa parola, quantunque non sia la più propria. Era piuttosto un clamore confuso di fanfare, misto alle note più acute dei _litui_, tanto cari ai soldati. La processione si avvicinava alla casa degli Hur. Dapprima un'avanguardia di fanteria leggiera, in maggioranza arcieri e frombolieri, marcianti a larghi intervalli tra le file; quindi un corpo di legionari pesantemente armati, con larghi scudi, ed _hastae longae_, o giavellotti identici a quelli usati nella lotta davanti a Troia. Poi i suonatori; poi un ufficiale a cavallo, alla testa di un gruppo di cavalieri; dopo di lui ancora fanteria pesante, marciante in fila serrate e prolungantesi a perdita d'occhio. Le membra abbronzate degli uomini; il movimento cadenzato degli scudi, ondeggianti da destra a sinistra; lo scintillìo delle squame, delle fibbie, delle corazze, degli elmi, perfettamente politi; le piume sventolanti sopra i cimieri; la selva di insegne e di picche serrate; il portamento, grave insieme e vigile; l'unità quasi meccanica dell'intera massa, fecero una profonda impressione sopra Giuda. Due oggetti attirarono specialmente la sua attenzione. Anzitutto l'aquila della prima legione, un'immagine dorata sopra un'asta, con le ali ripiegate sopra il capo. Egli sapeva che, tratta dall'arsenale nella torre, era stata ricevuta con onori divini. Poi l'ufficiale che cavalcava da solo in testa alla colonna. Aveva un'armatura che lo rivestiva tutto ed aveva solo il capo scoperto. Al fianco destro gli pendeva una corta spada, mentre, in mano, teneva un bastone di comando, che sembrava un rotolo di carta bianca. Invece di seder sulla sella sedeva su un pezzo di stoffa purpurea, la quale, insieme ai finimenti terminanti con un morso dorato e le redini di seta gialla con fiocchi, completava la bardatura del cavallo. Già, da lontano, Giuda potè osservare che la presenza di quest'uomo metteva un grande fermento negli spettatori. Si chinavano sopra i parapetti o si rizzavano in piedi audacemente, tendendo i pugni contro di lui; lo eseguivano con urla e strida; gli sputavano sopra dai ponti e dalle finestre; le donne gli lanciavano addosso fino i loro sandali, talora colpendolo. Quando si avvicinò le grida si fecero distinte: — «Ladro, tiranno, cane di un Romano! Abbasso Ismaele! Rendici il nostro Hannas!» — Giuda osservò che, come era naturale, l'uomo così apostrofato, non condivideva l'indifferenza superbamente affettata dai soldati; il suo volto era oscuro e imbronciato, e gli sguardi che lanciava tratto tratto ai suoi persecutori erano pieni di minaccia. I più timidi si ritraevano spaventati. Il giovane conosceva la costumanza iniziata dal primo Cesare, secondo la quale i generali supremi, per indicare il loro rango, ornavano il capo di un solo ramo d'alloro. Da ciò riconobbe l'ufficiale: _Valerio Grato, il Nuovo Procuratore della Giudea!_ A dire il vero, il Romano, procedente sotto questo infuriare collerico non provocato, godeva la simpatia del giovane Ebreo; così, quando egli voltò l'angolo della casa, Giuda protese il suo corpo ancora di più sopra il parapetto per vederlo passare, e, in quell'atto, appoggiò una mano sopra una tegola da lungo tempo spaccata. Sotto il peso del suo corpo, il pezzo esterno si distaccò e cadde. Un brivido di terrore pervase il giovane. Cercò di afferrare la tegola. In apparenza l'atto aveva l'aria di chi gettasse qualche cosa. Lo sforzo fallì, anzi servì ad accrescere veemenza al coccio. Giuda ruppe in un grido altissimo. I soldati della guardia alzarono il capo. Lo stesso fece l'ufficiale, e, in quella, il coccio lo colpì, ed egli cadde, come morto, di sella. La coorte si fermò; le guardie balzarono da cavallo, e si affrettarono a coprire il loro duce con gli scudi. D'altra parte il popolo, testimone dell'atto, non dubitando un istante che il colpo fosse meditato, applaudiva calorosamente il giovane, che, chino ancora sul parapetto, bersaglio a migliaia di occhi, rimaneva immobile, come inebetito, mentre le conseguenze della sua azione involontaria gli balenavano davanti al cervello con terribile evidenza. Uno spirito di rivolta corse con incredibile rapidità di tetto in tetto per tutta la lunghezza della strada, e invase indistintamente tutto il popolo. Furono smantellati i parapetti, strappate le tegole e le piastrelle di terra cotta che coprivano i tetti, e una grandine di proiettili discese sopra i legionari sottostanti. Ne seguì una battaglia, nella quale, naturalmente, prevalsero la disciplina e le armi della truppa. Sorvoliamo la lotta, la strage, l'abilità dall'una parte, la disperazione e il coraggio dall'altra, inutili al nostro racconto. Osserviamo piuttosto l'infelice autore di tutto questo male. Egli si ritrasse dal parapetto, pallido come un morto. — «O Tirzah, Tirzah, che avverrà di noi?» — Ella non aveva veduto l'incidente, ma con le orecchie intente alle grida e al clamore seguiva con l'occhio la pazza attività della gente sui tetti. Sapeva che qualche cosa di terribile avveniva, ma ignorava chi ne era stata la causa o in che modo la disgrazia potesse toccare i suoi cari. — «Che cosa è stato? Che cosa significa?» — chiese, presa da subito terrore. — «Ho ucciso il governatore Romano. La tegola gli è caduta addosso.» — Il volto di lei si fece color cenere. Gli gettò le braccia al collo e lo fissò, senza dir parola, negli occhi. I timori di lui erano passati, in lei, ma il veder Tirzah atterrita infuse coraggio in Giuda. — «Non l'ho fatto a bella posta, Tirzah — è stato un accidente,» — egli disse con più calma. — «Che cosa faranno?» — chiese la giovinetta. Egli si chinò nuovamente e guardò il tumulto crescente nella via pensando alla faccia imbronciata di Grato. Se non fosse morto, quale vendetta sarebbe stata la sua? E, se fosse morto, a quali estremità la furia e la violenza del popolo non spingerebbe i legionari? Guardò giù nella strada e vide le guardie che aiutavano a rimettere il Romano a cavallo. — «Egli vive, egli vive, Tirzah! Benedetto sia il Signore Iddio dei nostri padri!» — Con questo grido, e rasserenato in volto, si ritrasse e rispose alle domande di lei. — «Non temere, Tirzah. Gli spiegherò come avvenne; si ricorderà di nostro padre e dei suoi servigi, e non ci farà del male.» — Stava conducendola verso il padiglione, quando il tetto tremò sotto i loro piedi, e udirono un fracasso come di legna spaccata, seguito da grida di sorpresa e di agonia, provenienti dal cortile sottostante. Si arrestarono e stettero in ascolto. Le grida furono ripetute; poi intesero lo stropiccìo di molti piedi, e il suono di voce iraconde mescolate ad altre come di preghiera; poi urli di donne prese da pazzo terrore. I soldati avevano sfondata la porta settentrionale e si erano impadroniti della casa. L'affanno che coglie una belva inseguita lo prese. Il primo impulso fu di fuggire; ma dove? Solo le ali lo avrebbero salvato. Tirzah, cogli occhi dilatati dalla paura, lo afferrò per il braccio e gli chiese: — «O Giuda, che avviene?» — I servitori venivano ammazzati — e sua madre? Non era quella la sua voce? con tutta la forza di volontà che gli rimaneva, Giuda esclamò: — «Fermati qui, Tirzah. Io vado a vedere che cosa succede laggiù, e poi tornerò da te.» — La sua voce tremava. Essa gli si avvicinò di più. Alto, stridulo, non più opera della sua fantasia, sorse il grido di sua madre. Egli non esitò più a lungo: — «Vieni, andiamo insieme!» — Il terrazzo ai piedi della scala era gremito di soldati. Altri soldati, con le spade sguainate frugavano nelle stanze. Un gruppo di donne inginocchiate piangeva in un angolo. In disparte, una donna, con le vesti stracciate, i capelli in disordine, si dibatteva fra le braccia di un soldato che stentava a trattenerla. Le sue grida erano più acute di tutte, ed erano pervenute fin sopra il tetto. Giuda si slanciò verso di essa. — «Madre, Madre!» — gridò. Essa gli stese le braccia, ma quando stava quasi per toccarla, egli fu allacciato da due braccia robuste e respinto da lei. Una voce disse: — «È lui!» — Giuda guardò, e vide.... Messala! — «Che! l'assassino quello?» — esclamò un uomo di alta statura, a giudicarsi dall'armatura un legionario. — «Ma se è un ragazzo!» — — «O Dei!» — replicò Messala col solito tono affettato — «Che cosa direbbe Seneca a questa nuova teoria che un uomo debba esser vecchio prima di odiare ed uccidere? Voi lo tenete; questa è sua madre, e quella sua sorella. Avete tutta la famiglia.» — Per amore d'essi Giuda dimenticò la sua disputa. — «Aiutali, o mio Messala! Rammenta la nostra infanzia, e aiutali. Io, Giuda, ti prego.» — Messala gli voltò le spalle. — «Io non posso servirvi più oltre» — disse all'ufficiale. — «C'è da divertirsi di più là abbasso. Eros è morto, evviva Marte!» — Con queste parole sparì. Giuda lo comprese, e nell'amarezza dell'anima sua pregò il Cielo: — «Nell'ora della tua vendetta, o Signore, sia mia la mano che lo colpisca.» — Con grande sforzo si avvicinò all'ufficiale. — «O signore quella donna è mia madre. Risparmiatela, risparmiate mia sorella. Dio è giusto e compenserà la vostra pietà.» — L'ufficiale sembrò commuoversi. — «Conducete le donne alla Torre» — esclamò — «ma non fate loro del male. Voi ne rispondete.» — Poi voltosi a quelli che tenevano Giuda: — «Legategli i polsi colle corde. Il castigarlo è serbato ad altri.» — La madre fu condotta via. La piccola Tirzah, nelle sue vesti di casa, stupita pel terrore, accompagnò passivamente i suoi custodi. Giuda gettò ad esse un ultimo sguardo, e coprì gli occhi con le mani, come per imprimersi indelebilmente quella scena nel cervello. Forse pianse, ma nessuno vide le lacrime. Una metamorfosi avveniva in lui. Il lettore che avrà studiato con attenzione queste pagine avrà conosciuto abbastanza il carattere del giovane Ebreo, per discernere la mitezza e la bontà quasi femminili, qualità che l'amore produce ed alimenta. Le circostanze non avevano mai svegliato gli elementi più aspri della sua indole, se pur ne aveva. Qualche volta aveva provato il pungolo dell'ambizione, e aveva sognato grandi cose, come sognano i fanciulli che passeggiano lungo la riva del mare e vedono arrivare e partire navi maestose. Ma ora, era un caso diverso. Se possiamo immaginare un idolo, consapevole dell'adorazione quotidiana di cui è fatto segno, strappato improvvisamente dal suo altare e giacere in mezzo alle rovine del suo piccolo mondo di affetti, potremo farci un'idea di quanto era accaduto a Ben Hur, e l'impressione che ne riportava. Nessun segno esteriore tradiva questo mutamento, tranne che, quando alzava il capo nell'atto di stendere le mani alle corde che lo legavano, le labbra avevan perduto la loro somiglianza con l'arco di Cupido. In quell'istante aveva abbandonato la sua fanciullezza, e s'era fatto un uomo. Una tromba squillò nel cortile. Quando tacque, la stanza si vuotò dei soldati, molti dei quali, non osando comparire nella fila col bottino, lo gettarono per terra, coprendo il suolo di oggetti preziosi. Quando Giuda discese, il quadrato era già formato, e l'ufficiale attendeva all'esecuzione dei propri ordini. La madre, la figlia, e tutta la servitù furono fatti uscire dalla porta settentrionale, le cui rovine ingombravano ancora il passaggio. Le grida di alcuni domestici, nati e cresciuti nella casa, erano strazianti. Quando anche i cavalli e gli altri animali furono cacciati via, Giuda cominciò a comprendere la portata della vendetta del Procuratore. L'edificio stesso sarebbe sacro a quella. Nessun essere vivente doveva rimanere fra le sue mura. Se nella Giudea si fosse trovato un altro temerario che vagheggiasse l'assassinio di un governatore Romano, la sorte della principesca Casa di Hur, doveva servirgli di ammonimento, e la rovina della dimora avrebbe perpetuato la memoria della vendetta. L'ufficiale aspettava di fuori, mentre un distaccamento dei suoi soldati accomodava temporaneamente la porta. Nella strada il combattimento era quasi cessato. Sopra le case nuvole di polvere indicavano i luoghi dove continuava la lotta sui tetti. La coorte, immobile e risplendente nelle sue armi, stava in posizione di riposo. Giuda non aveva occhi che pei prigionieri, ma invano cercò di sua madre e di Tirzah. Improvvisamente, dal suolo dove giaceva, una donna si alzò e ritornò rapidamente verso la porta. Alcune guardie cercarono di afferrarla, e un grande clamore salutò il mancato tentativo. Essa corse verso Giuda e cadendogli ai piedi, gli abbracciò le ginocchia, mentre i suoi ruvidi capelli neri bruttati di polvere le velavano gli occhi. — «O Amrah, buona, Amrah» — egli le disse. — «Dio ti aiuti; io non lo posso.» — Essa non potè articolar parola. Egli si chinò su di lei, e sussurrò: — «Vivi, Amrah, per Tirzah e per mia madre. Esse torneranno, e....» — Un soldato la afferrò. Essa si divincolò e corse attraverso la porta, nella casa vuota. — «Lasciatela andare!» — gridò l'ufficiale. — «Suggelleremo la casa, e morrà di fame.» — Gli uomini ripresero il loro lavoro, e, quando fu terminato, passarono dalla parte occidentale. Anche questa porta fu inchiodata, e il palazzo dei Hur chiuso per sempre. La coorte ritornò alla Torre, dove giaceva il Procuratore per guarire delle sue ferite e disporre dei prigionieri. Il decimo giorno dopo questi avvenimenti rientrò in città. CAPITOLO VII. All'indomani una pattuglia di legionarii si avvicinò al palazzo desolato. Dopo aver chiuse le porte, stuccò i lati con cera, e sul tavolato inchiodò il seguente cartello in latino: _Proprietà dell'Imperatore_ Il giorno susseguente, verso mezzodì, un decurione col suo seguito di dieci cavalieri, si avvicinò a Nazareth da oriente, cioè in direzione di Gerusalemme. La località era allora occupata da un piccolo villaggio appollaiato sopra una collina, e così insignificante che la sua unica via era appena battuta dagli zoccoli dei cavalli dei soldati, e dai piedi dei pochi abitanti. La grande pianura di Esdraelon si stendeva a sud, e dalle alture orientali si potevano scorgere le coste del Mediterraneo e le regioni oltre il Giordano e il Hermon. La vallata sottostante e la campagna tutto all'ingiro erano coltivate a giardini, vigne, orti e prati. Gruppi di palme davano un colorito orientale al paesaggio. Le case, irregolarmente disposte, erano povere d'apparenza, quadrate, a un sol piano, inghirlandate da viti verdissime. La siccità che aveva ridotto le colline della Giudea ad una tinta bruna, uniforme, s'era arrestata ai confini della Galilea. Lo squillo di una tromba, suonata all'appressarsi dei cavalieri, ebbe un magico effetto sopra gli abitanti, che affollarono le porte e i cancelli, curiosi e desiderosi di afferrare il significato di una visita così nuova. Dobbiamo ricordare che Nazareth, non solo si trovava lontano dalle vie maestre, ma apparteneva al dominio di Giuda di Gamala; quindi possiamo immaginare quali impressioni destò l'appressarsi dei legionari. Ma quando furono più vicini, e il loro scopo divenne manifesto, la paura e l'odio cedettero il posto alla curiosità, sotto l'impulso della quale, il popolo sapendo che i loro ospiti si sarebbero fermati alla fonte nella parte settentrionale della città, abbandonò la case e seguì i soldati. L'oggetto della loro curiosità era un prigioniero che camminava in mezzo alla truppa, colla testa scoperta, mezzo nudo, le mani legate sulla schiena. Una coreggia assicurata ai suoi polsi lo avvinceva alla sella di uno dei cavalieri. La polvere che sollevavano i cavalli lo avviluppava tratto tratto come una nube gialla. Si trascinava a stento, penosamente. Sembrava molto giovane. Alla fontana il decurione si fermò, e, insieme alla maggior parte dei soldati, scese da cavallo. Il prigioniero si lasciò cadere sulla polvere della strada, istupidito, senza chiedere nulla. Era affranto. I popolani avvicinatisi e vedendo che egli era quasi un ragazzo avrebbero voluto soccorrerlo, ma non osavano. Mentre stavano dubbiosi, e mentre le anfore correvano di mano in mano fra i soldati, fu visto venire un uomo per la strada di Sephoris. Al vederlo una donna esclamò: — «Guardate! Ecco il falegname che viene; ora sapremo qualche cosa!» — La persona a cui si alludeva era un vecchio di venerabile aspetto. Rari riccioli bianchi uscivano dal suo turbante e un'ampia barba ancor più bianca gli fluiva sopra il petto e sopra la ruvida tunica grigia. Procedeva lentamente, perchè, oltre al peso dei suoi anni portava parecchi utensili, un'ascia, una sega, un coltello di rozza fattura, ed evidentemente veniva da lontano. Si arrestò, osservando la folla. — «O Rabbi, buon Rabbi Giuseppe!» — esclamò una donna, correndogli incontro. — «Qui c'è un prigioniero; domandane conto ai soldati, affinchè sappiamo ciò che ha commesso, e chi egli sia.» — Il volto del Rabbi rimase impassibile; guardò il prigioniero e quindi si avvicinò all'ufficiale. — «La pace del Signore sia con te!» — disse con inflessibile gravità. — «E quella degli Dei con voi» — rispose il decurione. — «Venite da Gerusalemme?» — — «Sì» — — «Il vostro prigioniero è giovane.» — — «D'anni, sì» — — «Posso domandare ciò che egli ha commesso?» — — «È un assassino» — Il popolo ripetè la parola con stupore, ma Rabbi Giuseppe proseguì le sue domande. — «Egli è un Israelita?» — — «È un Ebreo,» — ripetè il Romano seccamente. La compassione degli spettatori riprese il sopravvento. — «Io non so nulla delle vostre tribù, ma posso dirvi qualcosa della sua famiglia. Avete sentito parlare di un principe di Gerusalemme, di nome Hur? — Ben Hur lo chiamavano. Visse ai tempi di Erode.» — — «Io l'ho veduto» — disse Giuseppe. — «Questi è suo figlio.» — Vi fu uno scoppio generale di esclamazioni, che il decurione si affrettò a frenare. — «Nelle strade di Gerusalemme, avant'ieri, egli cercò di assassinare il nobile Grato, lanciandogli una tegola sul capo dal tetto di un palazzo, — dal palazzo di suo padre, credo.» — — «Lo uccise?» — domandò il Rabbi. — «No» — — «La sua condanna?» — — «Le galere a vita.» — — «Il Signore lo aiuti» — esclamò Giuseppe, scosso dalla sua immobilità. Nel mentre, un giovane che aveva accompagnato Giuseppe, ma che si era tenuto modestamente dietro di lui, depose la scure che teneva in mano, e avvicinandosi alla fonte, ne tolse una ciotola piena d'acqua. L'atto fu così tranquillo, che prima ancora che le guardie intervenissero, o avessero voluto intervenire, egli si era già chinato sopra il prigioniero, offrendogli un sorso d'acqua. La mano leggermente posata sulla sua spalla destò il misero Giuda, che alzando gli occhi vide un volto che non dimenticò mai più, il volto di un ragazzo della sua età, incorniciato da riccioli castani con riflessi biondi; un volto illuminato da due occhi azzurri, così dolci, così traboccanti d'amore e di santità di propositi da posseder tutta la potenza di un comando e d'una volontà. L'anima dell'Ebreo indurita da giorni e notti di sofferenze, e così amareggiata da abbracciare tutto il mondo nei suoi pensieri d'odio e vendetta, si intenerì sotto lo sguardo dello straniero, e divenne timida come quella di un fanciullo. Appressò il suo labbro alla ciotola e bevve a larghi sorsi. Nessuna parola corse fra di loro. Quando ebbe terminato, la mano che riposava sulla sua spalla si pose sopra il suo capo e rimase fra i riccioli polverosi il tempo necessario per impartirvi una benedizione; quindi lo straniero riaccostò la ciotola alla pietra della fontana, e riprendendo la sua scure, ritornò al fianco di Giuseppe. Tutti gli sguardi lo seguirono, quelli dei popolani come quelli del decurione. La scena pietosa ebbe termine. Quando gli uomini e i cavalli ebbero bevuto, la marcia fu ripresa. Ma un mutamento era avvenuto nell'animo del decurione; egli stesso sollevò il prigioniero dalla polvere e lo aiutò a salire sopra il cavallo di uno dei soldati. I Nazareni ritornarono alle loro dimore, e insieme ad essi Rabbi Giuseppe e il suo discepolo. Così avvenne il primo incontro di Giuda col figlio di Maria. FINE DEL LIBRO SECONDO. LIBRO TERZO CLEOPATRA. . . . . Se la misura Del dolor nostro la sua fonte eguaglia Oh come grande... (_entra Diomede_) È dunque morto? Parla! DIOMEDE. La morte il tiene nei ferrati artigli, Ma non è morto ancora. _Ant. e Cleopatra._ — Atto IV. — Scena VIII. CAPITOLO I. La città di Miseno corona il promontorio dello stesso nome alcune miglia a sud-est di Napoli. Oggi non rimangono che poche rovine ad attestarne l'esistenza, ma nell'anno di grazia 24, al quale trasportiamo ora il lettore, era uno dei porti più importanti del litorale occidentale d'Italia. Il viaggiatore che si fosse recato al promontorio per godere la vista che esso offriva, avrebbe dovuto salire sopra un muro, e, volgendo le spalle alla città, avrebbe spaziato con gli occhi sulla baia di Napoli, bella allora come oggi; avrebbe ammirata la linea impareggiabile della costa, avrebbe veduto il cono fumante del monte, l'azzurro dolcissimo e profondo del cielo e del mare; ma, abbassandoli verso il mare sottostante, avrebbe osservato uno spettacolo ignoto al turista moderno; metà della flotta Romana di riserva, ancorata ai suoi piedi. Considerata da questo punto, Miseno non sembrava un teatro indegno per l'incontro dei tre padroni di Roma, intenti a spartirsi il dominio del mondo. In quei tempi il muro era interrotto ad un certo punto in faccia al mare, formando una specie di passaggio cui metteva capo una via, la quale, quindi, a forma di un grande molo, si stendeva per parecchi stadii nel mare. La sentinella di guardia a questo passaggio, fu destata dal suo riposo una fresca mattina di settembre da una compagnia che discendeva, conversando animatamente e rumorosamente, la piccola via. La degnò di uno sguardo e quindi ritornò ai suoi sogni interrotti. Era una ventina di persone, la maggior parte costituita da schiavi, con torcie che illuminavano poco, ma, in compenso, fumavano molto, e che lasciavano nell'aria un acre profumo di nardo Indiano. I padroni li precedevano tenendosi a braccetto. Uno di essi, dall'apparente età di cinquanta anni, alquanto calvo, e portante fra i radi capelli una corona d'alloro, sembrava, dalle attenzioni prodigategli, l'oggetto di qualche affettuosa cerimonia. Portavano tutti ampie toghe di lana bianca con larghe balze di porpora. Uno sguardo era bastato alla sentinella. Conobbe, senza domandare, che erano personaggi di alta condizione che scortavano un loro amico al porto, dopo una notte festevolmente trascorsa. Spiegazioni più ampie potremo trovare seguendo i loro discorsi. — «No, mio Quinto» — disse uno, parlando all'uomo dalla corona d'alloro — «è crudele la Fortuna che ti strappa così presto da noi. Solo ora tornasti dai mari oltre le Colonne. Non hai neppure avuto il tempo di abituarti alla terra ferma.» — — «Per Castore! — se un uomo può adoperare la bestemmia di una donna!» — esclamò un altro, alquanto alticcio. — «Non lamentiamoci. Il nostro Quinto va a ricuperare nel mare ciò che ha perduto in terra ieri sera. Giuocare a dadi sopra una nave che rulla, è qualche cosa di diverso dai dadi giuocati qui. Non è vero Quinto?» — — «Non ingiuriare la Fortuna!» — esclamò un terzo. — «Essa non è nè cieca nè, incostante. Ad Anzio quando il nostro Arrio la interroga, gli risponde annuendo, e sul mare lo accompagna, dirigendo il timone della sua nave. Essa lo strappa dalle nostre braccia, è vero, ma non ce lo riconduce poi sempre ricco di nuovi allori?» — — «Sono i Greci che lo portano via» — interruppe un altro. — «Accusiamo loro, non gli Dei. Con l'apprender l'arte del commercio, dimenticarono quella del combattere.» — Con queste parole, la brigata attraversò il passaggio, e giunse al molo prolungantesi innanzi a loro nella baia bellissima, che l'alba incominciava a illuminare. Per le orecchie del vecchio marinaio la risacca delle onde era come il saluto dell'amico. Respirò a lungo, come per riempire i polmoni del profumo delle acque, ed alzò la mano: — «I miei doni io li ebbi a Preneste, non ad Anzio, — ma vedete! spira vento di ponente. Io ti ringrazio, o Fortuna, mia madre!» — egli disse con riverenza. Gli amici ripeterono l'esclamazione, e gli schiavi agitarono le torcie. — «Eccola, viene!» — continuò, indicando una galera che si moveva dall'estremità del molo. — «Un marinaio non ha bisogno di altra amante. La tua Lucrezia è forse più graziosa, mio Caio?» — Osservò la nave, che avanzava, con uno sguardo pieno di giustificato orgoglio. All'albero più basso era fissata una sola vela, e i remi si tuffavano, si alzavano, scintillavano un istante, immobili nell'aria, poi si immergevano nuovamente, come le ali di un uccello, con ritmo perfetto. — «Sì, rispettate gli Dei» — egli disse con gli occhi rivolti alla nave — «essi ci mandano buone occasioni. Nostra è la colpa se le trascuriamo. Quanto ai Greci, tu dimentichi, o mio Lentulo, che i pirati che vado a punire sono Greci. Una vittoria sopra di essi ne vale cento sugli Africani.» — — «Allora ti rechi nell'Egeo?» — Il marinaio non aveva occhi che per la nave. — «Che grazia, che venustà! un cigno non si muoverebbe più maestoso sulle onde. Guardate!» — Ma tosto aggiunse: — «Perdonami Lentulo. Io vado nell'Egeo; e siccome la mia partenza è ormai vicina, ve ne dirò la ragione — soltanto tenetela segreta. Io non vorrei che incontrando il mio buon amico il duumviro gliene faceste una colpa. Voi sapete che il commercio fra la Grecia ed Alessandria non è inferiore a quello fra Alessandria e Roma. Il popolo in quelle parti del mondo si è dimenticato di celebrare le feste Cereali, e Trittolemo li ha puniti con un miserabile raccolto. Ad ogni modo il commercio è così cresciuto da non arrestarsi per un sol giorno. Avrete anche sentito parlare dei pirati del Chersoneso, che si annidano nell'Eusino; gente audace, per le Baccanti! Giorni fa arrivò la notizia a Roma che, riunitisi in una flotta numerosa, avevano disceso il Bosforo, affondate le galere davanti a Bisanzio e a Calcedonia, invasa la Propontide, occupato l'Egeo. I mercanti di grano che hanno navi nel Mediterraneo sono spaventati. Ottennero udienza dall'Imperatore medesimo, ed oggi da Ravenna partono cento galere, e da Miseno — fece una breve pausa, come per pungere maggiormente la curiosità degli amici — una.» — — «Beato Quinto! Le nostre congratulazioni!» — — «Bene auguriamo per questa scelta. Ti salutiamo sin d'ora duumviro.» — — «Quinto Arrio duumviro, suona meglio di Quinto Arrio tribuno.» — Con queste parole si strinsero festosamente intorno a lui. — «Io mi rallegro insieme agli altri» — disse l'amico avvinazzato — «mi rallegro assai. Ma voglio essere pratico, o mio duumviro, e finchè io non vedrò che la promozione ti abbia valso una maggior conoscenza delle _tesserae_ riservo il mio giudizio sulla tua fortuna, in questo... in questo affare.» — — «Vi ringrazio tutti!» — disse Arrio rivolgendosi collettivamente ad essi — «se aveste delle lanterne, direi che siete auguri. Farò di più. Vi mostrerò che avete colpito nel segno. Qui, leggete.» — Dalle pieghe della sua toga estrasse un rotolo di carta e lo porse a loro, dicendo: — «L'ho ricevuto ieri mentre ero a tavola, da Seiano.» — Questo nome era già grande nel mondo Romano; grande e non ancora così infame come divenne di poi. — «Seiano!» — esclamarono in coro, stringendosi attorno a chi leggeva la lettera. Ecco il tenore di essa: Seiano a C. Cecilio Rufo, Duumviro, Roma, XIX Kal. Sept. Cesare conosce l'abilità di Quinto Arrio, tribuno, e, specialmente, ha udito esaltare il coraggio manifestato da lui nei mari d'occidente. È sua volontà che il detto Arrio sia sull'istante trasferito in Oriente. È ancora volontà di Cesare che raduniate cento triremi di prima classe, perfettamente allestite, e le spediate senza indugio contro i pirati dell'Egeo, e che Quinto sia posto al comando di tale flotta. I dettagli sono tua cura, mio Cecilio. Il momento è urgente, come vedrai dalle relazioni che accludo per te, e pel nominato Quinto. SEIANO. Arrio non badò alla lettura. A mano a mano che la nave si avvicinava crebbe il fascino che essa esercitava sopra di lui. Ne seguiva i movimenti con l'occhio di un innamorato. Finalmente agitò le falde della sua toga; in risposta al segnale, sopra l'_aplustre_, arnese in forma di ventaglio sulla poppa della nave, sventolò una bandiera scarlatta; nel mentre parecchi marinai apparvero sul ponte, si arrampicarono rapidamente sulle corde fino all'antenna, ed ammainarono la vela. La prua fu girata, e la velocità dei remi crebbe di mezzo tempo, cosicchè la nave si avvicinò al molo con la rapidità di un uccello. Egli osservò la manovra con gli occhi scintillanti. La pronta risposta al timone, la docilità e fermezza con cui la nave teneva la sua rotta, sarebbero state qualità di grande importanza in battaglia. — «Per le Ninfe!» — disse uno degli amici, restituendo la lettera. — «Non possiamo più dire che l'amico sarà grande; egli lo è già. Il nostro amore deve esser contemperato di rispetto. Che altro hai da dirci?» — — «Null'altro!» — replicò Arrio. — «Ciò che voi avete appreso oggi è già roba vecchia a Roma, specialmente nel palazzo di Cesare e nel foro. Il duumviro è un uomo discreto. Le mie istruzioni, la località dove dovrò incontrare la flotta, si trovano a bordo in un plico suggellato. Se però questa sera sacrificate agli altari, non dimenticate di innalzare una preghiera per un amico che i remi e il vento sospingono alla volta di Sicilia. Ma ecco la nave che sta per approdare. I suoi ufficiali mi interessano, poichè dovrò combattere e viaggiare con essi. Non è cosa facile approdare con una nave di questa mole ad una spiaggia come questa. Lasciatemi giudicare la loro disciplina e la loro abilità.» — — «Come, ti è nuova la nave?» — — «Non l'ho mai veduta prima d'oggi, e non so ancora se vi troverò un solo amico.» — — «È bene questo?» — — «Non importa. Noi uomini del mare facciamo presto conoscenza. Il nostro amore e i nostri odii nascono nei comuni pericoli.» — La nave apparteneva alla classe chiamata _naves liburnicae_, lunghe, strette, basse ai lati, e foggiate per velocità di corso e rapidità di manovra. I suoi fianchi eran stupendi. Un doppio getto d'acqua saliva spumeggiando, dinanzi ad essa, e spruzzando le curve audaci della prora, i lati della quale erano adorni di figure di Tritoni soffianti in conchiglie marine. Sotto la prua, infissa nella chiglia e spingentesi infuori, sotto il livello del mare, era il _rostrum_, ordigno di legno rinforzato ed armato di ferro, che in battaglia adoperavasi come un ariete. Una poderosa cornice, artisticamente scolpita partendo dalla prua abbracciava tutta la lunghezza della nave, e, sorpassando la coperta, serviva di baluardo. Sotto la cornice correva un triplice ordine di vani, ciascuno protetto da uno scudo di cuoio, dai quali si scorgevano i remi, sessanta per ciascun lato. La prora torreggiante era inoltre ornata di caducei, mentre due corde, raccolte ai fianchi, segnavano il numero delle ancore assicurate sul ponte di trinchetto. La semplicità dell'attrezzatura rivelava che la nave si affidava principalmente al lavoro dei remi. L'albero, piantato bene innanzi, era assicurato da spranghe e gomene agli anelli fissi alle pareti interne del baluardo. Il sartiame era quello strettamente necessario per manovrare l'unica grande vela rettangolare e l'antenna da cui dipendeva. Eccettuati i marinai, che erano saliti per ammainare la vela ed indugiavano ancora fra le sartie, un sol uomo era visibile sul ponte, presso la prora, completamente armato, con elmo, spada e scudo. Le centoventi lame di quercia, che le onde e le frequenti puliture di pomice avevan rese bianche e lucenti, si alzavano e cadevano come mosse da una mano sola, e spingevano innanzi il battello con la velocità di un vapore moderno. Così rapido, e, apparentemente, così temerario, era il corso della nave, che gli amici del tribuno se ne spaventarono. Improvvisamente l'uomo a prua tese la mano con un gesto speciale; tosto tutti i remi si alzarono, si librarono un istante nell'aria, poi caddero verticalmente. L'acqua si agitò spumeggiando intorno ad essi, e la galera ebbe un tremito, e s'arrestò come atterrita. Un altro gesto della mano, e i remi si alzarono di nuovo, ma, questa volta, quelli di destra, spinsero avanti, mentre i remi di sinistra, avanzando verso la prua, lavorarono contr'acqua. Tre volte i remi ripeterono questa manovra. La nave girò come su un cardine; poi, favorita dal vento, approdò dolcemente al molo. Una tale mossa mise in vista la poppa, con tutti i suoi ornamenti. V'erano dei tritoni come quelli di prua; il nome era scritto in lettere cubitali in rilievo; il timone, la piattaforma elevata su cui sedeva il timoniere, maestosa figura ricoperta da un'armatura, la mano sulle corde del timone; e l'_aplustre_, alto, dorato, scolpito, che si curvava sopra il timoniere come una grande foglia arabescata. Si udì lo squillo acuto di una tromba, e, dai boccaporti si riversarono sul ponte i soldati, tutti superbamente armati, con elmi di bronzo, scudi e giavellotti scintillanti. Mentre essi si schieravano sul ponte in ordine di battaglia, i marinai si arrampicarono sulle sartie e si allinearono lungo l'antenna. Gli ufficiali e i suonatori di tromba occuparono i loro posti senza confusione e senza rumore. Quando i remi toccarono il molo, una passerella fu abbassata dal ponte del timoniere. Il tribuno si volse ai compagni e con una gravità dapprima non dimostrata, disse: — «Ora mi attende il dovere, o miei amici!» — Si tolse la corona dal capo e la porse al giuocatore di dadi. — «Prendi questo mirto, o favorito dalle _tesserae_! — esclamò. Se ritorno, verrò a riprendere i miei sesterzii: se la vittoria non m'arride, non ritornerò. Appendi la corona nel tuo atrio.» — Spalancò le braccia agli amici, ed essi vennero ad uno a ricevere l'abbraccio dell'addio. — «Gli Dei ti accompagnino, o Quinto!» — esclamarono. — «Salvete!» — rispose. Salutò con la mano gli schiavi, che agitarono le torcie; poi si volse alla nave, bellissima per l'ordine perfetto del suo equipaggio, in ranghi serrati, coi cimieri che ondeggiavano e gli scudi e le lancie scintillanti. Quando mise il piede sul ponte, le trombe squillarono, e sopra l'_aplustre_ sventolò il _vexillum purpureum_, bandiera dell'ammiraglio della flotta. CAPITOLO II. Il tribuno, ritto sul ponte del timone, con l'ordine del duumviro spiegato nelle mani, parlò all'_hortator_, o capo dei rematori. — «A che forza comandi?» — — «Duecento cinquantadue rematori; dieci supplenti.» — — «Con ricambi di....» — — «Ottantaquattro uomini.» — — «E il servizio che adottavi?» — — «Due ore di lavoro, due di riposo.» — Il tribuno pensò alquanto. — «La disposizione è dura, ed io la riformerò, ma non ora. I remi devono lavorare giorno e notte. Il vento è favorevole: la vela aiuti i remi.» — Poi voltosi al primo pilota, o _rector_, gli chiese: — «Quanti anni hai servito?» — — «Trentadue anni.» — — «In quali mari principalmente?» — — «Fra Roma e l'Oriente.» — — «Tu sei l'uomo che fa per me.» — Il tribuno consultò gli ordini ricevuti. — «Dopo la punta della Campanella la nostra rotta sarà verso Messina. Quindi seguendo la curva della costa Calabra fino a Melito, poi... conosci tu le costellazioni che governano il Mar Jonio?» — — «Le conosco.» — — «Allora da Melito piega a levante, verso Citera. Se gli Dei sono propizi getterò àncora solo nella baia di Antimona. Il tuo compito è importante, e io mi fido di te.» — Un uomo prudente era Arrio; e mentre arricchiva gli altari di Anzio e Preneste, stimava che il favore della Dea bendata dipendesse più dal giudizio e dalla cura del fedele che dai proprî doni votivi. Tutta notte, quale anfitrione della cena, egli aveva banchettato e giocato, ma l'odore del mare gli fece rinascere l'istinto e l'abitudine del marinaio, e non volle riposare finchè non conoscesse perfettamente la sua nave. La scienza nulla abbandona al caso. Avendo principiato col capo dei vogatori, e col pilota, in compagnia degli altri ufficiali, cioè il comandante della truppa, il custode dei viveri, il capo delle macchine, il sopraintendente delle cucine e dei fuochi, visitò i varî quartieri della nave. Nulla sfuggiva alla sua ispezione. Quando ebbe terminato, egli solo di tutta la piccola società chiusa fra quelle anguste mura di legno, conosceva a puntino tutta la potenzialità della nave, le sue provvigioni, le sue eventuali risorse in guerra. Non gli mancava che la conoscenza esatta dell'equipaggio sotto il suo comando, la parte più delicata e difficile del suo compito. A mezzogiorno la galera si trovava all'altezza di Pesto. Il vento continuava a soffiare da occidente, gonfiando le vele ed aiutando materialmente i rematori. Le sentinelle erano state poste sopra coperta. L'altare sul ponte di trinchetto era stato cosparso di sale e di avena; davanti ad esso il tribuno aveva alzate preghiere solenni a Giove, a Nettuno, e a tutte le Oceanine, confermando i suoi voti con vino ed incenso. Ed ora, per meglio studiare i suoi uomini, sedeva nella sua grande cabina. Questa cabina si trovava nel mezzo della galera, e misurava settantacinque piedi di lunghezza per trenta di larghezza. Era illuminata da tre ampi boccaporti, sostenuta da una doppia fila di vigorosi puntelli, nel centro dei quali appariva l'albero della nave, tutto adorno di ascie, lancie e giavellotti. A ciascun boccaporto si accedeva da due scale mobili, che erano allora sollevate e fissate al soffitto. Questo era il centro della nave, il ritrovo comune di tutto l'equipaggio, la sala da pranzo, il dormitorio, il campo d'esercitazione e il luogo di riposo e di recreazione in quanto questa era permessa dalla dura e implacabile disciplina di bordo. In fondo alla cabina si trovava una piattaforma alla quale conducevano parecchi gradini. Su questa sedeva il capo dei rematori, che aveva dinanzi a sè un tavolo sonoro sul quale batteva il tempo con un martello di bronzo, e, a sinistra una clessidra, od orologio ad acqua, per distribuire le ore di lavoro e stabilire i cambi. Sopra di lui, su un'altra piattaforma ancora più rialzata, protetta da una ringhiera dorata, era il quartiere del tribuno, fornito di un letto, un tavolo, una _cathedra_, o scranna bene imbottita, il tutto di squisita e ricca eleganza. Seduto comodamente in questa poltrona, cullato dal rullìo uniforme della nave, il mantello militare negligentemente gettato sopra una spalla, e colla spada al fianco, Arrio osservava con occhio vigile il suo equipaggio, e ne era con uguale attenzione osservato. L'occhio critico di lui abbracciava ogni cosa, ma con maggiore insistenza si posava sopra i rematori. I lettori avrebbero fatto lo stesso; soltanto che nel loro interessamento ci sarebbe stata della simpatia e della compassione; mentre il pensiero del tribuno li considerava soltanto come ingranaggi importanti della grande macchina alla quale era preposto. Lo spettacolo era abbastanza semplice. Lungo i lati della cabina, fisso al pavimento della nave, correva ciò che a prima vista sembrava una triplice fila di banchi; un esame più attento rilevava invece molte serie di sedili, in ciascuna delle quali il secondo sedile era posteriore e più alto del primo, il terzo posteriore e più alto del secondo. Per collocare i sessanta rematori di ciascun lato, lo spazio ad essi destinato era diviso in venti banchi ad un intervallo di un metro l'uno dall'altro. Questa disposizione dava ampio spazio ai rematori che dovevano prendere il tempo l'uno dagli altri come una schiera di soldati marcianti con passo cadenzato in fila serrata. Questa disposizione permetteva ancora un eventuale aumento dei sedili, limitati soltanto dalla lunghezza della galera. Quanto ai rematori, quelli del primo e secondo sedile, erano seduti, quelli del terzo, dovendo maneggiare remi più lunghi, stavano in piedi. I remi avevano all'impugnatura contrappesi di piombo, ed erano appesi a correggie mobili, che rendevano possibili i più delicati movimenti, ma, d'altra parte, richiedevano una abilità maggiore, perchè una ondata violenta da un momento all'altro poteva cogliere il rematore sbadato e scaraventarlo dal suo sedile. Dalle finestre entrava aria in abbondanza, mentre la luce pioveva attraverso il graticcio che costituiva il pavimento del passaggio tra il ponte e i baluardi laterali. Sotto alcuni riguardi dunque la condizione di questi uomini non poteva dirsi cattiva. Ma non dobbiamo per questo credere che fosse una vita di piacere. Era loro interdetto di parlarsi. Giorno e notte occupavano i proprî posti senza scambiarsi una parola, senza vedere i volti dei vicini. I brevi momenti di intervallo erano dati al sonno, o al cibo. Non ridevano mai; nessuno li aveva sentiti cantare. La vita di quei miserabili era come un fiume sotterraneo che muova lentamente, a fatica, verso una foce ignota. O Figlio di Maria! Oggi anche i soldati hanno un cuore, e tua ne è la gloria! Ma in quei giorni prigionia significava una vita di stenti sulle mura, nelle strade, nelle miniere, nelle navi. Quando Duilio vinse la prima battaglia navale del suo popolo, Romani maneggiavano i remi, e la gloria della giornata era divisa fra il rematore e il soldato. Questi banchi, che ora osserviamo, erano indizii delle mutate sorti di Roma, seguite alla conquista del mondo, ed illustravano insieme la politica e il coraggio dei Romani. Quasi tutti i popoli vi erano rappresentati da qualcuno dei loro figli, per lo più prigionieri di guerra, scelti per la loro forza. Qui un Britanno; più innanzi un Libio, più indietro un Sarmata, più in là uno Scita, un Gallo, un Greco. Forzati romani insieme a Goti, Longobardi, Ebrei, Etiopi, Egiziani, e barbari delle rive della Meotide. Qui un Ateniese, là un selvaggio dell'Ibernia rosso-chiomato, là un gigante Cimbro dagli occhi azzurri. Il lavoro dei rematori era troppo materiale per dare occupazione alla loro intelligenza. Spingere innanzi il corpo, sollevare il remo, librarlo, immergerlo, ecco tutto; movimenti che raggiungevano la massima perfezione quando diventavano automatici. Anche la sollecitudine del pericolo derivante dalle onde riottose divenne col tempo meramente istintiva. Il risultato del lungo servizio era un armento di povere creature abbrutite, pazienti, avvilite; corpi muscolosi e intelligenze esaurite, che vivevano di memorie, poche in genere, ma care, decadendo finalmente ad uno stato semi-incosciente, in cui il dolore si ottunde e diventa abitudine e l'anima acquista una straordinaria tenacia. Da destra a sinistra, un'ora dopo l'altra, il Tribuno volgeva i suoi sguardi, pensoso di tutto tranne dell'infelicità degli schiavi sopra i loro banchi. I loro movimenti precisi, uguali dall'una e dall'altra parte del bastimento, in breve divennero monotoni; allora egli si divertì ad osservare i singoli individui. Col suo stilo notava tratto tratto le deficienze di alcuni, pensando che avrebbe trovato fra i pirati dei sostituti migliori. Non v'era bisogno di ricordare i nomi degli schiavi, che entravano nella galera come in un sepolcro; bastavano, per distinguerli, dei numeri segnati sopra i sedili ai quali ciascuno era destinato. Nel loro viaggio di esplorazione gli occhi del grand'uomo arrivarono finalmente sopra il numero sessanta, e vi si arrestarono. Il sedile del numero sessanta era alquanto più alto della piattaforma e distava da lei pochi passi. La luce che scendeva attraverso il graticcio sul capo del rematore lo rivelava intieramente allo sguardo del Tribuno — dritto, e nudo fino alla cintola come i suoi compagni. Parecchi tratti parlavano tuttavia in suo favore. Era molto giovane, non più che ventenne. Arrio non era poi solamente dedito ai dadi, ma era conoscitore di uomini fisicamente, e, quando era a terra, amava visitare i ginnasi e le palestre per vedere ed ammirare gli atleti più famosi. Un professore gli aveva detto una volta che la forza dipendeva piuttosto dalla qualità che dalla quantità dei muscoli, e che qualunque esercizio richiedeva una certa dose di intelligenza come di forza. Avendo fatto sua questa teoria, come la maggior parte degli uomini che hanno un'idea fissa, cercava continuamente illustrazioni pratiche in suo appoggio. Nel corso di questi studi raramente aveva incontrato un soggetto che lo soddisfacesse completamente; certo era che nessuno aveva arrestato i suoi sguardi così a lungo come questo. Al dar mano ad ogni movimento del remo, il corpo ed il volto del rematore, apparivano di profilo all'osservatore sulla piattaforma; l'azione terminava col corpo spinto innanzi. La grazia e la facilità di questo movimento dapprima suggerivano dei dubbi intorno all'onestà dello sforzo; ma questi venivano subito dissipati: la fermezza con cui il remo era afferrato in ciascun movimento, il piegarsi che faceva sotto la spinta, rivelavano la forza impiegata; allo stesso tempo provavano l'arte del rematore, e indussero tosto il critico a riflettere dalla poltrona sull'unione di forza e intelligenza che formava il nocciolo della sua teoria. Pensando a ciò Arrio osservò la giovinezza dell'uomo; senza provar soverchia tenerezza per questa scoperta, vide che la sua statura era alquanto superiore della media altezza, e che le membra, tanto le superiori che le inferiori erano, di singolare bellezza. Forse le braccia erano troppo lunghe, ma questo difetto scompariva sotto la mole dei muscoli, che in alcuni movimenti si gonfiavano come gruppi di corde. Ogni costola si disegnava chiaramente sopra al corpo rotondo; ma questa era la sana magrezza tanto ricercata nelle palestre. Finalmente, nel complesso dei movimenti del rematore, vi era una tale armonia, che oltre combaciare con la nota teoria del tribuno, stimolava vivamente la sua curiosità. Provò il bisogno di vedere il volto dell'uomo, di cui non scorgeva che la testa formosa piantata sopra un collo, largo alla base, ma di grande pieghevolezza e grazia. I tratti osservati di profilo erano orientali, e avevano quella delicatezza di espressione che accompagna solitamente l'aristocrazia del sangue e dello spirito. Queste osservazioni resero più intenso l'interessamento del tribuno. — «Per gli Dei» — pensò fra sè — «quell'individuo ha fatto colpo! Egli promette bene. Voglio conoscerlo.» — In quella il rematore si voltò, guardandolo, e il tribuno potè contemplarne il viso. — «È Ebreo ed è un ragazzo!» — Sotto lo sguardo scrutatore fissato sopra di lui, gli occhi dello schiavo si allargarono e il sangue gli imporporò le gote. Il remo rimase inerte nelle sue mani, ma tosto il martello dell'_hortator_, cadendo rumorosamente, lo richiamò al dovere. Il vogatore trasalì, e, come se il rimprovero fosse stato personalmente indirizzato a lui, immerse il remo. Quando guardò nuovamente il tribuno, fu stupito di incontrare un sorriso. Frattanto la galera entrava nello stretto di Messina, e, passando davanti alla città di quel nome, volse la prora verso oriente, finchè la nuvola sopra l'Etna divenne come una macchia sull'orizzonte. Spesso mentre Arrio dalla piattaforma scendeva alla cabina, si voltava per studiare il rematore, dicendo fra sè: — «È un giovane animoso. Un Ebreo non è un barbaro. Voglio conoscerlo meglio.» — CAPITOLO III. Da quattro giorni durava il viaggio, e l'_Astraea_ — così si chiamava la galera — solcava rapidamente le onde del mar Ionio: il cielo era sereno, ed il vento, soffiando costante dall'occidente attestava il favore degli Dei. Arrio sperava di raggiungere la flotta prima che questa toccasse la baia ad oriente dell'isola di Citera, designata per l'incontro, e, impaziente della lunga attesa, passava tutta la giornata sopra coperta, notando con diligenza ogni particolare della sua nave. Nella cabina, seduto sopra il suo seggio, i suoi pensieri correvano sovente al rematore numero sessanta. — «Conosci tu quell'uomo che ha abbandonato or ora quel banco?» — chiese finalmente all'hortator. Gli schiavi s'erano appunto dato il cambio. — «Numero sessanta?» — domandò il capo. — «Sì.» — Il capo guardò attentamente il rematore che passava. — «Come tu sai, la nave è uscita dal cantiere un mese fa, e gli uomini mi sono nuovi come il bastimento.» — — «È un ebreo» — osservò Arrio, pensoso. — «Il nobile Arrio ha l'occhio penetrante.» — — «È molto giovane» — continuò Arrio. — «Ma è il nostro miglior rematore» — disse l'altro. — «Ho veduto il suo remo piegarsi quasi a rompersi in due.» — — «Come si comporta?» — — «È obbediente; altro non so. Una volta mi chiese un favore.» — — «Quale?» — — «Voleva che gli cambiassi posto, alternandolo da destra a sinistra.» — — «Spiegò le sue ragioni?» — — «Aveva osservato che gli uomini che lavorano sempre dalla medesima parte diventano deformi. Aggiunse che in un giorno di tempesta o di battaglia avrebbe potuto sorgere la necessità di cambiargli improvvisamente di posto, e allora egli sarebbe stato inservibile.» — — «_Per Pol!_ L'idea è nuova. Che altro hai osservato in lui?» — — «È più pulito dei suoi compagni.» — — «In questo egli è Romano» — approvò Arrio. — «Non conosci la sua storia?» — — «Neppure una parola.» — Il tribuno rimase pensieroso alcuni istanti e si volse per tornare al suo posto. — «Se io fossi sul ponte quando egli ritorna al lavoro» — disse, — «mandalo a me. Venga solo.» — Due ore dopo Arrio si trovava sotto l'aplustre della galera, nella condizione d'animo di chi, sentendosi trascinato rapidamente verso un evento importante, non può far nulla fuorchè aspettare, condizione d'animo in cui la filosofia investe l'uomo di quella calma ed indifferenza di cui ha tanto bisogno. Il pilota teneva in mano le corde che governavano le due ruote del timone, una a ciascun fianco della nave. Alcuni marinai dormivano all'ombra che proiettava la vela, e in alto, sopra l'antenna, vigilava una sentinella. Alzando gli occhi dall'orologio a sole fisso sotto l'apalustre, che serviva a indirizzare il corso della nave, Arrio vide avvicinarsi il rematore. — «Il capo ti chiama il nobile Arrio, e mi disse che tu hai chiesto di me. Son venuto.» — Arrio esaminò la figura, alta muscolosa, colorita dal sole e dal sangue che tumultuava impetuoso nelle vene, la guardò con ammirazione, pensando all'arena; ma il portamento e la voce non rimasero senza un certo effetto. La voce rivelava una vita trascorsa in un ambiente elevato e fine; gli occhi erano chiari ed aperti, più curiosi che fieri, e allo sguardo sapiente, scrutatore, imperioso, del tribuno, non's'abbassarono nè mostrarono alcun segno di vergogna, d'ira o di minaccia. Come tacito riconoscimento dell impressione favorevole in lui prodotta, il Romano parlò non come padrone a schiavo, ma come uomo più vecchio ad uno più giovane. — «L'hortator mi dice che tu sei il suo miglior rematore.» — — «L'hortator è molto buono» — rispose il forzato. — «Hai servito a lungo?» — — «Quasi tre anni.» — — «Ai remi?» — — «Non mi rammento un giorno di interruzione.» — — «La fatica è grande: pochi uomini la sopportano un anno senza ammalarne, e tu... tu sei ancora un ragazzo!» — — «Il nobile Arrio dimentica che lo spirito aggiunge tenacia al corpo. Col suo aiuto talora il debole vive là dove un forte perirebbe.» — — «Il tuo accento ti dice Ebreo.» — — «I miei avi furono Ebrei prima che Roma esistesse.» — — «L'ostinato orgoglio del tuo popolo non ti manca» — disse Arrio, osservando un lampo nell'occhio del rematore. — «L'orgoglio è più vivo quando è cinto di catene.» — — «E quale ragione hai d'essere orgoglioso?» — — «L'essere Ebreo.» — Arrio sorrise. — «Non fui mai a Gerusalemme» — disse; — «ma ho sentito parlare dei suoi principi. Ho conosciuto uno di essi. Era mercante e veleggiava sui mari. Era degno di essere un Re. Di qual condizione sei tu?» — — «Devo risponderti dal banco della galera. Sono uno schiavo. Mio padre era un principe di Gerusalemme, e quale mercante, veleggiava sui mari. Era conosciuto e stimato nel palazzo del grande Augusto.» — — «Il suo nome?» — — «Ithamar, della casa di Hur.» — Il tribuno alzò la mano in atto di stupore. — «Un figlio di Hur, tu?» — Dopo una pausa, domandò: — «Qual delitto ti ha condotto qui?» — Giuda lasciò cadere il capo sul petto che ansava come per schiantarsi. Quando ebbe ripreso padronanza di sè, guardò in faccia il tribuno, e rispose: — «Fui accusato di aver voluto assassinare Valerio Grato, Procuratore.» — — «Tu! — «esclamò Arrio, ancor più stupito e facendo un passo indietro. — «Tu quell'assassino! Tutta Roma parlò di quel fatto. La notizia giunse alla mia nave sul fiume di Londra.» — I due si guardarono in silenzio. — «Io credevo che la famiglia Hur fosse scomparsa dalla faccia della terra,» — riprese Arrio. Un fiume di meste rimembranze attraversò il cuore del giovane, abbattendo il suo orgoglio; lacrime gli scintillarono negli occhi. — «Madre! Madre! O piccola Tirzah! Dove sono? O tribuno, nobile tribuno, se tu sai qualche cosa di loro — giunse le mani in atto di preghiera — dimmi tutto, tutto. Dimmi se sono in vita, e dove, e in qual condizione? Ti supplico, parla!» — Si avvicinò ad Arrio, sino a toccargli il mantello. — «Oh! il terribile giorno di tre anni fa,» — continuò — «tre anni, o tribuno, e ogni giorno tutta una intera vita di miseria — una vita di patimenti allietata da nessun raggio di speranza, da nessuna parola. Oh, se, dimenticati, potessimo dimenticare! Se potessi obliare quella scena: mia sorella strappata a me, l'ultimo sguardo di mia madre! Io ho sentito l'alito della peste, e il cozzo di navi in battaglia; ho udito l'uragano flagellare le onde, ed ho riso, riso mentre gli altri pregavano: la morte era un dono invocato. Chino sul remo, nello sforzo quotidiano delle braccia, tentavo di cancellare dalla mia mente quei ricordi... Scusa, o tribuno. Poca cosa ti domando! Dimmi almeno che sono morti, perchè felici non possono essere finchè sanno che io sono perduto. Io ho udito la loro voce chiamarmi di notte; li ho visti camminare sulle acque. O inestinguibile amore materno! E Tirzah, innocente come un giglio, come il giovine ramo della palma, così fresca, così graziosa, così bella! Era il sole della mia giornata. La sua voce era una musica. E mia fu la mano che le trasse in rovina! Io....» — — «Ammetti la tua colpa?» — chiese Arrio severamente. Un cambiamento improvviso avvenne in Ben Hur. La sua voce si fece squillante; le mani si alzarono coi pugni serrati; ogni fibra trasalì; gli occhi scintillarono. — «Tu hai udito parlare del Dio dei miei padri,» — egli disse, — «dell'infinito Jeova. Per la sua verità e onnipotenza, per l'affetto con cui ha protetto Israele, io giuro che sono innocente!» — Il tribuno era commosso. — «O nobile Romano!» — continuò Ben Hur — «dammi un po' di fede, rischiara la densa oscurità ch'è scesa su di me!» — Arrio camminò pensieroso sul ponte. — «Fosti condannato in giudizio?» — chiese improvvisamente. — «No.» — Il Romano alzò la mano, stupito. — «Nessun giudizio, nessun testimonio! Chi ti condannò?» — Ricordiamo che il culto della giustizia presso i Romani fu fortissimo appunto nel periodo della loro decadenza. — «Mi legarono, e mi trascinarono in una prigione della Torre. Non vidi nessuno. Nessuno mi parlò. Il giorno dopo mi portarono sulla riva del mare. Sono stato un galeotto da allora in poi.» — — «Che cosa avresti potuto provare in tua discolpa?» — — «Ero un ragazzo troppo giovane per esser cospiratore. Grato mi era sconosciuto. Se io voleva assassinarlo, quello non era il momento o il luogo. Cavalcava di pieno giorno in mezzo a una legione; la fuga sarebbe stata impossibile. Io apparteneva ad una famiglia fedele amica di Roma. Mio padre godeva l'affetto di Augusto. Eravamo ricchi, e la rovina certa, per me, per mia madre e mia sorella. Finalmente la legge, che per un figlio d'Israele è come l'aria per i polmoni, mi avrebbe arrestato la mano, se avessi avuto tale intento. Non ero pazzo. La morte era preferibile alla vergogna, e, credimi, lo è ancora oggi.» — — «Chi era teco quando avvenne il fatto?» — — «Io mi trovava sul tetto del palazzo, il palazzo di mio padre. Tirzah era con me, al mio fianco, tutta candore e gentilezza. Insieme sporgemmo il capo sopra il parapetto per vedere passare la legione. Una tegola scivolò sotto la mia mano e cadde sopra Grato. Credetti d'averlo ucciso. Oh quale spavento fu il mio!» — — «Dov'era tua madre?» — — «Nella sua camera.» — — «Che avvenne di lei?» — Ben Hur strinse i pugni e con voce strozzata rispose: — «Non so. La vidi trascinata via dai soldati e nulla ne seppi più. Dalla casa cacciarono ogni creatura vivente, fino gli animali domestici, e sigillarono le porte, con l'intento che essa non ritornasse. Io pure chiesi di lei. Oh una sola parola! Essa almeno era innocente. Io posso perdonare, ma.... ti chieggo scusa, nobile tribuno! Uno schiavo come me non dovrebbe parlare di perdono o di vendetta. Sono condannato al remo per tutta la vita!» — Arrio aveva ascoltato con grande attenzione. Chiamò in aiuto la sua grande esperienza in materia di schiavi. Se i sentimenti così dimostrati erano falsi, il forzato era un istrione perfetto; d'altra parte, se fossero veri, l'innocenza dell'Ebreo non era dubbia, e, se innocente, quale terribile vendetta era stata presa di un atto fortuito! Un'intera famiglia soppressa! Questo pensiero lo fece raccapricciare. La vita rozza e spesso sanguinosa del tribuno non aveva soffocato le sue buone qualità morali. Poteva essere inesorabile quando il suo dovere lo richiedeva, ma era anche giusto. E contro qualunque ingiustizia l'animo suo si ribellava. Gli equipaggi delle navi in cui aveva tenuto comando lo chiamavano il _buon tribuno_, ottima definizione del suo carattere. In questo caso molte circostanze militavano in favore del giovane. Forse Arrio conosceva Valerio Grato senza amarlo; forse aveva conosciuto il padre Hur. Giuda gli aveva fatta questa domanda, e, il lettore se lo ricorderà, egli non aveva risposto. Il tribuno si trovava in imbarazzo ed esitava. Il suo potere era illimitato; era padrone del bastimento. La pietà e la giustizia insieme lo spingevano a compiere un atto di doverosa riparazione. Ma, d'altra parte, diceva fra sè, non c'era fretta, o piuttosto c'era fretta, per arrivare a Citera; non si poteva privare la nave del suo miglior rematore; poteva aspettare; apprendere qualche cosa d'altro; almeno avrebbe voluto assicurarsi che fosse il principe Ben Hur. Di solito gli schiavi erano bugiardi. — «Sta bene» — disse finalmente. — «Ritorna al tuo posto.» — Ben Hur s'inchinò; levò gli occhi in faccia al suo padrone, ma non vi lesse motivo di sperare, fece per andarsene, poi si voltò e disse: — «Se tu ti ricorderai ancora di me, o tribuno, pensa che io ti pregai solo di una parola che mi rivelasse ove fossero mia madre, mia sorella.» — Poi continuò il suo cammino. Arrio lo seguì con l'ammirazione negli occhi. — «_Per pol!_» — pensò — «Che corpo adatto per l'arena! Che corridore! O Dei, che braccio per la spada ed il cesto! — «Fermati,» — soggiunse ad alta voce. Ben Hur si fermò, ed il tribuno gli si avvicinò. — «Se fossi libero, che cosa faresti?» — — «L'illustre Arrio si prende giuoco di me!» — esclamò Giuda con le labbra tremanti. — «No, per gli Dei, no!» — — «Allora risponderò con gioia. La mia vita avrebbe un solo scopo: Cercare mia madre e Tirzah. Ogni giorno, ogni ora destinerei a questo intento, finchè non le restituissi alla felicità. Le servirei come uno schiavo. Molto hanno perduto; ma, per il Dio de' miei padri, procaccerei loro il doppio!» — Questa risposta non era attesa dal Romano. Per un istante smarrì la sua presenza di spirito. — «Io parlava alla tua ambizione» — disse — «se tua madre e tua sorella fossero morte o irreperibili, che cosa faresti?» — Un pallore cinereo apparì sul volto di Ben Hur, e i suoi occhi vagavano sul mare. Con uno sforzo vinse la momentanea debolezza e si volse al tribuno. — «Che professinone seguirei?» — chiese. — «Sì.» — — «Tribuno, ti parlerò apertamente. La prima notte di quella terribile giornata di cui ti parlai, ottenni il permesso di diventar soldato. Non ho mutato pensiero; e in tutto il mondo vi è una sola scuola di guerra...» — — «La palestra!» — esclamò Arrio. — «No; un campo romano.» — — «Ma prima devi impratichirti nel maneggio delle armi.» — Un padrone non dovrebbe consigliare il suo schiavo. Arrio si accorse dell'errore, e continuò con voce fredda: — «Ora va» — disse. — «E non fantasticare troppo su quanto è passato fra noi. Forse non ho fatto che scherzare con te, oppure, se ci pensi» — continuò dopo una pausa — «scegli fra la fama di un gladiatore e il servizio militare. Il favore dell'imperatore potrebbe accompagnare la prima, ma non c'è ricompensa per te nel secondo. Tu non sei romano. Va!» — Poco tempo dopo Ben Hur si trovava nuovamente sul suo banco. La fatica è lieve se il cuore è leggiero. Il remo sembrò meno pesante a Giuda. La speranza gli ferveva nel cuore. Le ultime parole del tribuno — «Forse non ho fatto che scherzare con te» — erano dimenticate. Il fatto rimaneva che egli era stato chiamato dal grand'uomo e richiesto della sua storia. Questo era il pane di cui Giuda cibava il suo spirito affamato. Qualche cosa di giocondo ne doveva nascere, e le sue labbra mormorarono la preghiera: — «O Dio! Io sono un figlio di quell'Israele che tu hai tanto amato. Aiutami, ti prego!» — CAPITOLO IV. Nella baia di Antimona, ad Oriente dell'isola di Citera, erano raccolte le cento galere. Dopo aver occupato il primo giorno passandole in rivista, il tribuno fece vela per Nasso, la maggiore delle Cicladi, a mezza strada fra le coste della Grecia e quelle dell'Asia. Da questo punto avrebbe potuto inseguire i pirati sia che rimanessero nell'Egeo o si volgessero al Mediterraneo. Mentre la flotta, in ordine di battaglia, muoveva verso all'isola, fu vista una galera solitaria avvicinarsi da settentrione. Arrio le andò incontro e dal capitano apprese quei particolari di cui aveva sommamente bisogno. I pirati appartenevano alle ultime rive dell'Eusino, e della palude Meotide. Avevano fatto i loro preparativi con la massima segretezza, cosicchè la prima notizia che si ebbe di loro fu quando passarono il Bosforo e distrussero la flotta che vi stazionava. Di là all'Ellesponto tutto quanto galleggiava sul mare divenne loro preda. La flotta era composta di circa sessanta galere, quasi tutte triremi, ottimamente armate ed equipaggiate. L'ammiraglio era Greco e Greci erano i piloti, che si dicevano famigliari con tutti i mari d'oriente. Il bottino era incalcolabile. Grande la paura che destavano non solo sul mare ma nei porti. Le città sbarravano le loro porte e di notte armavano di sentinelle le mura. Il commercio era quasi impedito. — «Dove si trovavano precisamente i pirati?» — A questa domanda, la più vitale di tutte, Arrio ebbe questa risposta: — «Dopo aver saccheggiato Efestia sull'isola di Lemno il nemico aveva costeggiato la Tessaglia, e, secondo le ultime notizie, era sparito nei golfi fra l'Eubea e l'Ellade. Allora la popolazione dell'isola raccolta sulle sommità dei colli, per meglio assistere al raro spettacolo di cento navi procedenti in ordine e di perfetto accordo, vide la prima divisione improvvisamente volgersi a nord, seguita dalle altre, come squadroni di cavalleria moventi in colonna. La notizia delle scorrerie dei pirati era giunta all'isola, e nell'osservare le vele bianche che sparivano lentamente fra Nene e Siro, i più pensierosi fra gli abitanti si rallegravano dello scampato pericolo. Ciò che Roma afferrava con la mano poderosa sapeva anche difendere: in compenso delle tasse, dava ai popoli sicurezza e protezione. Il tribuno era più che felice avendo appreso le mosse del nemico, e ringraziò riverente la Fortuna. Essa gli aveva portate notizie certe e rapide, e aveva condotto i nemici in una posizione dove la loro sconfitta sarebbe stata più rapida e completa. Egli sapeva quanto danno una sola galera poteva fare in un mare aperto come il Mediterraneo, e quali erano le difficoltà di rintracciarla e punirla. Più facile sarebbe stata la vittoria e maggiore il merito se avesse potuto d'un colpo distruggere tutta la flotta dei corsari. Se il lettore esamina una carta qualunque della Grecia e dell'Egeo, vedrà che l'isola d'Eubea o Negroponte giace quasi parallela lungo la classica costa dell'Ellade, come un baluardo avanzato contro l'Asia, lasciando fra sè ed il continente un canale lungo centoventi miglia e largo in media circa otto. Dall'imboccatura settentrionale era passata la flotta di Serse, e da quella erano passati gli audaci corsari dell'Eusino, attratti dalla ricchezza delle città lungo i golfi Pelasgici e Meliei. Arrio pensava di trovarli non distanti dalle Termopili, e decise di accerchiarli da nord e da sud. Il tempo stringeva, e, abbandonando le frutta, i vini e le donne di Nasso, fece spiegare immantinente le vele, spingendo le navi alla loro massima velocità, finchè, sul far della sera, il monte Ocha apparve nero sull'orizzonte e il pilota annunziò vicina la costa dell'Eubea. Ad un segnale della nave ammiraglia la flotta si arrestò. Quando il cammino fu ripreso, Arrio guidava una divisione di cinquanta galere, con le quali entrò nello stretto, mentre, un'altra divisione, composta di egual numero di navi, rivolse le prore al lato esterno dell'isola, con l'ordine di costeggiarla e di penetrare nello stretto dall'imboccatura settentrionale. È vero che nessuna delle divisioni eguagliava il numero delle navi nemiche, ma questo svantaggio era compensato da altre considerazioni, non ultima fra le quali la superiorità che alla flotta romana davano la disciplina e l'esperienza militare. Inoltre l'astuto tribuno aveva calcolato, che, se per caso una delle due divisioni fosse sconfitta, l'altra, trovando il nemico fiaccato e malconcio dopo la vittoria, ne avrebbe avuto facilmente ragione. Intanto Ben Hur continuava la sua vita di rematore. Il riposo nella baia di Antimona gli aveva giovato e lavorava di buona lena. Il capo, sulla piattaforma, era soddisfatto. In generale gli uomini non sanno quanto conferisca al proprio benessere l'esatta conoscenza di dove si trovano e di dove vanno. La sensazione d'esser perduti è dolorosa; peggio ancora è quella di sentirsi spinti ciecamente verso un punto ignoto. L'abitudine non aveva a tal punto offuscati i sensi di Ben Hur da non fargli provare questa sofferenza, e, chiuso nel suo carcere angusto, lavorando talora per giorni e notti intere, gli veniva irresistibile il desiderio di conoscere a quale meta ignota si dirigeva la nave; su quali mari, vicina a quali terre si trovava. Ma ora questa curiosità era acuita dalla speranza che il colloquio col tribuno aveva destato nel suo petto. Tendeva l'orecchio ad ogni suono, quasicchè lo scricchiolìo di ogni legno, il sibilo del vento fossero voci che gli potessero parlare; guardava il graticcio sopra il suo capo e quel poco di luce che gli era concessa, come attendendo una spiegazione; e più volte era in procinto di cedere all'impulso di parlare al capo sulla piattaforma, cosa che avrebbe altamente meravigliato quello stolido funzionario. Nel corso del suo lungo servizio, osservando i pochi raggi del sole che penetravano fin sul pavimento della cabina, aveva imparato a conoscere con una certa approssimazione la direzione in cui moveva la nave. Questo avveniva soltanto nei giorni sereni come quelli che la Fortuna largiva al tribuno, e l'esperimento non aveva fallito dopo la partenza da Citera. Sapendo che si avvicinava alla sua patria, alla Giudea, badava ad ogni deviazione dalla rotta, ed ebbe una vera fitta al cuore quando s'accorse dell'improvvisa piega verso nord, avvenuta, come abbiamo osservato, dopo la partenza da Nasso. La ragione del cambiamento gli era ignota come lo era ai suoi compagni di schiavitù. Solo una volta in tre anni era salito sul ponte e aveva veduto il mare, e sappiamo quando. Egli non immaginava neppure che dietro alla nave che egli aiutava a spingere veniva una grande flotta in perfetto ordine. Quando cadde la notte, la direzione continuava ad esser la medesima. Un profumo d'incenso penetrò dai boccaporti. — «Il tribuno è davanti all'altare» pensò. — «Siamo dunque alla vigilia di una battaglia?» — Egli era stato in molte battaglie senza averne veduta una sola. Dal suo banco ne aveva udito il clamore, finchè quei suoni erano diventati famigliari alle sue orecchie come note di musica. Così pure aveva imparato a conoscere molti dei preliminarii della battaglia, principale fra questi, così pei Greci come pei Romani, il sacrifizio agli Dei. I riti erano uguali a quelli che si celebravano all'inizio di un viaggio, e, per lui, come abbiamo visto, erano sempre un indizio e un preavviso. Una battaglia possedeva per lui e per gli altri forzati un interesse affatto diverso che per i marinai e i soldati. Per quelli poteva significare vittoria o sconfitta, per gli schiavi poteva arrecare un mutamento nella loro condizione, forse la libertà, certamente un miglioramento. Quando le tenebre si fecero più dense furono accese le lanterne sulle scale, e il tribuno discese dal ponte. Al suo comando i soldati vestirono le loro armature, le macchine furono esaminate; giavellotti, lancie, e freccie ammucchiati sopra il pavimento, insieme a vasi d'olio infiammabile e pece, e a balle di cotone filamentoso. Da ultimo Ben Hur vide il tribuno salire sopra la sua piattaforma e indossare l'elmo e la corazza, segni indubbi che il combattimento era vicino. Ad ogni banco era fissa una catena pesante, e con queste l'hortator cominciò ai assicurare i piedi dei rematori, obbligandoli così all'obbedienza, e precludendo, in caso di disastro, ogni possibilità di salvezza. Un profondo silenzio si fece nella cabina, rotto dapprima solo dal rumore dei remi giranti nei loro sostegni di cuoio. Ogni forzato sentiva l'ignominia dell'atto, e Ben Hur più acutamente degli altri. Ad ogni costo avrebbe voluto evitarlo. Il cigolare crescente delle catene annunziava l'avvicinarsi del capo. Arriverebbe anche a lui; ma il tribuno non sarebbe intervenuto in suo favore? Questo pensiero, derivante da orgoglio o da egoismo, come il lettore vorrà, si era impadronito violentemente di Ben Hur. Egli credeva che il Romano sarebbe intervenuto; in ogni modo questa circostanza avrebbe rivelato i sentimenti e le intenzioni di lui. Se, intento com'era alla battaglia imminente, avesse pensato a Giuda, sarebbe stato un indizio dell'opinione favorevole che s'era formato, indizio ch'egli lo innalzava tacitamente sopra i suoi compagni, e un tale indizio avrebbe giustificato ogni speranza. Ben Hur aspettava con angoscia. L'intervallo sembrava un'eternità. Ad ogni colpo di remo, guardava verso il tribuno, che, terminati i preparativi, si era disteso sopra il suo letto a riposare; vedendo la qual cosa il numero sessanta ebbe un impeto d'ira e giurò di non voltarsi più da quella parte. L'hortator si avvicinava. Era giunto al numero uno, e il cigolar delle catene aveva un suono orribile. Finalmente era la volta del numero sessanta! Calmo nella sua disperazione, Ben Hur arrestò il suo remo e tese il piede all'ufficiale. In quella il tribuno si mosse, si alzò a sedere, fece un cenno al capo. Un impeto di gioia assalì l'Ebreo. Il grande uomo girò gli occhi sopra di lui e disse alcune parole al capo. Egli non le intese, ma quando tuffò nuovamente il suo remo nell'acqua tutta la nave gli sembrava illuminata da una luce vivissima e nuova. La catena pendeva inerte al suo fianco, e il capo, ritornando alla sua piattaforma cominciò a battere il suo tavolo sonoro. I colpi del martello gli sembravano note di musica. Col petto appoggiato all'impugnatura di piombo, spingeva il remo con tutte le sue forze, finchè il legno si piegava quasi a spezzarsi. Il capo si avvicinò al tribuno e con un sorriso indicò il numero sessanta. — «Che forza!» — egli disse. — «E che animo!» — il tribuno rispose. «_Per Pol!_ Egli lavora meglio senza i ferri. Non mettiglieli più.» — Così dicendo si adagiò nuovamente sopra il suo letto. La nave continuava ad avanzare, spinta dai soli remi, attraverso l'onde appena increspate dal vento. Tutto l'equipaggio, tranne le sentinelle, dormiva: Arrio nella sua cabina, i soldati sopra il pavimento. Una volta, due volte, s'era fatto lo scambio dei rematori, ma Ben Hur non poteva dormire. Tre anni di tenebre ed ora un filo di luce finalmente! Naufrago già sbattuto dalle onde ed ora in vista di un porto! Come un morto che si sveglia improvvisamente alla vita, sentiva in sè tutto il fremito e i brividi della resurrezione. Non era questo il momento di dormire. La speranza del futuro fa dimenticare le suggestioni e gli impulsi che vengono dal presente e dal passato. Partendo dal favore del tribuno, essa lo trascinava per vie fiorite verso orizzonti di porpora e d'oro. Le sofferenze ricompensate; restaurata la sua casa e la fortuna della famiglia; la madre e la sorella strette nuovamente fra le sue braccia, — queste erano le sue idee su cui si imperniavano le sue splendide fantasticherie. Le visioni che la speranza gli dettava, non erano amareggiate da alcun dubbio. Esse esistevano veramente per lui, assumevano tutta la consistenza di cose vere, riempiendo il suo petto di una gioia così profonda, così perfetta, da non lasciare alcun posto a pensieri di vendetta. Messala, Grato, Roma e tutte le tristi memorie che ad essi si connettevano, erano spariti per lui, come cose morte, — miasmi della terra sopra i quali egli s'innalzava leggiero e sicuro, ascoltando il canto delle stelle. La profonda oscurità che precede l'alba avviluppava le acque e l'Astraea continuava la sua rotta, quando una sentinella, scendendo rapidamente dal ponte, si avvicinò ad Arrio e lo destò. Il tribuno balzò in piedi, indossò l'elmo, la spada e lo scudo e andò dal capo dei soldati. — «I pirati sono vicini. Affrettatevi!» — egli disse, e, con passo fermo e confidente, salì, per le scale, sul ponte. CAPITOLO V. Tutto l'equipaggio era desto e si preparava al combattimento. Gli ufficiali erano al loro posto. I soldati avevano impugnate le armi e munivano i baluardi, in doppia fila, come i legionarî. Casse di giavellotti e faretre piene di freccie erano ammucchiate sul ponte. Presso al boccaporto centrale erano disposti serbatoi d'olio, e proiettili incandescenti, pronti ad essere lanciati sopra il nemico. Altri fanali furono accesi; apprestate secchie d'acqua per servire in caso d'incendio. I rematori di ricambio stavano schierati davanti al capo ed erano custoditi da alcune guardie. Ben Hur, che fortunatamente si trovava fra essi, tendeva l'orecchio al rumore degli ultimi preparativi e vedeva i marinai che ammainavano le vele, spiegavano le reti, caricavano le macchine, e appendevano gli scudi di cuoio ai parapetti della nave. Quindi un profondo silenzio si fece sulla galera, un silenzio pieno di incerta paura e di attesa. Un ordine fu dato sul ponte e comunicato attraverso un boccaporto al capo degli schiavi. I remi si arrestarono di colpo. Che cosa significava ciò? Ciascuno dei centoventi schiavi incatenati ai banchi si fece questa domanda. Non erano animati da alcun sentimento di amor di patria, da alcun senso d'onore o di dovere. Provavano soltanto il fremito di uomini che una forza cieca e inesorabile spinge incontro ad un pericolo. Il più ottuso di essi si fece questa domanda, ma nessuno pensava a ciò che ne poteva derivare per loro. Incatenati ai banchi, la vittoria non avrebbe che ribadito le loro catene; mentre, in caso di disastro, incendiata o mandata a picco la nave, ne dividevano la sorte. Ma Ben Hur pensava ad altro. Un suono come un tuffo di molti remi nell'acqua intorno a lui, attirò la sua attenzione. L'_Astraea_ dondolava come in mezzo ad onde che si urtavano da parti opposte. Gli balenò l'idea che una grande flotta fosse vicina, una grande flotta che manovrasse, che si preparasse probabilmente all'attacco. Il sangue gli bollì nelle vene a quel pensiero. Un altro ordine fu dato sul ponte. I remi si tuffarono nell'acqua e la nave riprese lentamente il suo cammino. Non un rumore si udiva a bordo, non un rumore veniva dal mare, eppure ogni uomo nella cabina si preparò istintivamente all'urto; la nave medesima sembrava averlo intuito e rimaneva silenziosa. Finalmente un sonoro e prolungato squillo di tromba sul ponte ruppe il silenzio. Il capo abbassò il martello, e i rematori, chini sui remi, raddoppiarono i loro sforzi. La nave si slanciò innanzi, tremando come una creatura animata. Altre trombe si unirono al clamore, quali a destra e a sinistra, quali di dietro; nessuna suonò davanti, donde veniva solo un confuso tumulto di voci e di rumori. Vi fu una scossa violenta. I rematori in piedi, dinanzi al capo, vacillarono; alcuni caddero. La nave rinculò, riprese la spinta e si avventò con novello impeto. Grida alte ed acute di uomini atterriti sorsero d'ogni parte più forti degli squilli delle fanfare e del fracasso dello scontro. Poi, sotto ai piedi, sotto la chiglia, Ben Hur sentì l'urto e il rumore sordo di legname frantumato. I forzati si guardarono in viso. Un urlo di trionfo sorse dal ponte — la prua della nave Romana aveva vinto! Ma chi erano gli infelici che il mare aveva inghiottito? Di qual paese, di qual lingua erano essi? Nessuna pausa, nessuna fermata. L'_Astraea_ continuò la sua corsa. Alcuni marinai discesero a precipizio le scale, tuffarono le balle di cotone nei serbatoi d'olio e li passarono gocciolanti ai compagni sul ponte. Il fuoco doveva aggiungersi ai terrori del combattimento. In quella la galera si piegò improvvisamente sopra un fianco cosicchè i rematori della parte opposta a stento poterono conservare il loro equilibrio. Un altra volta risuonò l'urrà dei Romani. Una nave nemica, afferrata dai ganci della grande gru girante sulla prua, veniva alzata nell'aria per esser poi ripiombata nelle onde ed affondata. Il clamore aumentava d'ogni lato. Di tanto in tanto altri scrosci seguiti da urli di terrore narravano di altre navi mandate a picco con tutto il loro equipaggio. Ma il combattimento non era tutto favorevole ai Romani. Sovente un soldato o un marinaio erano portati nella cabina e adagiati feriti, talvolta moribondi, sul suolo. Spesso nuvole di fumo e di vapore, appestate dall'odore di carne abbruciata, si versavano attraverso i boccaporti, avvolgendo la cabina in una densa oscurità, rotta soltanto dal bagliore di qualche fiamma gialla. Ansando e boccheggiando, Ben Hur sapeva che passavano attraverso le vampe di una nave incendiata, che ardeva con tutti i rematori incatenati ai loro posti. Improvvisamente l'_Astraea_ si arrestò. I remi balzarono dalle mani dei forzati, ed essi medesimi furono rovesciati dai sedili. Sul ponte risuonò il calpestìo furioso di molti piedi, e ai fianchi si udì lo stritolìo di navi e il frantumarsi di remi. Gli schiavi, si gettarono per terra o strisciarono in cerca di nascondigli. In mezzo a questo panico un corpo umano fu lanciato a capofitto attraverso il boccaporto, ai piedi di Ben Hur. Egli vide un busto seminudo, una massa di capelli neri spioventi sul viso, e, sotto, uno scudo di vimini e di cuoio: Un barbaro del settentrione, cui la morte aveva tolto vendetta e bottino. Come era venuto in questo luogo? Gli uncini ferrati lo avevano strappato dal ponte nemico? No, l'_Astraea_ era stata arrembata! I Romani combattevano sul proprio ponte. Un brivido prese l'Ebreo. Forse Arrio era assalito, lottava per la propria vita. Se fosse ucciso! Il Dio d'Abramo non lo voglia! Che sarebbero divenute le speranze ed i sogni vagheggiati? Madre, sorella, casa, patria, dovrebbe perderli di bel nuovo? Il tumulto raddoppiò sopra il suo capo; nella cabina tutto era confusione, i rematori paralizzati sui loro banchi, uomini correnti qua e là all'impazzata; solo il capo, seduto davanti al suo tavolo, aspettava impassibile un ordine del tribuno, esempio di quella mirabile disciplina che aveva soggiogato il mondo. L'esempio fece bene a Ben Hur. Si padroneggiò abbastanza per riflettere. Onore e dovere costringevano il Romano al suo posto, ma per lui queste ragioni non esistevano. Egli era uno schiavo e forse questo era il momento di riacquistare la libertà. A che pro' il sacrificio? Per lui il vivere era un dovere, non il morire. La sua vita apparteneva ai suoi cari. Essi gli apparirono davanti alla fantasia accesa, palpitanti in carne ed ossa, con le mani tese verso di lui. Egli li salverebbe. Si mosse, fece due passi, si arrestò: ahimè! Una condanna romana lo costringeva al suo destino. Mentre essa perdurava, la fuga era inutile. In tutto il mondo non v'era un cantuccio in cui egli potesse dirsi sicuro, in cui non lo avrebbe raggiunto la vendetta di Roma! Inoltre egli aveva bisogno della libertà concessa secondo tutte le formalità della legge, per poter girare senza molestia la Giudea e rintracciare la madre. O Dio! Quanto aveva sperato e pregato per una tale liberazione! Finalmente era apparsa vicina stando alle parole del buon tribuno. E se quel benefattore venisse ucciso? I morti non ritornavano a mantenere le promesse dei vivi. No. Arrio non doveva morire. Meglio, in ogni caso, perire con lui che continuare la vita di forzato. Un'altra volta Ben Hur girò gli occhi intorno a sè. Sul tetto della cabina la mischia continuava; i fianchi della galera urtavano ancora con quelli della nave nemica. Sui banchi gli schiavi si agitavano, cercando di strappare le loro catene, e tornando vani i loro sforzi, urlavano come pazzi. Le guardie erano salite sopra coperta; la disciplina aveva ceduto il posto al panico. No, il capo sedeva ancora al suo posto, calmo, impassibile, senz'altra arma che il suo martello, col quale invano cercava di richiamare all'ordine gli schiavi. Ben Hur gli rivolse un ultimo sguardo, poi si mosse, non per fuggire, ma per cercare il tribuno. In due salti si trovò a mezzo della scala e potè vedere alla sfuggita un lembo di cielo infocato, alcune navi vicine, il mare coperto di rottami, il combattimento sulla nave fervente intorno al quartiere del pilota, dove un pugno di Romani si difendeva contro gran numero di assalitori. Quindi, improvvisamente, il terreno gli mancò sotto i piedi, ed egli fu balzato indietro con violenza. Il pavimento della cabina gli sembrò alzarsi e sfasciarsi; poi in un batter d'occhio tutta la parte posteriore dello scafo si divise in due, e sprofondò in mezzo a un tumulto di onde e di spume, nel mare, che avidamente si rinchiuse sopra di esso, trascinandola seco come una paglia. Non possiamo affermare che il giovane Ebreo avesse contribuito attivamente alla sua salvezza. La sua forza straordinaria e le indescrivibili risorse che la natura tiene in riserbo per momenti di estremo pericolo a nulla gli valsero in quella oscurità, in quel vortice di acqua e di rottami. Lo stesso atto di trattenere il respiro fu un atto meramente istintivo. Il flusso dell'acqua lo aveva cacciato indietro nella cabina, dove sarebbe morto annegato se non ne fosse stato rigettato per il riflusso seguente. Nell'affondarsi, la enorme massa lo vomitò da uno dei boccaporti e gli permise di riguadagnare la superficie. Il tempo che aveva passato sott'acqua gli era sembrato un'eternità. Con la bocca spalancata respirò a pieni polmoni l'aria vivificatrice, e gocciolando acqua dai capelli e dagli occhi, si arrampicò sopra una trave che galleggiava dappresso. La morte lo aveva seguito con avide mani sott'acqua. La morte sotto mille aspetti lo insidiava alla superficie. Sul mare giaceva una gran nube di fumo, dalla quale tratto tratto apparivano dei punti luminosi, che egli riconobbe per navi incendiate. La battaglia continuava tuttavia, non si sapeva con quale fortuna. Di tanto in tanto qualche nave gli passava vicino come un'ombra gigantesca. Attraverso la nebbia si udivano scrosci e frastuoni di navi cozzanti. Ma un altro pericolo più immediato attrasse la sua attenzione. Quando l'_Astraea_ si era sfasciata, il combattimento fra assalitori e assaliti ferveva sopra il suo ponte, il quale era sprofondato insieme con le altre parti della nave. Molti di questi combattenti erano ritornati a galla e avevan ripreso la lotta, servendosi degli appoggi precarî di assi, travi e pezzi d'alberatura. Stretti insieme in abbraccio mortale, si contorcevano disperatamente, si assalivano con spade e giavellotti, sbattuti tutto il tempo dalle onde agitate, trascinati ora in una ora in un'altra direzione da correnti opposte e da vortici, ora all'oscuro, ora illuminati dalla luce macabra delle navi incencendiate. Ben Hur non aveva nulla a che vedere con quella lotta, e si sforzò di allontanarsi al più presto possibile. In quella udì il rumore di remi in ritmico movimento e vide una galera avvicinarsi rapidamente. La prora maestosa sembrava doppiamente alta, e la luce rossa che la illuminava le dava l'apparenza di un drago o di un mostro marino. Sotto di essa il mare saliva spumeggiante. Cacciando la trave innanzi a sè, cercò di portarsi in salvo. Il tempo stringeva, ogni istante era prezioso. In quel momento, a portata della sua mano vide uscire dall'acqua un elmo dorato, poi due mani con le dita tese, mani larghe e forti che cercavano di aggrapparsi alla sua trave. Ben Hur si ritrasse atterrito. Un'altra volta l'elmo si sollevò, poi due braccia si agitarono violentemente. La testa si rovesciò sulle spalle esponendo il volto alla luce. La bocca spalancata, gli occhi aperti, esterrefatti, la pelle divenuta di un pallore cinereo, da moribondo; una visione orribile! Ma Ben Hur diede un grido di gioia a quella vista, e, prima che l'uomo si sprofondasse per la terza volta, l'afferrò per la catena che assicurava l'elmo sotto il mento, e lo tirò verso la trave. Quell'uomo era Arrio, il tribuno. Per un istante l'acqua si alzò spumeggiante intorno ad essi, avvolgendoli come in un vortice, durante il qual tempo Ben Hur ebbe molta difficoltà per aggrapparsi alla trave e allo stesso tempo sostenere il corpo del Romano. La galera era passata, e i suoi remi avevan quasi sfiorato i due naufraghi. Dritta in mezzo ai corpi galleggianti dei combattenti era passata, lasciando dietro di sè una scìa che le vampe vicine tingevano di rosso, come la coda fiammeggiante di un serpente. Si udì un fracasso a cui tenne dietro un grido altissimo, disperato. Ben Hur provò un sentimento di gioia selvaggia; l'_Astraea_ era vendicata. La battaglia si andava allontanando. La resistenza s'era mutata in fuga. Ma chi erano i vincitori? Ben Hur comprendeva che la sua libertà e la vita del tribuno dipendevano dalla risposta. Adagiò il Romano sulla trave e aspettò. L'alba veniva lentamente. Egli ne seguiva il sorgere con una grande speranza, ma anche con timore. Che cosa gli avrebbe essa portato? Se i pirati avessero vinto, la vita del Romano era perduta. Finalmente la luce sorse in tutta la sua potenza. A sinistra vide la terra, ma troppo lontana per potervi arrivare a nuoto. Qua e là sul mare altri naufraghi come lui galleggiavano aggrappati a rottami. In alcuni punti masse nere e fumanti ingombravano il verde delle acque. A destra, molti cubiti distanti, una galera giaceva sopra il suo fianco, la vela a brandelli, i remi inerti. Più lontano potevasi scorgere delle piccole macchie che si movevano, forse navi che fuggivano o che s'inseguivano, forse uccelli marini dalle ali bianche. Un'ora passò in questo modo e la sua angoscia crebbe. Se il soccorso tardava, Arrio poteva morire. Qualche volta sembrava già morto nella sua fredda immobilità. Gli tolse l'elmo dal capo, e con grande difficoltà gli sciolse anche la corazza. Il cuore batteva leggermente. Questo segno aumentò le speranze di Ben Hur, che, più fiducioso, si dispose all'attesa. CAPITOLO VI. Il riaversi dallo stato di quasi annegamento è un processo più lungo e più doloroso che non l'annegare medesimo, e Ben Hur provò un intensa gioia quando Arrio fu finalmente in grado di articolare qualche parola. Dopo le prime domande intorno al luogo dove si trovava e come era stato salvato, il pensiero del tribuno corse subito all'esito della battaglia. Il dubbio intorno alla battaglia stimolava la sua intelligenza e contribuì a ristabilirlo in forze come pure l'obbligato riposo a cui lo astringeva la breve superficie della trave. Fra poco potè parlare continuamente. — «La nostra salvezza dipende dall'esito della battaglia. Io riconosco ciò che tu hai fatto per me. Tu mi hai salvato la vita a prezzo della tua. Io lo risconosco pienamente, e, qualunque cosa avvenga, abbi i miei ringraziamenti. Se la fortuna mi favorisce io farò per te tutto ciò che un Romano autorevole e potente può fare per dimostrare la sua gratitudine. Tuttavia non è ancor detto che con tutta la tua buona volontà tu mi abbia reso un servigio; anzi facendo appello al tuo buon volere» — egli esitò — «debbo chiederti un favore. Tu devi promettermi, nel caso che avvenga un certo evento, di compiere per me il più grande favore che un uomo può rendere a un altr'uomo. Dammi la tua parola.» — — «Se il favore che mi chiedi è cosa lecita, lo farò» — disse Ben Hur. Arrio riposò nuovamente. — «Sei tu davvero un figlio di Hur, l'Israelita?» — chiese poi. — «Lo sono, come ti dissi.» — — «Io conobbi tuo padre.» — Giuda s'avvicinò al tribuno la cui voce si affievoliva. Si avvicinò ascoltando con attenzione. Forse stava per aver notizie di casa. — «Lo conobbi e lo amai» — continuò Arrio. Vi fu un'altra pausa, durante la quale i pensieri del tribuno volarono altrove. — «È impossibile» — proseguì — «che tu, suo figlio, non abbia udito parlare di Catone e di Bruto. Essi furono grandi uomini, massime nella loro morte. Morendo essi lasciarono questa legge: che un Romano non deve sopravvivere alla sua buona fortuna. Mi ascolti?» — — «Intendo.» — — «I gentiluomini Romani usano portare un anello. Ne tengo uno al mio dito. Prendilo.» — Tese la mano verso Giuda che eseguì il suo ordine. — «Ora metti l'anello al tuo dito.» — Ben Hur obbedì. — «Quel gioiello ha un valore» — disse Arrio. — «Io posseggo terre e denaro. Sono un uomo ricco anche secondo i concetti Romani. Non ho famiglia. Mostra l'anello al mio liberto, che amministra i miei beni durante la mia assenza; lo troverai in una villa a Miseno. Digli come ti pervenne, e domandagli quello che vuoi; egli non rifiuterà. Se io vivo farò di più. Ti renderò la libertà, ti restituerò alla tua famiglia; oppure potrai scegliere la professione che più ti aggrada. Mi intendi?» — — «Ti ascolto.» — — «Allora giura. Per gli Dei...» — — «No, tribuno, io sono Ebreo.» — — «Per il tuo Dio, allora, o secondo la formola più sacra della tua fede, giura che tu farai ciò che io dico. Dammi la tua parola.» — — «Nobile Arrio, la tua voce mi ammonisce che tu stai per chiedermi cosa di grave momento. Esponi dapprima il tuo desiderio.» — — «Prometterai?» — — «Non lo posso prima di sapere ciò che vuoi, e... Benedetto sia il Dio dei miei padri! Ecco una nave!» — — «Da qual direzione?» — — «Dal Nord.» — — «Puoi riconoscere la sua nazionalità da qualche segno esteriore?» — — «No. Ho servito ai remi.» — — «Porta una bandiera?» — — «Non ne vedo.» — Arrio rimase silenzioso qualche tempo, pensando. — «Continua la sua rotta verso di noi?» — chiese finalmente. — «Sì.» — — «Guarda se vedi la bandiera.» — — «Non ne ha.» — — «Nessun altro segno?» — — «Ha la vela spiegata, ha tre ordini di remi, e corre con grande velocità. Non vedo altro.» — — «Una nave Romana dopo una vittoria sarebbe coronata di molte bandiere. Deve essere una galera nemica. Ascoltami» — disse Arrio, abbassando ancor più la voce. — «Ascoltami, finchè posso ancora parlare. Se la galera appartiene ai corsari, la tua vita è salva; forse non ti renderanno la libertà; forse ti porranno ancora al remo, ma non ti uccideranno. D'altra parte io....» — Il tribuno esitò. — «_Per Pol!_» — continuò risolutamente. — «Io sono troppo vecchio per sopportare il disonore. Devi dire a Roma che Quinto Arrio, andò a picco colla sua nave, in mezzo ai nemici, come si conveniva a un tribuno Romano. Questo devi dire. Se la galera si rivela una nave corsara, spingimi giù dalla trave e lasciami annegare. Mi intendi? Giurami che lo farai.» — — «Io non voglio giurare,» — disse Giuda con fermezza — «e non farò una tale azione. La legge, che governa noi figli d'Israele me lo vieta. Riprendi il tuo anello, o tribuno» — disse togliendosi il sigillo dal dito — «riprendi il tuo anello e tutte le tue promesse. Il giudizio che mi condannò al remo per tutta la vita mi fece schiavo; ma io non sono uno schiavo, e neppure tuo liberto. Sono un figlio d'Israele, e, in questo momento almeno, libero e padrone di me. Riprendi il tuo anello.» — Arrio non rispose. — «Non vuoi?» — continuò Giuda. — «Non per collera, o per stizza, intendi, ma per liberarmi da un'obbligazione che mi pesa, io donerò il tuo regalo al mare. Guarda, o tribuno!» — E gettò l'anello nell'acqua. Arrio udì il tonfo, ma non alzò gli occhi. — «Tu hai commesso una sciocchezza» — egli disse. — «Pensa alla tua condizione. Io non dipendo da te per morire. La vita è un filo tenue che posso spezzare anche senza il tuo aiuto; e se lo faccio, che avverrà di te? Chi vuol morire, preferisce che la morte gli venga data da altri, perchè, come Platone ci insegna, l'anima si ribella al pensiero del suicidio. Se quella nave appartiene ai pirati, io abbandonerò il mondo. Ho deciso. Sono Romano, e, per me, la fortuna e l'onore sono tutto. Ma io avrei voluto giovarti. Quell'anello era l'unica prova della mia volontà. Tu l'hai buttato via. Ora siamo perduti entrambi. Io morirò col rammarico della vittoria e della gloria strappate; tu vivrai col rimorso di aver rigettato un dono della fortuna che ti avrebbe permesso il compimento de' tuoi doveri. Ti compatisco.» — Ben Hur vide più chiaramente di prima le conseguenze della sua azione, ma non esitò. — «In tre anni della mia servitù, o tribuno, tu fosti il primo a rivolgermi uno sguardo gentile. No, no! Ce ne fu un altro.» — La sua voce si abbassò, si fece dolcissima; gli occhi gli si inumidirono, e vide come se la avesse dinanzi, il volto del giovanetto che gli aveva offerto da bere alla fonte di Nazareth. — «Almeno — egli proseguì — tu fosti il primo che mi chiedesti il mio nome; e quando ti afferrai svenuto e quasi annegato, quantunque pensassi ai molti modi in cui potresti essermi utile, la mia azione non fu interamente interessata, credimi. Di più; i disegni che Dio manifesta devono esser attuati solo con mezzi onesti. Sulla mia coscienza, preferirei morire con te che ucciderti. La mia risoluzione è ferma al pari della tua, e se tu mi offrissi tutta Roma, o tribuno, e fosse in tuo potere il donarmela, io non ti ucciderei. I tuoi Catoni e i tuoi Bruti sono piccoli fanciulli a petto del Legislatore Ebreo, a cui dobbiamo obbedienza.» — — «Ma la mia preghiera. Hai tu...» — — «Il tuo comando avrebbe avuto maggior peso, e neppur quello, mi avrebbe mosso. Ho detto.» — Tacquero entrambi, aspettando. Ben Hur osservava la nave. Arrio riposava con gli occhi chiusi, indifferente. — «Sei sicuro che essa sia una vela nemica?» — chiese Ben Hur. — «Lo credo» — fu la risposta. — «Essa si è fermata e ha calato in mare una scialuppa.» — — «Vedi la sua bandiera?» — — «Non vi è altro segno da cui si potrebbe conoscere se essa sia Romana?» — — «Se è Romana, porterebbe un elmo all'estremità dell'albero.» — — «Rallegrati allora; io vedo l'elmo.» — Ma Arrio non si rasserenò. — «Gli uomini della scialuppa stanno raccogliendo i naufraghi. I corsari non sarebbero così pietosi.» — — «Possono aver bisogno di rematori» — rispose Arrio, pensando forse ad occasioni in cui aveva fatto lo stesso egli medesimo. Ben Hur osservava attentamente la nave. — «Essa si muove» — disse. — «Per dove?» — — «Alla nostra destra vi è una galera abbandonata. La nave si avvicina ad essa. Le è presso. Manda uomini a bordo.» — Allora Arrio spalancò gli occhi e si alzò a sedere sulla trave. — «Ringrazia il tuo Dio,» — disse a Ben Hur, — «come io oggi ringrazio i miei Dei. Un corsaro avrebbe affondata, non salvata quella nave. Da quest'atto e dall'elmo sopra il suo albero, io la riconosco per una galera Romana. La vittoria è mia. La Fortuna non mi ha abbandonato. Siamo salvi. Agita la mano, chiamali. Io sarò duumviro, e tu! Io conobbi tuo padre, e lo amai. Egli era un principe davvero! Egli m'insegnò che un Ebreo non è un barbaro. Io ti condurrò con me, ti adotterò per figlio. Ringrazia il tuo Dio, e chiama i marinai. Presto! Dobbiamo inseguire i pirati. Non uno deve sfuggire.» — Giuda si alzò sulla trave, agitò la mano, e chiamò con tutto il fiato dei suoi polmoni. Finalmente i marinai della scialuppa lo videro e i naufraghi furono tosto raccolti. Arrio fu ricevuto a bordo della galera con tutti gli onori dovuti a un vincitore così favorito dalla fortuna. Steso sopra un giaciglio sul ponte udì i particolari della fine della battaglia. Quando gli altri superstiti galleggianti furono salvati, e una guardia posta sulla nave catturata, la galera issò la bandiera ammiraglia, e corse, con quante navi potè raccogliere, a compiere la vittoria. Gli altri cinquanta vascelli discendendo il canale, incontrarono i pirati fuggitivi, e li sconfissero completamente. L'intera loro flotta fu sommersa, venti galere furono catturate. Al suo ritorno in patria Arrio ebbe una calda accoglienza a Miseno. Il giovane che lo accompagnava attirò tosto l'attenzione degli amici, e alle loro domande per sapere chi egli fosse, il tribuno rispose, narrando con affetto e commozione la storia del suo salvataggio, e presentò lo straniero, omettendo di accennare tutto ciò che si riferiva alla sua vita di forzato. Terminato il suo racconto, chiamò a sè Ben Hur, e disse, ponendogli la mano sulla spalla. — «Buoni amici, questo è mio figlio ed erede, il quale, dovendo succedermi nella proprietà dei miei beni, — se gli Dei permetteranno ch'io ne lasci — dovrà d'ora innanzi portare il mio nome. Io vi prego di amarlo come amate me stesso.» — A pena l'occasione si offrì, l'adozione fu formalmente eseguita. In questo modo il nobile Romano tenne la sua promessa con Ben Hur, presentandolo al mondo imperiale. Nel mese successivo al ritorno di Arrio, nel teatro di Scauro fu celebrata con ogni solennità la cerimonia dell'_Armilustrium_. Fra i trofei più ammirati che occupavano un lato del vasto recinto, spiccavano venti prore e i loro corrispondenti _Aplustra_, tolti dalle galere catturate; e sopra di esse, in caratteri visibili a tutti gli ottantamila spettatori risaltava scolpita l'iscrizione: TOLTO AI PIRATI NEL GOLFO DI EURIPO DA QUINTO ARRIO DUUMVIRO. FINE DEL LIBRO TERZO. LIBRO QUARTO ALBA. Che se il monarca ingiusto Si rivelasse? REGINA. Allora attenderei La sua giustizia; e quei felici i quali Possono farlo con coscienza franca. _Schiller_ — Don Carlos. CAPITOLO I. Il mese nel quale ci troviamo è quello di Luglio, nell'anno di grazia 29; il luogo Antiochia, allora regina d'oriente, e, dopo Roma, la più potente, se non la più popolosa città del mondo. Vuolsi da alcuni che la stravaganza e la dissolutezza di quell'età abbiano avuto la loro origine in Roma, e che di là si siano diffuse in tutto l'impero, di modo che le grandi città non facevano che riflettere i costumi della metropoli Tiberiana. Su ciò è permesso il dubbio. Sembra piuttosto che la reazione della conquista si sia ripercossa sulla morale dei conquistatori, i quali, in Grecia ed in Egitto, trovarono un'ampia fonte di corruzione; cosicchè lo studioso, che consideri attentamente questo periodo, riporterà l'impressione che la corrente demoralizzatrice movesse da oriente ad occidente, e che appunto questa città di Antiochia, sede antichissima della potenza e dello splendore Assiro, fosse una delle principali sorgenti di questo fiume letale. Una galera da trasporto avanzava nelle acque turchine del mare, rimontando alla foce dell'Oronte. Era prima di mezzodì, e faceva un caldo intenso, ma ciò non ostante tutti coloro cui era concesso d'occupare il ponte vi si trovavano, e, fra essi, Ben Hur. Cinque anni trascorsi avevano portato il giovane Israelita a perfetta maturità. Quantunque la veste di tela bianca che lo avvolgeva, mascherasse in parte le sue forme, l'aspetto suo poteva dirsi dei più attraenti. Per oltre un'ora egli era rimasto a sedere all'ombra della vela e, durante quel tempo, i suoi compagni di viaggio e i suoi connazionali avevano indarno tentato di farlo parlare. Alle loro domande egli aveva risposto con gravità cortese sì, ma brevemente ed in lingua latina. La purezza del suo accento, la distinzione dei modi e la sua riservatezza, stimolavano vieppiù la loro curiosità. Chiunque attentamente lo osservava non poteva a meno di rimaner colpito del contrasto fra il suo portamento che rispecchiava l'elegante semplicità del patrizio, con certe particolarità personali. Per esempio le sue braccia erano sproporzionatamente lunghe, ed allorquando il rullìo della nave l'obbligava ad afferrare un punto d'appoggio, la grandezza delle sue mani, e la loro straordinaria forza, risaltavano agli occhi; per cui, alla curiosità di sapere chi egli fosse, aggiungevasi quella di conoscere le vicende della sua vita. In altre parole l'aspetto suo indicava chiaramente che egli era un uomo che aveva avuto un passato pieno di avventure. La galera, nel suo viaggio, aveva toccato uno dei porti di Cipro e ricevuto a bordo un Israelita dall'aspetto rispettabile, tranquillo, riservato e paterno; Ben Hur si azzardò a fargli qualche domanda; le risposte sue gli ispirarono fiducia e diedero luogo ad un colloquio più amichevole. Volle il caso che, mentre la galera avanzavasi nella baja dell'Oronte, due altre navi, già scorte da lontano, la raggiungessero, e nel passare spiegassero delle piccole bandiere gialle, provocando infinite congetture circa il significato di quei segnali. Finalmente un passeggiero si rivolse al rispettabile Israelita per chiedergli schiarimenti in proposito. — «Sì, conosco benissimo il significato delle bandiere, egli rispose; esse non indicano alcuna nazionalità ma solo i distintivi del proprietario.» — — «E questo proprietario possiede molte navi?» — — «Sicuro.» — — «Voi lo conoscete? — — «Ho avuto con lui rapporti d'affari.» — I passeggeri rivolsero uno sguardo interrogativo all'Israelita come in attesa d'altri particolari. Ben Hur ascoltava con grande interessamento. — «Egli abita in Antiochia» — proseguì tranquillamente l'Ebreo. — «Le sue ricchezze lo hanno reso assai noto ed i commenti sopra il suo conto non sono sempre benevoli. V'era una volta in Gerusalemme un principe d'antichissima famiglia, di nome Hur....» — Giuda si sforzò di mostrarsi calmo, ma il suo cuore batteva forte. — «Il principe era un negoziante dotato del genio degli affari. Iniziò molte imprese tanto nel lontano Oriente quanto nei porti d'Occidente. Nelle grandi città possedeva figliali, e quella d'Antiochia era affidata ad un tale, portante il nome greco di Simonide, ma Ebreo di nazionalità il quale si vuole fosse stato uno schiavo della famiglia. Il padrone annegò in mare, ma, ciò non ostante, il commercio suo continuò senza diminuzione di prosperità. Poco dopo una sventura colpì la famiglia. L'unico figlio del principe, appena adolescente, attentò alla vita del procuratore Grato in una delle vie di Gerusalemme. Il colpo fallì, e del giovane si perdettero le traccie. La vendetta del Romano coinvolse tutta la famiglia e nessun membro di essa fu risparmiato. Il palazzo, chiuso, non serve ormai più che di rifugio ai piccioni; le terre furono confiscate e così pure ogni possesso degli Hur. Fu così che il Procuratore credette d'indennizzarsi della ferita ricevuta, applicandovi un cataplasma d'oro.» — I passeggieri ridevano. — «Volete dire ch'egli tenne per sè parte dei beni» — esclamò uno di loro. « — Così dicono,» — replicò l'Ebreo; — «ripeto solo ciò che ho udito dire, e, per continuare la mia storia, aggiungerò che Simonide, già agente del principe in Antiochia, si mise in breve a commerciare per proprio conto ed in un lasso di tempo incredibilmente breve divenne il primo negoziante della città. Seguendo l'esempio del suo padrone, mandò carovane nell'India ed ora egli ha in mare tante galere quante basterebbero a costituire una flotta regale. Dicono che nessun affare gli sia mai andato a male. I suoi cammelli non muoiono che di vecchiaia, le sue navi non fanno naufragio. Se egli getta un pezzo di legno nel fiume, esso ritorna a lui cangiato in oro.» — — «E questo da quanto tempo dura?» — — «Da più di dieci anni.» — — «Deve pur aver avuto dei mezzi per incominciare.» — — «Già. Fu detto che il Procuratore non si pigliò che i beni del principe che potè trovare pronti a soddisfare la sua rapacità, cioè cavalli, bestiame, case, terre, stoviglie e messi. Di danaro contante non si trovò traccia, quantunque ve ne debba essere stato in gran quantità. Ciò che ne sia divenuto è tuttora un mistero.» — — «Ma non per me» — interruppe con un sogghigno un passeggero. — «Capisco quello che volete dire» — replicò l'Ebreo. — «Lo stesso sospetto è venuto ad altri; anzi è credenza generale che il denaro scomparso abbia costituito il primo capitale del vecchio Simonide. Lo stesso Procuratore è, o almeno era, del medesimo parere, poichè due volte in cinque anni egli ha sottoposto il negoziante alla tortura.» — Ben Hur strinse con maggior forza la corda alla quale con una mano s'era aggrappato. — «Si dice» — continuò il narratore — «che quell'uomo abbia tutte le ossa spezzate. L'ultima volta ch'io lo vidi era seduto sopra un divano e sembrava una massa informe sprofondata fra i guanciali.» — — «Torturato fino a tal punto!» — esclamarono contemporaneamente alcuni uditori. — «Gli acciacchi naturali non avrebbero potuto deformarlo in quella guisa. Eppure le sofferenze non sortirono alcun effetto. Le uniche parole che gli si poterono strappare, furono che tutto quanto egli possedeva era legalmente suo e ch'egli ne faceva legittimo uso. Egli però è ora garantito contro ogni ulteriore persecuzione da una licenza di commercio firmata nientemeno che da Tiberio.» — — «Chi sa che cosa l'avrà pagata!» — — «Quelle navi sono sue» — proseguì l'Israelita, senza badare all'interruzione. — «È uso dei naviganti, allorchè s'incontrano, d'issare bandiere, come per dire: «abbiamo fatto una traversata fortunata.» — E qui finì la narrazione. Allorchè la galera si trovò più innanzi fra le due sponde del fiume, Giuda chiese all'Ebreo. — «Come si chiamava il padrone del negoziante?» — — «Ben Hur, principe di Gerusalemme.» — — «Che avvenne della famiglia del Principe?» — — «Il figlio fu imbarcato sulle galere, il che equivale a dire che è morto. Un'anno è il limite ordinario di resistenza. Della vedova e della figlia non si ha contezza e chi ne sa qualcosa non vuol parlare. Probabilmente perirono nelle celle d'uno dei castelli che costeggiano le strade della Giudea.» — Giuda salutò e si diresse verso il posto del pilota. Egli era così profondamente assorto nei suoi pensieri, che appena s'accorse delle amene sponde del fiume, che per tutto il tratto fra il mare e la città apparivano di una sorprendente bellezza, adorne com'erano di ville ricche al pari di quelle di Napoli, e circondate di orti abbondanti di frutta e di vigneti. Neppure badò alle innumerevoli navi che gli sfilarono davanti, nè ai canti dei marinai. Tutto il cielo era illuminato di una luce rosea, che avvolgeva voluttuosamente la terra e l'acqua; solo egli gemeva, cupo ed oscuro nel volto. Un istante solamente si scosse, quando qualcuno additò il boschetto di Dafne, visibile da un risvolto del fiume. CAPITOLO II. Allorchè la città fu in vista, i passeggeri, desiderosi di nulla perdere dello spettacolo, si portarono tutti sopra coperta. — «Il fiume, qui, scorre verso occidente» — spiegava l'Ebreo dall'aspetto venerando, già presentato al lettore. — «Io mi rammento quando le sue acque bagnavano lo zoccolo delle mura; ma come sudditi romani noi abbiamo vissuto in pace, e, come suol avvenire in tempi tranquilli, il commercio si è imposto, ed ora tutta la riva del fiume è occupata da moli e da cantieri. Là — accennando verso mezzogiorno — è il monte Casio, o, come questo popolo preferisce chiamarlo, la montagna d'Oronte, che guarda in faccia al suo gemmello Amno a settentrione; fra loro due giace la pianura d'Antiochia. Più in giù sono le Montagne Nere dalle quali gli acquedotti dei Re ci portano acqua freschissima per inaffiare le strade e per bere, esse sono coperte da foreste piene di uccelli e di belve.» — — «Ov'è il lago?» — chiese qualcuno. — «Là, al nord. Vi ci potete recare a cavallo se desiderate vederlo, o meglio, in battello, poichè è unito al fiume da un canale tributario. — «Il boschetto di Dafne» — disse in risposta ad un terzo interrogatore, — «fu incominciato da Apollo e da lui condotto a termine. Egli lo preferisce all'Olimpo. Chi vi ci si reca e gli dà uno sguardo, uno solo, non se ne parte più. Vi è un proverbio che ne dà la spiegazione: — «Meglio essere, un verme e nutrirsi delle more di Dafne, che esser l'ospite d'un Re.» — — «Allora mi consigliate di starne lontano?» — — «Io no, vi andrete. Tutti ci vanno; filosofi cinici, baldi giovani, donne e sacerdoti. Sono talmente certo di ciò che farete che oso darvi un consiglio. Non alloggiate in città — sarebbe una perdita di tempo; andate direttamente al villaggio situato al confine del boschetto. Il cammino conduce attraverso un giardino e fra amene fontane. Le amanti del Dio e la figliuola di Peneo lo costruirono; nei suoi porticati, nei sentieri e nei mille ritrovi voi v'imbatterete in tipi, in abitudini, in attrattive, impossibili altrove. Ma ecco le mura della città! Ecco, sono il capolavoro di Xeres, il maestro dell'arte muraria.» — Tutti gli occhi seguirono la direzione della sua mano. — «Questa parte fu eretta per ordine del primo dei Seleucidi. Nel corso di 300 anni ha finito col formare una massa sola colla roccia, sulla quale riposa.» — L'encomio era ben meritato. Alte, solide, e con molti angoli arditi, si curvavano maestosamente in direzione di mezzogiorno. — «Là, in cima, vi sono quattrocento torri, ognuna delle quali è un serbatoio d'acqua» — continuò l'Ebreo. — «State attenti e vedrete al di là del muro, per quanto alto egli sia, due colline in lontananza, dette le creste rivali di Sulpio, di cui avrete sentito parlare. L'edificio su quella più lontana è la cittadella, occupata costantemente da una legione romana. Dirimpetto, venendo verso di noi, è il tempio di Giove, ed al disotto, la facciata del palazzo del legato, e insieme fortezza, contro la quale un'attacco popolare riuscirebbe innocuo come un soffio di scirocco.» — Mentre i marinai cominciavano ad ammainare le vele, l'Ebreo proruppe in queste parole: — «Attenti! voi che odiate il mare, e voialtri che avete fatto dei voti, preparate le vostre maledizioni e le vostre preghiere. Quel ponte, laggiù, sul quale passa la strada che conduce a Seleucia, segna il limite della nostra navigazione. Qui le navi scaricano le merci che vengono poi trasportate a dorso di cammello. Al di là del ponte incomincia l'isola sulla quale Calinico costruì la sua nuova città, congiungendola con cinque grandi viadotti così solidi che gli anni non vi lasciarono alcuna traccia, come nessuna traccia vi lasciarono le innondazioni ed i terremoti. Quanto alla città principale poi, amici miei, basti il dirvi che il ricordo d'averla veduta sarà per tutta la nostra vita una sorgente di felicità.» — Com'egli finiva di parlare, la nave girò e s'appressò lentamente al molo volgendo il fianco alle mura, e ponendo così in maggior rilievo lo spettacolo pieno d'ammirazione presentato dal fiume in quel punto. Finalmente si gettarono le corde e si ritirarono i remi: il viaggio era compiuto. Ben Hur andò in cerca dell'Ebreo. — «Permettetemi una parola, prima di accomiatarmi da voi.» — L'altro acconsentì con un inchino. — «La storia del vostro negoziante mi ha reso desideroso di vederlo. Il suo nome è Simonide non è vero?» — — «Sì. Egli è Israelita, quantunque il suo nome sia greco.» — — «Dove lo si può trovare?» — L'interrogato gli diede uno sguardo scrutatore prima di rispondere, poi disse: — «Vorrei risparmiarvi una mortificazione. Egli non presta danaro.» — — «Nè io ne voglio a prestito» — rispose Ben Hur, cui la perspicacia del compagno strappò un sorriso. Quegli rialzò il capo e si trattenne un momento a riflettere. — «Si dovrebbe ritenere» — riprese l'Ebreo — «che il più ricco negoziante d'Antiochia dimorasse in una casa degna di tanta ricchezza, ma non è così. Se volete trovarlo di giorno, seguite il corso del fiume fino a quel ponte, laggiù, poi ch'egli si è stabilito in una specie di fabbricato che sembra il contrafforte della muraglia. Di fronte all'entrata vi è un vasto approdo costantemente ingombrato da merci che vanno e vengono. La flottiglia che vi è ancorata è sua. Non potete sbagliare.» — — «Abbiatevi i miei ringraziamenti.» — — «La pace dei nostri padri vi accompagni.» — — «E accompagni voi pure.» — Così dicendo si separarono. Due facchini portanti il bagaglio di Ben Hur ricevettero da questi i suoi ordini. — «Alla cittadella» — esclamò, e quest'indirizzo dava a supporre che egli avesse relazioni militari. Due grandi vie intersecantisi ad angoli retti dividevano la città in quartieri. Un curioso ed immenso edificio, detto il Ninfeo, sorgeva a capo della via che correva da nord a sud. I facchini lo precedettero camminando alacremente. Quantunque il nuovo arrivato giungesse da Roma, rimase sbalordito alla vista della magnificenza di quella strada. Dall'un lato e dall'altro sorgevano palazzi, e nel mezzo stendevansi doppî colonnati di marmo, con divisioni speciali pel passaggio di pedoni, animali e cocchi; alberi frondosi, fontane a getto continuo, rinfrescavano l'aria. Ben Hur non era in vena di apprezzare pienamente quello spettacolo. La storia di Simonide non gli dava pace. Giunto all'Onfalo — monumento a quattro arcate larghe come le stesse vie, superbamente illustrate da bassorilievi, erette, ed a sè stesso dedicate da Epifane, ottavo dei Seleucidi, — mutò divisamento e disse ai facchini: — «Non andrò alla cittadella questa sera; conducetemi al Khan più vicino al ponte sulla strada di Seleucia.» — La comitiva ritornò sopra i suoi passi ed in breve egli si trovò in una locanda primitiva sì, ma di ampia struttura, a poca distanza dal ponte sotto il quale il vecchio Simonide aveva stabilito la sua dimora. Tutta la notte Ben Hur rimase a giacere sul terrazzo, sempre agitato dallo stesso pensiero, e di tempo in tempo ripetendo a sè stesso «Ora, ora avrò notizie dei miei, di mia madre, della cara piccola Tirzah. Se esse sono ancora al mondo saprò trovarle!» — CAPITOLO III. All'indomani, per tempo, sprezzando le belle vie della città, Ben Hur andò in cerca della casa di Simonide. Dopo essere penetrato sotto l'arco di una torre merlata, passò una fila di moli: di là continuò a camminare lungo il fiume fra una folla di affacendati, finchè, raggiunto il Ponte Seleucio si fermò e diede un'occhiata all'ingiro. Là, immediatamente sotto al ponte, stava la casa del negoziante, una mole di pietra grigia a pareti ruvide, senza alcuno stile, e, come disse appunto il viaggiatore, formando apparentemente il contrafforte della muraglia alla quale s'appoggiava. Due portoni immensi aprentisi sulla facciata, davano accesso al palazzo. Alcuni vani, nella parte superiore muniti di forti inferriate tenevano luogo di finestre. Dai crepacci dondolavano erbe ed arbusti mentre in altri punti un muschio nerastro copriva la pietra nuda. Le porte erano spalancate: attraverso ad esse fluiva ininterrotta e frettolosa la doppia corrente del vasto commercio di Simonide. Sul molo stavano ammonticchiate merci imballate in varia guisa, e gruppi di schiavi, nudi sino alla cintola, si aggiravano intorno ad esse, intenti al lavoro. A valle del ponte trovavasi una flottiglia di galere, alcune in atto di caricare, altre di scaricare merci. Da ogni albero sventolava una bandiera gialla. Dalla flottiglia al molo, da nave a nave, gli schiavi passavano e ripassavano chiassosamente. Sull'opposta sponda del fiume, dall'altro capo del ponte, sorgeva dall'acqua una muraglia, al disopra della quale dominavano i fantastici cornicioni e le torricelle del palazzo imperiale occupante l'intiera area dell'isola di cui aveva fatto cenno l'Ebreo nella sua descrizione. Ma per quanto suggestivo fosse lo spettacolo Ben Hur, appena se ne accorse. Egli era tutto assorto nel pensiero che fosse finalmente giunta l'ora d'avere contezza dei suoi, se, come era certo, Simonide era stato in realtà lo schiavo di suo padre. Ma riconoscerebbe egli questi rapporti passati? Ciò equivarrebbe all'abbandono delle sue ricchezze e di quella sovranità commerciale di cui facevan regal mostra il molo ed il fiume, e ciò che era più doloroso ancora, rovinerebbe la sua fortuna, mentre si trovava all'apice di una bellissima carriera. Sarebbe inoltre stato un dichiararsi volontariamente schiavo. L'idea sola d'una tal domanda appariva mostruosa: infatti, ridotta ai minimi termini, essa suonava così: — «Tu sei mio schiavo, dammi tutto quello che hai, te stesso compreso.» — Ciò nonostante Ben Hur attingeva forza per l'imminente colloquio dalla coscienza dei proprii diritti e dalla speranza che gli batteva in cuore. Se la storia narratagli era vera, Simonide e tutti i suoi beni gli appartenevano. Ma le ricchezze, ad onor del vero, non gl'importavano affatto. Allorchè si avanzò risoluto verso la porta egli aveva già in cuor suo giurato, che, purchè ottenesse notizie di sua madre e di Tirzah, avrebbe lasciato libero Simonide, nè altro gli avrebbe chiesto. Senza esitare più oltre, penetrò nella casa. L'interno era semplicemente quello d'un vasto deposito, diviso in riparti ove in buon ordine merci d'ogni genere si trovavano immagazzinate. Quantunque la luce fosse fioca e l'aria soffocante, vi si lavorava alacremente, e qua e là scorgevansi operai con seghe e martelli occupati a preparare casse d'imballaggio. Egli seguì lentamente una specie di sentiero attraverso i cumuli di merci, chiedendo a sè stesso se veramente l'uomo, del cui genio vedeva intorno a sè tante prove, era mai stato lo schiavo di suo padre: se sì, a qual classe egli aveva appartenuto? Se Israelita, era egli figlio d'un servo? Forse un debitore o figlio d'un debitore? ovvero sarebbe egli mai stato condannato e venduto per furto? Questi pensieri, che gli attraversavano la mente non scemarono — forse sembrerà strano — menomamente il rispetto e l'ammirazione che sentiva crescere in sè pel negoziante. Un uomo gli venne incontro e gli chiese: — «Che cosa desiderate?» — — «Vorrei parlare con Simonide, il negoziante.» — — «Favorite da questa parte.» — Percorrendo parecchi vani, lasciati sgombri dalle casse o dalle balle di mercanzia, arrivarono ai piedi di una scala, che li condusse sopra il tetto del magazzeno. Ad un lato di questo sorgeva l'abitazione di Simonide, un ampio fabbricato dal tetto pure terminante a terrazza, dall'ampio cornicione del quale Ben Hur vide con sorpresa pendere fiori ed arbusti bellissimi. Anche il terrazzo del magazzeno era ordinato a giardino, adorno di cespugli di rose persiane, delle quali Ben Hur aspirava con voluttà il dolcissimo profumo. Entrati nella casa e passato una specie di corridoio, tenuto in semi-oscurità, si arrestarono davanti ad una cortina in parte sollevata, mentre la guida annunziò ad alta voce: — «Un forestiero che vuol vedere il padrone.» — Una voce limpida rispose: — «Lasciatelo entrare, in nome di Dio.» — Il locale in cui Ben Hur entrò sarebbe stato chiamato _atrium_ da un Romano. Le pareti erano rivestite di tavolati di legno, da cui sporgevano scaffali e riparti, come si usano ancor oggi nelle case di commercio, ripieni di fogli polverosi ed ingialliti dal tempo. Al di sopra e al di sotto dei tavolati, correvano eleganti cornici di legno, in origine bianche, ora brune e polite. Il soffitto era a volta, con una cupola centrale ricoperta da centinaia di lastre di mica violacea, che diffondeva una luce deliziosamente tranquilla per tutta la stanza. Il pavimento era coperto da tappeti grigi, dal pelo così lungo e morbido che i piedi vi si sprofondavano e il rumore dei passi era inavvertibile. In mezzo alla camera, rischiarate da quella luce calma, stavano due persone; un uomo seduto in un seggiolone dallo schienale alto e foderato da soffici cuscini; alla sua destra, appoggiata alla seggiola, una fanciulla nella primavera della età. Alla loro vista Ben Hur sentì il sangue martellargli le tempie ed arrossirgli le gote. Si inchinò, parte per rispetto, parte per guadagnar tempo. Così facendo vide un gesto di sorpresa dell'individuo seduto, e un tremito che al suo apparire ne scosse la persona. Quando Ben Hur rialzò il capo, questi segni di emozione erano spariti, e l'unico cambiamento del quadro dinanzi a sè era avvenuto nell'atteggiamento della giovinetta, che ora teneva la mano appoggiata leggermente alla spalla del vecchio. Entrambi lo guardavano attentamente. — «Se siete Simonide, ed Ebreo» — Ben Hur esitò — «che la pace del Dio di nostro padre Abramo sia con voi e coi vostri.» — Quest'ultima parte era rivolta alla giovine. — «Io sono Simonide, Ebreo di nascita» — rispose l'altro con voce chiara e sonora. — «Vi contraccambio i saluti e nello stesso tempo vi prego di dirmi con chi ho l'onore di parlare.» — Ben Hur guardò il suo interlocutore, e invece di una figura umana vide un corpo deforme, sprofondato nei cuscini, coperto d'un mantello di seta scura trapunta; ma su quelle povere carni si ergeva una testa di apparenza regale — la testa ideale d'un uomo di Stato o di un conquistatore — una testa larga alla base e dalla fronte nobile ed ampia, quale Michelangelo avrebbe modellato in una statua di Cesare. Bianchi capelli inanellati gli scendevano sulle tempie accentuando l'intensità dello sguardo di due occhi nerissimi e lucenti. Il volto era scolorito. Le gote gonfie erano poste in maggiore rilievo da profonde rughe. In una parola la testa ed il volto indicavano essere quegli un uomo più atto a muovere il mondo che a lasciarsene smuovere, un uomo capace di sopportare dodici volte le torture che lo avevano ridotto in quello stato, senza lasciarsi sfuggire un lamento e molto meno una confessione; un uomo che rinuncerebbe alla vita ma non mai a un suo proponimento; un uomo invulnerabile tranne nei suoi affetti. A lui Ben Hur stese la mano col palmo rivolto all'insù come offrente pace nel tempo stesso che pace chiedeva. — «Io sono Giuda, figliuolo di Ithamar, l'ultimo capo della casa di Hur, principe di Gerusalemme.» — La destra del negoziante uscì dal mantello; era una mano lunga e sottile, dalle articolazioni deformate dai tormenti. Essa si schiuse con forza, ma fu quello l'unico segno di sorpresa e d'emozione dato dal vecchio. Con voce calma egli disse: — «I principi di Gerusalemme, principi del sangue, sono sempre i benvenuti in questa casa; siatelo voi pure. Ester appressa una sedia per questo giovane.» — La fanciulla avanzò un'ottomana che le era vicina, ed in quest'atto i suoi sguardi s'incontrarono con quelli di Ben Hur. — «La pace del Signore sia con voi» — diss'ella modestamente — «sedete e riposate.» — Essa non aveva indovinato lo scopo della sua visita. Le facoltà della donna non si spingono molto lontano. È solo nei sentimenti più delicati, come la pietà, la compassione, la riconoscenza che il suo intuito ha del meraviglioso. La giovine era semplicemente convinta che il forastiero soffrisse di qualche ignoto dolore, e che fosse venuto in cerca di sollievo e di conforto. Ben Hur non approfittò del sedile offertogli, ma continuò in tono di profondo rispetto. — «Prego messer Simonide di non ritenermi importuno. Nel risalire il fiume appresi che egli conobbe mio padre.» — — «Conobbi infatti il principe Hur. Fummo associati in parecchie imprese commerciali, in terre lontane, alcune oltre il mare e il deserto. Ma vi prego, sedete; tu, Ester, dagli del vino. Neemia parla di un figlio di Hur che ai suoi tempi era padrone di mezza Gerusalemme; è una stirpe antica, molto antica ed illustre. Persino ai tempi di Mosè e Giosuè qualcuno del loro sangue trovò grazia negli occhi del Signore, e divise gloria ed onore con quei sommi. Non sia detto che il discendente di una tal famiglia rifiuti un calice del puro vino di Sorek, cresciuto sui fianchi delle colline di Ebron.» — Appena terminate queste parole, Ester si avvicinò a Ben Hur con un calice d'argento che essa aveva riempito da un'anfora posta sul tavolo vicino e glielo presentò, abbassando gli occhi. Egli le toccò leggermente la mano in segno di diniego. Di nuovo i loro sguardi si incontrarono, e questa volta egli notò che la fanciulla era piccola di statura, arrivando a pena alle sue spalle, ma assai graziosa, con un volto regolare, al quale due occhi neri davano l'espressione di una grande soavità. — «Essa è bella e buona» — mormorò Hur. — «E forse Tirzah le assomiglierebbe se fosse viva. Povera Tirzah!» — Quindi a voce alta: — «No. Tuo padre, se egli è tuo padre....» — — «Io sono Ester, figlia di Simonide» — rispose con dignità la fanciulla. — «In tal caso, buona Ester, tuo padre, dopo aver ascoltata la mia storia, non mi stimerà meno per aver esitato ad accettare questo suo prezioso liquore, come pure spero di non scapitare ai tuoi occhi. Ti prego, rimani qui un istante ancora.» — Entrambi, quasi provassero lo stesso impulso, si rivolsero simultaneamente al negoziante: — «Simonide!» — esclamò con fermezza Ben Hur — «mio padre aveva alla sua morte un servo fidato dello stesso tuo nome e mi si è detto che tu sei quello!» — Vi fu un sussulto delle povere membra martirizzate e di nuovo la scarna mano si chiuse. — «Ester, Ester!» — tuonò la voce severa del vecchio — «Qui, vicino a me, se sei figlia di tua madre; Qui, dico, non là!» — La ragazza guardò un istante or l'uno or l'altro; poscia ripose il calice sulla tavola e, sommessa, riprese il suo posto presso il padre, con un'espressione di meraviglia, non scevra di apprensione. Simonide alzò la mano sinistra e la pose in quella della figlia che affettuosamente gli accarezzò la spalla, indi soggiunse tranquillamente: — «Sono invecchiato nel commercio cogli uomini — invecchiato innanzi tempo; è un'amara ma salutare lezione che ho appreso con gli anni e la diffidenza verso i miei simili. Che il Dio d'Israello abbia pietà di chi sul finire della vita è costretto a parlare così! Gli oggetti della mia affezione sono pochi. Uno di essi è questa creatura, la quale» — qui avvicinò alle labbra la mano che teneva nella propria, con un'espressione sul cui significato non poteva esservi dubbio — «a tutt'oggi fu disinteressatamente mia, e che mi fu di sì dolce conforto che il suo abbandono mi ucciderebbe.» — Il capo d'Ester s'abbassò e la guancia sua sfiorò il volto del padre. — «L'altro oggetto del mio affetto non è che una memoria, di cui posso dire, che, pari a una benedizione di Dio, essa potrebbe abbracciare una intera famiglia, purchè» — qui la sua voce si fece fioca e tremula — «purchè sapessi dove questa si trova.» — Acceso in volto, Ben Hur fece un passo avanti e proruppe con impeto: — «Mia madre e mia sorella! oh sì, è di loro che parlate!» — Ester, quasicchè quelle parole fossero state rivolte a lei, alzò il capo, ma Simonide, ripresa la sua calma abituale, rispose con freddezza: — «Ascoltatemi fino alla fine. In nome di quegli oggetti del mio amore a cui accennai, prima ch'io ti risponda circa i miei rapporti col principe Hur, dammi le prove della tua identità. Le tue testimonianze sono atti scritti o persone viventi?» — La domanda era chiara e la sua ragionevolezza indiscutibile. Ben Hur arrossì, giunse le mani, balbettò e si smarrì. Simonide continuò incalzandolo. — «Le prove, le prove, dico! Portamele e mettile davanti ai miei occhi.» — Ben Hur ammutolì. Egli non aveva preveduto questa domanda, ed ora per la prima volta gli si affacciò la terribile verità che i tre anni trascorsi sulla galera lo avevano privato di tutte le prove circa la sua identità. Quinto Arrio era il solo che conoscesse la sua storia e che avrebbe potuto deporre in suo favore. Ma, come risulterà qui appresso, il prode romano era morto. Giuda aveva altre volte provato il peso della sua condizione solitaria, ma, mai come in questo momento, ne provò tutta la gravezza. Compreso della propria superiorità Simonide rispettò il suo dolore e lo guardò in silenzio. — «Messer Simonide» — diss'egli alfine. — «Io posso narrarvi la mia storia. Ma voi dovete promettermi di sospendere il vostro giudizio fino al suo termine, e di ascoltarmi con benevolenza.» — — «Parla,» — fece Simonide, ora padrone della situazione. — «Parla, ed io t'ascolterò tanto più volentieri che non ho negato che tu sia la persona che affermi d'essere.» — Ben Hur imprese a raccontare le sue vicende a sommi capi e rapidamente, ma con quel calore e intensità di sentimento che sono fonte d'ogni eloquenza. Siccome i casi suoi ci sono noti fino al suo sbarco a Miseno in compagnia di Arrio ritornato vittorioso dall'Egeo, lo seguiremo nel suo racconto solo a partire da quel punto. — «Il mio benefattore era amato e stimato dall'imperatore il quale lo colmò di meritate ricompense. I mercanti d'Oriente contribuirono con magnifici doni ed egli divenne ricchissimo fra i ricchi di Roma. Ma può un'Ebreo dimenticare la propria religione, o il proprio luogo di nascita, la terra santa dei suoi padri? L'ottimo uomo mi adottò qual figlio secondo il rito formale della legge ed io lo rimeritai del mio meglio; nessun figlio fu più scrupoloso nell'adempiere ai suoi doveri verso il proprio padre. Egli voleva fare di me un'erudito. Nell'arte, nella filosofia, nella rettorica, e nell'eloquenza, egli m'avrebbe fatto istruire da famosi maestri. Rifiutai perchè ero Ebreo, perchè non potevo dimenticare il Signore Iddio, la gloria dei Profeti e la città costruita sui colli da Davide e da Salomone. Oh, voi mi domanderete perchè io accettai i beneficii del Romano? Io l'amava, e poi io pensava mercè il suo aiuto, di porre in moto tali influenze che mi svelassero il mistero avvolgente il destino di mia madre e di mia sorella. A queste ragioni se ne aggiunse una terza, di cui altro non dirò se non che io desiderava di conoscer l'arte della guerra. Nelle palestre e nei circhi mi affaticai non meno che sul campo, e tanto negli uni come negli altri resi illustre il mio nome, nome che però non è quello dei miei padri. Meritai corone in gran copia, che ora fregiano le pareti della villa di Miseno, e tutte mi vennero nella mia qualità di figlio del duumviro Arrio. Solo sotto quel nome sono conosciuto dai Romani. Io non perdeva mai di vista il mio segreto; intanto lasciai Roma per venire ad Antiochia per accompagnare il console Massenzio nella campagna ch'egli sta preparando contro i Parti. Pratico dell'uso di tutte le armi, voglio ora procurarmi quelle cognizioni superiori necessarie ad un duce alla testa di eserciti. Il console mi ha ammesso nella sua famiglia militare. Ma ieri, mentre la nostra nave entrava nell'oriente incontrammo due legni spieganti bandiere gialle. Un mio connazionale, e compagno di viaggio da Cipro, ci spiegò che quelle navi appartenevano a Simonide, il gran negoziante d'Antiochia, ci parlò della sua vita e dei meravigliosi successi ch'egli ha riportati nei suoi commerci, ci parlò delle sue flotte, delle sue carovane e dei loro viaggi; finalmente, ignorando ch'io fossi più interessato nell'argomento degli altri uditori, disse che Simonide era un Ebreo, altre volte servo del principe Hur e neppure tacque delle crudeltà di Grato nè dello scopo di tali crudeltà.» — A quest'allusione Simonide lasciò cadere il capo fra le mani, e sua figlia, come per nascondere l'emozione di entrambi abbassò il volto sul collo del padre. Questi alzò subito gli occhi e con voce chiara esclamò: — «Sto ascoltando.» — — «Oh, buon Simonide,» — replicò Ben Hur facendosi avanti ed esprimendo nel volto la sua interna commozione. — «Io vedo che tu non sei convinto e che ancora diffidi di me.» — Il negoziante si mantenne rigidamente immobile e muto. — «E vedo non meno chiaramente le difficoltà della mia posizione» — continuò Ben Hur. — «Posso bensì provare le mie relazioni con Roma; non ho che a rivolgermi al console attualmente ospitato dal governatore della città, ma non posso darti le prove che tu mi domandi. Non posso provare che io sono il figlio di mio padre. Coloro che lo potrebbero attestare sono tutti morti o scomparsi.» — Si nascose il volto fra le mani, finchè Ester, porgendogli nuovamente il calice che prima aveva respinto, gli disse: — «Il vino è della patria nostra che tanto amiamo. Bevi, te ne prego.» — La sua voce era dolce come quella di Rebecca quando offerse l'acqua al pozzo di Nahor. Egli scorse le lacrime che le inumidivano gli occhi, e bevve, dicendo: — «Figlia di Simonide, il tuo cuore è simbolo di bontà, e buona tu sei davvero avendo compassione dello straniero. Il signore ti benedica. Io ti ringrazio.» — Indi, rivoltosi nuovamente al negoziante: — «Siccome io non ho prove d'esser figlio di mio padre, ritiro la domanda che ti feci, o Simonide, e mi ritiro da questa soglia che la mia persona non oscurerà più mai: solo lascia che io ti dica che non ero venuto a ridurti in schiavitù e prendere la tua fortuna, che in nessun caso toccherei: essa è il prodotto del tuo lavoro e del tuo genio, e ti appartiene. Allorchè il buon Quinto, mio secondo padre, s'imbarcò pel viaggio che gli fu fatale, mi lasciò erede di una fortuna principesca. Se pertanto tu penserai qualche volta a me, ti sovvenga della domanda che io ti feci e la quale, sui profeti di Jeova, tuo Signore e mio, io giuro è l'unico scopo della mia visita: che cosa sai dirmi di mia madre e di Tirzah, mia sorella, della fanciulla che per anni e bellezza dovrebbe essere pari a questa tua figlia, consolazione e nettare della tua vita? Oh, che cosa puoi dirmi di loro?» — Le lacrime scorrevano lungo le guancie di Ester; ma il padre continuò a rimanere impassibile, e con voce chiara e limpida rispose: — «Dissi d'aver conosciuto il principe Ithamar di Hur. Ricordo d'aver udito parlare della disgrazia che colpì la sua famiglia e del dolore che provai nell'apprendere quella notizia. Colui che fu causa di tanta sciagura alla vedova e ai figli dell'amico mio, è quel medesimo che mi colpì della sua ira implacabile. Io ho fatto indagini per scoprire la sorte della famiglia, ma a nulla servirono; non ne rimase traccia.» — Ben Hur non potè reprimere un gemito di dolore. — «Un'altra speranza svanita!» — articolò con voce strozzata. — «Sono abituato ai disinganni. Vi chiedo perdono del disturbo arrecatovi. Ormai non mi resta che vivere per la vendetta. Addio!» — Nell'atto di alzare le cortine della porta, si volse indietro ancora una volta e disse con semplicità commovente: — «Vi ringrazio entrambi.» — — «La pace sia con voi» — rispose il negoziante. Ester non potè parlare per i singhiozzi. E così si separarono. CAPITOLO IV. Appena Ben Hur fu partito, Simonide parve destarsi da un lungo sonno; il suo volto si accese, gli occhi si animarono, e con voce tremante di gioia chiamò: — «Ester, Ester! Presto!» — Essa si avvicinò alla tavola e suonò un campanello. Uno dei tavolati del muro si aperse per dare accesso ad un uomo, il quale inchinatosi davanti a Simonide con rispetto orientale, aspettò i suoi ordini. — «Malluch, — qui — più vicino!» — disse in tono di comando il negoziante. — «Ti devo dare una commissione, a cui non devi mancare quandanche il sole si spegnesse in cielo. Ascolta. Un giovane sta in questo istante scendendo nel magazzino. — Alto, di bell'aspetto, vestito alla foggia di Israele. Seguilo, come l'ombra del suo corpo, ed ogni sera fammi sapere dove egli si trova, che cosa fa, con chi pratica. Cerca di avvicinarlo, di parlargli, se puoi, senza destar sospetto. Ascolta le sue parole, e ritienile insieme ad ogni altro particolare atto a rivelare l'indole sua, le sue abitudini, i suoi intenti. Hai capito? Spicciati! E, senti Malluch, s'egli lasciasse la città, seguilo e, nota bene Malluch, diventagli amico. S'egli ti interroga, digli quello che ti sembra opportuno al momento, ma ch'egli non sappia che tu sei al mio servizio; di questo non una parola.» — L'uomo s'inchinò nuovamente e sparì. Allora Simonide si fregò le scarne mani e rise. — «Che giorno è questo, figliuola?» — esclamò interrompendosi nella sua manifestazione d'allegria. — «Che giorno è? Desidero ricordarmene come di un giorno di gioia. Va, cercalo ridendo, e ridendo dimmelo, Ester.» — Quest'allegria le ripugnava come cosa non naturale, e come per distorvelo rispose melanconicamente: — «Pur troppo, padre, non mi sarebbe possibile dimenticare questo giorno.» — Appena pronunciate queste parole, il vecchio lasciò cadere le mani, ed il mento, appoggiandosi sul petto, si perdette nelle pieghe della carne floscia che incorniciavano la parte inferiore del suo volto. — «Vero, verissimo, figlia mia!» — esclamò senza alzare gli occhi. — «Questo è il ventesimo giorno del quarto mese. In questo stesso giorno, cinque anni addietro, la mia Rachele, tua madre, morì. Mi portarono a casa ridotto qual tu mi vedi e la trovammo morta di dolore. Oh, essa era per me come la canfora nei vigneti di Engaddi! Come il miele del favo! — L'abbiamo sepolta lontano, in luogo solitario, in una tomba scavata nella montagna. Ed essa non mi lasciò che un lumicino ad illuminare la scura notte, il quale è cresciuto con gli anni ed ora è diventato il sole della mia vita.» — Alzò la mano e l'appoggiò sul capo della figliuola. — «Buon Dio, io ti ringrazio di aver fatto rivivere nella mia Ester la mia perduta Rachele!» — Ad un tratto, sollevò il capo e disse, come colpito subitamente da un'idea. — «Il tempo è sereno?» — — «Così era, prima che entrasse il giovane.» — — «Allora chiama Abimelech, che mi conduca in giardino ond'io possa vedere il fiume e le navi, e dove ti racconterò, mia diletta Ester, il perchè poc'anzi il riso si posò sulle mie labbra, e la mia lingua mosse al canto e lo spirito divenne leggiero quale gazzella o daino dei monti.» — In risposta al campanello, venne il servo che per ordine della giovane spinse la seggiola munita appositamente di rotelle, fuori della camera, sul tetto del caseggiato inferiore, e che il padrone chiamava giardino. Simonide venne condotto ad una parte dove egli poteva vedere i tetti dei palazzi dell'isola dirimpetto, il ponte di esso ed al disotto il fiume, ove una nave solcava le onde scintillante sotto il magnifico sole mattutino. Colà il servo lo lasciò solo con Ester. Il gridìo degli operaj ed il rumoroso lavoro non li disturbavano affatto come non li disturbava il movimento sul ponte che era quasi al disopra di loro; il loro orecchio s'era assuefatto a quel frastuono come il loro occhio s'era abituato alla vista che si stendeva loro davanti. Ester sedutasi accanto a lui gli accarezzava la mano in attesa della comunicazione annunciata. Simonide incominciò con la sua consueta calma: — «Mentre il giovane parlava, Ester, io ti osservava e mi parve ch'egli ti piacesse.» — Essa rispose abbassando gli occhi: — «Padre egli mi ispirò fiducia, e gli credetti.» — — «Ai tuoi occhi, egli sarebbe il perduto figlio del principe?» — — «S'egli non lo fosse....» — si fermò esitando. — «S'egli non lo fosse?» — ripetè Simonide. — «Io sono stata la tua ancella, padre, sin da quando mia madre morì, e stando vicino a te, ti ho veduto ed udito trattare con saggezza con ogni genere d'uomini, venissero per cause legittime od illecite; ed ora ti dico, se quel giovine non è il principe Hur, la menzogna non ha mai con tanta abilità indossata la veste della verità.» — — «Per la gloria di Salomone, figliuola mia, tu parli con convinzione. Credi tu che tuo padre sia stato suo schiavo?» — — «Se ben mi ricordo egli non disse questo. Vi accennò come a cosa che aveva udito dire.» — Per qualche istante gli sguardi di Simonide andavano vagando fra le navi sottostanti. Poi disse: — «Ester, tu sei una buona figliola, e possiedi in discreta dose il nostro discernimento Ebraico; non sei una bambina ed hai abbastanza forza d'animo per ascoltare un racconto doloroso. Sta attenta, e ti narrerò la mia storia e quella di tua madre, ed altre vicende della nostra vita a te sconosciute, e sospettate da nessuno. Io nacqui in una capanna della valle di Hinnom, a mezzogiorno di Sion. I miei genitori erano servi addetti alla coltivazione delle viti, degli ulivi e dei fichi nel giardino reale di Siloam, e nella prima giovinezza io li aiutai in quel lavoro. Essi erano schiavi a vita. Fui raccomandato al principe Hur, allora, dopo re Erode, l'uomo più ricco di Gerusalemme, il quale mi impiegò nei suoi magazzeni in Alessandria d'Egitto, ove raggiunsi la maggiore età. Lo servii sei anni e nel settimo, secondo la legge di Mosè, divenni libero.» — Ester battè leggermente le mani: — «Oh, tu non sei adunque più il servo di tuo padre?» — — «Ascolta figliuola. V'erano in quei giorni degli avvocati nei chiostri del Tempio i quali fieramente contesero essere i figli di coloro che sono obbligati a servire per la durata della vita soggetti alla stessa servitù, ma il principe Hur era uomo giusto in tutte le cose, ed interpretava la legge secondo la setta più rigorosa, quantunque non appartenesse ad essa. Egli disse ch'io ero un servo ebreo comperato, nel vero significato del Gran Legislatore, e con documenti suggellati che ancora conservo egli mi fece libero.» — — «E mia madre?» — chiese Ester. — «Udrai tutto, Ester, abbi pazienza. Prima ch'io abbia finito vedrai come mi sarebbe più facile dimenticar me stesso che tua madre.... Al finire del mio servizio venni a Gerusalemme per le feste di Pasqua. Il mio padrone mi ospitò, e, poichè l'amavo chiesi di continuarlo a servire. Egli acconsentì ed io lo servii altri sette anni, ma come Ebreo e figlio di Israele, salariato. Per conto suo ebbi la direzione d'imprese commerciali di mare e di terra, e mandai carovane oltre Susa e Persepoli nei paesi della seta. Viaggi pericolosi erano quelli figlia mia, ma il Signore benedì le mie fatiche. Procurai immensi guadagni al principe e vaste cognizioni a me stesso, senza le quali non mi sarebbe stato possibile assumere le responsabilità che mi presi in seguito. Un giorno ch'io ero suo ospite in Gerusalemme, un'ancella entrò, portando un vassojo. Essa si rivolse a me, e fu quella la prima volta che vidi tua madre, e la amai. Dopo qualche tempo andai dal principe e la chiesi in moglie. Egli mi disse che essa era schiava a vita, ma che se io lo desiderava l'avrebbe affrancata per compiacermi. Ma essa, Ebrea, pur corrispondendo al mio amore, si disse felice nella condizione e nel luogo ove si trovava, e rifiutò la libertà! La pregai, la scongiurai a più riprese, ma invano. Avrebbe solo consentito a diventare mia moglie qualora io diventassi suo compagno di servitù. Nostro padre Giacobbe servì sette anni per la sua Rachele. Io avrei potuto fare altrettanto. Ma tua madre richiedeva che io diventassi schiavo per tutta la mia vita. Mi strappai allora da lei, mi recai in altre contrade cercando di dimenticarla; ma l'amor mio fu troppo forte: ritornai. Guarda qui, Ester, Guarda!» — E sollevando una ciocca di capelli le additò un buco nell'orecchio sinistro. — «Vedi la cicatrice della lesina?» — — «La vedo» — disse Ester — «e vedo pure a qual punto tu amasti mia madre!» — — «Amarla, Ester! — Essa era per me più della Sulamita per il Re Cantore; più bella, più pura di una fontana, di una sorgente del Libano. Quando seppe la mia volontà, il padrone mi presentò ai giudici davanti ai quali esposi la mia intenzione; poi mi condusse a casa, e trapassando il mio orecchio colla lesina, la conficcò come è d'uso nella porta. Così divenni suo schiavo per tutta la durata della vita. Così conquistai la mia Rachele, e dimmi: vi fu mai amore come il mio?» — Ester si chinò sopra di lui e lo baciò. Tacquero entrambi pensando alla tomba che aveva troncato quel grande amore. — «Il mio padrone annegò in mare; e fu questa la mia prima sventura» — continuò il negoziante. — «Il lutto della sua famiglia fu lutto mio, nella mia casa ad Antiochia dove già dimoravo. Ora ascoltami, Ester. Quando il principe venne a morte, io era a capo della sua amministrazione, e tutti i suoi beni erano nelle mie mani. Da questo puoi argomentare l'affetto e la fiducia ch'egli riponeva in me. Accorsi a Gerusalemme per render conto della mia gestione alla vedova ed essa mi riconfermò al mio posto. Raddoppiai di diligenza e gli affari prosperarono di anno in anno. Trascorsero così dieci anni. Poi venne la catastrofe di cui il giovine parlò — l'accidente, com'egli disse, toccato al procuratore Grato. — Il Romano invece lo chiamò un tentativo d'assassinio e ne tolse pretesto, col consenso di Roma, di confiscare a proprio beneficio l'immensa fortuna della vedova e dei figli. Nè questo gli bastò. Per prevenire un'appello contro la sentenza egli soppresse tutte le parti interessate. Da quel giorno nefasto la famiglia di Hur scomparve. Il figlio, ch'io vidi fanciullo, fu condannato alle galere. La vedova e la figlia si suppone siano state sepolte in una delle molte carceri sotterranee di Giudea, veri sepolcri per chi ne ha varcata la soglia. Esse scomparvero come se il mare le avesse inghiottite. Non potemmo sapere come morirono, ma neppure sappiamo se veramente sono morte.» — Gli occhi di Ester erano gonfi di lagrime. — «Il tuo cuore è buono, Ester, buono come quello di tua madre; e prego Iddio che non gli tocchi un simile destino — d'essere calpestato dagli spietati e dai ciechi. Ma ascoltami ancora: — Andai a Gerusalemme per soccorrere la mia benefattrice ma alle porte della città fui arrestato e condotto nei sotterranei della Torre d'Antonia. Non ne seppi la cagione, finchè Grato in persona venne a chiedermi i denari della casa di Hur, poi ch'egli, conoscendo le pratiche ebraiche, sapeva che io possedeva somme tratte sulle diverse piazze del mondo. M'impose di firmare le tratte a suo favore. Rifiutai. Egli aveva le case, le terre, le merci, le navi e tutta la proprietà mobile dei miei padroni, meno i denari. Compresi che se continuassi a trovar grazia agli occhi del Signore avrei potuto ricostruire la loro fortuna e respinsi la richiesta del tiranno. Mi mise alla tortura, ma tenni fermo, cosicchè dovette rilasciarmi senza aver nulla ottenuto. Ritornai a casa e ricominciai a trafficare per conto e nel nome di Simonide d'Antiochia anzichè in quello del principe Hur di Gerusalemme. Ester, tu sai come prosperarono i miei affari, in che modo miracoloso si moltiplicarono nelle mie mani i milioni del principe. Sai pure che, a capo di tre anni, mentre mi recava a Cesarea, fui di nuovo arrestato e torturato per la seconda volta da Grato. Neppur questa volta ottenne da me la confessione intorno alla sorte dei denari di Hur. Fisicamente rovinato feci ritorno a casa, dove trovai che la mia Rachele era morta di dolore e di spavento per me. La volontà del Signore mi tenne in vita. Dall'imperatore medesimo comperai una licenza di libero traffico in ogni paese del mondo. Oggi — sia lodato l'Altissimo! — oggi, Ester, la mia ricchezza è tale da far invidia a un Cesare.» — Con un moto d'orgoglio sollevò il capo, e incontrò gli sguardi della fanciulla. — «Che cosa intendo di fare con questa fortuna?» — chiese, interpretando i suoi pensieri. — «Padre mio, disse ella sommessamente, non venne oggi a chiederla il legittimo proprietario? E non sono io pure, o padre, la sua schiava? E non dobbiamo noi piegarci innanzi a lui come la legge prescrive?» — Un raggio d'ineffabile gioia rischiarò il volto dell'infermo. — «Il Signore è stato buono con me. In molti modi ha mostrato la sua benevolenza, ma tu Ester, sei il dono più bello di quanti mi ha prodigato.» — Così dicendo l'attirò a sè e la baciò. — «Ascoltami,» — proseguì — «ed udrai perchè io risi poc'anzi. Quando il giovane si presentò innanzi a me, mi parve di veder suo padre ringiovanito. L'animo mio ebbe uno slancio, come se volesse andargli incontro. Sentii entro di me che i miei giorni di prova e le mie fatiche erano giunte al termine. A stento trattenni l'impulso del mio cuore che mi spingeva a rivelare la mia gioia. Ero impaziente di prenderlo per mano, di mostrargli i registri ed i conti e di dirgli: — «Tutto questo è tuo ed io sono il tuo schiavo. Ho compiuto il dover mio, posso aspettare la voce del Signore che mi chiami a sè.» — E così avrei fatto, Ester, sì proprio così avrei fatto, se, tutto ad un tratto tre pensieri non m'avessero assalito ad un tempo. Il primo diceva: Assicurati prima ch'egli è proprio il figlio del tuo padrone. S'egli è il figlio del tuo padrone, studia prima e conosci un poco l'indole sua, — mi suggerì il secondo. Pensa, Ester quanti sono gli eredi di colossali ricchezze, che sperperano i loro denari, e li riducano a semi di maledizioni.» — La voce gli si fece stridula, e sostò un momento, accasciato da questa riflessione. — «Ester pensa ai patimenti inflittimi dal Romano, e non solo da Grato; gli spietati esecutori dei suoi ordini tanto la prima quanto la seconda volta erano tutti Romani e tutti ridevano udendomi urlare dal dolore. Pensa alle mie membra rotte, al mio corpo deformato; pensa a tua madre laggiù nella tomba solitaria, ai dolori della famiglia del mio padrone, se è ancor vivo o alla sua morte forse; pensa a tutto questo, o figliuola mia, e dimmi tu s'è giusto che nulla succeda in espiazione e vendetta di tante crudeltà? Non dirmi come ripetono i predicatori, che la vendetta è del Signore. Non fa egli valere la sua volontà per mezzo degli uomini nell'infliggere pene come nel conferire benefici? Non ha egli i suoi guerrieri, più numerosi dei profeti? Non è sua la legge — occhio per occhio, mano per mano, piede per piede? Ah, nel corso di tanti anni ho sospirata la vendetta, l'ho implorata nelle preghiere. Nell'accumular le mie ricchezze, fu questo il mio pensiero, il mio sogno costante. Come è vero che vi è Iddio, io mi diceva, esse dovranno servirmi per castigare quei malfattori. E quando, accennando alla sua destrezza nel maneggio delle armi, il giovane disse, ch'essa non aveva nessun scopo definitivo, io indovinai quello scopo: era la vendetta! Fu questo, o Ester, il terzo pensiero che mi impose il silenzio e mi diede la forza di ascoltare impassibile la sua perorazione, finchè, partito il giovane, le mie emozioni proruppero in un riso di giubilo.» — Ester continuava ad accarezzargli le mani ischeletrite. — «Egli è partito o padre. Ritornerà ancora?» — — «Sì. Il fedele Malluch lo sorveglia e lo ricondurrà quando tutto sarà pronto.» — — «E quando lo sarà, o padre? — — «Non subito, figlia mia. Egli crede che tutti i testimoni della sua identità siano morti. Ma uno vive ancora, il quale non mancherà di riconoscerlo, s'egli è veramente figlio di suo padre.» — — «Sua madre?» — — «No, io stesso gli presenterò quel testimonio. Intanto Dio ci protegga. Chiama Abimelech.» — Ester chiamò il servo, e i tre si ritrassero. CAPITOLO V. Allorchè Ben Hur uscì dal vasto magazzeno, il pensiero prevalente in lui era quello di un altro disinganno aggiuntosi ai molti che aveva già sofferto nella ricerca dei suoi cari. Questo pensiero lo riempì di una grande desolazione. Si sentì solo al mondo, e, giovane e ricco com'era, la vita gli parve divenuta un peso troppo grave da sopportarsi. Facendosi strada fra la folla ed i mucchi di mercanzia, giunse al termine dell'approdo. Le acque del fiume apparivano più profonde e più oscure in quel punto per l'ombra delle case e degli alberi vicini: ed egli ne provò il fascino insidioso. La pigra corrente sembrava arrestarsi nel suo cammino, quasi lo attendesse; — ma a rompere l'incanto venne il ricordo delle parole del suo compagno di viaggio, che gli parve di riudire: — «Meglio un verme e nutrirsi delle more di Dafne, che essere ospite di un Re.» — Si volse, e camminando rapidamente, fece ritorno al Khan. — «La via per Dafne?» — esclamò l'albergatore, sorpreso dalla domanda di Ben Hur. — «È la prima volta che venite in questa città? Allora questo giorno è fra i più felici della vostra vita. Non potete sbagliare la strada. La prima via verso mezzogiorno conduce direttamente al monte Sulpio sulla vetta del quale sono l'altare di Giove e l'anfiteatro; pigliate la terza via trasversale chiamata la colonnata d'Erode; là, voltate a destra e seguite la via attraverso la grande città di Seleucia fino alle porte di bronzo d'Epifane. In quel punto incomincia la via di Dafne — e che gli Dei vi proteggano.» — Dopo aver dato alcuni ordini relativi al suo bagaglio, Ben Hur si pose in cammino. Non ebbe difficoltà a trovare la colonnata d'Erode; da quella, alle porte di bronzo correva un lungo porticato di marmo, che egli percorse fra mezzo ad una folla di gente composta dei rappresentanti di tutte le nazioni commerciali del mondo. Era la quarta ora del giorno, quando oltrepassò le porte e si trovò in mezzo ad una interminabile processione diretta al bosco famoso. La strada era divisa in vie separate, una pei pedoni, una pei cavalieri e i cocchi; ed anche queste erano suddivise in due altre vie parallele per le quali due correnti di persone si movevano in direzione opposta. Le linee di demarcazione erano segnate da basse balaustrate interrotte da statue poggianti su solidi piedestalli. A destra ed a sinistra della strada estendevansi magnifici prati ed aiuole, accuratamente tenuti, alternati di quando in quando da gruppi di quercie, di siccomori e da pergolati di viti che invitavano i passeggieri a riposare. Le vie riservate ai pedoni erano lastricate di pietra rossiccia e quelle pei cavalieri erano cosparse di bianca arena compressa in modo da darle la consistenza di un marciapiede, senza però che, come questo, echeggiasse lo scalpitar dei cavalli ed il frastuono delle ruote. Innumerevoli fontane di varie e meravigliose foggie lanciavano i loro zampilli nell'aria; erano doni di Re che avevano voluto così eternare il ricordo delle loro visite. All'ingresso del bosco, a sud-ovest, fino alla città, questa magnifica strada misurava oltre quattro miglia in lunghezza. Nello stato d'animo in cui si trovava Ben Hur, lo splendore regale della via passò quasi inosservato; e i suoi sguardi non si arrestarono neppure sulla folla che s'avviava insieme a lui come in processione. A dire il vero alla sua preoccupazione si univa anche una buona dose di quella compiacenza orgogliosa propria del Romano che visitava la provincia, mentre erano ancora fresche in lui l'impressioni della vita fastosa che s'agitava quotidianamente intorno alla colonna d'oro posta da Augusto nel Foro, come per indicare il perno del mondo. Non era possibile che le provincie offrissero uno spettacolo più grandioso. Impaziente per la lentezza dei suoi vicini, egli spiava ogni varco della folla, per approfittarne e portarsi avanti più rapidamente. Quando giunse ad Eraclea, villaggio suburbano a mezza strada fra la città ed il bosco, il movimento della folla festante cominciò a far sentire i suoi effetti sopra di lui, predisponendo il suo animo ad accogliere impressioni più gioconde. La sua attenzione fu dapprima attirata da un paio di capre guidate da una avvenente fanciulla; tanto le bestie come la loro guida erano festosamente ornate di nastri o fiori. Poi si fermò ad osservare un toro immenso, bianco come la neve, inghirlandato di viti e portante sull'ampia groppa un fanciullo nudo, immagine del giovane Bacco, il quale, seduto in un canestro, teneva in mano un calice colmo di vino. A quali altari avrebbero servito quelle offerte? si domandò rimettendosi in cammino. Passò un cavallo con la criniera mozzata come lo esigeva la moda, montato da un cavaliere vestito con sfarzo. Ben Hur sorrise vedendo l'orgoglio dell'uno rispecchiarsi nell'altro. Cavalli e cocchi in grande numero continuarono a passare dinanzi a lui sulla strada a loro riservata, e, inconsciamente, quel moto e quella festa cominciarono ad interessarlo. Le persone che l'attorniavano erano di tutte le età, sessi e condizioni, tutti vestiti dei loro abiti di festa. Un gruppo era abbigliato uniformemente di bianco, un'altro di nero; alcuni portavano bandiere, altri turribuli fumanti; altri cantavano inni, ed eran seguiti da individui con flauti e tamburelli. Quale luogo meraviglioso doveva essere questo di Dafne, se ogni giorno vi si recava tanta gente! Finalmente vi fu un batter di mani ed uno scoppio di grida gioconde; e, seguendo l'indicazione di molte dita, egli scorse sulla cima di una collina il tempio che serviva d'ingresso al bosco consacrato. Gli inni s'inalzarono con maggior foga, la musica accelerò i tempi, e Ben Hur, dividendo l'impazienza della folla, e trascinato dall'impetuosa corrente, mosse verso il tempio, oltrepassata la soglia del quale, romanizzato com'era nei costumi, il suo primo impulso fu quello di cadere in adorazione davanti a quel luogo. A tergo dell'edificio che ornava l'ingresso, d'una costruzione di stile severamente greco, si stendeva una larga spianata lastricata di pietre luccicanti, ora quasi nascoste sotto una moltitudine di persone gaie ed irrequiete, spiccante sopra uno sfondo di iridescenti zampilli prorompenti da fontane marmoree. Dinanzi a lui in direzione di sud-ovest si diramavano gli innumerevoli sentieri di un giardino, il quale si mutava più in là in una foresta, sulla quale, in quel momento, aleggiava una nube di un leggero vapore turchino. Ben Hur contemplava il panorama, pensoso ed incerto, quando una donna vicino a lui esclamò: — «Bellissimo spettacolo! ma dove si deve andare adesso?» — Un uomo col capo cinto di bacche d'alloro e che la accompagnava, rise e rispose: — «Bellissima barbara! La tua domanda mi sa di paura terrena, e abbiamo convenuto di lasciare questi pensieri in Antiochia. I venti che qui soffiano sono l'alito degli Dei. Abbandoniamoci ad essi.» — — «Ma se ci smarrissimo?» — — «Oh, paurosa! nessuno si è mai perduto in Dafne eccetto quelli sui quali le sue porte si sono chiuse per sempre.» — — «E chi son costoro?» — chiese la donna tuttora conturbata. — Son quelli che si sono abbandonati al fascino del luogo e lo hanno scelto a dimora per la vita e per la morte. Ascolta! Fermiamoci qui, e ti mostrerò quelli di cui parlo.» — Sul marmoreo pavimento risuonò uno stropiccìo di piedi calzati di sandali; la folla si aprì e lasciò l'adito ad un gruppo di ragazze, le quali, accerchiati i due interlocutori, intonarono un canto; indi agitando i tamburelli cominciarono a ballare. La donna, sbigottita, s'aggrappò all'uomo, il quale, cintale la vita con un braccio, acceso in volto, batteva coll'altro il tempo della musica. I capelli delle danzatrici svolazzavano liberamente e le loro membra rosee s'intravvedevano sotto le vesti di garza che imperfettamente le coprivano. Non è concesso alla parola il descrivere la voluttà di quella danza. Dopo un breve giro si aprirono un varco nella sala e scomparvero rapidamente come erano venute. — «Che te ne pare?» — chiese l'uomo alla sua compagna. — «Chi son desse?» — chiese a sua volta la donna. — «Devadasi — sacerdotesse dedicate al Tempio d'Apollo. Ve ne sono eserciti. Sono esse che cantano in coro nelle feste. Questa è la loro dimora. Qualche volta visitano altre città, ma tutto quanto raccolgono è portato qui ad arricchire la casa del divino cantore. Dobbiamo andare?» — Ben Hur, lieto di sapere che nessuno s'era mai perduto nel bosco di Dafne, infilò una qualunque delle vie che gli si aprivano dinanzi e penetrò nel giardino. Una statua, innalzata sopra un magnifico piedestallo attrasse per primo i suoi sguardi. — Raffigurava un centauro e un'iscrizione spiegava ai visitatori meno eruditi che quello era Chirone, amato da Apollo e Diana, da loro iniziato ai misteri della caccia, della medicina, della musica e della profezia. Nelle mani teneva un rotolo sul quale erano incisi in caratteri greci alcuni paragrafi di un avviso: — «_Viaggiatore!_ — _Sei tu straniero?_» — I. Ascolta il mormorìo dei ruscelli e non temere la pioggia delle fontane. Così le naiadi impareranno ad amarti. II. Zeffiro ed Austro sono le brezze amiche di Dafne; gentili riformatrici della vita esse ti preparano infinite dolcezze. Quand'Euro soffia, Diana è a caccia; se Borea sibila, nasconditi, perchè Apollo è corrucciato. III. Le ombre del Bosco sono tue di giorno: di notte appartengono a Pane ed alle sue Driadi. Non turbarle. IV. Cibati parcamente del loto lungo le sponde dei rivi, se non vuoi perdere la memoria, il che equivale a diventare figlio di Dafne. V. Non toccare il ragno che tesse. È Aracne che lavora per Minerva. VI. Vuoi tu contemplare le lacrime di Dafne? Strappa un germoglio da un ramoscello di lauro, e morrai. — «_Sta in guardia!_ _Fermati e sii felice._» — Ben Hur lasciò la cura d'interpretare il mistico avviso ad altri che facevano ressa intorno a lui, e si ritrasse nell'istante stesso in cui si avvicinava il toro bianco. Il fanciullo sedeva sulla cesta seguito da una processione; dietro a questa veniva la donna colle capre e dietro a lei i suonatori di flauto e tamburelli, con un'altra processione di apportatori d'offerte. — «Ove vanno costoro?» — chiese un astante. Un altro rispose: — «Il toro al padre Giove; le capre...» — — «Non custodiva una volta Apollo il gregge di Admeto?» — — «Appunto, le capre sono per Apollo.» — Alla bontà del lettore chiediamo indulgenza per concederci una spiegazione. Una certa facilità di tolleranza in fatto di religione suol formarsi in noi dopo aver per molto tempo praticato con persone di divina fede; a poco a poco veniamo a riconoscere che ogni credenza vanta uomini buoni e degni del nostro rispetto, e che non ci è possibile rispettarli senza al tempo stesso estendere una certa deferenza anche alla loro religione. A questo punto era giunto Ben Hur. Gli anni trascorsi a Roma e quelli vissuti nella galera avevano lasciato intatta la sua fede religiosa; egli era sempre Ebreo, ma, a suo modo di vedere, non eravi empietà alcuna nel contemplare il bello nel bosco di Dafne. — Ciò non toglie per altro che quand'anche, i suoi scrupoli fossero stati più rigidi, egli li avrebbe in quel momento probabilmente soffocati. Era concitato, non come gli esseri irascibili che un'inezia irrita; nè la sua collera era quella dello stordito, che, attinta alla fonte del nulla, si disperde in rimproveri e bestemmie; l'ira sua era quella propria delle indoli ardenti, destatasi di soprassalto pel subitaneo annientamento d'una speranza. — In simili casi e con tali nature la lotta non termina perchè ha urtato contro un ostacolo, ma continua col destino, e sarebbe bene il destino medesimo rivestisse una forma materiale e tangibile, da potersi spezzare con uno sguardo o con un colpo, ovvero quella di un essere vivente col quale fosse possibile sfogarsi apostrofandolo con parole roventi. L'anima umana soffrirebbe meno combattendo un tale avversario. A mente fredda Ben Hur non si sarebbe recato solo al Bosco, o, se vi fosse venuto solo, si sarebbe valso del posto da lui occupato nella famiglia del console, per procacciarsi una specie di pianta della località, facendosi indicare i punti di speciale interesse. Se poi avesse voluto abbandonarsi più a lungo agli ozii ed alle delizie di quel soggiorno, si sarebbe anzitutto presentato con una lettera di credenza a chi ne aveva la direzione. Ma nella condizione d'animo in cui si trovava, non era uno spettatore uguale alla massa volgare che schiamazzava tutto all'intorno. La Divinità del Bosco non gli ispirava rispetto, nè i misteri che vi si celavano provocavano la sua curiosità. Era un uomo smarrito dal dolore di un crudele disinganno, insofferente di indugi, animato da un cieco desiderio di incontrare il proprio fato, e di sfidarlo. Il suo era quello stato mentale che rende possibile di compiere atti arditi con apparente tranquillità. CAPITOLO VI. Ben Hur s'inoltrò insieme alla processione. Non aveva la curiosità di chiedere ove si andava, e bastava, per appagarlo, la vaga impressione che fossero tutti avviati verso i templi, magnifici centri d'attrazione. Ad un tratto, egli tornò a mormorare: — «Meglio essere un verme e nutrirsi delle more di Dafne, che essere ospite d'un Re,» — e ripetendo quelle parole come un ritornello chiese fra sè: — «Era poi così dolce la vista nel Bosco? In che consisteva l'incanto? Forse in quella dottrina filosofica spiegata dai sacerdoti dei templi? O era essa una realtà, non percettibile ai sensi? Ogni anno migliaia d'esseri rinunciavano al mondo per entrare qui. Lo trovavano essi il fascino? E quando lo avevan trovato bastava esso a generare un oblìo tale da escludere dalla mente tutti i tedi e i dolori della vita? Se il Bosco era loro così benefico perchè non lo sarebbe anche a lui? Egli era Ebreo: possibile che le cose buone del mondo fossero per tutti fuorchè pei figli d'Abramo? Le sue facoltà si concentrarono per sciogliere il quesito, senza badare ai canti degli oblatori ne ai motteggi dei suoi compagni. Volse gli occhi al cielo come per trovarci una soluzione; era turchino, sì molto turchino; l'aria risuonava dei garriti delle rondini; ma lo stesso colore aveva il cielo sovrastante alla città. Più in là, fuori dei boschi, a destra, una deliziosa brezza, carica di profumi, lo accarezzò per un istante, ed egli, insieme agli altri, si fermò a guardare la direzione donde la brezza proveniva. — «Forse da quel giardino laggiù?» — chiese ad un suo vicino. — « Piuttosto da qualche cerimonia sacerdotale: un sacrificio in onore di Diana, di Pane o di qualche Divinità silvestre.» — La risposta era nella sua lingua nativa. Ben Hur guardò sorpreso lo sconosciuto. — «Un Ebreo?» — gli chiese. L'individuo rispose con un sorriso rispettoso. — «Nacqui a pochi passi dalla piazza di Gerusalemme.» — Ben Hur era sul punto di continuare il discorso, quando, un improvviso movimento della folla lo spinse da una parte e trascinò in un'altra direzione il suo interlocutore. La solita veste, una tela bruna in capo, legata con una corda gialla, ed un volto ebraico pronunciatissimo, fu quanto Ben Hur potè ricordare dello sconosciuto. Era arrivato a un punto ove i sentieri cominciavano a internarsi nei boschi e offrivano pertanto una favorevole occasione per staccarsi dall'assordante processione. Ben Hur non tardò ad approfittarne. Incominciò col penetrare in una folta boscaglia, canora pei canti di molti uccelli. I cespugli erano, o in fiore, o portavano frutti. Al piede degli alberi si stendeva un soffice tappeto erboso, mentre piante di gelsomini e d'edera si arrampicavano su tralci, ricadendo dai rami in forma di pergolato. L'aria era pregna dei profumi della siringa-persica, della rosa, del giglio, del leandro, della fragola, e, perchè nulla mancasse alla felicità delle ninfe e delle najadi, un ruscelletto serpeggiava lentamente frammezzo ai fiori. Procedendo oltre lo salutò il grido del piccione e il tubare delle tortorelle; alcuni merli non si mossero neppure al suo avvicinarsi e un usignuolo rimase tranquillamente al suo posto, quantunque egli passasse a un braccio di distanza dal ramo su cui posava. Una quaglia, seguita dai suoi piccini, lo precedeva saltellando. Essendosi fermato un istante per non spaventarli, vide improvvisamente sbucare da una siepe una forma umana, trasalì. Gli era dato veramente di vedere un satiro? Osservò più attentamente, e là suggestione del luogo essendosi dissipata, rise fra di sè, vedendo un innocente agricoltore che teneva in mano un falcetto da potar viti. La pace senza il timore, era questo l'epitome e il significato del tempio di Dafne! Sedette all'ombra di un cedro, le cui radici grigiastre pescavano in parte nell'acque di un ruscello. Il nido d'una cingallegra si specchiava nelle limpide onde, e la cingallegra stessa, facendo capolino, lo fissava negli occhi, come esprimendo un muto invito. — «Sembra che voglia dirmi:» — pensò Ben Hur — «Non ho paura di te. La legge che governa questi luoghi è l'Amore.» — Sì, l'incanto del bosco gli appariva ormai chiaro; ne fu contento, e decise di unirsi alla schiera dei perduti di Dafne. Incaricato della custodia dei fiori e degli arbusti, cercando lo sviluppo delle miti bellezze di quei luoghi, non potrebbe egli, come l'uomo del falcetto, rinunciare ai triboli della vita, rinunciarvi dimenticando e dimenticato? Ma il suo sangue Ebraico si ribellò a questo progetto. L'incanto di Dafne poteva bastare a certa gente; sarebbe stato sufficiente per lui? L'amore è delizioso, ah sì, massime dopo tante sofferenze che egli aveva provate, ma era poi tutto nella vita, tutto? Una profonda differenza correva fra di lui e quegli spensierati seguaci di Dafne. Essi non avevano doveri, non potevano averne avuti mai, mentre egli... — «Dio d'Israele!» — gridò a voce alta, balzando in piedi con le guancie infocate — «Madre, Tirzah! Maledetto il luogo, maledetto il pensiero, che mi distacca da voi!» — A passi precipitati uscì dal boschetto degli aromi, e pervenne ad un corso d'acqua dagli argini murati, sopra il quale metteva un ponte; vi salì e da questo vide una serie di ponti, ciascuno di foggia diversa dagli altri, prolungantisi infinitamente seguendo i molteplici meandri del fiume. L'acqua limpida, profonda e tranquilla sotto di lui, un poco più in giù si gettava rumorosa e spumeggiante da un banco di scogli, formando una piacevole cascata. Il paesaggio che si stendeva davanti ai suoi occhi era incantevole: ampie vallate e colline ondeggianti con boschi, laghi, edifici fantastici, collegati gli uni con gli altri da bianchi sentieri, e scintillanti torrenti. I prati erano verdi ed ingemmati di fiori; qua e là greggi di pecore candide brucavano l'erba. I loro belati, le voci e i canti dei pastori si udivano tratto tratto portati dal vento. Sopra ogni sommità sorgevan altari a cielo scoperto, ognuno dei quali era servito da una figura bianco-vestita, e ai quali traevano numerose processioni di persone pure vestite di bianco. Quali misteri dovevano celarsi in un quadro così meravigliosamente bello! Lentamente Ben Hur ricuperò la padronanza de' suoi pensieri e si scosse dalla specie di estasi in cui era caduto. Una rivelazione gli balenò tutto ad un tratto alla mente. Allora soltanto si accorse che il bosco era tutto un tempio, un tempio vastissimo senza mura nè tetto! Mai nessuno aveva veduto un simile tempio. L'architetto non si era preoccupato di colonne e di porticati, di proporzioni e di misure. Egli si era semplicemente ed assai bene servito della natura. L'arte non poteva far dippiù. Fu così che l'astuto figliuolo di Giove e di Calisto creò l'Arcadia, e, nell'un caso come nell'altro, trionfò il genio ideatore Greco. Dal ponte Ben Hur passò nella valle più vicina. Si appressò ad un gregge di pecore, custodito da una fanciulla che con un gesto gli fece: — «Vieni!» Più in là il sentiero circuiva un'altura, un piedestallo di nero gnais, avente per cappello una lastra di marmo bianco artisticamente tagliata, sopra il quale sorgeva un braciere di bronzo. Poco discosta, una donna, vedutolo, agitò una verga di salice ed al suo passaggio gli disse: — «Fermati» — accompagnando la parola con un'irresistibile sorriso di voluttuose promesse. Più lungi ancora s'imbattè in una delle processioni, alla testa della quale una turba di piccole fanciulle, nude e inghirlandate, cantavano, con vocine stridule, seguite da un gruppo di giovinetti, nudi anch'essi ed abbronzati dal sole, accompagnanti colle danze il canto delle fanciulle; dietro ad essi veniva la processione, formata tutta di donne che recavano agli altari cesti di spezie e di dolci, donne vestite con una semplicità che poco celava allo sguardo. Mentre egli passava, alzarono le mani ed esclamarono in coro: — «Fermati e vieni con noi!» — ed una Greca recitò una strofa d'Anacreonte: Poichè oggi io prendo e dono, Poichè lieto è il mio cammino, Vieni e godi o pellegrino: Chi t'accerta del diman? Ma, indifferente, egli proseguì la sua via finchè si trovò all'ingresso di un rigoglioso boschetto nel cuor della valle donde questa apparve più bella ed incantevole all'occhio dell'osservatore. Dall'ombra degli alberi emanava una molle seduzione. L'erba ai loro piedi era pochissima e soffice. Tutte le varietà orientali d'alberi e di cespugli erano rappresentate da splendidi esemplari, che s'alternavano con piante esotiche e strane; gruppi di palme dai pennacchi regali; siccomori e lauri; quercie frondose e cedri più maestosi dei loro classici prototipi del Libano; gelsi e terebinti e semprevivi; un paradiso terrestre. In mezzo ad una radura sorgeva una statua di meravigliosa bellezza, raffigurante Dafne, la Dea protettrice del luogo. Ai piedi della statua, coricati sopra una pelle di tigre, addormentati, Ben Hur vide una fanciulla ed un giovane abbracciati in un amoroso amplesso. Un falcetto ed un canestro rovesciato giacevano loro appresso, e, da quest'ultimo, usciva un mucchio di rose formando una cascata di fiori sopra il prato. Ben Hur si ritrasse con un senso di profonda vergogna. Nel boschetto degli aromi egli aveva creduto di scoprire l'incanto misterioso del luogo ove regnasse pace senza timore e quasi aveva ceduto a quel fascino dolce e sereno; ora, da quell'esotico amplesso in pieno giorno, lì, ai piedi di Dafne, ebbe una nuova rivelazione. Il principio imperante nel luogo era l'amore, ma l'amore fuori della legge. Questa era la pace dolcissima di Dafne! Questo lo scopo della vita dei suoi ministri! A questo segno un clero astuto aveva asservito la natura, gli uccelli dell'aria, i fiumi, i fiori, il lavoro dell'uomo, la santità degli altari, il fecondo bacio del sole! I seguaci della Ninfa, i devoti di quel gran tempio a cielo scoperto, anche quelli che col lavoro delle loro braccia lo mantenevano in quello stato di magnificenza e di perfezione, destarono un senso di disgusto e di sdegno nel petto di Ben Hur, ora che il movente delle loro azioni non gli era più un mistero. Certo v'eran stati alcuni che, gemendo sotto un fardello di triboli troppo gravi a sopportarsi si erano lasciati attirare dalle promesse di pace che offriva loro il soggiorno in un luogo consacrato, alla cui bellezza, in mancanza d'altri doni, essi pagavano un tributo col loro lavoro; ma, certamente, non era di questi che si componeva la grande maggioranza dei fedeli. Ampie e dorate erano le reti che Apollo tendeva in ogni parte ai suoi seguaci, e sotto le maghe; ma nessuna eguagliava lo splendore del Bosco di Dafne. A questo traevano tutti i libanti del mondo, i sensualisti d'oriente e d'occidente. I loro voti non si ispiravano a nessuna nobile esaltazione, a nessun zelo pel Dio del canto o per l'infelice sua amante, a nessun principio filosofico che prescrivesse la calma dell'eremo e il raccoglimento della natura, il conforto della religione e i riti di un amore elevato e sereno. In quell'età due soli popoli sarebbero stati capaci di assurgere a tale altezza di concezione: quello retto dalle leggi di Mosè, e quello cui Brama reggeva. Essi soli avrebbero potuto esclamare: — «Meglio la legge senza amore che l'amore senza la legge.» — Ben Hur continuò la sua strada, tenendo la testa alta, come chi, pure apprezzando le delizie che lo attorniano, sa contemplare con la calma derivante da una chiara percezione del suo valore. Il pensiero d'essersi quasi lasciato adescare da quelle fallaci insidie, richiamava di tanto in tanto un sorriso sulle sue labbra. CAPITOLO VII. Giunse ad una foresta di cipressi alti e diritti come colonne, da cui procedevano le note gaie d'una cornetta. Sdraiato sull'erba, all'ombra di un albero, vide quel tale a lui incognito nel quale s'era imbattuto poc'anzi. Lo sconosciuto si alzò e gli venne incontro. — «Di nuovo la pace sia con voi.» — disse in tono cordiale. — «Vi ringrazio» — rispose Ben Hur — «facciamo forse la stessa strada?» — — «Io sono diretto allo stadio, e voi?» — — «Lo stadio?» — — «Sì; la cornetta che avete udito poc'anzi è un appello pei competitori.» — — «Amico» — fece Ben Hur — «Confesso la mia ignoranza, e se vorrete servirmi da guida, vi sarò grato.» — — «Volontieri. — Ascoltate! — Mi par di udire il rumore dei cocchi. Stanno per entrare nella pista.» — Ben Hur stette in ascolto un momento; poi riprese la presentazione interrotta al crocicchio innanzi ai templi: — «Io sono figlio del duumviro Arrio — e tu?» — — «Io mi chiamo Malluch, negoziante di Antiochia.» — — «Ebbene, buon Malluch; il corno, lo strepito delle ruote; la prospettiva di uno spettacolo hanno destato la mia curiosità. Ho qualche cognizione di quegli esercizî e non sono sconosciuto nelle palestre di Roma. Andiamo alla gara.» — Malluch lo guardò stupito: — «Il duumviro era Romano; pure vedo suo figlio vestito da Ebreo.» — — «L'illustre Arrio era mio padre adottivo.» — spiegò Ben Hur. — «Ah, comprendo! Perdonate.» — Uscendo dalla foresta la quale formava come il bordo di una vasta radura si trovarono davanti a uno stadio. La pista era di terra compressa e bagnata, ed il tracciato n'era segnato da corde appese negligentemente fra lancie confitte nel suolo. Per gli spettatori si erano eretti dei _podia_ riparati da fitte tende e forniti di sedili degradanti. Sopra uno di quei podia i due nuovi arrivati si sedettero. Ben Hur contò i cocchi mentre sfilavano — erano nove. — «Mi piacciono!» — esclamò, — «Credeva che qui in Oriente non si aspirasse oltre la biga, ma vedo che si è ambiziosi e che ci si esercita anche colle quadrighe. Osserviamoli bene!» — Otto quadrighe passarono, alcune al trotto, altre al passo e tutte guidate in modo ineccepibile; la nona venne al galoppo ed al suo apparire Ben Hur non potè trattenere la propria ammirazione. — «Sono stato nelle stalle dell'Imperatore, Malluch, ma, pel nostro padre Abramo, di benedetta memoria, non ho mai veduto cavalli più belli.» — I quattro cavalli si trovavano proprio di fronte al podio dei due ebrei, quando, tutto ad un tratto, si scompigliarono. Un grido acuto partì da uno degli spettatori sul podio e Ben Hur vide un vecchio alzarsi a metà dal suo sedile, stringere i pugni, mandar lampi inferociti dagli occhi, mentre il tremolìo della lunga barba bianca tradiva l'agitazione di tutta la sua persona. — Alcuni vicini incominciarono a ridere. — «Dovrebbero rispettare almeno le sue canizie. Chi è costui?» — chiese Ben Hur. — «Un potente del deserto, dimorante oltre il Moab, proprietario di mandre di cammelli e di cavalli, e discendente, si afferma, dai cavalieri del primo Faraone — lo sceicco Ilderim.» — rispose Malluch. L'auriga frattanto faceva vani sforzi per domare i cavalli ed ogni tentativo esacerbava sempre più lo sceicco. — «Che Abaddon se lo pigli!» — urlò l'infuriato patriarca. «correte! volate, figli miei!» l'ordine veniva dato ad alcuni servi, appartenenti evidentemente alla sua tribù. «Ma non avete capito? Essi son figli del deserto come voi. Animo, afferrateli subito!» — Frattanto lo scompiglio andava aumentando. — «Maledetto romano!» — continuò lo sceicco protendendo il pugno verso l'auriga. — «Non mi ha egli giurato che saprebbe guidarli — sì, giurato per tutti gli Dei bastardi del suo paese? Eh, dico, giù le mani! — Mi ha assicurato ch'essi correrebbero colla velocità dell'aquila e colla docilità delle pecore! Ch'egli sia maledetto e con lui quella madre di menzogne di cui è figlio! Guardateli, che splendidi animali! Ch'egli si permetta di solo toccarli colla frusta e....» e le sue parole terminarono in un digrignar di denti. «Si metta alla loro testa, uno di voi, e parli con essi: una sola parola nel linguaggio del deserto basta ad acquetarli. Pazzo, pazzo che fui nell'affidarmi ad un romano!» — Alcuni fra i più accorti del suo seguito si cacciarono fra lui ed i suoi cavalli mentre un violento colpo di tosse troncò la voce del vecchio. Ben Hur che credette di comprendere lo sceicco, si sentì attratto verso di lui — più che l'orgoglio della proprietà più che il timore pel risultato della gara, scorgeva nel patriarca un'infinita tenerezza pei suoi cavalli. Erano tutti bai, senza una macchia, perfettamente accoppiati e di splendide proporzioni. Delicatissime le orecchie e piccole le teste; i musi larghi; le narici, quando s'arricciavano, mostravano la membrana di un rosso vivo fiammante; arcati i colli e fregiati d'una criniera così abbondante da coprirne le spalle ed il petto. Dalle ginocchia in giù le gambe erano sottili e diritte, ma, al disopra, esse si arrotondavano per lo sviluppo di forti muscoli, quali si richiedevano per sopportare la bella e complessa corporatura superiore: gli zoccoli splendevano come coppe di lucente agata; nell'impennarsi e nel ricalcitrare i nobili corsieri sferzavano l'aria e qualche volta la terra colle lunghe code. Lo sceicco li aveva chiamati splendidi, ed aveva detto bene. Un secondo e più attento esame dei cavalli rivelò a Ben Hur qual fosse la ragione dell'affetto del loro padrone per essi: erano cresciuti sotto i suoi occhi, oggetto delle sue cure durante il giorno, sogno delle sue notti, sotto i padiglioni nel deserto, quasi fratelli coi membri della sua famiglia, e da lui amati quali figli. Perchè essi gli offrissero campo di riportare una vittoria sull'odiato romano, quel vecchio li aveva condotti in città, non dubitando del loro successo purchè guidati da mano esperta; ma qui stava la difficoltà, poichè occorreva, oltre l'ordinaria esperienza, un intuito speciale, una corrente di intima simpatia fra l'auriga e le bestie. Alla calda natura dello sceicco non era possibile l'uniformarsi al costume dei freddi abitatori d'occidente, di protestare cioè senz'altro l'auriga e tranquillamente licenziarlo; come arabo e come sceicco gli era forza dar clamoroso sfogo al suo risentimento e riempir l'aria d'improperii. Prima ancora che il patriarca avesse vuotato il sacco d'ingiurie di cui era ben fornito, una dozzina di mani aveva afferrati i cavalli pel morso, e la quiete si era ristabilita. Nello stesso istante un nuovo cocchio comparve sulla pista presentando un aspetto diverso dagli altri in quanto che, cocchio, guidatore e corsieri, erano addobbati come nel giorno della gara finale. Per una ragione, che apparirà in seguito, fa d'uopo descrivere alquanto minutamente il nuovo arrivato. Il veicolo apparteneva alla classica e ormai nota categoria di bighe romane: Basse le ruote e unite da una sala larga, su cui poggiava un cassone aperto di dietro. Tale era il modello primitivo delle bighe: il genio artistico dei Greci e di Romani riuscì col tempo a dare al rozzo veicolo quella forma elegante, che raggiunse la sua più perfetta estrinsecazione, nella raffigurazione plastica del cocchio dell'Aurora. I guidatori antichi, non meno accorti ed ambiziosi dei moderni, solevano chiamare il loro più umile attacco una _biga_ ed il più signorile un _quadriga_; con quest'ultima essi concorrevano alle solennità dei giuochi olimpici e ad altre gare sorte ad imitazione di quelle. Essi poi preferivano guidare i quattro cavalli allineati di fronte, e per distinguerli solevano chiamare i due immediatamente vicini al timone _cavalli da giogo_ e gli altri _cavalli da tiro_. Era pure loro avviso che col lasciare la massima libertà d'azione si ottenesse la massima velocità, per cui i finimenti in uso erano d'una notevole semplicità; essi si riducevano infatti ad un collare, ad un tirante che teneva il collare alla cavezza, ed alle redini. Volendo attaccare i cavalli si assicurava un giogo di legno all'estremità del timone mediante cinghie passate entro appositi anelli. I tiranti dei cavalli da giogo venivano assicurati alla sala, quelli degli altri alla sporgenza superiore del telaio. In quanto alle redini esse venivano raccolte da un'anello all'estremità del timone, donde si partivano in forma di ventaglio in modo da terminare al morso di ogni cavallo. Il lettore potrà facilmente rilevare ulteriori particolari in proposito seguendo gl'incidenti che siamo sul punto di narrare. I primi competitori erano stati accolti in silenzio, ma il nuovo arrivato ebbe maggior fortuna. Il suo avanzarsi verso il podio dal quale noi assistiamo alla scena, fu salutato da clamorose acclamazioni che attirarono su di lui gli sguardi di tutti. I cavalli di mezzo erano neri, quelli ai lati bianchi come la neve. In conformità alle esigenze della moda romana, le loro code erano state tosate, mentre le mozze criniere erano divise in treccie fregiate di nastri rossi e gialli. Giunto ad un punto ove il cocchio si offriva tutto intiero alla vista degli spettatori sul podio, questi dovettero convenire che le grida d'ammirazione erano pienamente giustificate. Le ruote erano di meravigliosa costruzione: robuste fascie di bronzo brunito ne rinforzavano i perni leggerissimi; i raggi erano costituiti da zanne d'avorio montate colla loro naturale curvatura all'esterno, onde ottenere la maggior perfezione di concavità, considerata sin d'allora cosa importantissima; i cerchi erano d'ebano colla lastra esterna in bronzo; la sala, in armonia colle ruote, aveva alle estremità una testa di tigre, e, tutta la parte superiore del cocchio era di vimini dorati. L'arrivo di questo splendido equipaggio indusse Ben Hur a guardare con qualche interesse l'auriga. Chi era egli? Mentre facevasi questa domanda non poteva ancora vedergli il volto, e nemmeno l'intiera figura, eppure qualche cosa nel suo aspetto generale e nelle sue movenze non gli pareva nuovo. — Chi poteva mai essere? I cavalli si avvicinavano al trotto. Dallo splendore dell'equipaggio e dal clamore ch'esso sollevava era lecito supporre si trattasse di qualche gran dignitario o di un principe illustre. La presenza di un magnate in quel posto non sarebbe stata in contraddizione alcuna con la sua condizione sociale: è noto come più tardi Nerone e Commodo guidassero i loro cocchi nel circo. Ben Hur si alzò e si fece strada fra la folla fino ad arrivare davanti alla cancellata che divideva il podio dalla pista. Il suo volto esprimeva serietà e i suoi movimenti tradivano l'impazienza. Il cocchio passò davanti al cancello: su di esso erano due persone; l'auriga e un compagno, il Mirtilo, come classicamente solevano chiamarli i gran signori appassionati per le corse; ma Ben Hur non aveva occhi che per il primo, ritto in piedi, colle redini avvolte attorno al corpo formoso, solo in parte coperto da una tunica di panno rosso-chiaro. Nella destra stringeva una frusta, nell'altra mano, leggermente sollevata e protesa, le quattro redini. Piena di grazia è di forza era la posa. Gli applausi non avevano la virtù di scuoterne l'impassibilità. Ben Hur provò una fitta al cuore; il suo istinto e la sua memoria non l'avevano ingannato — _l'auriga era Messala!_ La rara bellezza dei cavalli, la magnificenza del cocchio, l'atteggiamento altiero della persona, ma sopratutto la fredda espressione del volto, le fattezze marcate ed aquiline, caratteristiche della razza dominatrice, proclamavano a chiare note che il tempo non aveva in nulla modificato il carattere sprezzante, audace, cinico, ed ambizioso del giovanetto Romano. CAPITOLO VIII. Allorchè Ben Hur scese dai gradini del podio, un arabo sorse in piedi e disse ad alta voce a guisa di proclama: — «Uomini d'oriente e d'occidente, statemi ad udire! — Il buon sceicco Ilderim vi saluta. — Con quattro corsieri, figli dei favoriti di Salomone il Sapiente, egli è venuto qui per gareggiare coi migliori campioni. Egli ha bisogno di un auriga; grandi ricchezze aspettano chi saprà guidare degnamente i suoi cavalli. Qui ed altrove, nella città e nei circhi, ovunque sogliono adunarsi i forti, fate nota questa sua offerta. Così vuole Ilderim, il generoso sceicco, mio signore.» — L'invito sollevò un mormorio confuso nel popolo affollato sotto la tenda. Prima di sera quell'invito sarebbe stato diffuso in tutti i ritrovi frequentati dai dilettanti di giuochi olimpici e dai professionisti. Ben Hur sostò un momento guardando indeciso ora l'araldo ora lo sceicco, e Malluch credette ch'egli fosse sul punto d'accettare l'offerta. Fu pertanto con un senso di sollievo ch'egli lo vide invece rivolgersi a lui colla domanda: — «Buon Malluch, ove andremo ora?» — Rispose Malluch ridendo: — «Se volete seguire l'esempio di tutti quelli che vengono qui per la prima volta andrete subito a farvi predire la vostra fortuna.» — — «La mia fortuna? Per quanto il suggerimento m'abbia un certo sapore d'infedeltà, andiamo pure dalla Dea.» — — «Adagio, adagio figlio d'Arrio: questi sacerdoti di Apollo non fanno le cose così. Invece di mettervi a contatto con una Pizia o con una Sibilla, essi vi vendono un papiro e v'invitano ad immergerlo nell'acqua d'una certa fontana, dopo di che potrete leggere in versi il vostro avvenire.» — L'espressione di fugace curiosità che aveva animato il volto di Ben Hur scomparve. — «Vi sono creature» — osservò amaramente, — «che non hanno bisogno di preoccuparsi del loro avvenire.» — — «Allora preferite visitare i templi?» — — «I templi sono Greci, nevvero?» — «Li chiamano Greci.» — — «Gli Elleni erano in arte maestri del bello, ma nell'architettura essi sacrificarono la varietà alla rigidità della linea. I loro templi si rassomigliano tutti. Come chiamate la fontana?» — — «Castalia.» — — «Ah! la sua fama è universale. Andiamo colà.» — Malluch il quale osservava il suo compagno lungo il cammino, s'accorse ch'egli s'era fatto mesto e distratto. Non guardava le persone che gli passavano vicino e mostravasi indifferente alle meraviglie che gli sorgevano d'intorno; camminava silenzioso, rannuvolato, a passo lento. Il fatto si è che la vista di Messala lo perseguitava evocando dolorose memorie. Gli pareva che sole poche ore fossero trascorse dacchè egli era stato strappato dalle braccia della madre ed i suggelli eran stati apposti alla casa paterna. Ripensava ai sogni di vendetta maturati durante i lunghi anni passati nella galera, e che avevano per oggetto principale appunto quel Messala. Poteva esservi misericordia per Grato, ma per Messala, mai! E per raffermarsi nella sua risoluzione egli soleva ripetere a sè stesso: — «Chi ci additò ai persecutori? e, quando implorai soccorso, e non per me, chi mi abbandonò sogghignando?» — Sempre il sogno terminava colle stessa terribile invocazione: — «Il giorno ch'io m'imbatterò in lui, Dio dei miei padri, aiutami a compiere adeguata vendetta!» — E l'incontro era prossimo, imminente. Forse s'egli avesse ritrovato Messala povero ed infelice, i suoi sentimenti sarebbero stati diversi; ma così non era. Lo ritrovava più prosperoso che mai, e più che mai insolente nella sua prosperità. Così avvenne che mentre Malluch lo credeva distratto egli stava invece pensando in qual modo avrebbe avuto luogo l'agognato incontro ed a quali mezzi egli ricorrerebbe per renderlo memorabile. Si diressero poco dopo verso un viale di quercie ove il pubblico andava e veniva in gruppi di pedoni di cavalieri, e di donne in lettighe portate da schiavi, e dove, di tempo in tempo, transitavano cocchi trascinati con velocità vertiginosa da focosi cavalli. All'estremità, del viale la strada, con lieve pendenza, scendeva fiancheggiata a destra da un'irta scarpa di roccia grigia, ed, a sinistra, da un vasto prato di singolare freschezza; qui si offriva alla vista dello spettatore la famosa Fontana di Castalia. Spintosi a forza di gomiti attraverso la folla, Ben Hur si trovò dinanzi ad un getto d'acqua, che, dalla sommità di una roccia, si versava in un bacino di marmo nero dove scompariva spumeggiante come in un imbuto. Presso al bacino, sotto un piccolo porticato scavato nel sasso, stava seduto un sacerdote vecchio, barbuto, grinzoso ed incappucciato, un vero tipo d'eremita. Dal contegno del pubblico sarebbe stato difficile l'indovinare quale fosse la principale attrattiva, per esso: se la fontana o il suo custode. Egli udiva, osservava ed era osservato, ma non parlava mai. Di quando in quando qualche devoto gli porgeva una moneta. Con un rapido e scaltro luccicar degli occhi egli la pigliava e dava in cambio un foglio di papiro. Subito il devoto immergeva il papiro nel bacino, poi, alzatolo e guardandolo contro i raggi del sole, vi leggeva un verso. Pare che la fama della Fontana non avesse a soffrire per la povertà dei versi. — Prima che Ben Hur potesse a sua volta consultar l'oracolo, altri visitatori s'avanzarono, il cui aspetto eccitò la sua curiosità non meno di quella dei suoi compagni. Precedeva un cammello altissimo e completamente bianco, condotto da un uomo a cavallo che lo teneva per la briglia. L'_houdah_, o sedile, sul dorso del cammello era straordinariamente grande e rivestito di porpora e d'oro. Due altri cavalieri seguivano il cammello, armati di lancie. — «Che cammello meraviglioso!» — esclamò uno degli astanti. — «Qualche principe venuto da lontano,» — osservò un altro. — «Forse un Re.» — — «I Re sono portati da elefanti e non da cammelli.» — — «Un cammello, e per di più un cammello bianco!» fece un terzo. — «Per Apollo, vi dirò io di che si tratta. Coloro che voi vedete non sono nè Re nè principi; sono donne.» — E qui la discussione fu troncata dall'arrivo della comitiva. Il cammello, visto da vicino, non ismentì l'impressione destata da lontano. Nessuno dei presenti aveva mai veduto un'animale più alto e più maestoso. Che occhi neri! Come era fine e morbido quel suo pelo bianco! Come armonizzava bene colle bardature dorate! Un tintinnio di campanelli d'argento lo accompagnava ed egli si moveva come inconscio del peso che portava. — Ma chi erano l'uomo e la donna sotto il baldacchino dell'_houdah_? Ogni sguardo era rivolto su di essi. Se l'uomo era un principe bisognava proprio convenire dell'imparzialità del tempo, che non fa distinzione fra potenti ed umili, poichè l'aspetto del vecchio che nulla rivelava circa la sua nazionalità, era quello di una mummia: i curiosi radunati alla fontana non trovarono nulla da invidiargli all'infuori del ricco sciallo che ne avvolgeva la persona. La donna se ne stava seduta secondo il costume orientale fra finissimi veli e merletti. Al dissopra dei gomiti portava braccialetti in forma di serpentelli uniti con catenelle d'oro ad altri braccialetti ai polsi. Salvo questi ornamenti le braccia erano nude e di forma oltremodo seducente, cui facevano degno complemento due manine quasi infantili, una delle quali scintillava pei numerosi anelli che l'adornavano. Il velo o reticella che le copriva il capo era tempestato di bacche di corallo e legato con una filza di monete, in parte accerchiantile la fronte, in parte scendentile sulle spalle, confuse in una folta massa di capelli neri. Dal suo seggio elevato essa contemplava il pubblico con curiosità ed apparentemente senz'accorgersi della curiosità ch'essa stessa destava. Il più singolare poi si era che, contrariamente al costume delle signore, essa aveva il viso scoperto. Ed era veramente bello quel viso, bello per la giovanile freschezza, per la forma ovale, per la carnagione trasparente, per gli occhi grandi, per le labbra coralline e pei bianchissimi denti. A queste attrattive aggiungasi la distinzione di una testolina classicamente modellata e d'un volto aristocratico, che le davano un'aria veramente regale. Cosichè fosse rimasta soddisfatta dell'esame del luogo e delle persone, la vaga creatura diede un ordine al servo, un tarchiato etiope, nudo sino alla cintola, il quale avvicinò il cammello alla fontana e l'obbligò a piegare le ginocchia. Poscia, ricevuto dalle mani della sua signora una coppa, stava per riempirla, allorchè un forte rumor di ruote e uno scalpitar di cavalli al galoppo venne a rompere l'incanto prodotto dall'apparizione della bella straniera e, con un grido d'allarme, il pubblico si sbandò per lasciar libero il passo. — «Quel Romano pare che voglia travolgerci, badate a voi!» — gridò Malluch a Ben Hur, spiccando un salto per porsi in salvo. Quest'ultimo si volse, e vide Messala che, a gran carriera, dirigeva il suo cocchio sulla folla. Questa, sbandandosi, lasciò scoperto il cammello, il quale, o inconscio o incurante del pericolo, non si mosse. L'Etiope era paralizzato dal terrore. Il vecchio fece un vano tentativo per uscire dal suo _houdah_, ma nè egli nè la donna erano più in tempo a salvarsi. Ben Hur, balzò davanti a loro e tuonò rivolto a Messala: — «Fermati! indietro, indietro.» — Un sorriso illuminò il volto del patrizio. Non vedendo altra via di scampo Ben Hur, si precipitò innanzi ed arrestò di botto il cocchio afferrando due dei cavalli pel morso: «Cane d'un Romano, tieni in così poco conto la vita?» gridò, mentre con sforzi erculei obbligava i cavalli a retrocedere. — La subìta scossa fece traballare il carro. Messala fu appena in tempo ad evitare di cadere, ma il compiacente suo Mirtilo andò a ruzzolare lungo la via, fra le risa di scherno degli spettatori. L'impareggiabile disinvoltura del Romano non venne meno in quest'occasione. Sciogliendosi dalle redini in cui era avviluppato, le gettò da banda; fece il giro del cammello, guardò Ben Hur, e parlò rivolgendosi al vecchio ed alla donna. — «Chiedo venia ad entrambi: io son Messala, e per la nostra madre terra vi giuro che non vi aveva veduti. In quanto a questa buona gente, ho forse fatto troppo a fidanza sulla mia destrezza: voleva ridere a loro spese e sono essi invece che ridono di me; — buon pro' lor faccia.» — Il sorriso bonario, lo sguardo ed il gesto indifferente col quale s'era rivolto al pubblico s'accordavano bene con quelle parole. Tutti tacquero in attesa di quanto egli direbbe ancora. Fatto allontanare il cocchio di pochi passi dal buon Mirtilo, egli proseguì guardando arditamente la fanciulla: — «Ti prego d'intercedere per me presso questo brav'uomo il cui perdono chiederò con maggior insistenza più tardi se ora non l'ottengo. — È tuo padre nevvero?» — Essa non rispose. — «Per Pallade, sei pur bella! Bada che Apollo non ti scambii pel suo perduto amore. Sarei curioso di sapere qual paese può vantarsi d'averti per figlia. Non torcere lo sguardo. Il sole d'india è riflesso nei tuoi occhi e l'Egitto ha impresso sulle tue gote i segni d'amore. Per Polluce, non preoccuparti di colui, bella incognita, prima d'aver perdonato a questo schiavo che prega ai tuoi piedi.» — La giovane donna lo aveva interrotto per chiamare d'un cenno Ben Hur, il quale le si appressò: — «Ti prego, prendi la coppa e riempila» — gli disse — «mio padre ha sete.» — — «Ti servirò con piacere» — rispose il giovine, e rivolgendosi per rendere il chiesto servizio si trovò faccia a faccia con Messala. I loro sguardi s'incrociarono: quello dell'Ebreo era provocante, mentre gli occhi del Romano altro non esprimevano che una beffarda bonarietà. — «Bella straniera, altrettanto crudele quanto bella» — continuò Messala con un saluto della mano — «se Apollo non ti rapisce nel frattempo, mi rivedrai. Non conoscendo il tuo paese non so a qual Dio raccomandarti, cosicchè, per tutti gli Dei! non mi resta che a raccomandarti a me stesso.» — Visto che Mirtilo aveva acquetati i cavalli e che li teneva pronti per la partenza, risalì sul cocchio. La donna lo seguì collo sguardo, nel quale invero non si leggeva alcuna espressione di risentimento, poscia ricevette la coppa e la passò al padre che gliela restituì dopo aver bevuto un sorso; allora anch'essa vi appressò le labbra, e poi tendendola con un gesto pieno di grazia a Ben Hur, disse, con ineffabile dolcezza: — «Tienla, te ne preghiamo! essa è piena di benedizioni per te.» — Il cammello fu fatto alzare e stava per muovere di là quando il vecchio chiamò Ben Hur. Questi gli si avvicinò rispettosamente. — «Tu hai oggi reso un gran servigio a uno straniero» — disse. — «Non v'è che un Dio solo e nel suo santo nome io ti ringrazio. Mi chiamo Balthazar, l'Egiziano. Nel grande Orto delle Palme, oltre il villaggio di Dafne, lo sceicco Ilderim il Generoso ha piantate le proprie tende e noi siamo suoi ospiti. Vieni colà a chiedere di noi. Vi troverai il benvenuto della riconoscenza.» — Ben Hur rimase meravigliato della voce chiara e della dignità di quel vecchio venerando. Mentre stava osservando la partenza della comitiva vide di nuovo Messala. Il Romano allontanavasi come era venuto, ridendo con indifferenza beffarda. CAPITOLO IX. D'ordinario uno dei mezzi più sicuri per farsi odiare da una persona, è quello di comportarsi bene in un'occasione in cui quella persona s'è comportata male. Fortunatamente Malluch faceva eccezione alla regola. L'incidente di cui era stato testimonio aveva anzi aumentata la sua stima per Ben Hur rivelatogli uomo coraggioso e destro. Se ora avesse potuto apprendere qualche cosa della storia del giovane avrebbe, pensava egli, un'interessante rapporto della giornata da sottoporre all'ottimo messer Simonide. Intanto due fatti gli constavano già. Il suo compagno era Ebreo e figlio adottivo di un celebre Romano. Un altro pensiero germogliava nella sua mente. Messala ed il figlio del duumviro non dovevano essere estranei l'uno all'altro. Di qual natura erano i loro rapporti? Come venirne in chiaro? Per quanto ei si lambiccasse il cervello, non riusciva a trovare un'addentellato per entrare in argomento, e già rassegnavasi a rinunciare ad ogni tentativo quando Ben Hur stesso venne in suo soccorso. Egli prese Malluch per un braccio e con lui si scostò dalla folla la quale ormai volgeva di nuovo la propria attenzione al vecchio sacerdote ed alla mistica fontana. — «Buon Malluch,» — chiese Ben Hur arrestandosi, — «può un'uomo dimenticare la propria madre?» — Questa domanda, fatta a bruciapelo e senza applicazione diretta, non poteva a meno d'imbarazzare l'interrogato, il quale, guardando il compagno come per leggergli in volto il vero significato delle sue parole, vi scorse invece tali segni di sincera emozione da sentirsene scosso. — «No,» — rispose con calore. — «No, mai,» — indi, ripreso completamente possesso di se stesso soggiunse con calma: — «mai s'egli è Israelita. Una delle prime lezioni ch'io imparai alla Sinagoga fu la venerazione pei genitori, poichè, come disse il figliuolo di Sirach: — «Venera tuo padre con tutta l'anima e non dimenticare le sofferenze di tua madre.» — Il volto di Ben Hur si fece più acceso. — «Quelle parole,» — disse con voce commossa, — «mi richiamano alla mente la mia infanzia ed esse mi provano pure che tu sei un buon Ebreo. Tu m'ispiri fiducia.» — Abbandonò il braccio, al quale sin qui s'era tenuto stretto, e con ambe le mani compresse le pieghe della veste che gli copriva il petto, quasi a soffocare un'acuto dolore che lo straziava, indi proseguì: — «Mio padre, portava un nome distinto e godeva di non poca considerazione a Gerusalemme ov'egli abitava. Mia madre, alla morte di lui, era ancora nel fiore dell'età, e io non saprei davvero trovar parole per descrivere quanto buona ella fosse e bella. Io aveva anche una sorellina, e noi tre componevamo la famiglia, una famiglia così felice da giustificare le parole del vecchio Rabbi: — «Dio non potendo essere da per tutto, creò le madri.» — Un giorno una disgrazia accidentale toccò ad un'alto funzionario romano, mentre passava davanti alla nostra casa accompagnato da una coorte; i legionarii abbatterono la porta, si precipitarono in casa e ci arrestarono. Da quel giorno non ho riveduto mia madre e mia sorella. Non posso dire s'esse siano vive o morte e non so che cosa sia avvenuto di esse. Ma, Malluch, quell'uomo, laggiù nel cocchio, era presente alla nostra separazione; fu egli stesso che ci consegnò ai soldati, sogghignando barbaramente, mentre mia madre, invocante pietà pei suoi figli, veniva trascinata a viva forza. Non ti saprei dire se in me prevalga l'odio o l'amore. Oggi lo riconobbi da lontano e — qui riafferrò il braccio dell'altro — Malluch, quell'uomo conosce il segreto ch'io darei la mia vita per scoprire; sì, egli potrebbe dirmi ove trovansi le poverette, se siano vive, ed ove, se morte, io potrei ritrovare le loro ossa.» — — «E non vuol parlare?» — — «No.» — — «Perchè?» — — «Perchè io sono Ebreo ed egli è Romano.» — — «Ma i Romani hanno pure una lingua e gli Ebrei, per quanto disprezzati, dispongono di mezzi efficacissimi.» — — «Non per casi di questo genere. Trattasi d'un segreto di Stato. Devi sapere che tutti i beni di mio padre furono confiscati e divisi fra i nostri nemici.» — Malluch chinò il capo come per significare che comprendeva perfettamente tutta la forza del ragionamento; poscia domandò: — «Ti ha egli riconosciuto?» — — «Non gli era possibile. Fui condannato alle galere in vita e da gran tempo sono creduto morto.» — — «Mi stupisce che tu non l'abbia ucciso» — fece Malluch cedendo ad un momentaneo impeto di sdegno.» — — «Se lo avessi ucciso lo avrei messo nell'impossibilità di servirmi. La morte costudisce un segreto più gelosamente della coscienza d'un Romano.» — L'uomo cui incombeva la vendetta di sì atroci offese e che nondimeno sapeva padroneggiare se stesso al punto di rinunciare all'occasione che gli si era presentato di compierla, doveva aver gran fiducia nel proprio avvenire, oppure covava un piano migliore: — pertanto i pensieri di Malluch presero un nuovo indirizzo. Egli cessò da quel momento d'essere unicamente l'agente d'una terza persona e si sentì attratto verso Ben Hur per conto proprio. In altre parole Malluch si predisponeva a servirlo di tutto cuore per l'ammirazione che Ben Hur gl'ispirava. Dopo una breve pausa, Ben Hur riprese: — «Non voglio togliergli la vita, buon Malluch; — contro una tale misura estrema lo garantisce per ora il segreto che egli chiude nella nera sua anima; ma so un modo di punirlo, e se tu vuoi aiutarmi, mi ci proverò.» — — «Egli è Romano,» — rispose Malluch senza esitare, — «ed io sono della tribù di Giuda. T'aiuterò. Se vuoi da me un giuramento, prescrivimelo pure nella forma che a te sembri più solenne.» — — «Dammi la tua mano; questo mi basta.» — Scambiata la stretta di mano Ben Hur, con un senso di sollievo, proseguì: — «Ciò ch'io vorrei da te, mio buon amico, non è cosa difficile nè tale da turbarti la coscienza. Proseguiamo il nostro cammino.» — Presero la via che a destra conduceva attraverso il prato cui fu già accennato nella breve descrizione precedente l'arrivo alla fontana. Dopo qualche istante Ben Hur ricominciò: — «Conosci tu lo sceicco Ilderim il Generoso?» — — «Sì.» — — «Ove trovasi l'Orto delle Palme? o, piuttosto a che distanza è desso dal villaggio di Dafne?» — Malluch fu punto da un sospetto. Rievocando l'immagine della bella fanciulla alla fontana e l'inclinazione ch'essa aveva graziosamente dimostrata per Ben Hur, si chiese se mai il compito di colui che voleva salvare o vendicare la propria madre, non correva il rischio di essere dimenticato per una avventura d'amore; — ciò nonostante rispose: — «A cavallo, l'Orto delle Palme si raggiunge in due ore, ma un buon cammello percorre quello distanza in un'ora sola.» — — «Grazie. Puoi dirmi ancora se agli annunzii dei giuochi di cui mi parlasti fu data grande pubblicità e quando essi avranno luogo?» — Le interrogazioni erano suggestive, e se non ebbero l'effetto di riassicurare Malluch, egli è certo che ne stimolarono vivamente la curiosità. — «Oh, sì, i giuochi saranno splendidi. Il Prefetto è ricco e, quantunque sia indipendente dalla carica, egli, come la maggior parte degli uomini prosperosi, non è null'affatto insensibile all'aumento delle sue ricchezze, per cui, non foss'altro che per farsi un'amico a Corte, si è messo in gran faccende per festeggiare il console Massenzio, qui atteso per ultimare i preparativi contro i Parti. I ricchi abitanti d'Antiochia, che in questi preparativi hanno il loro tornaconto, ottennero dal Prefetto il permesso di contribuire alle feste. Già da un mese gli araldi proclamano l'apertura del circo per la cerimonia. Il nome del Prefetto basterebbe da solo a garantire la varietà e la magnificenza dei giuochi, particolarmente in oriente, ma quando alle sue promesse si aggiungono quelle dei maggiorenti d'Antiochia, si può esser certi che il concorso sarà straordinario. I premi offerti sono principeschi. — «E il Circo? mi fu detto essere secondo solo al Circo Massimo.» — — «A quello di Roma vuoi dire. Ecco: il nostro può accogliere duecento mila spettatori e il vostro ne accoglie settantamila di più; tanto quello di Roma come il nostro sono di marmo e la distribuzione interna è perfettamente eguale.» — — «E il regolamento è esso pure eguale?» — Malluch sorrise. — «Se l'Antiochia osasse fare da sè, figlio d'Arrio, Roma non terrebbe il dominio che tiene. Il regolamento del Circo Massimo è quello che regge, anche qui, in ogni particolare salvo uno solo; a Roma ogni singola gara è limitata a quattro cocchi; qui invece non v'è limite di numero.» — — «Ah, l'usanza dei Greci.» — — «Sicuro, Antiochia è più Greca che Romana.» — «Per cui, Malluch, io sarei libero di scegliermi il mio cocchio?» — — «Il tuo cocchio e i tuoi cavalli, — non v'è alcuna restrizione in proposito.» — Mentre rispondeva alle domande di Ben Hur, Malluch non potè a meno d'accorgersi della crescente soddisfazione colla quale le sue parole venivano accolte. — «Ancora una cosa, Malluch, quando avrà luogo la solennità?» — — «Ah, sì, me ne era scordato,» — s'affrettò a dire l'interrogato, «se, per dirla in istile romano, gli Dei del mare sono propizii, di qui a sei giorni comincieranno i giuochi.» — — «Il tempo è breve Malluch, ma mi basta;» — queste ultime parole vennero pronunciate con forza; — «pei profeti d'Israele! riprenderò le redini; però, un momento! Come possiamo noi essere sicuri che Messala sarà fra i concorrenti?» — Malluch vide d'un tratto il piano escogitato per umiliare il Romano, e, da degno discendente di Giacobbe, dimenticando ogni altra considerazione, corse subito col pensiero a valutarne le probabilità pro e contro. La sua voce ebbe quasi un tremito, quando domandò: — «Sei tu abbastanza addestrato?» — — «Non temere, amico mio. — Da tre anni i vincitori del Circo Massimo devono i loro allori unicamente alla mia condiscendenza. Chiedilo a loro stessi e ti diranno ch'io non esagero. Alle ultime gare l'Imperatore in persona mi offrì la sua particolare protezione a patto ch'io guidassi i suoi cavalli.» — — «E tu non accettasti?» — chiese con vivo interesse Malluch. — «Io,» — proseguì Ben Hur, e qui la sua voce si fece esitante, — «io sono Ebreo e non osai, quantunque portassi un nome romano, assumermi professionalmente un'ufficio che avrebbe suonato onta al nome di mio padre nei chiostri e nelle corti del Tempio. — Nulla mi vietava di addestrarmi nelle palestre, ma il circo mi avrebbe disonorato, e se qui faccio un'eccezione, Malluch, ti giuro che non è per il premio o per la mercede riservata al vincitore.» — — «Fermati, non giurare così,» — lo interruppe Malluch, — «la mercede è di diecimila sesterzi, una fortuna per tutta la vita.» — — «Non per me, quand'anche il Prefetto la triplicasse cinquanta volte. Io voglio ben altro; voglio ciò che vale più di tutti i redditi imperiali dal primo anno dell'impero a tutt'oggi. Voglio umiliare il mio nemico. Tu sai che la vendetta è permessa dalla legge.» — Con un sorriso d'approvazione, come volesse dire, «Benissimo, benissimo, fra noi Ebrei c'intendiamo» Malluch rispose: — «Messala correrà, non dubitarne. Egli si è già troppo impegnato annunciando il suo concorso in tutti i pubblici ritrovi, e d'altronde il suo nome figura sulle tavolette di tutti i giovani giuocatori d'Antiochia.» — — «Il suo nome è impegnato in scommesse, dici tu?» — — «Sicuro, ed ogni giorno egli viene qui con ostentazione ad esercitarsi.» — — «Ah! quello adunque è il cocchio e quelli sono i cavalli di cui si servirà? Sta bene; sii ringraziato buon Malluch. Tu m'hai già reso un gran servigio ed io ho di che rallegrarmene. Ora siimi guida all'Orto delle Palme e presentami allo sceicco Ilderim il Generoso.» — — «Quando?» — — «Oggi stesso. Domani i suoi cavalli potrebbero essere già affidati ad altri.» — — «Ti piacciono tanto?» — Ben Hur rispose con entusiasmo: — «Li vidi dal podio per un solo istante, poichè subito sopraggiunse Messala, e non potei più veder altro, ma quello sguardo mi bastò per riconoscerli d'un sangue che è la meraviglia e la gloria del deserto. Non vidi esemplari di quella razza fuorchè nelle stalle di Cesare, ma, veduti una volta, si riconoscono sempre. Se domani per esempio t'incontrassi, Malluch, quantunque tu non mi salutassi, io ti riconoscerei al tuo viso, alla tua figura, ai tuoi modi. Ebbene, colla stessa certezza ed alli stessi segni io riconoscerei quei cavalli. Se è vero la metà di quanto si dice di loro e io riesca a piegarli alla mia volontà, potrò...» — — «Vincere i sesterzi?» — interrogò Malluch ridendo.» — — «No,» — rispose vivamente Ben Hur, — «farò quello che meglio s'addice ad un figlio di Giacobbe: umilierò il mio nemico in pubblico. Ma, soggiunse impaziente, noi perdiamo tempo. In qual modo possiamo con tutta sollecitudine raggiungere la tenda dello sceicco?» — Malluch riflettè un momento. — «Il meglio si è d'andar diritto al villaggio che fortunatamente è qui vicino; se possiamo trovare due buoni cammelli non avremo che un'ora di viaggio.» — — «Andiamo dunque.» — Il villaggio era formato da palazzi circondati da giardini, con qua e là dei Khan, o alberghi, principeschi. Non fu difficile trovare due dromedarii, e, montati su di essi, i due Ebrei s'avviarono alla volta dell'Orto delle Palme. CAPITOLO X. Passato il villaggio, il terreno si presentava ondulato e coltivato con gran cura; esso era infatti l'Orto d'Antiochia ove d'ogni palmo di terra si faceva tesoro. Gl'irti fianchi delle colline erano tagliati a terrazzi, e persino le alte siepi rallegravano la vista colle viti che vi erano allacciate, dalle quali pendevano bellissimi grappoli d'uva porporina. — Al di là d'innumerevoli letti di poponi, e di boschetti d'aranci e limoni, si scorgevano le bianche dimore degli affittaiuoli. Ovunque si girava lo sguardo, si vedeva l'Abbondanza, sorridente figliuola della Pace, vestita dei suoi più lieti ed attraenti colori. Di tempo in tempo poi le accidentalità del terreno lasciavano intravvedere qualche punto del Tauro e del Libano, fra i quali l'Oronte placidamente seguiva il proprio corso. I nostri viaggiatori arrivarono al fiume e lo costeggiarono seguendone le sinuosità, ora vincendo rapide salite, ora scendendo in qualche valle, a traverso terreni segnati come aree per costruzione di ville. Ora si godeva l'ombra piacevole proiettata dalle fronde delle quercie, dei siccomori e dei mirti, ed ora il profumo delle piante aromatiche. Alla poesia dell'ambiente contribuiva poi in particolar modo la vicinanza del fiume nel quale specchiavansi gli obliqui raggi del sole. Innumerevoli navi e navicelle solcavano le acque in ogni senso, emblemi e veicoli di vita, ricchi di suggestioni ed evocanti immagini di città lontane, di popoli stranieri e di commerci. I due amici proseguirono in silenzio la loro via, finchè arrivarono ad un lago formato dal rigurgito del fiume e di cui l'acqua era limpida, profonda ed immobile. Un vecchio palmizio dominava l'angolo dell'insenatura, e Malluch, girando a sinistra dell'albero, battè le mani e gridò: — «Guarda, guarda, ecco l'Orto delle Palme.» — La scena che si offrì ai loro sguardi avrebbe solo potuto avere riscontro in qualche oasi favorita d'Arabia o in qualche fattoria sulle sponde del Nilo. — Ben Hur trovò innanzi a sè una vasta pianura coperta d'un tappeto verde di rara freschezza. Gruppi di palme secolari, di mole colossale, dai rami regolari, dalle fronde piumate, e come modellate in cera, spiccavano contro il cielo azzurro. Il lago, fresco e limpido, alimentava con le sue acque vitali le radici dei vecchi alberi. Era forse una ripetizione del Bosco di Dafne? — Le palme, come se avessero indovinato il pensiero di Ben Hur e volessero a loro modo sedurlo, sembravano agitarsi al suo passaggio e spruzzarlo di fresca rugiada. La via correva parallela alla riva del lago dalla quale si vedeva la sponda opposta ombreggiata parimenti da palme; ogni altra qualità d'alberi era esclusa. — «Guarda quel dattero» — esclamò Malluch, additando una gigantesca palma. — «Ogni anello sul suo tronco segna un'anno di vita. Contali dalla radice fino alla cima, e se lo sceicco ti dice che il bosco fu piantato prima che in Antiochia si conoscessero i Seleucidi, tieni per certo ch'egli ti dice il vero.» — Non è possibile contemplare una palma rigogliosa senza sentirsi penetrati dalla sottile suggestione che emana questo superbo vegetale, il quale sembra trasformarsi agli occhi del contemplatore, e infondere un senso di compiacimento e di ammirazione. Così si spiega gli omaggi prodigati alla palma da tutto l'oriente, incominciando dagli artefici dei primi Re, i quali non seppero trovare miglior modello per i pilastri dei loro palazzi e dei loro templi. Ben Hur chiese: — «Allorchè oggi vidi Ilderim allo stadio ei mi fece l'effetto d'un uomo comunissimo, che i nostri Rabbini di Gerusalemme avrebbero disprezzato siccome un cane di Edom. Come mai venne egli in possesso dell'Orto e come fa egli a salvarsi dall'avidità dei governatori Romani?» — — «Se il tempo nobilita il sangue» — rispose con calore Malluch, — «il vecchio Ilderim, o figlio d'Arrio, è un uomo nel miglior senso della parola, quantunque un Edomita non circonciso. I suoi padri furono tutti sceicchi. Uno di essi, vissuto in non so quale epoca prestò soccorso una volta ad un Re, che molti nemici inseguivano. La leggenda narra ch'egli gli prestasse a sua difesa mille cavalieri, cui erano noti tutti i sentieri e nascondigli del deserto. Essi tennero celato il Re finchè l'occasione si presentò di distruggere il nemico e di rimettere il monarca sul trono. — Questi, per riconoscenza diede al figlio del deserto questo luogo delizioso, per sè e suoi successori, in perpetuo. Nessuno pensò mai di turbarne il possesso. I governatori trovano che è del loro interesse il mantenere buone relazioni con una tribù alla quale Iddio ha accordato uomini, cavalli, cammelli e ricchezze, rendendola così padrona di molte fra le arterie che collegano Antiochia con le altre città; — poichè è dal buon volere di questi uomini che dipende la libertà di passaggio e la sicurezza delle strade. Persino il Prefetto si reputa felice ogniqualvolta Ilderim, soprannominato il Generoso pei molti suoi atti di liberalità, si reca a fargli visita in compagnia delle sue donne, dei suoi figli o dei suoi dipendenti, tutti montati su cammelli e cavalli, come solevano fare i nostri padri Abramo e Giacobbe. — «Come spieghi adunque» — chiese Ben Hur che aveva ascoltato con vivo interessamento, senza accorgersi della lentezza dei dromedarii — «ch'egli oggi si strappava la barba dalla rabbia e malediva sè stesso per aver prestato fede ad un Romano? Se Cesare l'avesse udito avrebbe avuto ragione di dire: «Non amo tali amici, liberatemene.» — — «E non avrebbe sbagliato di certo» — rispose Malluch sorridendo. — «Ilderim non ama Roma, ed ha un motivo di lagnarsene. Tre anni fa i Parti catturarono una carovana sulla strada da Bozza a Damasco, la quale portava, fra l'altro, il tributo d'un intiero distretto. Essi uccisero tutti gli uomini della carovana, ciò che i censori a Roma avrebbero facilmente perdonato purchè i denari imperiali fossero stati rispettati. Gli appaltatori delle tasse, chiamati a rispondere del danno, ricorsero a Cesare il quale tenne responsabile Erode. Questi se ne indennizzò sequestrando dei valori di Ilderim col pretesto ch'egli avrebbe dovuto invigilare la sicurezza delle strade imperiali. Lo sceicco si appellò a Cesare e Cesare gli diede una risposta degna in tutto della sfinge. D'allora in poi il vecchio si strugge di rabbia e non manca mai un'occasione di darvi sfogo.» — — «Ciò non gli serve a nulla, Malluch.» — — «Questo» — continuò l'altro — «richiede un'altra spiegazione che ti fornirò, se ti accosterai; ma, parliamo sottovoce; — l'ospitalità dello sceicco ha già principio, guarda quelle fanciulle che ti parlano.» — I dromedarii si fermarono e Ben Hur guardando giù, vide alcune bambine vestite alla foggia delle contadine siriache, che gli offrivano canestri di datteri. La frutta era stata appena colta e non poteva venir rifiutata. Egli si abbassò, ne prese, ed in quell'istante un uomo, accovacciato sull'albero presso il quale le bestie s'erano fermate, gridò: — «La pace sia con voi e siate i benvenuti.» — Dopo aver ringraziato le due fanciulle i due amici continuarono per la loro strada. — «Devi sapere» — proseguì Malluch, interrompendosi di tanto in tanto per mostrare un dattero — «che Simonide, il negoziante, mi onora della sua fiducia, e ch'egli, qualche volta, si degna consigliarsi meco, per cui, frequentando io la sua casa, feci la conoscenza di molti suoi amici, i quali sapendo di questa nostra domestichezza, parlarono liberamente in mia presenza. Fu in questo modo ch'io entrai in qualche intimità collo sceicco Ilderim.» — Per un istante l'attenzione di Ben Hur divagò. Alla sua mente s'affacciò l'immagine pura, gentile e supplichevole d'Ester. Gli occhi neri della fanciulla, risplendenti di quella luce caratteristica delle donne Ebree, si fissarono modestamente sui suoi; — gli parve d'udire il fruscio delle vesti e la melodiosa sua voce mentre gli porgeva la coppa di vino. Ricordò con compiacenza la pietà del suo sguardo più espressivo di qualunque parola e si beò di quel ricordo. La visione, piena d'ineffabile dolcezza, sparì come d'incanto allorchè egli si volse verso Malluch. — «Alcuni giorni fa» — continuò quest'ultimo — «il vecchio arabo venne da Simonide e mi trovò da lui. Non mi sfuggì un suo certo qual turbamento, ond'io, per deferenza, feci atto di ritirarmi, ma egli stesso mi trattenne. — «Se sei Israelita» — disse — «fermati perchè ho una storia strana da narrarti.» — L'enfasi colla quale accentuò la parola _Israelita_, eccitò la mia curiosità e rimasi. Devo essere breve, poichè ci avviciniamo alla tenda; eccoti in poche parole il sunto della sua narrazione. — «Molti anni fa, tre stranieri convennero alla tenda d'Ilderim nel deserto; un Indiano, un Greco, un Egiziano. Viaggiavano su cammelli, i più grandi ch'egli avesse mai veduti e completamente bianchi. Ilderim diede loro il benvenuto e li ospitò. «La mattina seguente si alzarono ed intonarono una preghiera affatto nuova per Ilderim, indirizzata a Dio ed al figliuol suo. Il loro contegno era misterioso. Dopo rotto il digiuno, l'Egiziano spiegò chi fossero e donde venissero. Ognuno di loro aveva veduto una stella, dalla quale s'era fatta udire una voce che comandava loro di recarsi a Gerusalemme e di chiedere: «_Ov'è colui che è nato Re dei Giudei?_» — «Essi obbedirono. Da Gerusalemme la stella li guidò a Betlemme, dove, in una grotta, trovarono un neonato ch'essi adorarono cadendo in ginocchio davanti a lui: — compiuto quest'atto d'adorazione, accompagnato da preziosi regali, e proclamato chi Egli fosse, essi fuggirono coi loro cammelli e si rifugiarono presso lo sceicco, non essendo dubbio che, se Erode, colui che era detto il Grande, li avesse presi, li avrebbe condannati a morte. Fedele al suo costume, lo sceicco li ricoverò e li tenne celati per un anno intero, in capo al quale, essi partirono lasciandogli doni di gran valore, e prendendo ognuno una direzione diversa.» — — «È una storia meravigliosa» — esclamò Ben Hur — «Che cosa dicesti che essi dovevano chiedere una volta arrivati a Gerusalemme?» — «Dovevano chiedere: «Dov'è colui che è nato Re dei Giudei?» — — «E null'altro?» — — «V'erano altri particolari ma non li ricordo.» — — «Ed essi trovarono il bambino?» — — «Sì, e lo adorarono.» — — «Malluch, quest'è un miracolo.» — — «Ilderim è uomo posato quantunque eccitabile come tutti gli Arabi. Egli è incapace d'una menzogna.» — Malluch parlava con sicurezza. Dopo una pausa, di cui i dromedarii approfittarono per pascolare, scostandosi dalla strada, Ben Hur chiese di nuovo: — «Non sa più nulla Ilderim dei tre uomini? Che avvenne di loro?» — — «Ah, sì, questo fu precisamente il motivo della visita a Simonide. Alla vigilia di quel giorno era ricomparso l'Egiziano.» — — «Dove?» — — «Qui all'entrata della tenda alla quale ci rechiamo.» — — «Come lo riconobbe?» — — «Nello stesso modo che riconoscesti oggi i cavalli; dal suo aspetto.» — — «Da null'altro?» — — «Egli era in groppa allo stesso cammello bianco, e portava lo stesso nome — Balthasar, l'Egiziano.» — — «Sarebbe mai questo un miracolo del Signore?» — chiese Ben Hur agitato. — «E perchè?» — domandò a sua volta sorpreso l'amico. — «Non dicesti Balthasar?» — — «Sì, Balthasar l'Egiziano.» — — «Ma quello è il nome del vecchio che vedemmo oggi alla fontana.» — — «È vero» — proruppe vivamente Malluch, cui subito si comunicò l'agitazione del compagno, — «il cammello era il medesimo e tu salvasti la vita a quell'uomo.» — — «E la donna,» — continuò Ben Hur, come parlasse fra sè, — «la donna era sua figlia,» — e fattosi pensoso, tacque. Non sarà difficile al lettore l'indovinare come il dialogo precedente avesse evocato una seconda visione di donna nella quale Ben Hur rimase più a lungo assorto che non nella prima; ma egli si sbagliarebbe se da questa circostanza concludesse che Ben Hur ne fosse maggiormente affascinato. La seguente domanda ch'egli rivolse a Malluch dopo una lunga pausa, indica il procedere del suo pensiero. — «Dimmi Malluch, dovevano quei tre chiedere dove fosse colui che doveva essere Re dei Giudei?» — — «Non precisamente in questi termini, ma bensì ove fosse colui _nato per essere Re dei Giudei_. Quelle erano le parole udite dal vecchio sceicco nel deserto, e, da quel giorno, egli attende l'avvento del Re; e nessuno potrebbe scrollare la sua fede.» — — «Ma.... proprio un Re?» — — «Già. E con lui la caduta di Roma: così disse il vecchio.» — Seguì un nuovo periodo di silenzio, di cui Ben Hur sentiva bisogno per raccogliere le proprie idee e frenare l'agitazione dell'animo, indi riprese: — «Quel vecchio è uno dei molti milioni d'uomini che avranno gravi offese da vendicare, e pertanto questa sua strana teoria, Malluch, è di prezioso alimento alle sue speranze, visto che, durante la dominazione di Roma, solo un Erode può essere Re dei Giudei. Udisti tu ciò che Simonide rispose?» — — «Se Ilderim è uomo serio, Simonide dal canto suo è uomo saggio,» — replicò Malluch; — «udii infatti il suo parere e... ma, ascolta, qualcuno ci segue.» — Udivasi in fatti un rumore di cavalli e di ruote avvicinantesi rapidamente, in breve i due Ebrei furono raggiunti da Ilderim, che, a cavallo e seguito da un lungo corteo nel quale figuravano i quattro cavalli arabi, ritornava dal boschetto di Dafne. La testa dello sceicco era china sul petto come quella di una di persona accasciata, ma alla vista dei due che l'avevano preceduto nel ritorno, il vecchio si animò e li salutò con affabilità. — «La pace sia con voi! ah, il mio amico Malluch! Dimmi che sei d'arrivo e non di partenza e che mi porti qualche messaggio da parte del buon Simonide cui auguro che il Signore dei suoi padri mantenga per molti anni in vita. Seguitemi entrambi. Ho pane e frutta ad offrirvi, e se meglio v'aggrada, arrack e carne di capretto. Venite.» — Lo seguirono fino all'entrata della tenda ov'egli scese da cavallo, e li ricevette con un vassojo sul quale stavano tre coppe riempite d'un liquido schiumante versatovi da un'otre annerita dal fumo, appesa all'antenna centrale. — «Bevete,» — disse cordialmente, — «bevete, poichè questo è il talismano che garantisce l'incolumità a chi penetra nelle tende dei figli del deserto.» — Ognuno prese una coppa e la vuotò. — «Entrate ora: in nome di Dio.» — Appena entrati, Malluch chiamò da parte lo sceicco e gli parlò sommessamente, poi andò verso Ben Hur e si scusò. — «Ho parlato di te allo sceicco e domattina egli ti lascerà provare i cavalli. Avendo ormai fatto tutto quanto stava in me, ti lascio la cura del rimanente e me ne ritorno ad Antiochia. Un tale mi aspetta questa sera, e mi è forza recarmi da lui. Ritornerò domani e farò in modo, se tutto andrà bene, di rimaner teco finchè termineranno i giuochi.» — E dopo uno scambio di saluti e di benedizioni, Malluch si allontanò. CAPITOLO XI. All'ora in cui due terzi della popolazione d'Antiochia riposava dalle fatiche del giorno, godendosi, sui terrazzi delle case, l'aria rinfrescata dalla brezza serale, Simonide, adagiato nel seggiolone ormai diventatogli indispensabile, stava contemplando dal proprio terrazzo il fiume, ed i navigli che vi erano ancorati. La muraglia che ergevasi dietro di lui proiettava la sua ombra sull'acqua fino a raggiungere la sponda opposta, ed al disopra continuava il solito rumore dell'andirivieni sul ponte. Ester, presso al padre, gli teneva dinanzi un piatto contenente la sua cena frugale, composta di focaccie leggiere come ostie, un po' di miele ed una tazza di latte nella quale Simonide immergeva le focaccie dopo averle spalmate di miele. — «Malluch ritarda questa sera» — mormorò egli scoprendo così il pensiero che lo preoccupava. — «Credi tu ch'egli verrà?» — chiese Ester. — «A meno ch'egli non abbia dovuto prendere la via del mare o del deserto, verrà.» — Simonide parlava tranquillamente da uomo sicuro del fatto suo. — «Potrebbe invece scrivere.» — suggerì timidamente la ragazza. — «No, Ester. Egli mi avrebbe già avvertito con lettera se si fosse accorto di non poter ritornare e poichè non m'ha avvertito sono certo che verrà.» — — «Speriamolo» — sospirò la giovine. V'era un non so che nel tono col quale ella si lasciò sfugire questa parola, che colpì il vecchio. Il più piccolo uccellino non può posarsi sopra un ramoscello senza comunicare una vibrazione, per quanto leggiera, a tutte le fibre dell'albero, e l'organismo umano non è meno sensibile qualche volta alle più insignificanti parole. — «Tu desideri ch'egli ritorni, Ester?» — — «Sì, rispose ella» — guardandolo negli occhi. — «Perchè? potresti dirmelo?» — persistette il padre. — «Perchè...» — essa sostò, poi riprese: — «perchè il giovane è...» — e qui di nuovo si fermò. — «Il nostro padrone, tu vuoi dire.» — — «Sì.» — — «E tu sei sempre d'avviso ch'io non dovrei lasciarlo partire senza dirgli che, se egli vuole, può prendere possesso di noi e di tutto — capisci Ester? di tutto — delle merci, dei denari, delle navi, degli schiavi e del credito potente, che è un mantello d'oro e d'argento tessuto per me da quella Divinità tanto adorata dagli uomini, il Successo!» — Essa non rispose. — «Non te ne commovi affatto?» — insistè egli, non senza una tinta d'amarezza. — «Sta bene, Ester. Ho sempre trovato che per quanto terribile sia la realtà essa non è mai insopportabile una volta squarciate le nere nubi attraverso le quali essa ci atterriva dapprima — no, mai, neppure la tortura. Suppongo che sarà così anche della morte. Alla stregua di questa filosofia è presumibile che la schiavitù cui andiamo incontro finisca per esserci dolce. Mi è grato sin d'ora il pensare alla felicità del nostro padrone. Le ricchezze non gli saranno costate nulla, non un momento d'angoscia, non una stilla di sudore, neppure un pensiero! Esse gli cadranno in grembo mentr'egli è nel fior degli anni senza averle nemmeno sognate. E, perdona questo piccolo sfogo alla mia vanità, Ester, se aggiungo ch'egli andrà inoltre al possesso di ciò che tutto l'oro del mondo non potrebbe dargli; parlo di te, mio tesoro, mio adorato fiorellino germogliato dalla tomba della mia perduta Rachele.» — L'attirò amorosamente a sè e la baciò due volte; un bacio per lei, uno per la povera morta. — «Non parlar così» — disse la ragazza allorchè il vecchio ritrasse la mano che le aveva accarezzato il collo, — «quel giovane merita una migliore opinione; egli pure ha sofferto, e ci renderà liberi.» — — «Ah, Ester, tu sei di nobili istinti e sai com'io ad essi mi affidi ogniqualvolta mi trovo perplesso nel giudicare del carattere di qualcuno, ma» — e qui la sua voce si fece più vibrata — «ma non sono solo queste povere membra, questo corpo lacerato e straziato fino a non aver più forma umana, che gli darò. Io gli arrecherò un'anima che ha saputo trionfare dei tormenti e della malignità Romana, più crudele degli stessi tormenti; io gli porterò una mente che sa scoprire l'oro ad una distanza maggiore di quella cui arrivarono le navi di Salomone, una mente esercitata nel concepire vari disegni» — qui sorrise di compiacenza, poi continuò sempre più animandosi: — «ma non sai, Ester, che prima ancora che la nuova luna entri nel prossimo quarto io potrei scuotere il mondo così da farne sussultare lo stesso Cesare? Poichè tu devi sapere, figliuola, ch'io posseggo quella facoltà più preziosa d'un corpo perfetto, più preziosa del coraggio, della volontà, dell'esperienza, quella facoltà divina che neppure i grandi sanno abbastanza apprezzare, mentre il volgo non la conosce affatto, la facoltà d'aggiogare gli uomini ai miei propositi e di mantenerveli fino al loro compimento, di modo che la mia persona si moltiplica in legioni di centinaia e di migliaia di persone. E così i capitani delle mie navi attraversano i mari e mi portano il premio d'oneste fatiche; così Malluch segue quel giovane nostro padrone e mi porterà...» — qui il rumore di passi avvicinantisi alla terrazza lo interruppe.» — Ah, Ester, non te lo dissi? eccolo qui, ed ora avremo notizie. Per te, mia dolcissima figliuola, mio candido giglio, prego Iddio, il quale non ha dimenticato il ramingo gregge d'Israele, ch'esse siano confortanti.» — Malluch si presentò. — «La pace sia con te, mio buon padrone» — disse inchinandosi — «ed anche a te, Ester, la più virtuosa delle figlie.» — Egli stava loro davanti in atto rispettoso. Col contegno suo, umile come quello d'un servo, faceva contrasto la famigliare cordialità delle sue parole onde sarebbe stato difficile il determinare di qual natura fossero i suoi rapporti cogli altri due. Simonide, da uomo pratico, appena ricambiato il saluto, entrò subito in argomento. — «Che cosa mi riferisci intorno a quel giovane, Malluch?» — I particolari della giornata vennero narrati tranquillamente e con tutta semplicità, senza interruzione da parte del vecchio, la cui immobilità non fu scossa un solo istante. — «Grazie, buon Malluch» — esclamò poscia, quando questi ebbe finito. — «Nessuno avrebbe potuto far meglio di te. Che hai da dirmi sulla nazionalità del giovane?» — — «Egli è Israelita, mio buon padrone, e della tribù di Giuda.» — — «Ne sei sicuro?» — — «Certissimo.» — — «Eppure pare ch'egli non t'abbia narrato gran che della sua vita.» — — «Ha imparato ad esser prudente, vorrei anzi dire diffidente. Egli eluse tutti i miei tentativi per farlo parlare finchè partimmo dalla fontana di Castalia pel villaggio di Dafne.» — — «Un luogo abbominevole! perchè vi andò?» — — «Direi per curiosità, come si può dire della maggior parte di chi vi si reca per la prima volta; ma ciò che è strano si è ch'egli non s'interessò a quanto vide. Per esempio non si curò di visitare il tempio, e chiese solamente s'esso era Greco. A dirti il vero quel giovane ha un dolore ch'egli vorrebbe nascondere ed andò al Bosco di Dafne per dimenticarlo.» — — «Se fosse così sarebbe bene» — mormorò Simonide, poi soggiunse più forte: — «Malluch, la maledizione dei nostri tempi è la prodigalità; — i poveri s'impoveriscono di più per scimmiottare i ricchi, ed i ricchi s'atteggiano a principi. Scorgesti tu traccie di una tale debolezza nel giovane? Ostentò egli possesso di dovizie sfoggiando monete di Roma o d'Israele?» — — «Nulla affatto.» — — «Eppure, Malluch, in un luogo simile, ove abbondano gl'incentivi alle gozzoviglie, egli non può a meno d'averti fatto qualche offerta di generoso trattamento, giustificabile, del resto, dalla sua gioventù.» — — «Egli non mangiò nè bevette in mia compagnia.» — — «Dalle sue parole potesti tu scoprire quale fosse l'idea dominante in lui? Come tu sai noi non parliamo, non operiamo e non decidiamo alcuna questione grave che ci riguarda, senza obbedire ad un movente. Che cosa puoi dirmi in proposito?» — — «Riguardo a ciò, Messer Simonide, posso rispondere con perfetta sicurezza. Egli in primo luogo è spinto dal desiderio di ritrovare sua madre e sua sorella; — poi v'è della ruggine fra lui e Roma e, siccome vi ha gran parte, quel Messala di cui ti parlai, il suo scopo presente è di umiliarlo. L'incontro alla fontana gliene porse l'occasione ma non volle approfittarne perchè non sufficientemente pubblica.» — — «Quel Messala è influente» — osservò gravemente Simonide.» — — «Sì, ma il loro prossimo incontro sarà nel circo.» — — «Ebbene?» — — «Il figlio d'Arrio vincerà.» — — «Come lo sai tu?» — Malluch sorrise. — «Giudico dalle sue parole.» — — «Da null'altro?» — — «Lo giudico anche da ciò che vale assai più, dallo spirito che lo anima». — «Sta bene; ma dimmi, Malluch, questa sua idea di vendetta a che tende essa? Ha egli di mira solo i pochi che lo offesero o comprende egli anche la massa? — e poi non sarebbe questo desiderio di vendetta il sogno transitorio d'un ragazzo sensibile anziché il fermo proposito d'una irremovibile volontà? Sai bene, Malluch, che l'idea di vendetta, se è un semplice parto del pensiero, altro non è che una bolla di sapone, mentre, la vera passione, è una malattia del cuore, che da quello sale sino al cervello, e che dell'uno e dell'altro si nutre.» — Fu qui che per la prima volta Simonide diede segni di agitazione, parlando rapidamente e colla vivacità che doma la convinzione. — «Mio buon padrone,» — rispose Malluch, — «una delle ragioni che mi convinsero essere il giovane un Ebreo, fu precisamente l'intensità del suo odio. M'accorsi ch'egli stava in guardia, il che è naturale, visto ch'egli visse tanto tempo in un ambiente così sospettoso come il Romano, ma, malgrado la sua prudenza, due volte quell'odio gli trasparì dagli occhi; la prima quando volle conoscere i sentimenti d'Ilderim riguardo a Roma, poi, quando, raccontandogli la storia dello sceicco e dell'uomo saggio, venni a dire della domanda — «ov'è colui che è nato Re dei Giudei?» — Simonide trasalì e chiese avidamente: — «Buon Malluch, ripetemi le sue parole, le precise sue parole, ond'io possa giudicare dell'impressione che quel mistero fece su di lui.» — — «Insistette per conoscere esattamente i termini in cui era formulata la domanda, se cioè «essere» o «nato per essere». Pareva colpito da un'apparente differenza nelle due espressioni.» — Simonide riprese la sua calma e continuò ad ascoltare attentamente. — «Allora,» — proseguì Malluch, — «gli spiegai il parere d'Ilderim, e cioè che il Re edificherebbe il suo trono sopra le rovine di Roma, ed il volto del giovane si fece di bragia mentre con voce concitata mi domandò — «Chi mai se non un Erode può essere Re finchè dura il dominio di Roma?» — — «Che voleva egli dire?» — — «Che l'impero dev'essere distrutto prima che vi possa essere un nuovo regno.» — Simonide lasciò vagare per qualche tempo lo sguardo sulle navi galleggianti; poco dopo congedò Malluch con queste parole: — «Basta, Malluch, va a mangiare ed a prepararti a far ritorno all'orto delle Palme. Devi aiutare il giovane nella lotta alla quale egli si accinge. Vieni da me domattina e ti darò una lettera per Ilderim,» — poscia soggiunse come parlando a se stesso, — «può darsi ch'io pure mi rechi al Circo.» — Dopo che Malluch, scambiate le benedizioni d'uso, se ne fu andato, Simonide trangugiò un buon sorso di latte e ne parve ristorato. Voltosi poi ad Ester, le dichiarò che non gli occorreva altro, e l'invitò a riprendere il solito suo posto vicino alla seggiola. — «Il Signore è buono con me, molto buono» — prese egli a dire con fervore; — «È suo costume avvolgere i proprii atti nel mistero, ma qualche volta egli li lascia però intravvedere. Io son vecchio, cara, e dovrò andarmene; ma, mentre l'ultima ora si avvicina, e la mia speranza incominciava a svanire, egli mi manda questo suo messaggero per infondermi nuova fiducia. Io vedo spianarsi la via ad una cosa così grande che il mondo intero ne emergerà come rinato a nuova vita. Sì, sì, ben veggo ora per quale ragione speciale io fui favorito di tante ricchezze, e quale è lo scopo cui esse sono destinate. In verità, figliuola mia, un nuovo soffio di vita è entrato in me.» — Ester gli si strinse più dappresso come per frenare quel divagamento della mente. — «Il Re è nato» — continuò egli, — «ed a quest'ora deve aver raggiunto il fiore della virilità. Balthasar disse ch'egli era un bambino in grembo alla madre quand'egli lo vide, lo adorò e lo colmò di doni. — Ilderim afferma che nel mese di Dicembre erano trascorsi ventisette anni dacchè Balthasar ed i suoi compagni vennero a rifugiarsi nella sua tenda per salvarsi da Erode; per cui l'avvento non può di molto tardare; questa stessa notte, — forse domani. — Santi padri d'Israele, quale felicità al solo pensarvi! Parmi di udire il fragore delle mura crollanti e lo strepito dell'universale rovina — si, e il gaudio degli uomini acclamanti lo spalancarsi della terra per inghiottirvi Roma, il riso ed i canti delle masse accoglienti la stupefacente novella che Roma non è più», — qui s'arrestò per l'eccesso della gioia esultante e che terminò in uno scroscio di risa — poi riprese rivolto alla figlia — «Che ti pare di me, Ester? devo proprio essere invaso dalla passione dei cantori e dai fremiti di Miriam e di Davide! Nella mia mente di lavoratore, che solo dovrebbe accogliere cifre e fatti, regna in questo momento un frastuono di cimbali, d'arpe e di grida di gente affollata attorno ad un trono. Basta, voglio provarmi a non pensarci più per ora, però senti, cara mia, quando il Re verrà egli avrà bisogno di denari e di uomini, perchè, come nato da donna, egli è al postutto un uomo, e pertanto obbligato a seguire vie umane, come te e come me. Pel denaro gli occorreranno procuratori e custodi e per gli uomini avrà d'uopo di duci. Non vedi tu quale orizzonte si schiude a me ed al giovane nostro padrone, qual messe di gloria e di vendetta ci attende, e poi, e poi....» — qui s'arrestò come colpito dall'egoismo d'una visione nella quale la sua diletta figlia non aveva parte alcuna, e concluse baciandola — «e poi, qual messe di felicità per la figlia di tua madre!» — Essa non disse una parola. Allora il vecchio si risovvenne della diversità della loro natura e della legge per la quale ciò che è causa di gioia o di timore per gli uni non sempre lo è per gli altri. — La sua compagna non era che una fanciulla. — «A che pensi Ester?» — le chiese riprendendo il tono di voce che gli era abituale. — «Qualunque sia il tuo desiderio, dimmelo finchè è ancora in mia facoltà di appagarlo — il potere nostro lo sai, è incostante. Domani può essere troppo tardi.» — Essa gli rispose con ingenuità quasi infantile: — «Mandalo a chiamare, padre. Manda questa stessa notte, non lasciarlo andare al Circo!» — — «Ah!» — sospirò il padre, e di nuovo percorse collo sguardo il fiume ormai debolmente rischiarato dalle stelle, essendosi la luna nascosta dietro il monte Sulpio. Dobbiamo dirlo, lettore? Un'acre gelosia rodeva Simonide. Ch'essa già amasse il giovane padrone? no, ciò non poteva essere, ell'era troppo giovane! Ciononostante non gli riusciva di liberarsi da quell'idea che continuava a pungerlo. La ragazza aveva sedici anni. Egli lo ricordava bene. L'ultimo anniversario della sua nascita erasi recato con lei nel quartiere ov'era una nave da varare; la bandiera gialla della nuova nave portava il nome di Ester, e così avevano assieme festeggiato quel giorno. Eppure in questo momento il ricordo dell'età lo sorprese come una rivelazione. Vi sono delle realtà che si affacciano producendo in noi un senso di tristezza come, per esempio, il fatto che andiamo invecchiando, e, più terribile ancora, l'idea che dobbiamo morire. Fu appunto una riflessione di questo genere che gli penetrò nel cuore e gli strappò un sospiro, quasi un lamento. Non bastava che quella sua idolatrata creatura, nel fiore della primavera, facesse il sacrificio della propria libertà, ma persino il suo cuore, di cui egli conosceva l'infinita tenerezza, doveva diventare proprietà del giovane padrone! Il demone che ha il compito di torturarci con timori ed angustie, ben di rado s'accontenta di fare le cose per metà. Nell'amarezza del momento, il coraggioso vecchio si scordò dei suoi vasti disegni e del suo Re miracoloso; riuscendo peraltro a dominare se stesso chiese con calma apparente: «Non lasciarlo andare al Circo, Ester! e perchè?» — — «Perchè non è quello il luogo per un figlio d'Israele, padre.» — — «Oh, mia religiosa Ester! e per nessun altro motivo?» — Il tono indagatore della domanda penetrò profondamente nel cuore della fanciulla e ne accelerò i battiti, così che ella ammutolì: sì sentì indignata e nello stesso tempo invasa da una strana sensazione di benessere. — «Quel giovane deve avere le ricchezze» — fece Simonide prendendole la mano parlandole con crescente tenerezza — «egli deve avere le navi, i denari, tutto, tutto, mia Ester. Eppure, vedi, mi parve che non sarei rimasto povero abbandonandogli tutto, perchè mi restava il tuo affetto, che tanto mi rammenta quello della morta mia Rachele. Dimmi, figlia mia, dovrà egli avere anche quello?» — Essa si chinò su di lui e tacque. — «Parla, Ester. Sono forte sai. Parla, è meglio ch'io lo sappia.» — Essa allora rialzò il capo e pronunciò solennemente queste parole: — «Padre, confortati. Io non ti abbandonerò mai; quand'anche io avessi ad amarlo, sarò sempre, come ora, la tua ancella.» — E chinandosi sopra di lui, lo baciò. — «Sì» — ella continuò. — «Egli parve bello ai miei occhi; la sua voce supplichevole toccò la mia pietà; ed io fremo quando penso che un pericolo, lo minaccia. Lo rivedrei volentieri. Ma, padre, l'amore che non è corrisposto non è amore perfetto, e quindi attenderò con pazienza, ricordandomi ch'io sono figlia tua e di mia madre.» — — «Una benedizione del Signore, sei tu, Ester! Una benedizione che mi renderebbe ricco, quand'anche tutta la mia fortuna andasse perduta. Iddio ti protegga o mia figlia.» — Un po' più tardi, dietro suo ordine, un domestico spinse la sua poltrona nuovamente nella stanza, dov'egli restò a lungo nella penombra crepuscolare pensando all'avvento del Re, mentre essa si ritirò nella sua camera a dormirvi il sonno degli innocenti. CAPITOLO XII. Il palazzo che fronteggiava la casa di Simonide dall'altra parte del fiume, si dice fosse stato costruito dal celebre Epifanio, architetto cresciuto alla scuola dei Persiani, non dei Greci, ed amante più del colossale che del classico. Un grande muro circondava l'isola e serviva al doppio scopo di proteggerla contro l'inondazione del fiume e contro gli assalti della popolazione. Ciò nonostante, i legati la avevano abbandonato quale residenza allegando l'insalubrità dell'aria in quel punto, e s'erano costruiti un altro palazzo sul fianco occidentale del monte Sulpio. Non mancarono i maligni che attribuirono questo sgombero non a ragioni igieniche, ma alla maggior sicurezza che offriva ai governatori Romani la vicinanza delle grandi caserme o cittadelle sorgenti sul pendio orientale del monte. Il sospetto era abbastanza ragionevole. La pretesa insalubrità del palazzo sopra l'isola, non impediva di fatti che esso fosse tenuto in perfetto ordine, e quando un console, generale d'esercito, Re o principe forestiero, visitava Antiochia, che lo si ospitasse nelle sue sale. Era un labirinto di giardini, bagni, atrii, stanze, padiglioni, tutti splendidamente adorni ed adobbati, come si conveniva alla residenza principesca della prima città d'oriente; ma siccome noi non abbiamo da fare che con una sola delle sue stanze, lasciamo la particolareggiata descrizione del palazzo alla fervida immaginazione del lettore. L'appartamento in cui ci portiamo era un'ampia sala, pavimentata di marmo lucente, e illuminata, di giorno, da ampie finestre nelle quali lastre di mica colorate servivano da vetri: alle pareti una serie di cariatidi, rappresentanti giganti in diversi atteggiamenti di dolorosa fatica, portavano una cornice arabescata, sopra la quale spiccava la volta dipinta a vari colori — azzurro, verde, porpora di Siro ed oro. Intorno alla sala correva un divano, coperto di sete indiane e di scialli del Cachemir. Il mobiglio era costituito da alcuni tavoli e sgabelli di foggia Egiziana, grottescamente intagliati. Noi abbiamo lasciato Simonide, nella sua poltrona, rivolgendo disegni per aiutare il re miracoloso, il cui avvento credeva vicino. Ester dorme. Abbandonando quella tranquilla dimora, attraversiamo il fiume e oltrepassando gli scolpiti leoni a guardia della porta, ed altri innumerevoli atrii e cortili babilonesi, penetriamo nella sala che abbiamo descritta. Cinque candelieri pendono dal soffitto, attaccati a catene di bronzo, una per ciascun angolo, e il quinto nel mezzo, immense piramidi di luce, che illuminano anche i volti degli Atlanti e gli arabeschi del cornicione. Intorno ai tavoli, in piedi, o seduti, o movendo irrequieti da gruppo a gruppo, sono raccolte circa cento persone che dobbiamo esaminare con una certa attenzione. Sono tutti giovani, alcuni quasi ragazzi, Italiani di nascita, quasi tutti Romani di nazionalità. Parlano l'idioma latino in tutta la sua purezza, e indossano abiti tagliati secondo l'ultima foggia tiberina; cioè tuniche corte di manica e appena scendenti oltre il ginocchio. Sui divani e sopra gli sgabelli giacciono le toghe e le _lacernae_, di cui si sono spogliati in causa del caldo; alcune di esse listate dell'ambita porpora. Sopra i divani sono distesi anche alcuni corpi addormentati, vinti dal sonno o dai fumi di Bacco. Il vocìo è alto e continuo, qualche volta interrotto da scoppi di risa, o da un grido di rabbia o di tripudio; ma sopra tutti gli altri suoni prevale lo strepito secco dei dadi o _tesserae_, d'avorio, agitati nei bossoli e gettati rumorosamente sui tavoli, o delle pedine, _hostes_, mosse sullo scacchiere. Di chi è formata la società? — «Buon Flavio» — dice un giuocatore tenendo sospeso il suo pezzo — «vedi tu quella _lucerna_ là sul divano? è appena uscita dalle mani del sarto, e la fibbia ne è d'oro massiccio.» — — «E poi?» — chiese Flavio, intento al suo giuoco. Ne ho viste altre consimili. Che vuoi dire?» — «Nulla. Io la darei volentieri in cambio di un uomo che sapesse ogni cosa.» — — «Un bel cambio davvero. Ma giuoca....» — — «Ecco, partita.» — — «È vero per Giove! Ancora? — — «Volentieri.» — — «E la posta?» — «Un sesterzio.» — Estrassero le loro tavolette e con uno stilo notarono la scommessa, e mentre rimettevano a posto i pezzi, Flavio ritornò sull'osservazione dell'amico: — «Un uomo che sappia ogni cosa! _Hercle!_ gli oracoli morirebbero di fame. Che cosa vorresti fare di un simile miracolo?» — — «Fargli rispondere a una sola domanda, mio Flavio; poi buttarlo nel fiume.» — — «E la domanda?» — — «Vorrei che mi dicesse l'ora e il minuto in cui arriverà domani il console Massenzio.» — — «Ottimo, ottimo! e perchè anche il minuto?» — — «Hai tu mai provato a startene a capo scoperto sotto la sferza del sole Siriaco, sul molo, aspettando; i fuochi di Vesta sono tiepidi al paragone; e, per Giove Statore, se debbo morire, preferisco di morire a Roma. Questo è un inferno; là, stando in mezzo al Foro, con la mano tesa così, mi parrebbe di toccare la volta degli Dei. Ah, per Venere, mio Flavio, ho parlato troppo. — Ho perduto di nuovo, o cattiva Fortuna!» — «Ancora?» — — «Naturalmente. Devo riconquistare il mio sesterzio.» — — «Sia.» — I due continuarono a giuocare, finchè la luce del giorno che sorgeva cominciò a fare impallidire il chiarore delle candele. Come la maggior parte della compagnia, essi erano degli _attachés_ militari al servizio del console, di cui attendevano la venuta. Durante questa conversazione un nuovo gruppo era entrato nella stanza, e dapprima inosservato, si avvicinò al tavolo di mezzo. I suoi componenti portavano traccie di aver passato la notte a banchetto. Alcuni si reggevano a stento sulle gambe. Intorno alle tempia del loro duce pendeva una ghirlanda che lo indicava come anfitrione della festa trascorsa. In questi il vino non aveva fatto impressione, se non fosse per aumentare la rara bellezza del suo volto, del più puro tipo Romano. Camminava a testa alta: il sangue gli imporporava le labbra e le gote; gli occhi scintillavano, e dalle pieghe della candida toga e da tutto il portamento della persona spirava un'aura regale. Nell'avvicinarsi al tavolo si fece largo fra la folla, spingendo a destra e sinistra chi gli ingombrava il cammino, con la massima noncuranza e senza chiedere scusa; quando finalmente si arrestò chinandosi sopra i giuocatori, tutti si voltarono a lui con un grido altissimo: — «Messala! Messala!» — I più lontani fecero eco a quel grido. I gruppi si sciolsero, tavoli e giuochi furono abbandonati, e tutti fecero circolo intorno a lui. Messala accolse questa dimostrazione con la massima indifferenza, e procedette immediatamente a dare un saggio dei metodi che gli avevano acquistata tanta popolarità. — «Salute, a te, Druso, mio amico,» disse ad un giuocatore alla sua destra. — «Salute, e dammi un momento le tue tavolette.» — Guardò la superficie cerata delle tavolette, e le annotazioni di giuoco, poi le buttò sdegnosamente sul tavolo. — «Denarii, soltanto denarii, — la moneta dei carrettieri e dei beccai!» — disse con un riso di disprezzo. — «Per l'ebbra Semele, come è decaduta Roma, se un Cesare passa le sue notti pregando la Fortuna che gli conceda di vincere un denario!» — Il discendente dei Drusi arrossì fino ai capelli, ma gli spettatori coprirono la sua voce, stringendosi intorno al tavolo con grida di: «Messala, Messala!» — — «Uomini del Tevere» — continuò Messala, — «strappando un bossolo di dadi dalle mani di un giuocatore.» — «Chi è il più favorito dagli Dei? Il Romano. Chi è il legislatore delle nazioni? Il Romano. Chi è, per diritto di spada, il padrone del mondo?» — La compagnia era facilmente esaltata, e il pensiero di supremazia espresso da Messala era loro famigliare fin dalla nascita. Esclamarono in coro: — «Il Romano, il Romano!» — — «Eppure, eppure, vi è qualche cosa di superiore al Romano.» — Il patrizio scosse il capo e, dopo una pausa studiata, ripetè con ischerno: — «Avete udito? Vi è qualcuno più grande del miglior Romano.» — — «Ercole!» esclamò uno. — «Bacco!» — gridò un altro. — «Giove, Giove!» — tuonò la folla. — «No,» — disse Messala, — «parlo di uomini.» — — «Il nome, il nome!» — essi chiesero. — «Lo dirò,» disse: — «È colui che alla perfezione di Roma ha aggiunto la perfezione dell'Oriente; è colui che al braccio del conquistatore sa sposare l'arte di godere.» — — «_Per Pol!_ Dopo tutto egli è un Romano ancora!» — esclamò uno. Vi fu uno scroscio d'applauso, e Messala continuò: — «Nell'oriente, non abbiamo divinità: imperano solo Bacco, Venere e Fortuna, e la maggiore di esse è la Fortuna. Donde il nostro motto: Chi osa ciò che io oso? Parole degne del Senato, degne della battaglia, degne massimamente di chi come me cerca il meglio e non teme, sfidandolo, il peggio.» — La sua voce da declamatoria si fece più bassa e famigliare, senza perdere il conquistato ascendente. — «Nella cassa forte della cittadella io tengo cinque talenti. Eccone le ricevute.» — Dal seno della sua tunica estrasse un rotolo, e, gettandolo sul tavolo, proseguì fra religioso silenzio, bersaglio di tutti gli sguardi della sala. — «Quella somma vi darà la misura di quanto io osi. Chi osa altrettanto? Silenzio! La posta è troppo grande? Ritirerò un talento. Che! Tutti muti? Andiamo: Tre talenti, solo tre; due, uno, — uno almeno, uno solo per l'onore del fiume sulle cui sponde siete nati! La Roma d'Oriente sfida la Roma d'Occidente. Suvvia: Il barbaro Oronte contro il sacro Tevere!» — Agitò i dadi, aspettando. — «L'Oronte contro il Tevere» — ripetè con enfasi sprezzante. Nessuno si mosse. Allora buttò il bossolo per terra, e, ridendo, raccolse le sue ricevute. — «Ah, ah! Per Giove Olimpico. Ora so che siete venuti a cercar fortuna in Antiochia, Cecilio!» — — «Son qui Messala!» — gridò un uomo dietro di lui. — «Sono qui, che muoio fra la folla, cercando la elemosina di un _dramma_ pel barcaiuolo d'Averno. Ma per Plutone, questi uomini nuovi non posseggono un obolo fra tutti.» — La sortita provocò uno scoppio di risa. Solo Messala non vi si unì, ma disse con gravità: — «Va, Cecilio, nella stanza donde venimmo, ed ordina ai domestici di portar qui le anfore e le tazze. Se questi nostri compatrioti pezzenti di Siria non hanno denari, voglio almeno vedere se posseggono una gola. Spicciati.» — Poi si volse a Druso, con una risata che echeggiò per la stanza. — «Ah, ah, mio amico! Non ti offendere se abbassai Cesare al livello di un denario. Lo feci per svergognare questi aquilotti della nostra vecchia Roma. Vieni, Druso, vieni!» — Raccolse il bossolo ed agitò allegramente i dadi. — «Per che posta giuochiamo?» — Il modo era franco, cordiale, seducente. Druso cedette immediatamente. — «Per le Ninfe, sì; accetto!» — esclamò ridendo. — «Io giuocherò con te, Messala, — per un denario.» — Un giovinetto dal volto quasi infantile osservava la scena da un capo del tavolo. Improvvisamente Messala si volse a lui: — «Chi sei?» — gli chiese. Il giovine si ritrasse timidamente. — «No, per Castore, no! Non intesi di offenderti. Ho bisogno d'un segretario che tenga nota delle mie scommesse. Vuoi servirmi?» — Il giovine tirò fuori le sue tavolette e si avvicinò prontamente a Messala. — «Fermati, Messala, fermati!» — esclamò Druso. — «Io non so se porti sfortuna arrestare i dadi con una domanda; ma mi è balenato un'idea e devo comunicartela quand'anche Venere mi frustasse con la sua cintura.» — — «No, mio Druso; quando Venere si toglie la cintura, è Venere amorosa.» — — «Ma la tua domanda. — Aspetta che getti, avvenga ciò che deve avvenire. Così.» — Rovesciò il bossolo sul tavolo e lo tenne fermo sopra i dadi. Druso chiese: — «Hai tu mai veduto un tale Quinto Arrio?» — — «Il duumviro?» — — «No, suo figlio.» — — «Non sapeva che avesse un figlio.» — — «Bene, non importa,» — soggiunse Druso; — «soltanto sappi che questo Arrio ti assomiglia come Castore a Polluce.» — L'osservazione scatenò una tempesta di conferme. — «È vero, è vero! I suoi occhi e il suo viso,» — gridarono. — «Che?» insinuò uno con disprezzo. — «Messala è Romano; Arrio è un Ebreo.» — — «Hai ragione» — esclamò un terzo. — «Egli è Ebreo.» — Messala interruppe la disputa che stava per sorgere. — «Il vero non è ancor giunto, mio Druso; e come vedi, tengo la Fortuna pei capelli. Quanto ad Arrio, accetterò il tuo parere, purchè tu mi dia qualche altro particolare su di lui.» — — «Ebreo o Romano — pel grande dio Pane, senza mancarti di rispetto, o Messala! — questo Arrio è bello, coraggioso e sagace. L'imperatore gli offrì il suo favore, ed egli lo rifiutò. Un'aria di mistero lo circonda ed egli si tiene lontano dagli altri come se si stimasse superiore o nemmeno di essi. Nelle palestre non aveva rivali; scherzava coi giganti del Reno e coi tori della Sarmazia come fossero balocchi. Il duumviro lo lasciò erede di una sostanza colossale. La sua passione è quella delle armi, e non pensa che alla guerra. Massenzio lo accolse nella sua famiglia e doveva arrivare insieme a noi, ma lo perdemmo di vista a Ravenna. Ciò non ostante è arrivato. Ne udimmo parlare stamattina. _Per Pol!_ Invece di venire al palazzo o presentarsi alla cittadella, ha lasciato i suoi bagagli ad un Khan ed è sparito nuovamente.» — Messala aveva ascoltato il principio di questo racconto con indifferenza cortese; ma la sua attenzione crebbe a poco a poco, e alla conclusione tolse la mano dal bossolo e gridò: — «Caio! mi ascolti?» — Un giovane al suo fianco, — il suo Mirtilo, o compagno di cocchio della mattina, rispose: — «T'ascolto, Messala, poichè ti son vicino ed amico.» — — «Ti ricordi dell'uomo che ti procurò quel capitombolo oggi?» — — «Pei riccioli di Bacco! Non dovrei ricordarmene, con una spalla ammaccata che me ne tiene fresca la memoria?» — — «Allora ringrazia il Fato: ho trovato il tuo nemico. Ascolta.» — Messala si rivolse a Druso. — «Dammi altri ragguagli di costui — _Per Pol!_ — di costui che è insieme Romano ed Ebreo, una bella combinazione davvero. Che vesti porta, o mio Druso?» — — «Di foggia Ebraica.» — — «Lo senti, Caio? L'individuo è giovine, — uno; ha l'aspetto di un Romano — due; ama vestirsi da Ebreo — tre; nella palestra si è guadagnato corone con la forza del braccio, di cui ha dato un saggio col nostro cocchio — quattro. Prosegui Druso, ed illumina maggiormente l'amico. Senza dubbio questo Arrio avrà una certa conoscenza di lingue, altrimenti non potrebbe essere Ebreo oggi, domani Romano; ma l'idioma d'Atene, lo conosce?» — — «Con tale purezza, Messala, che potrebbe concorrere nelle gare Istmie.» — — «Mi segui, o Caio?» — disse Messala. — «Il tuo amico conosce il greco, il che, secondo il mio calcolo, fa cinque. Che ne dici?» — — «Tu l'hai scoperto, o Messala» — rispose Caio. — «Perdonami, Druso; perdonatemi tutti di parlare di enigmi e indovinelli» — disse Messala nel suo modo seducente. — «Ma devo fare ancora appello alla tua cortesia. Guarda!» — coprì di nuovo con la mano il bossolo dei dadi. — «Guarda come celo i secreti della Pizia! Tu dicevi, io credo, che un certo mistero circondi la persona di questo Arrio. Spiegati.» — — «Non è nulla, Messala, nulla» — replicò Druso — «È quasi una leggenda: quando il vecchio Arrio partì per combattere i pirati, non aveva nè moglie nè figli; ritornò con un giovine, questi di cui ti parlo — e il giorno dopo lo adottò.» — — «Lo adottò?» — ripetè Messala. — «Per gli dei, Druso, tu stimoli la mia curiosità. E dove trovò il duumviro questo ragazzo? E chi era costui?» — — «Chi potrà risponderti meglio, o Messala, del giovine Arrio in persona? _Per Pol!_ Nella battaglia il duumviro — allora soltanto tribuno — perde' la sua galera. Nella sua nave trovò lui ed un altra persona — i soli superstiti dell'equipaggio, — aggrappati alla medesima trave. Dicono che il compagno del duumviro fosse un Ebreo....» — — «Un Ebreo!» — ripetè Messala. — «.... e uno schiavo.» — — «Come... Druso? Uno schiavo?» — — «Quando i due furono raccolti e portati sul ponte, il tribuno vestiva la sua corazza, e l'altro indossava la tunica del rematore.» — Messala si alzò in piedi. — «Un gale....» — Non terminò la parola degradante, e guardò in volto ai compagni, come trasognato. In quella entrarono i servitori con fiaschi di vino, cesta di frutta e di dolci, tazze e coppe d'argento e d'oro. Vi fu un movimento nella folla. Messala si riebbe e, salito sopra una sedia: — «Uomini del Tevere» — disse con voce squillante — «aspettando il console, nostro capo, non offendiamo Bacco, nostro Dio. Chi sarà il nostro anfitrione?» — Druso si alzò. — «Chi sarà nostro anfitrione se non colui che darà la festa? Rispondete, Romani.» — Un grido unanime rispose. Messala prese la ghirlanda dal capo e la diede a Druso, il quale si arrampicò sopra il tavolo, e, in vista di tutti, la ripose sul capo di Messala, consacrandolo Re della festa. — «Mi accompagnarono» — egli disse — «alcuni amici che avevano banchettato con me questa notte. Affinchè la nostra festa proceda secondo i sacri riti, portatemi qui il più briaco fra loro.» — Un clamore di voci rispose: — «Egli è qui, egli è qui!» — E dal pavimento dov'era caduto sollevarono un giovane di così squisita ed effeminata bellezza che avrebbe potuto passare pel Dio del vino in persona, soltanto che la corona gli sarebbe scivolata dal capo ed il tirso dalle mani. — «Sollevatelo sopra il tavolo» — comandò il Re. Si constatò che non poteva stare seduto. — «Aiutalo, Druso, se vuoi che la bella Nione un giorno ti aiuti.» — Druso prese l'ebbro fra le sue braccia. Allora Messala, in mezzo ad un religioso silenzio, così parlò all'assopito: — «O Bacco! Massimo fra gli Dei, sii propizio questa notte a noi, tuoi fedeli. Per me e per i miei compagni io appenderò questa ghirlanda» — sollevandola riverentemente dal capo — «io appenderò questa ghirlanda domani al tuo altare nel Bosco di Dafne.» — Fede un inchino, riordinò la ghirlanda sulle sue tempie, poi, alzando il bossolo, scoprì i dadi, esclamando: — «Guarda, o mio Druso! Per l'asino di Sileno, il denario è mio!» — Vi fu scroscio di applausi che fece tremar la volta e gli Atlanti che la sorreggevano, e l'orgia incominciò. CAPITOLO XIII. Lo sceicco Ilderim era un personaggio di troppa importanza per viaggiare senza un seguito degno della sua condizione di capo tribù, e primo patriarca dei deserti ad ovest della Siria. Tale era la sua fama fra i figli del deserto; alle popolazioni delle città era semplicemente noto come uno dei più ricchi signori d'oriente, e ricco egli era infatti di denari e di servitù, di cammelli, cavalli, e armenti d'ogni genere, ch'egli amava sfoggiare con l'orgoglio fanciullesco del barbaro orientale. Quindi il lettore non s'inganni quando lo udirà parlare della sua tenda nell'Orto delle Palme, in verità egli vi possedeva uno splendido _dovar_, formato da tre grandi padiglioni, — uno per sè, uno per gli ospiti, uno per la moglie favorita e le sue donne, — e da una diecina di tende minori occupate dai suoi servitori e da alcuni membri della sua tribù, uomini di sperimentato coraggio, periti nel maneggio della lancia e dell'arco ed eccellenti cavalieri. A dire il vero questo apparato militare non era richiesto da alcun pericolo che corressero i suoi beni nell'Orto delle Palme, ma le abitudini dell'uomo erano tali da non poterne fare senza. Aumentava il sentimento della sua dignità e nel medesimo tempo l'accertava della sicurezza dei cammelli, cavalli e pecore pascolanti nel recinto del _dovar_. Ilderim era uno scrupoloso osservatore dei costumi del deserto e la sua vita nell'Orto delle Palme era un'esatta riproduzione di quelli delle antiche costumanze patriarcali praticate ai tempi di Israele. Quando era arrivato la mattina precedente all'Orto, aveva arrestato il suo cavallo e conficcato la sua lancia nel terreno come un generale che prenda possesso della terra conquistata, dicendo: — «Qui piantate la mia tenda. La porta verso sud; il lago davanti, così; e sotto questi alberi i figli del deserto potranno aspettare il tramonto.» — A queste parole s'era avvicinato a un gruppo di palme, accarezzando uno dei grossi tronchi come fosse il collo d'un cavallo o la guancia del suo figliuolo favorito. Chi, se non uno sceicco può di pieno diritto dire alla carovana: — «Alt! Qui piantate le tende!» — Dove la lancia era stata conficcata, fu affondato il primo pilastro del suo padiglione. Quindi altri otto pali furono piantati, formando in tutto tre file di tre pali ciascuna. Poi furono chiamate le donne e i fanciulli che scaricarono il canovaccio dai dorsi dei cammelli. Questo compito spettava alle donne. Non avevano esse tosate le brune capre del gregge? Non avevano ridotto la lana in filo, e il filo in tessuto, e unite le singole pezze fino a formare tutta la grande impermeabile copertura del tetto, di color bruno, ma che, in lontananza, sembrava nero, come le tende di Kedar? Con risa e grida gioconde, la copertura fu distesa sopra i pali, e le estremità furono assicurate con corde al suolo. E quando le pareti di vimini coperte di stoffa rossa, furono collocate al loro posto — ultima pietra usata dall'architettura del deserto — con quale muta ansietà l'intero seguito dello sceicco aspettò il giudizio del grand'uomo! Egli era entrato nella casa, l'aveva esaminata confrontandola con la direzione del sole, degli alberi e del lago, e fregandosi le mani aveva esclamato: — «Bene! Terminate il dovar come sapete, e questa sera _arrak_ e miele e carne di capretto allieteranno le nostre mense. Andate con Dio, miei figlioli, e non dimenticate i cavalli e i cammelli. Andate!» — Solo alcuni servitori erano rimasti per completare l'interno della tenda. Lungo la fila dei pali di mezzo appesero una cortina, dividendo la tenda in due appartamenti, uno sacro ad Ilderim medesimo, l'altro pei suoi cavalli, i gioielli di Salomone, che egli stesso fece entrare conducendoli per mano, liberandoli poi, dopo molti baci e carezze. Intorno al palo centrale erano ordinati dei trofei d'armi e fra le quali spiccavano lo scudo e la scimitarra del padrone, la cui lama rivaleggiava in splendore con le gemme di cui era tempestata l'impugnatura. Quando ebbero portato nella stanza ed appesi i finimenti dei cavalli e le vesti dello sceicco, questi si dichiarò soddisfatto e li licenziò. Frattanto erano tornate le donne le quali gli apprestarono il divano indispensabile alla sua dignità personale, quasi come la barba bianca e fluente che gli copriva il petto. Intorno al divano stesero tappeti che prolungarono fino all'entrata della tenda. Quindi riempirono d'acqua le brocche e appesero le otri di _arrak_ a portata di mano. Così fu eretta la tenda dello sceicco Ilderim, presso il lago d'acqua dolce nell'Orto delle Palme. Noi abbiamo lasciato Ben Hur alla porta di questa tenda. Tosto ne uscirono servitori che slacciarono i suoi sandali, e lo fecero entrare. — «Che tu sii il benvenuto. Siediti e riposa» — disse il padrone di casa con molta cordialità, e parlando il dialetto di Gerusalemme: — «Noi abbiamo un proverbio nel deserto,» — continuò Ilderim, passando le dita attraverso i peli della candida barba, il quale dice che un buon appettito è la promessa di una lunga vita. Lo conosci tu?» — — «Secondo questa norma, sceicco, io vivrò cento anni. Sono un lupo affamato» — rispose Ben Hur. — «Ebbene, non ti scacceremo come un lupo. Ti daremo il più tenero boccone del gregge.» — Ilderim battè le mani. — «Cerca lo straniero nella tenda degli ospiti, e digli che io, Ilderim, gli auguro che la sua pace sia eterna come lo scorrere delle acque.» — Il servitore si inchinò. — «Digli ancora» — continuò lo sceicco, — «che ho condotto un amico, e che se Balthasar il Saggio vuol dividere il nostro pane, esso basterà per tre, e ancora ne rimarrà per gli uccelli del bosco.» — Il servitore uscì. — «Ed ora riposiamoci.» — Ilderim si accovacciò sul divano incrociando le gambe sotto di sè; poi chiese con gravità: — «Tu sei mio ospite, e stai per assaggiare il mio sale; quindi mi perdonerai la domanda: Chi sei tu?» — — «Sceicco Ilderim,» — disse Ben Hur, sopportando con calma lo sguardo scrutatore dell'altro, — «non credere che io voglia scherzare con la tua giusta richiesta, ma dimmi, non vi fu mai un tempo nella tua vita in cui il rispondere a una simile domanda sarebbe stato per te un delitto?» — — «Per lo splendore di Salomone, sì» — rispose Ilderim. — «Il tradire se stessi è talora maggior delitto che non il tradimento della propria tribù.» — — «Io ti ringrazio buon sceicco!» — esclamò Ben Hur. — «La tua risposta mi rivela che tu cercavi di garantirti contro le pretese di un ignoto, e non già di indagare le vicende della mia povera vita.» — Lo sceicco s'inchinò e Ben Hur proseguì: — «In primo luogo io non sono Romano, come il mio nome parrebbe indicare.» — Ilderim afferrò la sua barba con ambe le mani e fissò il suo compagno con gli occhi scintillanti argutamente sotto le ciglie contratte. — «In secondo luogo» — continuò Ben Hur, — «io sono Ebreo, della tribù di Giuda.» — La sceicco alzò un poco le ciglia. — «E non basta. Sceicco, io sono un Ebreo, a cui i Romani hanno fatto un torto, a petto del quale il tuo è un dispetto da fanciulli.» — Il vecchio si tirava la barba con velocità nervosa, e gli occhi sembravano chiusi. — «Ancora: io giuro a te, Ilderim sceicco, io giuro sul Patto che Dio strinse coi miei padri, che se tu mi darai la vendetta che io cerco, l'oro e la gloria saranno interamente per te.» — Ilderim aperse gli occhi, sollevò la testa, sorrise. La soddisfazione gli si leggeva in ogni tratto del volto. — «Basta!» — egli disse. — «Se nelle parole dette dalla tua lingua si nasconde una menzogna, nemmeno Salomone la potrebbe scovare. Io credo che tu non sia Romano e che, quale Ebreo, abbia un torto da vendicare sopra i Romani, e su questo punto basta. Ma quanto alla tua destrezza? Quale esperienza hai tu nelle gare dei cocchi? E i cavalli — puoi piegarli al tuo volere, fare che essi ti conoscano, ti amino? Sai tu con una parola spingerli al galoppo, alla carriera? E poi nell'ultimo momento, dalle profondità della tua anima comunicar loro il fremito della vittoria, spronarli all'ultimo supremo sforzo? Questo dono, mio figlio, non è concesso a tutti. Per lo splendore di Dio, io conobbi un Re che dominava un milione d'uomini, e non sapeva guadagnarsi il rispetto di un cavallo. Intendimi! Io non parlo di quei bruti ottusi il cui volgar destino è di servire l'uomo come schiavi, avviliti nel sangue e nell'anima senza uno scatto e senza un'ambizione, — ma di cavalli come i miei, i Re della loro specie, il cui lignaggio rimonta agli allevamenti dei primi Faraoni; i miei amici e compagni, che dividono la mia mensa e la mia tenda, divenuti quasi umani nei loro rapporti con me; che al loro istinto hanno aggiunto la nostra intelligenza, ai loro sensi hanno compenetrato l'anima nostra, sicchè provano tutti i nostri sentimenti, ambizione, amore, odio o disprezzo; eroi in guerra, in pace fedeli e mansueti come donne. Olà!» — Un servitore si presentò. — «Fate venire i miei Arabi.» — L'uomo sollevò un lembo della cortina di divisione, esponendo un gruppo di cavalli i quali indugiarono un momento come per assicurarsi che l'invito era fatto sul serio. — «Venite!» — disse Ilderim. — «Perchè vi fermate? Tutto ciò che io posseggo non è vostro? Venite, dico!» — Essi si avvicinarono lentamente. — «Figlio d'Israele,» — disse lo sceicco, — «il tuo Mosè era un grand'uomo, ma — ah! ah! — io devo ridere quando penso ch'egli diede ai tuoi padri il bove lento e lo stolido asino, e vietò loro di possedere cavalli. Ah, ah! Credi tu che avrebbe fatto lo stesso se avesse veduto quello là, e questo — e questo?» — Così dicendo tese le mani verso i cavalli ed accarrezzò con infinito orgoglio e tenerezza la testa del più vicino. — «Non è vero, sceicco, non è vero!» — esclamò Ben Hur con calore. — «Oltre ad essere un legislatore amato da Dio, Mosè era un guerriero; e come avrebbe potuto sprezzare simili animali?» — Una testa meravigliosamente tornita, con occhi grandi, dolci come quelli di un cervo e quasi celati da un denso ciuffo, con orecchie piccole e appuntite, si avvicinò a Ben Hur allargando le narici e muovendo il labbro superiore. — «Chi sei tu?» — parve chiedere, come se avesse avuto il dono della parola. Ben Hur riconobbe uno dei quattro corridori che aveva veduti aggiogati al cocchio dello sceicco, e gli tese il palmo della mano. — «Vi diranno, i calunniatori! — siano brevi i loro giorni!» — esclamò lo sceicco, quasi rigettasse un affronto personale. — «Vi diranno, dico, che i nostri migliori cavalli vengono dai pascoli Nesei, nella Persia.» — È falso! Iddio diede al primo Arabo una smisurata distesa di sabbia, alcune montagne senz'alberi, e qua e là un amara fontana, e gli disse: — «Ecco il tuo paese!» — E quando il pover'uomo si lamentò, l'Onnipotente sentì pietà di lui e gli disse ancora: — «Rallegrati! Io ti benedirò e ti esalterò sopra tutti gli altri uomini.» — L'arabo udì, e ringraziando, si mise in traccia della benedizione. Dapprima esplorò i confini della sua terra, e non trovò nulla. Poi percorse la via del deserto, e camminò, camminò, finchè nel mezzo di esso vide un isola verdeggiante e bellissima; e, nel cuore dell'isola, ecco pascolare una mandra di cammelli, ed eccone un'altra di cavalli! Con gioia li accolse e li tenne cari — essi erano i doni di Dio. E da quell'isola verde uscirono tutti i cavalli del mondo, ad oriente fino ai prati Nesei, a settentrione fino alle terre flagellate dai venti gelati. Non dubitare del mio racconto, se vuoi che un Arabo presti fede a te. Ora ti mostrerò le prove.» — Battè le mani. — «Portami gli annali della tribù,» — ordinò a un servitore. Mentre aspettava, lo sceicco scherzava coi cavalli, passando le sue dita attraverso le loro criniere, palpando e accarezzandone il collo e la fronte. Di lì a poco comparvero sei uomini trascinando alcune casse di cedro rinforzate da spranghe di ferro. — «No» — disse Ilderim, quando furono deposte per terra. — «Non fa bisogno di tutte, solo dei registri dei cavalli — aprite quella lì, e riportate indietro le altre.» — La cassa fu aperta, rivelando una serie di tavolette d'avorio, infilate in anelli d'argento; e siccome lo spessore delle tavolette era come quello d'un ostia, ogni anello ne contava centinaia. — «Io so,» — disse Ilderim, prendendo in mano gli anelli. — «Io so con quanta cura e zelo, mio figlio, i sacerdoti del Tempio della tua città tengono nota di ogni neonato della tua nazione, cosicchè ogni figlio d'Israele può seguire l'ordine dei suoi maggiori sino ai tempi dei patriarchi. I miei padri — la loro memoria sia florida in eterno, — non credettero peccaminoso di applicare quell'idea anche ai loro muti servitori, guarda!» — Ben Hur prese gli anelli, e separando le tavolette, vide che portavano l'impronta di rozzi geroglifici arabi, disegnati nell'avorio con la punta di un ferro rovente. — «Puoi leggerli, figlio d'Israele?» — — «No, spiegami il loro significato.» — — «Sappi dunque che ogni tavola ricorda il nome di un cavallo puro sangue, nato nei secoli passati sotto le tende dei miei padri, insieme al nome dello stallone e della madre. Osserva la loro età.» — Alcune delle tabelle erano quasi consumate, e la scrittura invisibile. Tutte erano gialle per gli anni. — «In quella cassa io ho tutta la storia documentata di quella razza di cui questi cavalli sono i discendenti; e come questi cerca ora la tua attenzione e le tue carezze, così i suoi padri, secoli e secoli addietro vennero nelle tende dei padri miei a ricevere dalle loro mani la misura d'avena, e i baci dalle loro labbra. Ed ora, o figlio d'Israele, mi crederai, quando dichiaro, che, come io sono il Re del deserto, questi sono i miei ministri! Toglimi quelli, ed io sono come l'ammalato che la carovana lascia dietro di sè a morire nel deserto. Per la spada di Salomone, io potrei narrarti meraviglie compiute da questi cavalli sulla patria arena; — ma ora, attaccati al cocchio, — aggiogati per la prima volta — non so perchè, ma ho paura; il successo mi sembra così difficile, che io ti giuro che il giorno nel quale tu ti presentassi a me, se vincerai, sarà il più felice della tua vita. Ed ora parliamo di te.» — — «Io comprendo ora» — disse Ben Hur — «perchè l'Arabo ama i suoi cavalli come i suoi figli; e so pure perchè i cavalli arabi sono i primi del mondo; ma, buon sceicco, io vorrei che tu mi giudicassi non dalle parole soltanto, ma dai fatti. Le promesse sono talora fallaci; lascia ch'io provi i tuoi cavalli sopra una pianura vicina.» — Il viso di Ilderim raggiò di gioia, e aprì la bocca per parlare. — «Attendi, buon sceicco, attendi!» — disse Ben Hur. — «Lascia ch'io continui. Dai maestri di Roma io appresi molte cose, non pensando che verrebbe un tempo in cui io ne approfitterei contro di essi. Io ti dico che questi figli del deserto, quand'anche abbiano ciascuno da sè la velocità di aquile e la resistenza del leone, non faranno nulla se non sono abituati a correre insieme sotto il giogo. Perchè rifletti, o sceicco, che dei quattro, uno è il più rapido, uno il più tardo, e mentre la velocità della corsa è determinata da questo, i maggiori imbrogli sono dati dal primo. Così avvenne oggi; l'auriga non potè farli procedere in armonia. Il mio tentativo potrà avere lo stesso risultato, ma se è così, tu stesso lo vedrai. Se invece mi riesce di far correre i quattro come un solo cavallo, docili alla mia volontà, ti giuro che tu avrai i tuoi sesterzii e la corona: io la mia vendetta. Che ne dici?» — Ilderim ascoltò, lisciandosi la barba. Poi disse ridendo: — «Io ti credo, figlio di Israele. Noi abbiamo un proverbio del deserto che dice: Se vorrai condire la cena con parole, io ti prometto un oceano di burro. Domani proverai i cavalli.» — In questo momento si udirono dei passi fuori dalla tenda. — «La cena — eccola! Ed ecco pure il mio amico Balthasar, che ti farò conoscere. Egli sa raccontare una storia che un Israelita non si stancherà mai d'ascoltare.» — E ai servitori disse: — «Portate via i registri e riconduci i miei gioielli nel loro appartamento.» — Gli ordini furono eseguiti. CAPITOLO XIV. Se il lettore vorrà ricorrere col pensiero alla cena dei tre saggi al loro primo incontro nel deserto, potrà farsi un'idea del pasto che si preparava sotto alla tenda di Ilderim. La differenza consisteva più nella perfezione del servizio che nella qualità dei cibi. Tre coperte vennero distese sopra il tappeto in prossimità del divano; vicino a questo fu collocato un tavolo alto non più di un piede, coperto da una tovaglia. In un angolo della tenda v'era un forno portatile, sotto la cura di una ancella che attendeva a rifornire gli ospiti di pane fresco, o piuttosto di una specie di focaccia calda che teneva luogo di quello. Frattanto Balthasar fu condotto al divano dove Ben Hur ed Ilderim lo ricevettero in piedi. Un ampio mantello nero avvolgeva il magro suo corpo; il passo era debole, ogni movimento cauto e lento. Un bastone lo sorreggeva da un lato, un servitore dall'altro. — «Pace sia con te» — disse Ilderim rispettosamente. — «Pace e salute.» — L'Egiziano alzò la testa: — «Ed a te, buon sceicco ed ai tuoi, la pace e la benedizione dell'unico Dio.» — Il modo era cortese e devoto, e fece una profonda impressione su Ben Hur. Inoltre la benedizione era stata in parte rivolta a lui, e mentre parlava il vecchio, lo fissava coi grandi occhi luminosi, destandogli in petto un'emozione nuova e misteriosa. Più volte nel corso della cena Ben Hur guardò furtivamente quel volto scarno e rugoso, e sempre vi scorse un'espressione blanda, placida, fiduciosa come quella di un bambino. — «Questo giovine, o Balthasar» — disse Ilderim, ponendo la mano sul braccio di Ben Hur, spezzerà oggi il suo pane con noi.» — L'Egiziano guardò nuovamente il giovine ed un'espressione di dubbio e di sorpresa apparve sopra il suo volto. Lo sceicco spiegò: — «Io ho promesso di dargli in prova i miei cavalli domani; e se tutto va bene egli li guiderà nelle corse del Circo.» — Balthasar continuava ad osservarlo. — «Egli mi è stato ben raccomandato,» — continuò Ilderim, imbarazzato da quell'esame. — «Sappi ch'egli è figlio di Arrio, illustre ammiraglio romano, quantunque,» — lo sceicco esitò, poi rise — «egli si dichiari Israelita della tribù di Giuda; e, per lo splendore di Dio, io gli credo.» — Balthasar non potè trattenere più oltre la spiegazione. — «Oggi, o generoso sceicco, la mia vita corse pericolo, e sarebbe stata perduta, se un giovine, in tutto rassomigliante a questo, non fosse intervenuto, e mentre gli altri fuggivano, non mi avesse salvato.» — Poi indirizzandosi direttamente a Ben Hur — «Non fosti tu?» — — «Io non posso affermarlo in questi termini» — rispose modestamente Ben Hur. — «Io ho fermato semplicemente i cavalli dell'insolente Romano quando correvano addosso al tuo cammello presso la Fontana di Castalia. Tua figlia mi lasciò una coppa d'argento.» — Dal seno della sua tunica estrasse la coppa e la porse a Balthasar. Il volto dell'Egiziano si illuminò. — «Iddio ti ha mandato in mio aiuto oggi presso la fontana» — egli disse con voce tremante, tendendo la mano a Ben Hur, — «ed ora ti manda nuovamente a me. Io lo ringrazio, e ringrazialo tu pure, perchè il favore di cui Egli mi colma mi permette di darti una larga ricompensa. — La coppa è tua, tienila.» — Ben Hur riprese il dono, e Balthasar, leggendo un'interrogazione sul viso dello sceicco, raccontò quanto era accaduto alla fontana. — «Perchè non me ne hai fatto parola?» — disse Ilderim a Ben Hur. — «Non avresti potuto trovare una migliore raccomandazione. Non sono io Arabo e sceicco della mia tribù? E non mi è un'ospite sacro, e la sua protezione non è mio dovere? Ciò che tu hai fatto per lui, hai fatto per me, e da me deve venire la ricompensa.» — La sua voce s'era fatta acuta e stridula per l'emozione. — «Perdonami, buon sceicco, ti prego. Io non cerco ricompensa di sorta. Il servizio ch'io resi a quest'uomo eccellente, avrei reso al tuo più umile schiavo.» — — «Ma egli è mio amico e mio ospite, non mio servo; non disprezzar la fortuna.» — Poi volgendosi a Balthasar: — «Ah, per lo splendore di Dio, ti ripeto: egli non è Romano.» — Poi si allontanò per sorvegliare i domestici che avevano quasi terminati i preparativi della cena. L'Egiziano fece un passo verso Ben Hur e gli parlò con la sua blanda voce infantile: — «Come disse lo sceicco che io debbo chiamarti? Hai un nome Romano se non erro.» — — «Arrio, figlio di Arrio.» — — «Ma tu non sei Romano.» — — «Tutta la mia famiglia fu Ebrea.» — — «Fu, dici? Non sono essi in vita?» — La domanda era indagatrice nella sua semplicità; ma Ilderim risparmiò a Ben Hur la risposta. — «Venite» — disse — «la cena è pronta.» — Ben Hur offrì il braccio a Balthasar, e lo condusse vicino al tavolo, intorno al quale i tre si sedettero, incrociando le gambe alla foggia orientale. I servitori portarono ciotole piene d'acqua, e quando tutti si furono lavate le mani, a un cenno dello sceicco si fece profondo silenzio, e la voce dell'Egiziano sorse tremula e solenne: — «Padre di tutti, Dio! Ciò che possediamo è tuo; accetta i nostri ringraziamenti, e concedici la tua benedizione, affinchè possiamo continuare a fare la tua volontà.» — Era la preghiera che il buon uomo aveva innalzata al cielo con Gaspare il Greco, e Melchiorre, l'Indiano, sotto la tenda del deserto. Le medesime parole dette contemporaneamente in tre lingue diverse avevano attestato il miracolo della presenza Divina. La cena a cui ora rivolsero la loro attenzione era ricca di tutti i prelibati cibi d'Oriente: focaccie fresche uscite dal forno, legumi, carni semplici e pasticci, latte, miele e burro: tutto questo senza l'apparato moderno di piatti, forchette, coltelli e cucchiai. Durante il pasto si parlò poco. Ma quando furono nuovamente portate le ciotole per lavarsi le mani e incominciò la seconda parte del pasto, il _dessert_, gli animi si disposero ad ascoltare e parlare. In una tale compagnia — un Arabo, un Ebreo, un Egiziano, tutte e tre credenti in un unico Dio — non vi poteva essere in quell'epoca che un solo tema di conversazione; e dei tre, chi doveva essere l'oratore se non colui al quale la Divinità si era rivelata? di che cosa doveva parlare se non di quanto egli era stato chiamato a testimoniare? CAPITOLO XV. Il sole tramontava dietro le montagne che proiettavano le loro ombre gigantesche sopra l'Orto delle Palme, e al brevissimo crepuscolo successe rapidamente l'oscurità della morte. I domestici portarono nella tenda quattro candelieri di bronzo e li posero sul tavolo, uno per ciascun angolo. Ogni candeliere aveva quattro braccia, e da ciascun braccio scendeva una piccola lampada d'argento. La luce brillante illuminava il gruppo che continuò la conversazione iniziata parlando in dialetto siriaco, famigliare alle popolazioni d'Oriente. L'Egiziano raccontò la storia dell'incontro dei tre nel deserto, e convenne con lo sceicco che fu in dicembre, ventisette anni fa, quand'egli e i suoi compagni, fuggendo da Erode, chiesero ospitalità alla sua tenda. Il racconto fu ascoltato con intenso interessamento; gli stessi domestici, indugiavano più che potevano per afferrare ogni dettaglio. Ben Hur lo accolse come si conveniva ad un uomo che udiva una rivelazione di grande importanza per tutta l'umanità e specialmente pel popolo d'Israele. Nella sua mente, come vedremo, andava formandosi un'idea che doveva mutare tutta la corrente della sua vita, ed assorbire tutte quante le sue forze. Le parole di Balthasar fecero una profonda impressione nel giovine Ebreo, il quale non dubitò per un istante della verità di quanto aveva udito. Per lo sceicco Ilderim la storia non era nuova. L'aveva udita raccontare dai tre sapienti in circostanze che non permettevano il dubbio. Vi aveva creduto ed aveva scampato i fuggiaschi dall'ira d'Erode. Oggi uno dei tre sedeva nuovamente, ospite riverito, al suo desco, e le sue labbra ripetevano la medesima narrazione. Ma nella mente di Ilderim quei fatti non avevano l'importanza con cui apparivano a Ben Hur. Egli era un Arabo, e l'interessamento suo non poteva che essere d'ordine generale; Ben Hur invece era Ebreo. Fin dalla culla egli aveva inteso parlare del Messia; gli studi nel Collegio lo avevano reso famigliare con tutto ciò che riguardava l'Essere, che formava insieme la speranza, il timore e la gloria speciale del popolo eletto; i profeti lo avevano annunziato; e il suo avvento formava il tema di interminabili disquisizioni da parte dei Rabbi; nelle sinagoghe, nelle scuole, nel Tempio, nei giorni di festa e di digiuno, in pubblico ed in privato, i dottori lo predicavano, finchè tutti i figli d'Abramo, qualunque fosse la loro condizione, vivevano in aspettazione del Messia, e spesso con ferrea severità disciplinavano la loro vita in conformità a quell'evento. Certamente v'erano molti dubbi ed incertezze e grandi controversie fra gli Ebrei medesimi circa il Messia, ma le controversie vertevano sopra un solo punto: quando sarebbe venuto? Unanime poi era la persuasione fra il popolo eletto, che, qualunque fosse l'ora della sua venuta, egli sarebbe stato il _Re degli Ebrei_, il loro Re politico, il loro Cesare. Egli avrebbe guidate le loro armi alla conquista della terra, e pel bene loro e in nome di Dio, vi avrebbe dominato in eterno. Su questa credenza, i Farisei o Separatisti — questa parola aveva un senso più politico che religioso — fantasticavano negli anditi e intorno agli altari del Tempio, e vi avevano costruito sopra un edificio di speranze più colossali dei sogni del Macedone. Quelli non abbracciavano che la terra; il loro edificio copriva la terra e toccava coi suoi pinnacoli il cielo. Nella audace, sfrenata fantasia di quell'empio egoismo, Iddio onnipotente doveva essere un semplice strumento per l'espandersi vittorioso del nome Giudeo. Ritornando a Ben Hur, dobbiamo osservare che due circostanze della sua vita lo avevano tenuto relativamente immune dagli effetti di questa audace religione predicata dai suoi compaesani Separatisti. In primo luogo suo padre apparteneva alla setta dei Sadducei, che si potrebbero chiamare i Liberali del loro tempo. Essi rispettavano rigorosamente i libri della legge tramandati da Mosè, ma tenevano in alto disprezzo le aggiunte e i commenti della scienza Rabbinica. Quantunque formassero una setta, la loro religione era più una dottrina filosofica che non una fede; non fuggivano i piaceri della vita e sapevano ammirare le bellezze artistiche e letterarie delle razze pagane. In politica erano gli avversari più tenaci dei Separatisti. Questi principî paterni erano discesi nel figlio, quantunque la catastrofe che lo aveva raggiunto in giovine età, avesse impedito la loro consolidazione. Ma qui si fece sentire la seconda delle influenze a cui abbiamo fatto allusione. Cinque anni di soggiorno in Roma avevano lasciato una profonda impressione nell'animo di Ben Hur. Roma era allora all'apogeo della sua gloria se non della sua potenza, il ritrovo politico e commerciale di tutte le nazioni. Intorno all'aurea pietra miliare del Foro — oggi così deserto — si incontravano tutte le correnti dell'attività umana. Le raffinatezze sociali, le opere dell'ingegno, la gloria delle imprese militari e civili non avrebbero potuto lasciare indifferente il figlio di Arrio, che, dalla sua magnifica villa di Miseno, passava nel palazzo di Cesare, in mezzo alla folla di Re, principi, ambasciatori, ostaggi, delegati, clienti, convenuti da ogni parte del mondo, ed aspettanti ansiosi la risposta di un uomo. Certo, le feste di Pasqua raccoglievano a Gerusalemme assemblee non meno splendide e non meno numerose; ma quando egli sedeva sotto il purpureo velario del Circo Massimo, uno dei trecentocinquantamila spettatori, era impossibile che non gli balenasse il pensiero che, forse, nella grande famiglia umana esistevano dei rami non meno degni, per le loro sofferenze e per la loro pazienza nel sopportarle, d'esser fatti segno della pietà divina e di dividere col piccolo popolo d'Israele la gloria promessa. Ma se questo pensiero gli era venuto, egli non poteva certo dimenticare un'importante considerazione. La miseria delle masse, l'abbiettezza del loro stato, non avevano alcuna relazione con la religione; i loro lamenti non derivavano certo da mancanza di Dei. Nei querceti della Britannia predicavano i Druidi; Odino e Freia tenevano inconcusso dominio nelle Gallie e in Germania; l'Egitto si accontentava dei suoi coccodrilli e dei suoi gatti; i Persiani erano devoti ad Ormuzd e Arimane, tenendoli in pari onore; la speranza del Nirvana sorreggeva ancora l'Indiano sopra l'arido cammino di Brama; la bellissima anima Greca quando non disputava di filosofia, cantava gli Dei e gli eroi d'Omero; mentre, in Roma, nulla era più comune o a miglior mercato degli Dei. Secondo il capriccio dei momento questi padroni del mondo portavano la loro adorazione e i loro sacrifici ora a questo ora a quell'altare, rallegrandosi e deridendo il caos che avevano creato. Dopo aver usurpate tutte le divinità del mondo, deificavano i loro Cesari, davan loro altari e sacerdoti. No, la infelicità dei tempi non era cagionata dalla religione, ma dal mal governo, dalle infinite angherie e delle usurpazioni dei tiranni. Il baratro acheronteo in cui gli uomini erano caduti e da cui imploravano un uomo liberatore, derivava da cause politiche soltanto. La preghiera, uguale dappertutto, a Londra, al Alessandria, ad Atene, a Gerusalemme, era per un Re liberatore e vittorioso, non per un Dio da adorarsi. Studiando quell'epoca dopo il lasso di duemil'anni, noi vediamo e riconosciamo che, solo sul terreno religioso, solo per l'avvento del vero Dio potevano diradarsi le tenebre e la confusione di quell'età, ma gli uomini d'allora, anche le menti più acute e serene, non scorgevano altra salvezza fuorchè nella rovina, nell'umiliazione di Roma; con la caduta del tiranno tutto sarebbe mutato; da ciò le preghiere, le congiure, le rivolte, i sacrifici, le morti, le lacrime ed il sangue invano prodigati. Ben Hur conveniva perfettamente con l'opinione prevalente fra i suoi contemporanei non Romani. I cinque anni trascorsi nella metropoli gli avevano offerto modo di studiare da vicino le sventure degli oppressi, e lo avevano persuaso che i mali che affliggevano il mondo erano essenzialmente d'ordine politico e potevano essere guariti soltanto con la spada. Con questo intento, per potere un giorno applicare al mondo questo rimedio eroico, era venuto in Oriente. Nelle palestre di Roma s'era reso famigliare con l'uso delle armi; ma l'arte della guerra ha bisogno di altre scuole, dove l'intelligenza si acuisce e si addestra non meno del corpo. Il compito del duce, il più arduo di tutti, non poteva essere studiato che sui campi di battaglia. Questo disegno inoltre abbracciava anche i minori propositi di vendetta ch'egli covava. Egli pensava, e non senza ragione, che i suoi torti individuali sarebbero più sicuramente vendicati in guerra che in pace. I sentimenti coi quali ascoltò la narrazione di Balthasar potranno ora essere facilmente intesi. Il racconto toccava i tasti più sensibili dell'animo suo. Il suo cuore palpitò; una gioia profonda, quasi feroce lo prese pensando che quel fanciullo così meravigliosamente trovato era il Messia. Pieno di stupore che Israele fosse restato così indifferente davanti alla rivelazione di un tanto evento e ch'egli medesimo non ne avesse udito parlare prima d'allora, due domande gli si presentarono, nelle quali si concentrava per il momento tutta l'importanza del fatto: Dove era il fanciullo? Qual'era la sua missione? Ben Hur si rivolse a Balthasar. CAPITOLO XVI. — «Oh se io potessi rispondervi!» — disse Balthasar col suo fare semplice e devoto. — «E se io sapessi dov'egli si trova come volontieri lo raggiungerei! Nè mari nè montagne mi saprebbero dividere da lui!» — — «Avete dunque tentato di trovarlo?» — chiese Ben Hur. Un sorriso fugace illuminò il volto dell'Egiziano. — «Il primo compito al quale attesi dopo aver lasciato il rifugio del deserto.» — Balthasar rivolse uno sguardo pieno di gratitudine ad Ilderim — «fu di sapere ciò che era avvenuto del fanciullo. Ma un anno era passato a pena, ed io non ardiva recarmi nuovamente in Giudea, perchè Erode il sanguinario vi regnava tuttora. In Egitto, al mio ritorno, raccontai la storia del miracolo ad alcuni amici, i quali vi credettero e non si stancarono mai di udirla ripetere. Questi andarono per mio conto in traccia del fanciullo. Prima si portarono a Betlemme e trovarono il Khan e la caverna; ma il custode, — che sedeva accanto al cancello la notte in cui apparì la stella, — era sparito. Il Re lo aveva mandato a chiamare ed egli non era più stato veduto.» — — «Ma trovarono qualche prova, certamente,» — disse Ben Hur. — «Sì, prove scritte nel sangue — un villaggio in lutto; madri che piangevano i loro bambini. Voi dovete sapere che quando Erode ebbe certezza della nostra fuga, ordinò ai soldati di uccidere i più giovani fra i fanciulli di Betlemme. Non uno scampò. I miei messaggeri tornarono credenti più di prima, ma annunziandomi che il Bambino era morto, ucciso con gli altri innocenti.» — — «Morto!» — esclamò Ben Hur, atterrito. — «Hai detto morto?» — — «No, mio figlio, non ho detto così. Io ho detto che i miei messaggeri, mi riportarono che il Bambino era morto. Io non vi prestai fede allora; io non vi credo ora.» — — «Comprendo. Hai avuto qualche notizia posteriore.» — — «No,» — disse Balthasar, abbassando gli occhi. — «Lo Spirito non doveva guidarci che fino al fanciullo. Quando uscimmo dalla caverna, dopo aver veduto il neonato e depositato ai suoi piedi i nostri regali, cercammo subito la stella, ma era sparita. L'ultima ispirazione dell'Altissimo, di cui mi ricordo, fu quella che ci mandò ad Ilderim, per cercare la salvezza.» — — «Sì,» — disse lo sceicco, lisciandosi nervosamente la barba: — «Voi mi diceste che uno Spirito vi mandava a me. Mi ricordo.» — — «Io non ho avuta alcuna notizia posteriore» — continuò l'Egiziano, osservando lo scoraggiamento di Ben Hur; — «ma, figlio mio, ho riflettuto molto sulla cosa, e la mia fede nella sua esistenza è così ferma oggi come lo fu nell'ora in cui lo Spirito mi chiamò sulle sponde del lago. Se volete ascoltarmi, vi dirò perchè credo che il Bambino sia in vita.» — Ilderim e Ben Hur chinarono il capo in atto di assenso, e chiamarono a raccolta tutte le forze dell'intelletto per intendere. Anche i domestici furono presi dalla medesima curiosità e si avvicinarono trepidanti al divano. Un silenzio profondo regnava nella tenda. — «Noi tre crediamo in Dio.» — Balthasar chinò il capo dicendo queste parole: — «Ed egli è la Verità» — continuò. — «I monti potranno crollare nella polvere, i mari potranno disseccarsi; ma la sua parola sarà, perchè essa è la verità.» — Il tono della sua voce era oltremodo solenne e il suo dire conciso. La sua voce che mi parlò sulla sponda del lago, disse: — «Benedetto sei tu, figlio di Mizraim! La Redenzione verrà. Con due altre persone provenienti da diverse parti del mondo, tu vedrai il Salvatore.» — Io ho veduto il Salvatore, ma la prima parte della promessa non si è ancora avverata. Comprendi ora? Se il Bambino è morto, la Redenzione non può avvenire, la promessa è vana, e Dio... no, io non oso pensarlo!» — Sollevò le mani raccapricciando. — «La Redenzione è il compito per cui nacque il Bambino; e finchè dura la promessa nemmeno la morte può frapporsi e dividerlo dal suo lavoro, finchè non è terminato. Questa è la ragione della mia fede.» — Il buon uomo fece una pausa. — «Non vuoi bere? Il vino è qui, guarda,» — disse Ilderim rispettosamente. Balthasar accostò le labbra alla coppa, poi continuò. — «Il Salvatore, ch'io vidi era nato dal grembo di una donna, ed era soggetto come noi a tutte le malattie della carne, anche alla morte. Considera ora il compito che lo attendeva: non è questa un'opera che richiede un uomo, un uomo nel pieno vigore delle sue forze, saggio, fermo, discreto? Per diventar tale Egli, doveva crescere come cresciamo noi. Rifletti quanti pericoli correva l'intervallo fra la sua infanzia e la sua maturità: Erode gli era nemico; non meno nemica gli sarebbe stata Roma; e quanto ad Israele, l'affetto, e la fede del popolo in lui, sarebbe stata una ragione di più perchè i tiranni lo avessero ad uccidere. Tu vedi dunque, che il miglior mezzo per proteggere i deboli anni della sua adolescenza si era quello di tenerlo celato nell'oscurità. Quindi io dico a me ed alla mia fede ch'Egli non è morto, ma solo perduto, e ch'Egli verrà ancora, perchè il suo compito lo richiede. Queste sono le mie ragioni. Non sono esse buone?» — I piccoli occhi neri di Ilderim scintillarono d'intelligenza, e Ben Hur, sollevato dal suo abbattimento, disse con fermezza e cordialità: — «Io almeno non le combatterò. Continua, ti prego.» — — «Bene,» — continuò in tono più calmo l'Egiziano, — «vedendo che il Bambino viveva e che era la manifesta volontà di Dio che Egli fosse ritrovato, mi armai di pazienza, ed attesi. Io aspetto ancor oggi. Egli vive, celando in sè il suo grande segreto. Che mi importa se io non posso andare a Lui, o ignoro la valle e la parte del mondo ove dimora? Egli vive; come credo nella promessa di Dio e nell'esistenza dell'Altissimo: Egli vive.» — Un fremito scosse Ben Hur. Le ultime traccie di dubbio erano svanite. — «Dove credi tu ch'egli si trovi?» — chiese a voce bassa ed esitando, come chi sente sulle sue labbra l'oppressione di un sacro silenzio. Balthasar lo guardò con bontà, e rispose — «Alcuni giorni or sono io sedeva nella mia casa sulle sponde del Nilo, e pensava. Un uomo di trent'anni, — dissi a me stesso — dovrebbe già avere arato il suo campo e piantati i suoi semi; altrimenti il tempo della maturanza o del raccolto è troppo breve. Il fanciullo ha ora ventisette anni, — il tempo di operare deve esser vicino per lui. Io mi feci la medesima domanda, o mio figlio, e venni a questo luogo, quale tappa opportuna per recarmi alla terra dei tuoi padri. Dove, infatti, dovrebbe egli apparire se non nella Giudea e in quale città se non in Gerusalemme? Quali saranno i primi a ricevere le benedizioni che egli porta, se non i figli di Abramo, Isacco e Giacobbe? i diletti del Signore? Se io dovessi cercarlo, frugherei nei villaggi e nelle capanne sulle falde dei monti di Giudea e Galilea, che prospettano ad Oriente la valle del Giordano. Egli è là in questo momento. Fermo sulla soglia di una porta o sopra il vertice di una collina, egli ha veduto questa sera scendere il sole dietro le montagne; un altro giorno è passato, e si avvicina il tempo in cui egli medesimo sarà la luce del mondo.» — Balthasar tacque, con la mano alzata e il dito teso in direzione della Giudea. Tutti i suoi uditori, anche i servi intorno al divano, furono tocchi dal suo fervore, e trasalirono come se una maestosa figura fosse improvvisamente apparsa nella tenda. Per lungo tempo la sensazione rimase; i tre, seduti intorno al tavolo, stavano muti e pensierosi. Finalmente Ben Hur ruppe il silenzio: — «O Balthasar,» — egli disse, — «io vedo che tu sei stato singolarmente favorito. Io vedo ancora che tu sei davvero un uomo saggio. Non è nelle mie forze poterti esprimere la riconoscenza che ti porto per tutto quanto mi hai detto. Tu mi hai avvertito dell'appressarsi di un grande avvenimento; hai trasfusa la tua fede nel mio petto. Completa l'opera, ti prego, e palarmi della missione di Colui che aspetti, cosicchè possa anch'io d'ora innanzi aspettare con la fede e la pazienza di un figlio di Israele. Tu dicesti che Egli sarà un Salvatore; non dovrà essere anche Re degli Ebrei?» — — «Figliuol mio,» — disse Balthasar, col suo fare benigno, — «la Sua missione è ancora in grembo a Dio. Tutto ciò che io ne penso l'ho dedotto da quanto mi disse la voce in risposta alla mia preghiera. Devo ripeterti ciò che mi disse?» — — «Siimi Maestro.» — — «La ragione che mi spinse a predicare in Alessandria e nei villaggi del Nilo, che mi cacciò nella solitudine donde mi trasse lo spirito, fu la misera condizione in cui erano caduti gli uomini per aver smarrito, io credo, la retta conoscenza di Dio. Io m'accorai dei dolori dei miei simili — non di una classe, ma di tutti. In così basso luogo erano caduti che non mi pareva esistesse salvezza per loro se Dio stesso non tendesse loro la mano, e io pregai ch'egli venisse, e ch'io potessi vederlo. — «Le tue buone opere hanno vinto. La Redenzione verrà; tu vedrai il Salvatore.» — Così disse la Voce, e con essa che mi risuonava nelle orecchie, andai a Gerusalemme. E per chi dev'essere la Redenzione? Per tutto il mondo! E in che modo si manifesterà? Fortifica il tuo spirito, mio figlio! Io so che gli uomini credono che non vi sarà gioia sulla terra finchè Roma non sarà rasa dai suoi colli; che cioè i mali che ci affliggono non derivano, come io credo, dall'ignorare il Vero Dio, ma dal malgoverno dei principi. Ma non sappiamo noi che tutti i governi sono sempre cattivi, sprezzatori di Dio e della religione? Quanti Re conosci i quali furono miglior dei loro sudditi? Ah no! La Redenzione non può avvenire con intenti politici, per abbattere governanti e potenze, gettare statue da piedestalli che saranno tosto occupati da altre! Se fosse così la sapienza di Dio non sarebbe più miracolosa e insuperscrutabile. Io vi dico, quantunque io sia un cieco che parla a ciechi, che la Redenzione significa la venuta di Dio sulla terra, per migliorare e riscattare le anime di tutti.» — La disillusione era scolpita Sul volto di Ben Hur — il suo capo si chinò, ma, quantunque non fosse convinto, non si trovò capace di combattere l'opinione dell'Egiziano. Per Ilderim fu un'altra cosa. — «Per lo splendore di Dio!» — egli gridò impulsivamente, — «Il cammino del mondo è prestabilito, e non può essere mutato. In ogni comunione di individui vi deve essere un capo visibile, rivestito di piena autorità, altrimenti ogni riforma è vana.» — Balthasar rispose con gravità. — «La tua sapienza, buon sceicco, è mondana; e tu dimentichi che appunto dagli errori del mondo noi dobbiamo essere redenti. L'uomo, quale soggetto, obbedisca ai suoi Re; ma l'anima e la salvezza sua appartengono a Dio.» — Ilderim, tacque, e scosse il capo. Ben Hur continuò per lui. — «Padre, se così ti posso chiamare» — egli disse. — «Di chi chiedesti alle porte di Gerusalemme?» — Lo sceicco gli rivolse uno sguardo riconoscente. — «Mi fu ordinato di domandare al popolo,» — disse Balthasar tranquillamente — «dove è quegli che è nato Re degli Ebrei?» — — «E tu lo vedesti nella caverna presso Betlemme?» — — «Lo vedemmo, lo adorammo, e ciascuno di noi gli diede regali, Melchiorre, oro; Gaspare, incenso; ed io, mirra.» — — «Quando tu parli di fatti, o padre, intenderti e credere sono una cosa sola» — disse Ben Hur, — «ma quanto ad opinioni, io non posso capire che sorta di Re tu vorresti far diventare il Bambino; io non posso separare un principe dai suoi doveri e dalla sua autorità.» — — «Mio figlio» — disse Balthasar — «noi vediamo meglio le cose piccole e vicine che non le grandi e lontane. Tu non guardi che al titolo — _Re degli Ebrei_; se alzerai gli occhi e guarderai oltre il mistero, l'ostacolo sparirà. Una parola riguardo al titolo. Il tuo Israele ha visto giorni più felici, giorni in cui Dio chiamò la tua gente suo popolo, e parlò con esso per bocca dei profeti. In quei giorni egli promise il Salvatore che io vidi, chiamandolo _Re degli Ebrei_; l'apparenza deve concordare con la promessa, se non altro per amore della parola. Perciò chiesi di lui sotto questo nome alla porta di Gerusalemme. Ma passiamo oltre. Forse pensi alla dignità del fanciullo; se è così rifletti, che è poco gloria essere il successore d'Erode. Iddio può far meglio per i suoi diletti: se il Padre Onnipotente avesse avuto bisogno di un titolo e si fosse chinato a raccoglierlo fra le vanità degli uomini, oh perchè non scelse la corona di Cesare, e perchè non mi impose di cercare il Redentore sotto quel nome? Pensa piuttosto alla sostanza, o mio figlio, e chiediti di che cosa sarà Re colui che aspettiamo. Questa è la chiave del mistero.» — Balthasar sollevò devotamente gli occhi al cielo. — «Vi è un regno sulla terra, ma che non è della terra, — un regno che trascende i confini del mondo. La sua esistenza è un fatto, che, invisibile a noi ci circonda dalla culla alla morte. Nessun uomo lo vedrà prima ch'egli abbia conosciuto la propria anima, perchè quel regno non è per lui ma per la sua anima. Davanti alla gloria di quel regno i più grandi imperi del mondo sono tenebre e silenzio.» — — «Ciò che tu dici, padre» — disse Ben Hur — «è un enigma per me. Io non intesi mai parlare di un simile regno.» — — «Neppur io» — disse Ilderim. — «Io non posso spiegarmi più oltre,» — soggiunse Balthasar, abbassando umilmente gli occhi. — «Ciò che esso sia, e come ci si possa arrivare, nessuno saprà prima che il Bambino ne abbia preso possesso. Egli reca la chiave dell'invisibile porta, ed egli la schiuderà per gli eletti, che lo avranno amato, e questi soli saranno i redenti.» — Dopo queste parole vi fu un lungo silenzio, che Balthasar interpretò come la fine della conversazione. — «Buon sceicco,» — egli disse, colla sua voce tranquilla, — «domani, o dopo domani io andrò in città per qualche tempo. Mia figlia desidera di vedere i preparativi dei giuochi. In quanto a te, mio figlio, ti vedrò ancora. A voi tutti pace e buona notte.» — Essi si alzarono in piedi. Lo sceicco e Ben Hur contemplarono l'Egiziano finchè la cortina cadde dietro di lui. — «Sceicco Ilderim,» — disse Ben Hur. — «ho udito strane cose questa sera. Permettimi, ti prego, che io cammini lungo le sponde del lago, affinchè possa meditarci sopra.» — — «Va pure; ti seguirò fra breve.» — Si lavarono nuovamente le mani; dopo di che, a un segno del padrone, un domestico portò i sandali di Ben Hur, il quale uscì dalla tenda. CAPITOLO XVII. Non lontano dal dovar sorgeva un gruppo di palme che proiettavano la loro ombra parte sulla terra e parte sull'acqua. Un usignolo cantava fra le fronde: Ben Hur si fermò ad ascoltare: in un altro momento le note dell'uccello avrebbero scacciata ogni sua preoccupazione, ma il racconto dell'Egiziano era troppo grave perchè egli lo dimenticasse. La notte era placida. Non un soffio increspava la superficie delle onde. Tutte le stelle d'Oriente splendevano in cielo. L'estate regnava sovrano. La fantasia di Ben Hur era accesa, ogni suo nervo teso, la sua volontà titubante. In questo stato d'anima le palme, il cielo, l'aria gli sembravano quelle della lontana zona meridionale in cui aveva cercato rifugio Balthasar nella sua disperazione; lo specchio tranquillo dello stagno gli faceva pensare al piccolo lago tributario del Nilo sulle cui sponde lo spirito era apparso al sant'uomo. E se non a caso si fosse presentata questa somiglianza? Se la visione fosse per apparire anche a lui? Si fermò, desideroso insieme e spaurito. Quando alfine questa febbre si calmò e gli permise di rientrare in se stesso, cominciò a pensare. Lo scopo della sua vita gli era stato spiegato. In tutte le sue riflessioni anteriori, la visione di una grande voragine gli si era presentata dinanzi, così grande che non gli era stato possibile colmarla o girarvi attorno. Quand'egli sarebbe stato perfezionato nell'arte della guerra, e avesse conosciuto e bene il mestiere del capitano come quello del soldato, a quale scopo avrebbe dirette le sue forze? Naturalmente sognava la rivoluzione. Ma per spingere gli uomini alla rivolta, per assicurarsi l'appoggio degli amici od aderenti, oltre alle cause generali di odio e di malcontento, erano necessarie cause immediate, pretesti, e sopratutto una mèta. Bene combatte chi ha un affronto da lavare, un torto da vendicare; ma ancor meglio combatte, chi, spronato dai torti ricevuti, vede chiaramente davanti a sè la mèta gloriosa dei suoi sforzi, una mèta che gli darà insieme balsamo per le sue ferite, ricompensa al valore, riconoscenza dopo morte. Naturalmente il suo esercito lo avrebbe trovato fra i suoi campaesani. Le sofferenze di Israele erano comuni a tutti i figli di Abramo, ed erano una leva sufficiente per muovere la nazione. — Sì la causa esisteva; — ma il fine quale doveva essere? Ore, giorni interi, aveva dedicato allo studio di questa parte del suo piano, e, sempre, con la medesima conclusione, una vaga, incerta idea d'indipendenza nazionale. Bastava questa? Non poteva rispondere negativamente, perchè avrebbe abbattuto d'un colpo tutte le sue speranze; non poteva rispondere di si, perchè il suo giudizio glielo vietava. Non era neppur sicuro che Israele sarebbe bastata da sola a combattere vittoriosamente contro Roma. Bene conosceva le immense risorse del suo nemico; le sue armi, le sue arti, superiori alle armi. Un'alleanza universale — ahimè! era cosa impossibile, tranne che — quante volte vi aveva pensato! — un eroe sorgesse dal seno di una delle nazioni oppresse, e, con le sue vittorie, riempisse il mondo del suo nome, chiamando tutti i popoli sotto al suo stendardo. Quale gloria per la sua Giudea se essa fosse chiamata ad esser la Macedonia di questo nuovo Alessandro! Ma ancora, ahimè! sotto il governo dei Rabbini, il coraggio era possibile, non la disciplina. L'antico scherno di Messala nel giardino d'Erode gli risuonava nell'orecchio: — «Tutto ciò che gli Ebrei conquistano nei primi sei giorni lo perdono nel settimo.» — Così avvenne che ogni volta che giungeva davanti a quella voragine, si soffermava irresoluto sull'orlo di essa. Aveva finito col deporre la speranza e fidarsi nel caso, che, Dio volente, avrebbe fatto saltar fuori il sospirato eroe. Tale essendo lo stato dell'anima sua non è necessario di indugiarci sopra gli effetti della sommaria esposizione che Malluch gli aveva fatta del racconto di Balthasar. L'aveva udita con una immensa, stupefacente soddisfazione, col sentimento che qui finalmente era la soluzione di tutto il problema, che l'eroe ricercato era qui ed era un figlio della tribù leonina, e Re degli Ebrei! Dietro l'eroe, il mondo in armi!» — Il Re implicava un regno; egli sarebbe stato un guerriero glorioso come Davide, saggio e magnifico come Salomone; il suo regno sarebbe stato lo scoglio contro il quale si sarebbe frantumata la potenza Romana. Una guerra colossale si sarebbe accesa, e dopo l'agonia di un mondo, la pace — la pace sotto il dominio Giudeo. Il cuore di Ben Hur palpitava forte, apparendogli improvvisamente la visione di Gerusalemme, capitale del mondo, e Sion il trono del Padrone Universale. Gli era sembrata una grande fortuna dover trovare nella tenda l'uomo che aveva veduto il Re. Lo avrebbe udito parlare, avrebbe appreso da lui i particolari del grande mutamento futuro, e specialmente il tempo in cui avrebbe avuto luogo. Se fosse imminente, egli avrebbe abbandonata la campagna di Massenzio, e avrebbe intrapresi subito i lavori di organizzazione e d'armamento delle tribù d'Israele. Ora, come abbiamo visto, Ben Hur aveva inteso dalle labbra di Balthasar medesimo il miracoloso racconto. Era egli soddisfatto? Una grande incertezza lo turbava ed oscurava i suoi pensieri intorno al futuro. L'incertezza riguardava più il regno che il Re. «Che cosa sarebbe mai questo regno?» — quest'era la domanda che gli martellava incessantemente il cervello. Così di buon'ora sorgevano quelle questioni che dovevano accompagnare il Bambino alla sua morte e sopravvivere a lui — incomprensibile ai giorni suoi, oggetto di controversia ai tempi nostri — un enigma a tutti quelli che non sanno comprendere la dualità dell'essere umano: — l'anima immortale nel corpo perituro. — «Che cosa sarà mai?» — egli si chiedeva. Per noi o lettore, la risposta è stata data dal Bambino medesimo; ma Ben Hur non aveva udite che le parole di Balthasar. — «Su questa terra, vi è un regno che non è terreno — non per gli uomini ma per le loro anime, tuttavia un dominio di impareggiabile gloria.» — Qual meraviglia, se alla mente di un giovine quelle parole suonavano come un indovinello? — «La mano dell'uomo non c'entra.» — egli disse, con la disperazione nel cuore. — «Il Re di un tal regno non ha bisogno d'uomini, nè d'operai, nè di consiglieri, nè di soldati. La terra deve finire, essere poi rifatta, e nuovi principî di governo devono essere sostituiti agli antichi. — Qualche cosa di superiore alle armi deve trovarsi che scalzi dal suo trono la Forza. Ma che cosa?» — O lettore! Ciò che noi non possiamo vedere egli non poteva comprendere. La potenza dell'Amore non era ancora apparsa chiaramente ad alcun uomo. E nessuno era venuto a predicare che pel governo degli uomini e per gli scopi di quello — la pace e l'ordine — l'Amore è più grande e più efficace della Forza. In mezzo a queste fantasticherie, una mano gli fu posta leggermente sulle spalle. — «Io devo dirti una parola, o figlio di Arrio» — disse Ilderim, fermandosi al suo fianco. — «Una parola e poi mi ritirerò, perchè la notte sta per venire.» — — «Io ti do il benvenuto, sceicco.» — — «Quanto alle cose che hai udito or ora» — continuò Ilderim, senza interrompersi — «presta fede a tutto, tranne a ciò che riguarda il Regno che il Bambino inizierà sulla terra. Non prendere alcuna risoluzione finchè non avrai udito Simonide, mercante, e ottimo uomo qui in Antiochia, al quale ti presenterò. Egli ti citerà tutti i detti dei tuoi profeti, indicando pagina e libro, cosicchè nessuno potrà negare che il Bambino sarà Re degli Ebrei in realtà — sì, per lo splendore di Dio! un Re come lo fu Erode, ma migliore e più grande. E allora, vedi, tu assaporerai la dolcezza della vendetta. Ho detto. La pace sia con te.» — — «Fermati, sceicco!» — Ilderim non udì. — «Ancora Simonide!» — disse Ben Hur con amarezza — «Simonide qui, Simonide lì, ora dalla bocca di uno, ora dalla bocca di un altro. Questo servo di mio padre non vuol dunque lasciarmi in pace più mai? Ma egli è ricco, e in ciò almeno è più sapiente dell'Egiziano. Ah, pel sacro Patto! non è all'uomo che tradì la fede che un suo simile ha riposto in lui, che io andrò a cercare conforto! Ma ascolta! un canto! — è la voce di una donna, o di un angelo? Si avvicina.» — Dal lago, nella direzione del dovar, venivano le note di una canzone. La voce melodiosa correva lungo l'acque e fra i tronchi delle palme; presto si distinse il tuffo di remi, muoventisi in ritmo lento; poi si udirono le parole — parole in lingua greca purissima, l'idioma che meglio di ogni altro linguaggio di quel tempo si prestava all'espressione degli affetti. IL LAMENTO (dall'Egiziano). O terra profumata di mistero Oltre il Sirìaco mare, O quando sarà dato al mio pensiero Poterti rimirare? Sussurrano le palme esili al vento Di Memfi alle ruine, Il Nilo passa e un suono di lamento S'effonde alle colline. O Nilo, Nilo l'anima ti vuole O fiume de' miei padri e de' miei Re, O verdi sponde sorridenti al sole, O suoni ed inni tumultuanti in me! Odo da lungi di Memnone il canto E di Simbele perdersi laggiù; M'innonda il ciglio l'impotente pianto; O Nilo, Nilo, ti vedrò mai più? L'ultime parole furono pronunciate in prossimità al gruppo di palme, all'ombra delle quali Ben Hur s'era arrestato. — La mestizia di quegli accenti si comunicò allo spirito suo. La barca che passò, nera e silenziosa, sullo specchio scintillante delle acque, sembrava il passaggio di un fosco pensiero, attraverso il limpido e giocondo orizzonte di un'anima. Ben Hur sospirò. — «La riconosco al suo canto — la figlia di Balthasar. — Com'era bello! e come è bella essa pure!» — Si ricordò dei grandi occhi di lei sotto le lunghe ciglia, l'ovale delle rosee guancie, le labbra rosse e piene, e tutta la grazia della persona esile e slanciata. — «Come è bella essa pure!» — ripetè. E il suo cuore rispose palpitando più velocemente. Allora, quasi nel medesimo istante, un altro viso, più giovine, di uguale bellezza — ma più infantile e dolce — gli apparve dinanzi, come se sorgesse dal fondo del lago. — «Ester!» — disse sorridendo. — «Una stella è sorta per me, come io desiderava.» — Egli si voltò, e a passi lenti ritornò verso la tenda. La sua vita era stata afflitta da sofferenze e irta di pensieri di vendetta, — non c'era stato posto per l'amore. — Era questo l'inizio di un'era più felice? Due donne avevano, contemporaneamente, attraversato il suo cammino. Ester gli aveva offerto una coppa. Lo stesso aveva fatto l'Egiziana. Tutte e due gli erano apparse simultaneamente sotto i palmizii. Quale delle due avrebbe prevalso? Quale? FINE DEL LIBRO QUARTO. LIBRO QUINTO Coscienza m'assecura La buona compagnia che l'uom francheggia Sotto l'usbergo del sentirsi pura. DANTE. E nel tumulto del conflitto osserva Calmo la legge e gli occhi avanti spinse Prevedendo gli eventi. WORDSWORTH. CAPITOLO I. La mattina dopo i baccanali celebrati nella gran sala del Palazzo, il divano era ingombro di giovani patrizi addormentati. Massenzio potrebbe arrivare e tutta la città andargli incontro, la legione discendere dal Monte Sulpio e presentare le armi; dal Ninfeo ad Omfalo svolgersi processioni e feste splendide e fastose come l'Oriente sapeva allestire; ma quei giovani avrebbero continuato a dormire i loro sonni ignominiosi sul divano, dov'erano caduti, o dove erano stati buttati dalle braccia degli schiavi indifferenti. Non tutti però coloro che avevano partecipato all'orgia si trovavano in questo stato vergognoso. Quando la luce del giorno cominciò a far capolino attraverso le fessure delle imposte, Messala si alzò e si tolse la ghirlanda dal capo significando la fine dei bagordi; si ravvolse poi nella sua toga e, con un ultimo sguardo alla scena, senza una parola, uscì per raggiungere i suoi appartamenti. Cicerone non avrebbe potuto ritirarsi con maggiore gravità da una notturna seduta senatoriale. Tre ore dopo due corrieri entrarono nella sua stanza e dalle sue mani ciascuno di essi ricevette un dispaccio suggellato contenente una lettera per Valerio Grato, Procuratore, ancora residente a Cesarea. L'importanza della lettera e della sua pronta consegna appariva dagli ordini impartiti; un corriere doveva andare per mare, l'altro per terra, entrambi procedere con la massima celerità. È necessario che il lettore prenda conoscenza del contenuto della lettera. ANTIOCHIA, XII. KAL. IUL. MESSALA a GRATO. _O mio Mida!_ Non offenderti, ti prego, a questo indirizzo, poichè deriva dall'affetto e dalla riconoscenza che ti porto, ed è insieme una confessione che tu sei il più fortunato fra gli uomini. Del resto le tue orecchie sono quali tua madre te le ha date e tu non ne hai colpa alcuna. O mio Mida! Io devo raccontarti cose meravigliose, le quali, se per ora poggiano ancora su mere congetture, saranno nondimeno degne della tua attenzione. Permettimi in primo luogo che io rinfreschi la tua memoria. Tu ricorderai, molti anni fa, la famiglia di un principe di Gerusalemme, assai antica e straordinariamente ricca — di nome Ben Hur. Se la tua memoria è tarda nel rammentarti questo fatto, credo che una certa cicatrice che adorna ancor oggi il tuo illustre capo ti sarà stimolo ed aiuto efficace. Come punizione del tuo tentato assassinio, — per la pace della mia coscienza tolgano gli Dei che si sia trattato di un accidente! — la famiglia fu fatta scomparire e i suoi beni confiscati. La nostra azione fu approvata da Cesare — non manchino mai fiori alla sua tomba! — quindi non è vergogna alludere alle somme che da quella fonte entrarono nei nostri forzieri, per la qual cosa la mia gratitudine sarà eterna, come spero sarà eterno il godimento di quella parte di beni che la tua munificenza mi largì. Per rivendicare la tua saggezza — qualità per la quale non brillava il figlio di Gordio a cui ti ho paragonato — richiamerò anche le disposizioni che prendesti riguardo ai membri della famiglia Hur, affinchè il silenzio della tomba ci assicurasse il tranquillo godimento dei nostri guadagni, e allo stesso tempo il rimorso di aver versato sangue non ci macchiasse la tenera coscienza. Ti ricorderai di ciò che hai fatto della madre e della sorella del malfattore, e se ora cedo alla curiosità di sapere se esse vivono o sono morte, la gentilezza dell'animo tuo mi saprà facilmente perdonare. Ma per venire a ciò che si riferisce più essenzialmente all'affare presente, io mi prendo la libertà di ricordarti che il reo fu mandato alle galere perpetue, — così suonò la condanna, sentenza che io vidi coi miei propri occhi e consegnata al tribuno comandante la galera. Ed ora stammi attento, o eccellentissimo Frigio! Se calcoliamo in base al limite comune della vita di un galeotto, l'assassino da te così giustamente colpito dovrebbe esser morto, o, per usare una forma più poetica, una delle tremila Oceanine avrebbe dovuto prenderlo a marito, almeno cinque anni fa. E se tu mi perdonerai questa momentanea debolezza, o eccellente fra gli uomini, — per l'amore che io gli portai in gioventù ed anche per la sua grande bellezza (io soleva chiamarlo il mio Ganimede) egli avrebbe di diritto dovuto cadere nelle braccia della più bella fra le figliuole di Nereo. In tale opinione ho vissuto tutti questi anni nel pacifico e tranquillo godimento della fortuna di cui gli sono in parte debitore. — Faccio questa confessione senza intendere di scemare per nulla il debito di riconoscenza che ho verso di te. Vengo al punto più interessante. La scorsa notte, io fungeva da anfitrione in una festa di alcuni giovani appena venuti da Roma, — la loro tenera età e la loro inesperienza avevano fatto appello alla mia compassione — quando mi venne fatto di udire una storia singolare. Oggi, come sai, arriva Massenzio, il Console, per dirigere la campagna contro i Parti. Fra gli ambiziosi che lo accompagnano vi è un tale, figlio del defunto duumviro Quinto Arrio. Intorno a lui ebbi alcuni particolari curiosi. Quando Arrio partì contro i Pirati, la sconfitta dei quali gli procurò le ultime onorificenze, non possedeva famiglia: quando tornò dalla spedizione condusse seco un erede. Prepara l'animo tuo ad udire grandi cose. L'erede di cui parlo è colui che tu mandasti in galera, e che avrebbe dovuto, secondo i nostri calcoli, esser morto cinque anni fa, e che invece ritorna ricco, potente, e probabilmente con la cittadinanza Romana, per.... Ecco, tu sei abbastanza altamente locato per non temere, ma io, o Mida, io sono in pericolo, non è bisogno ch'io dica il perchè: Chi dovrebbe saperlo se non tu? Che cosa dici di tutto ciò? Quando Arrio, il padre adottivo di questa apparizione Oceanica, attaccò battaglia coi Pirati, la sua nave andò a picco, e tutto l'equipaggio perì, tranne due persone — Arrio medesimo, e questo suo erede. Gli ufficiali, i quali li raccolsero dalla trave su cui galeggiavano, dicono che il compagno del fortunato tribuno era un giovane, e vestisse abiti da forzato. Questo dovrebbe bastare per convincerti; ma, nel caso che tu, ottimo Mida non fossi ancora interamente persuaso, aggiungerò che ieri la Fortuna mi fece incontrare faccia a faccia questo figlio di Arrio, e io ti giuro che quantunque non lo riconoscessi sull'istante, egli è quel Ben Hur che fu per anni mio compagno d'infanzia; quel Ben Hur, fatto uomo, il quale, fosse anche l'ultimo degli schiavi, deve in questo momento rivolgere disegni di vendetta — così farei io al suo posto — vendetta che non si arresterebbe neppure davanti alla morte; vendetta per la patria, per la madre, per la sorella, perdute, per gli anni passati al remo, per la fortuna infine di cui noi lo spogliammo. A quest'ora, o mio benefattore ed amico, il pericolo che corrono i tuoi sesterzi, se non la tua pelle, avrà scosso il tuo abituale scetticismo, e la tua potente intelligenza si sarà messa a riflettere. Sarebbe banale di chiederti che cosa dovremmo fare. Piuttosto lasciami dire che io sono il tuo cliente; o meglio, sii tu il mio Ulisse, dalla cui bocca attendo sapienti consigli. Mi rimetto completamente a te. Sii celere come Mercurio, pronto come Cesare. Il sole è già alto. Fra un ora due messaggeri partiranno dalla mia stanza, ciascuno con una copia suggellata, di questa lettera; uno viaggerà per terra, l'altro per mare; di tanta importanza stimo l'apparire del nostro nemico in questa parte del mondo Romano. Io attenderò la tua risposta in questa città. Le mosse di Ben Hur saranno naturalmente regolate dal Console, il quale, quand'anche lavori giorno e notte, non sarà pronto alla partenza prima di un mese. Tu conosci la fatica di riunire un esercito e di provvederlo di tutto il necessario per una campagna in un paese lontano e deserto. Io incontrai ieri l'Ebreo nel Boschetto di Dafne, e se egli non vi è tuttora, dimora certamente nelle vicinanze, cosicchè sarà facile tenerlo d'occhio. Anzi, se tu chiedessi dove sia in questo momento, io giuocherei che egli si trova all'Orto delle Palme; sotto la tenda di quel canuto traditore, lo sceicco Ilderim, il quale non sfuggirà a lungo alle nostre mani. Non ti sorprenda se Massenzio, come passo preliminare, farà imbarcare l'Arabo sulla prima galera di ritorno e lo manderà a Roma. Io sono così sollecito di tenerti a giorno sul nostro amico, perchè è di alta importanza per te, o illustre, dove egli si trovi; poichè già sotto la tua abile guida ho appreso tanto di saggezza umana quanto basta per conoscere che in ogni impresa, tre elementi si devono massimamente considerare — tempo — luogo — mezzo. Se tu credi che questo sia il luogo opportuno, non esitare ad affidare l'attuazione dei tuoi piani al tuo amico e discepolo: «MESSALA» CAPITOLO II. Presso a poco alla medesima ora che i corrieri partivano dalla stanza di Messala, essendo ancora di buon mattino, Ben Hur entrò nella tenda di Ilderim. Aveva fatto un bagno nel lago, aveva mangiato, ed ora appariva vestito di una semplice tunica, senza maniche, che appena gli copriva le ginocchia. Lo sceicco lo salutò dal divano. — «La pace sia con te, figlio di Arrio» — diss'egli con ammirazione; e in verità egli non aveva mai veduto un così splendido rappresentante di virile bellezza e di gioventù. Poi continuò: — «I cavalli sono pronti, ed io pure. Lo sei tu?» — — «La pace che tu mi auguri, buon sceicco, te la contraccambio. Sono pronto.» — Ilderim battè le mani. — «Farò condurre i cavalli. Siediti.» — — «Sono aggiogati?» — — «No.» — — «Allora permetti ch'io mi serva da me stesso» — disse Ben Hur. — «È necessario che io faccia la conoscenza de' tuoi Arabi, che io sappia i loro nomi, o sceicco, affinchè possa parlare a ciascuno di essi. Così pure devo conoscere bene i loro caratteri, perchè essi sono come tutti gli uomini; se audaci, vanno frenati, se timidi, la lode li anima e li sprona.» — — «E il cocchio?» — chiese lo sceicco. — «Per oggi lascerò stare il cocchio. Invece mi apprestino un quinto cavallo, se ne hai senza sella, e rapido come il lampo.» — La curiosità di Ilderim era stata stimolata, e perciò egli chiamò subito un domestico. — «I finimenti per quattro cavalli» — ordinò — «e la briglia di Sirio.» — Ilderim si alzò. — «Sirio è il mio cavallo favorito, o figlio di Arrio. Siamo stati compagni per venti anni nella tenda, in battaglia, nella carovana. Te lo farò vedere.» — Si avvicinò alla cortina di divisione, e la sollevò. Ben Hur vi passò sotto. I cavalli vennero verso Ilderim in gruppo. Uno, dalla testa piccola, dagli occhi luminosi, del collo arcuato, dalla criniera morbida e ondeggiante, come la chioma d'una fanciulla, diede un nitrito di gioia nel vederlo. — «Buon cavallo» — disse lo sceicco, accarezzandogli il muso. — «Buon cavallo, ti saluto.» — e voltandosi a Ben Hur aggiunse: — «Questi è Sirio, padre degli altri quattro. Mira, la madre, troppo preziosa perchè la si esponga ai pericoli di un viaggio in terre che non sono le nostre, è rimasta a casa. E io dubito, o figlio di Arrio,» — continuò, ridendo — «io dubito, che la tribù avrebbe potuto sopportare la sua assenza. Essa è la nostra gloria e il nostro vanto. Diecimila cavalieri, figli del deserto, si chiederanno oggi: — «Come sta Mira?» — E alla risposta: — «Sta bene.» — essi diranno: «Dio è grande! Sia lodato il nome di Dio!» — — «Mira — Sirio — non sono nomi di stelle, o sceicco?» — domandò Ben Hur, offrendo il palmo della mano ai cavalli. — «E perchè no?» — replicò Ilderim. — «Non fosti tu mai nel deserto di notte?» — — «No.» — — «Allora tu non puoi sapere di quanto noi Arabi siamo debitori alle stelle. Noi prendiamo i loro nomi per riconoscenza, e li diamo ai nostri cari in segno di affetto. I miei padri chiamavano tutti i loro cavalli, col nome di stelle. Anche questi quattro che tu vedi portano nomi d'astri, Rigel, Antares, Atair ed Aldebran, il minore, ma non il meno rapido dei fratelli. Egli ti porterà a gara col vento, l'aria ti fischierà nelle orecchie. Egli andrà dove tu vuoi, o figlio di Arrio, — sì, per la gloria di Salomone, sfiderà la morte con te!» — I finimenti furono portati. Con le proprie mani Ben Hur apparecchiò i cavalli, li condusse fuori dalla tenda, e pose loro le redini. — «Portatemi Sirio» — disse. Un Arabo non avrebbe saputo meglio saltare sulla schiena del cavallo. — «Ed ora le redini.» — Gli furono date, ed egli le separò accuratamente. — «Buon sceicco» — egli disse — «sono pronto. Lascia che una guida mi preceda sul campo, e mandami alcuni uomini con l'acqua.» — La partenza avvenne senza difficoltà. I cavalli non avevan paura. Già sembrava che una corrente di mutua simpatia si fosse stabilita fra essi e il nuovo auriga, il quale aveva compiuto la sua parte con la calma e la confidenza che generano il rispetto. Ben Hur, a cavallo di Sirio, li guidava come se fosse in piedi sul cocchio. Ilderim esultò. Si lisciò la barba e sorrise di soddisfazione nel mentre mormorava: — «Egli non è un Romano, no, per lo splendore di Dio!» — Egli seguiva a piedi, e l'intera popolazione del dovar, uomini, donne e fanciulli, si precipitò fuori dalle tende per assistere allo spettacolo. Il campo era ampio e piano, ottimamente adatto per le esercitazioni che Ben Hur intraprese senza indugio, dapprima guidando i quattro cavalli lentamente, su linee perpendicolari, poi in larghi cerchi. Quindi li spinse al trotto poi al galoppo, sempre restringendo i cerchi, infine facendoli piegare irregolarmente ora a destra, a sinistra, in tutte le direzioni. In questo modo passò un'ora. Mettendo i cavalli al passo, egli si avvicinò ad Ilderim. — «Il lavoro è compiuto, ora non ci vuole che l'esercizio» — egli disse — «Io mi rallegro con te, sceicco Ilderim, che possiedi tali servitori. Guarda» — continuò, smontando e accarezzando i cavalli, — «guarda, non una macchia di sudore sui loro mantelli; respirano come se cominciassero or ora a correre. Mi rallegro con te, sceicco, e se Dio ci protegge» — e fissò gli occhi scintillanti in faccia al vecchio — «avremo la vittoria e....» — Si arrestò, arrossì, fece un inchino. Al fianco di Ilderim osservò ora per la prima volta Balthasar, appoggiato al suo bastone, e due donne velate. Una di queste egli guardò più attentamente, con un palpitare veloce del cuore, e disse fra sè: — «È dessa — l'Egiziana!» — Ilderim continuò il periodo lasciato in sospeso. — «Avremo lo vittoria e la vendetta.» — Poi soggiunse ad alta voce: — «Io non ho paura. Sono felice, figlio di Arrio; tu sei l'uomo per me. Se il risultato corrisponde al principio tu non avrai ragione di lamentarti della generosità degli Arabi.» — — «Io ti ringrazio, buon sceicco,» — rispose Ben Hur, con modestia, — «Lascia che i tuoi servi portino da bere ai cavalli.» — Con le proprie mani diede loro dell'acqua. Poi rimontando Sirio, ripigliò il suo corso d'istruzione, passando, come prima, dal passo al trotto, e dal trotto al galoppo. Finalmente, fece entrare i cavalli sulla pista, spingendoli a tutta carriera. Gli spettatori si animarono e proruppero in frequenti applausi per la rara abilità del guidatore e per l'elegante andatura dei cavalli, che non mostravano alcun segno di stanchezza. Durante questa esercitazione, Malluch apparve sul campo, passando inosservato attraverso la folla, e si avvicinò allo sceicco: — «Ho un messaggio per te, o sceicco,» — egli disse quando credette giunto il momento opportuno di parlare — «Un messaggio da parte di Simonide mercante.» — — «Simonide!» — esclamò l'Arabo. — «Ah! sta bene. Che Abaddon uccida tutti i suoi nemici!» — — «Egli mi commise di augurarti in primo luogo la pace del Signore,» — continuò Malluch; — «e poi di darti questo dispaccio, con preghiera che tu lo legga immediatamente.» — Ilderim, senza muoversi dal posto, ruppe il suggello del plico consegnatogli, e da un involto tolse due lettere che cominciò a leggere. SIMONIDE ALLO SCEICCO ILDERIM. «_O amico!_ In primo luogo sta certo che occupi sempre un posto nel mio cuore. Poi prestami attenzione. Vi è attualmente nel tuo _dovar_ un giovine di nobile aspetto, che dicono sia figlio di Arrio; e tale egli è in verità per via di adozione. Egli è assai caro a me. La storia della sua vita è meravigliosa, ed io te la racconterò, se verrai da me oggi o domani. Ho pure bisogno dei tuoi consigli. Frattanto asseconda tutti i suoi desiderii purchè non vadano contro la legge e l'onore. Se avesse bisogno di danari, rispondo io. Tieni celato che io mi prendo cura di lui. Ricordami all'altro tuo ospite. Egli, sua figlia, tu stesso e tutti coloro che vorrai invitare, saranno miei ospiti al Circo il giorno della gara. Ho già fissato i posti. A te ed ai tuoi pace. Tuo amico in eterno, SIMONIDE» SIMONIDE ALLO SCEICCO ILDERIM. «_O amico!_ Devo metterti in guardia — Sta all'erta! Quando un alto personaggio Romano, investito di regale autorità si avvicina, tutti coloro che non sono Romani e posseggono beni e denaro, è bene abbiano cura delle cose loro. Oggi arriva il Console Massenzio. All'erta! Un'altra parola di avvertimento. Se una congiura è ordita contro di te, deve avvenire di concerto con gli Erodi, poichè tu possiedi grandi beni nei loro dominii. Manda stamane alcuni tuoi messi fidati sulle strade a sud della città, i quali fermino e frughino tutti i corrieri che incontrano per o da Antiochia, e, se trovano qualche dispaccio che si riferisca a te, te lo portino. Avresti dovuto ricevere la presente ieri sera, ma ancora, non è troppo tardi se ti affretti. Se i corrieri hanno lasciato Antiochia stamattina, i tuoi Arabi conoscono le scorciatoie e li potranno raggiungere. Non esitare. Abbrucia questa mia appena letta. O mio amico, il tuo amico, SIMONIDE». Ilderim rilesse le lettere una seconda volta, le piegò, e le celò sotto la sua cintura. Le esercitazioni sul campo terminarono di li a poco, essendo durate in tutto quasi due ore. Ben Hur, rallentando il passo dei cavalli, li diresse verso Ilderim. — «Con tua buona grazia, o sceicco,» — egli disse — «ricondurrò i tuoi Arabi nella tenda, e questa sera ripeteremo gli esercizi.» — Ilderim lo accompagnò al passo. — «Fanne ciò che vorrai, figliuol mio. Tu hai ottenuto da loro in due ore ciò che il Romano — gli sciacalli divorino le sue ossa! — non potè trarne in altrettante settimane. Vinceremo, per lo splendore di Dio, vinceremo!» — Giunti alla tenda, Ben Hur sorvegliò i cavalli mentre venivano strigliati e puliti; poi dopo un bagno nel lago e un sorso di arrak bevuto con lo sceicco, egli indossò nuovamente le sue vesti Ebraiche e passeggiò con Malluch nell'orto. Dopo alcuni particolari di poco rilievo, Ben Hur disse al compagno: — «Io ti darò un ordine per procurarti le mie valigie giacenti in un Khan presso il ponte Seleucio. Portamele oggi stesso, se puoi. Spero, buon Malluch, che ciò non ti sia di peso.» — Malluch si dichiarò pronto a qualunque servigio. — «Grazie, Malluch, grazie» — disse Ben Hur. — «Ti prenderò in parola, ricordando che apparteniamo alla medesima tribù, e che il nostro nemico è Romano. In primo luogo, tu sei un uomo d'affari, mentre temo che il nostro sceicco non lo sia.» — — «Gli Arabi lo sono raramente» — osservò Malluch. — «No, io non parlo della loro avvedutezza, Malluch. Ma è bene vegliare su di essi. Per impedire che un ostacolo o un fastidio sorga all'ultim'ora riguardo alla corsa, tu dovresti recarti agli ufficii del Circo, e vedere s'egli ha compiuto tutte le formalità richieste; e se puoi ottenere una copia del regolamento mi farai un grande favore. Vorrei sapere quali colori dovrò portare, e specialmente il numero della partenza, se sarò vicino a Messala, a destra o a sinistra, e se non lo sono, cerca di ottenere che mi cambino di posto così da collocarmi presso a lui. Hai buona memoria, Malluch?» — — «Mi è venuta meno qualche volta, o figlio di Arrio, ma mai quando, come in questo caso, il cuore l'ha aiutata.» — — «Allora oserò gravarti di un altra commissione. Io vidi ieri che Messala era assai orgoglioso del suo cocchio, ed a ragione, perchè neppure quelli di Cesare lo avanzano di bellezza ed eleganza. Non potresti approfittare di questa sua debolezza in modo da apprendere se è leggero o pesante? Desidererei di avere la certezza del suo peso e delle sue misure — e, Malluch, tralascia, se vuoi, ogni altra cosa, ma portami l'altezza dell'asse dal suolo. Comprendi, Malluch? Io non voglio ch'egli abbia alcun vantaggio su di me. Io voglio vincerlo non solo, ma umiliarlo. Solo così il mio trionfo sarà completo.» — — «Vedo, vedo!» — disse Malluch. — «Tu vuoi un filo tirato perpendicolarmente sopra il suolo dal mozzo della ruota.» — — «Sì, mio Malluch, e rallegrati; è l'ultima delle mie commissioni. Ora facciamo ritorno al dovar.» — Poco dopo Malluch tornò in città. Nel frattempo un messaggero montato su un rapido cavallo, era stato mandato, secondo le istruzioni di Simonide, sulla strada che da Antiochia conduce a Gerusalemme. Era un Arabo, e non portava ordini scritti. CAPITOLO III. — «Iras, figlia di Balthasar, t'invia saluti e un messaggio» — disse un servitore a Ben Hur, che stava riposando nella sua tenda. — «Dimmi il messaggio.» — — «Ella chiede se tu vuoi accompagnarla in barca sul lago.» — — «Le porterò io stesso la risposta. Grazie.» — Gli furono recati i sandali, e, dopo qualche istante, Ben Hur uscì in cerca della bella Egiziana. L'ombra delle montagne andava strisciando sull'Orto delle Palme, precorrendo la notte. Da lontano, attraverso gli alberi, veniva il tintinnio di campane, il muggito degli animali, e le grida dei pastori che riconducevano a casa gli armenti. La vita all'Orto delle Palme era sotto ogni riguardo la vita semplice e pastorale degli Arabi nelle oasi del deserto. Lo sceicco Ilderim, dopo avere assistito alle esercitazioni del pomeriggio, che furono una ripetizione di quelle del mattino, s'era recato in città a trovare Simonide, e, probabilmente, non sarebbe ritornato quella notte. Ben Hur, lasciato solo, aveva dato un'ultima occhiata ai cavalli, s'era lavato e vestito a nuovo, e, dopo aver cenato, stava riavendosi delle fatiche della giornata. Non è saggio nè onesto cercare di scemare importanza alla bellezza come qualità. Nessun'anima elevata può sottrarsi al suo fascino. La storia di Pigmalione e della sua statua è poetica nella forma, ma ha la sua base nella natura umana. La bellezza è una potenza; e la sua forza trascinava Ben Hur. L'Egiziana era per lui una donna meravigliosamente bella di forme. Egli la rivedeva come essa gli apparì la prima volta presso la fontana; e sentiva l'influenza della sua voce, dolce nelle sue espressioni di riconoscenza, subiva tutto l'incanto di quegli occhi grandi, neri, umidi, tagliati a mandorla, occhi eloquenti più della parola; vedeva la sua figura alta, snella, piena di grazia e di eleganza, avviluppata nelle ricche pieghe della sua veste, e pensava che se la mente fosse pari al corpo che l'albergava, ella sarebbe, veramente, come la Sulamita, e, nel medesimo senso, terribile come un'oste schierata in campo. E ogni qual volta la sua immagine gli si presentava davanti alla fantasia, tutta l'appassionata canzone di Salomone, veniva con lei, come ispirata dalla sua presenza. Con tali sentimenti egli voleva vedere se essa avrebbe giustificata l'impressione destata. Non era amore quello che egli provava, ma ammirazione e curiosità, che spesso sono gli araldi preannunciatori dell'amore. L'approdo consisteva in una breve scala scendente al lago, e di una piattaforma illuminata da alcuni lampioni; giunto alla sommità dei gradini egli si arrestò, colpito da ciò che vide. Una scialuppa riposava leggermente sulle onde come un guscio d'uovo che galleggi. Un Etiope, il guidatore del cammello alla fontana Castalia, sedeva al posto del rematore, vestito in bianchissimi lini che facevano risaltare ancor più l'ebano del suo viso. La poppa dell'inbarcazione era imbottita di cuscini e tappeti tinti col color rosso di Tiro. Al timone sedeva l'Egiziana medesima, sprofondata in una massa di scialli Indiani, cinta come da una nube di veli e di nastri delicati. Le sue braccia, nude fino alle spalle, di impeccabile purezza di linea, avevano un non so che di provocante nella posa, nei movimenti, nell'espressione; le mani tese e le dita erano dotate di una grazia eloquente e suggestiva. Le spalle e il collo erano difese contro l'aria serale da un ampio velo, che non riusciva però a celare le forme opulenti. Nello sguardo che le rivolse, Ben Hur non afferrò tutti questi dettagli. Ebbe l'impressione confusa e deliziosa che l'insieme di essi produceva, e il suo cuore battè più veloce. — «Vieni» — essa disse, vedendolo arrestarsi. — «Vieni, o dovrò credere che tu sia un povero marinaio.» — Il rossore delle sue guancie si approfondì. Conosceva essa qualche cosa della sua vita di mare? Discese tosto sulla piattaforma. — «Io temeva» — egli disse, sedendo al fianco di lei. — «Di che?» — — «Di affondare la barca» — egli rispose sorridendo. — «Aspetta quando saremo in mezzo al lago» — diss'ella, facendo un segno all'Etiope, che tosto immerse i remi nell'acqua. Se l'Amore e Ben Hur erano nemici, quest'ultimo non corse mai maggior pericolo di sconfitta. L'Egiziana sedeva presso a lui, ed egli non poteva fare a meno di guardarla, essa che già aveva richiamato alla sua mente l'ideale della Sulamita. Con quegli occhi fissi nei suoi, egli non avrebbe scorto le stelle che a poco a poco apparivano in cielo; la notte avrebbe potuto avvolgere ogni cosa; quegli sguardi avrebbero gettata una luce attraverso le tenebre più dense. E poi, chi non sa come conferiscano ai pensieri d'amore la tranquillità delle acque d'un lago, sotto la volta ingemmata del firmamento, in una tiepida notte d'estate, quando i cuori che battono l'uno appresso all'altro, sono giovani, e i cervelli pieni di sogni? — «Dammi il timone» — egli disse. — «No» — essa rispose — «questo sarebbe un mutar le parti. Io ti ho invitato, e tu sei mio ospite. Voglio cominciare a liquidare il debito che io ti devo. Tu puoi parlare e io ascolterò, oppure parlerò io e tu ascolta. Questa scelta spetta a te. Io invece deciderò dove anderemo e che via dobbiamo tenere.» — — «E dove andiamo?» — — «Ecco che sei di nuovo spaventato.» — — «O bella Egiziana, ho fatto la prima domanda naturale ad un prigioniero.» — — «Chiamami Egitto.» — — «Preferirei chiamarti Iras.» — — «Puoi pensarmi con quel nome, ma chiamami Egitto.» — — «L'Egitto è un paese e comprende molti popoli.» — — «Sì! Sì! e qual paese!» — — «Ho capito; noi andiamo in Egitto.» — — «Almeno vi andassimo davvero! Sarei felice.» — Sospirò, così dicendo. — «Non pensi affatto a me allora» — egli disse. — «Ah, da ciò comprendo che tu non ci sei mai stato!» — — «Non ci fui mai.» — — «Oh, è una terra dove l'infelicità è ignota, meta e desiderio degli altri popoli, madre di tutti gli Dei, e quindi in sommo grado benedetta. Là, o figlio di Arrio chi è felice trova la sua felicità raddoppiata; la sventurato che attinge una volta all'acqua del sacro fiume, dimentica il suo dolore, e canta e ride come i fanciulli.» — — «Non vivono poveri colà come altrove?» — — «I poveri nell'Egitto hanno desiderii modesti e pochi bisogni,» — essa rispose. — «Un Greco o un Romano non potrebbe comprenderli.» — — «Ma io non sono nè Greco, nè Romano.» — Egli protestò. Essa rise. — «Io ho un giardino di rose, e in mezzo ad esso sorge una pianta, e, suoi fiori vincono tutti gli altri. Da dove credi provenga quella pianta?» — — «Dalla Persia patria delle rose?» — — «No.» — — «Dall'India allora.» — — «No.» — — «Ah! da un'isola dell'Ellade.» — — «Te lo dirò. Un viaggiatore la trovò languente e mezza morta lungo la via sulla pianura di Rephaim.» — — «Oh, nella Giudea!» — — «Io la piantai nella terra che il Nilo ritirandosi aveva lasciata scoperta, e dove il tiepido vento del sud poteva cullarla, e il sole baciarla; ed essa crebbe piena di gratitudine e di affetto. Ora mi seggo alla sua ombra, ed essa mi ringrazia col suo profumo. Come avviene delle rose, così è con gli uomini d'Israele. Dove potranno toccare la perfezione se non in Egitto?» — — «Mosè fu uno fra mille.» — — «No, ti dimentichi del grande interprete di sogni.» — — «I Faraoni sono morti.» — — «Ah sì! Il fiume, sulle sponde del quale abitavano, ora mormora le sue nenie presso le loro tombe. Ma il medesimo sole riscalda la stessa aria al medesimo popolo.» — — «Alessandria altro non è che una città Romana.» — — «Essa ha solo mutato scettro. Cesare le divelse la spada, e in suo luogo le lasciò il calice della sapienza. Vieni con me nel Bruccheio ed io ti mostrerò le scuole delle nazioni; al Serapeo, a vedere le meraviglie dell'architettura; alla Biblioteca per leggere i libri immortali; al Teatro per udire, i versi dei Greci e degli Indiani; al porto per ammirare i trionfi del commercio; discendi con me nelle strade, o figlio di Arrio, e quando i filosofi si saranno dispersi, e i maestri dell'arte saranno partiti, e gli Dei tornati ai loro altari, e del giorno che si spegne non rimarranno che i ricordi, tu udirai le storie che hanno dilettato l'umanità dalla sua culla, e i canti, che non morranno mai.» — Mentre la ascoltava, Ben Hur corse col pensiero a quell'altra notte stellata; sulla terrazza della casa in Gerusalemme, quando sua madre, con lo stesso fervore poetico che il patriottismo dettava, predicava le tramontate glorie d'Israele. — «Ora comprendo perchè vuoi essere chiamato Egitto. Vuoi cantarmi una canzone, se io ti chiamerò con quel nome? Io ti intesi cantare ier notte.» — — «Era una canzone del Nilo,» — essa rispose, — «un lamento che io canto quando mi sembra di respirare il profumo del deserto, e il mormorìo del vecchio fiume; piuttosto lascia che io ti canti qualche cosa di Indiano. Quando verrai ad Alessandria ti condurrò sull'angolo di quella strada donde potrai udire cantare la figliuola del Gange che me l'apprese. Kapila, tu sai, fu uno dei più grandi sapienti dell'India.» — Poi, come se il canto fosse la sua forma abituale di esprimersi, cominciò: KAPILA. Kapila, illustre eroe, Fiore di gioventù, Come potrò uguagliare, Dimmi, la tua virtù? Sorridendo rispose, Frenando il corridor: — Chi ama tutte cose Non conosce timor. Kapila, vecchio e bianco, Pontificava all'altar: — Dimmi, la tua sapienza Come potrò emular? Kapila, vecchio e bianco, Disse con gravità: — Chi ama Iddio soltanto Tutte le cose sa. — Ben Hur non ebbe il tempo di esprimere la sua riconoscenza per la canzone, quando la chiglia della barca rasentò la sabbia, e la prua toccò terra. — «Un viaggio corto, o Egitto!» — egli esclamò. — «E un soggiorno ancora più breve!» — essa rispose, mentre un forte colpo di remi li rimandò di nuovo nell'acqua libera. — «Ora mi darai il timone» — egli disse. — «Oh no! A te il cocchio, a me la barca. Non siamo che a metà del lago. Hai rotto il patto e io non canterò più. Poichè siamo stati in Egitto, andiamo ora al boschetto di Dafne.» — — «Senza un canto che ci allieti la via?» — egli supplicò. — «Dimmi qualche cosa intorno al Romano dal quale oggi ci salvasti la vita,» — essa chiese. La domanda sembrò spiacevole a Ben Hur. — «Vorrei che questo fosse il Nilo» — egli disse, eludendo la domanda. — «I Re e le Regine, dopo aver dormito tanti anni, potrebbero uscire dalle loro tombe e viaggiare con noi.» — — «Appartenevano alla razza dei colossi e avrebbero affondata la barca. Preferirei dei pigmei. Ma parlami del Romano. Egli è molto cattivo, nevvero?» — — «Non lo so.» — — «È di nobile famiglia? È ricco?» — — «Non posso parlare delle sue ricchezze.» — — «Come erano belli i suoi cavalli! E il suo cocchio era d'oro, e le ruote d'avorio. E quale audacia! Gli spettatori risero quand'egli partì, — essi che per poco non sarebbero stati travolti sotto le zampe dei suoi cavalli!» — Essa rise al ricordo. — «Era plebaglia» — disse Ben Hur con amarezza. — «Egli deve essere uno di quei mostri che si dice crescano oggi in Roma, Apolli voraci come Cerberi. Vive in Antiochia?» — — «Nell'Oriente.» — — «L'Egitto gli converrebbe di più.» — — «Ne dubito. Cleopatra è morta.» — In quell'istante apparvero le lampade che ardevano davanti ai padiglioni di Ilderim. — «Il dovar» — essa mormorò. — «Ah, dunque noi siamo andati in Egitto. Non ho veduto Karnac, Pile od Abido. Questo non è il Nilo. Ho udito un canto dell'India, e il viaggio è stato un sogno.» — — «Pile — Karnac! Piuttosto ti dolga di non aver veduto i Ramessidi di Simbele, che ti fanno pensare a Dio creatore del cielo e della terra. O piuttosto perchè dolertene affatto? Andiamo sul fiume, e se non potrò cantare» — essa rise — «perchè ho detto che non vorrei cantare, ti posso però raccontare storie dell'Egitto.» — — «Continua! Sì, fino che spunta il mattino, e ritornerà la sera e sorga il sole di un altro giorno,» — egli soggiunse con calore. — «Di che cosa devo parlare? Dei matematici?» — — «Oh, no.» — — «Dei filosofi?» — — «No, no.» — — «Dei maghi e dei genii?» — — «Se vuoi.» — — «Di guerra?» — — «Sì.» — — «D'amore?» — «Sì.» — «Ti racconterò di un rimedio contro l'amore. È la storia di una regina. Ascolta con attenzione e rispetto. Il papiro, ora proprietà dei sacerdoti di Pile, fu tolto dalle mani stesse della regina.» — NE-NE HOFRA I. _Le vite umane non corrono parallele._ _Nessuna vita percorre una linea retta._ _La più perfetta esistenza si sviluppa come un cerchio, e termina dove comincia._ _Le vite perfette sono i tesori di Dio; nei giorni di festa egli le porta nell'anulare della mano sinistra, quella vicina al suo cuore._ II. _Ne-Ne-Hofra dimorava in una casa presso Essuan, vicino alla prima cataratta, e il frastuono dell'eterna battaglia fra il fiume e le roccie risuonava come una musica alle sue orecchie._ _Essa cresceva in bellezza ogni giorno; cosicchè si diceva di lei come dei papaveri nel giardino di suo padre: Che cosa sarà mai al tempo della fioritura? Ogni anno della sua vita era come il principio di una canzone più deliziosa della precedente._ _Essa era figlia del nord e del sud; l'uno le aveva dato il suo ingegno, l'altro le sue passioni, e quando Borea e lo Scirocco la vedevano ridevano, dicendo: «È nostra.»_ _Tutte le cose più belle della natura contribuivano alla sua bellezza, e si rallegravano della sua presenza. Quando passava, gli uccelli scendevan a posarsi sulle sue spalle, gli zefiri la baciavano in volto; il candido loto si tendeva sui lunghi steli per guardarla; il fiume solenne indugiava nel suo cammino; le palme accennavano da lontano sventolando le cime frondose; e gli uni sembravano dire: Io le diedi la mia grazia; gli altri: Io le diedi la mia purezza; l'altro ancora: Io le diedi la mia bellezza._ _A dodici anni Ne-Ne-Hofra era la delizia di Essuan; a sedici anni la fama della sua bellezza s'era sparsa per l'Universo; a venti non passava giorno che alla sua porta non venissero principi del deserto sopra rapidi cammelli, e signori d'Egitto su galere dorate, e tutti partivano desolati, dicendo: — «Io l'ho veduta; e non è una donna, ma Ator in persona.» — _ III. _Dei trecentotrenta successori del buon re Menes, diciotto furono Etiopi, di cui Orete era l'ultimo. Egli aveva cento dieci anni, e ne aveva regnato settantasei. Sotto di lui il popolo fu prosperoso e la terra piena di abbondanza. Egli praticava la saggezza, perchè, avendo vedute tante cose, la conosceva bene. Viveva a Menfi, dove aveva i suoi palazzi, i suoi arsenali, e i suoi tesori._ _La moglie del buon Re venne a morire. Egli l'amava e la pianse amaramente, finchè un sacerdote si fece coraggio e gli disse:_ _ — «Orete, io mi meraviglio che un Re così saggio e potente, non sappia trovare rimedio a un male come questo.» — _ _ — «Dimmi un rimedio,» — disse il Re._ _Tre volte baciò la terra, e disse: — «Ad Essuan vive Ne-Ne Hofra, bella come Ator. Mandala a chiamare. Essa ha rifiutato la mano di principi e Re; ma chi può rifiutare Orete?» — _ IV. _Ne-Ne-Hofra discese il Nilo in una galera tutta oro e gemme, scortata da una flotta di barche variopinte. Tutta la Nubia e l'Egitto, miriadi di persone dalle terre dei Monti della Luna, erano accorse alle sponde del fiume per veder passare il corteo._ _Attraverso un'allea di sfingi e una doppia fila di leoni alati, essa fu portata dinanzi al trono d'Orete. Egli la rialzò, la fece sedere al suo fianco, le cinse il braccio con l'ureo, la baciò e la fece sua regina._ _Ciò non bastava al saggio Orete; egli voleva l'amore, e che la regina fosse felice nell'amor suo. Quindi la trattò con grande dolcezza, le mostrò tutti i suoi beni, città, popoli, palazzi, i suoi eserciti e le sue flotte; la condusse attraverso i sotterranei dove erano ammucchiati i suoi gioielli, dicendo: — «O Ne-Ne-Hofra! Dammi un bacio d'amore, e tutto questo è tuo.» — _ _Ed essa, pensando che se non lo amava allora, avrebbe potuto amarlo in seguito, lo baciò non una, ma tre volte, nonostante i suoi centodieci anni._ _Il primo anno fu felice, e sembrò assai breve; il terzo anno fu molto infelice, e le sembrò assai lungo. Allora comprese che ciò che essa credeva fosse amore per Orete, non era che ammirazione per la sua potenza. La gioia si partì dal suo cuore, lacrime sgorgavano continuamente dai suoi occhi e le rose delle sue guance s'incenerirono; essa languiva ed appassiva lentamente. Alcuni dissero che le Erinni la perseguitavano per la sua crudeltà contro qualche amante; altri, che era colpita dall'invidia di un dio, geloso di Orete. Qualunque fosse la ragione, tutti i rimedi degli astrologhi e dei maghi, riuscirono vani; Ne-Ne-Hofra era condannata a morire._ _Orete scelse una cripta nella montagna, dove erano le tombe delle regine, e avendo chiamato i primi artefici di Menfi, ordinò loro di costruire un sepolcro più magnifico dei Mausolei dei Re._ _ — «O mia regina, bellissima come ator!» — diceva il re, a cui i centotredici anni non avevano spento le fiamme d'amore. — «Dimmi, ti prego, il male di cui soffri. Tu muori davanti ai miei occhi!» — «Tu non mi amerai di più se io te lo dicessi» — essa rispose tremando di paura._ _ — «Non amarti? Io ti amerò ancor di più! Io lo giuro per i genii di Amente e per l'occhio di Osiride! Parla!» — egli disse con la passione di un amante, con l'autorità di un re._ _ — «Ascolta allora,» — essa rispose. — «In una caverna presso Essuan vive un anacoreta, il più vecchio e il più santo della sua classe. Egli si chiama Menofa, e fu mio maestro ed amico. Chiamalo, Orete, ed egli ti dirà ciò che tu desideri sapere; egli ti aiuterà parimenti a trovare un rimedio al mio male.» — _ _Orete si dipartì giubilante: Gli pareva di aver cento anni di meno._ V. _ — «Parla!» — disse Orete a Menofa, nel palazzo di Menfi._ _E Menofa rispose: — «Potentissimo sovrano, se tu fossi giovine io non ti risponderei, perchè mi preme ancora la vita; così invece ti risponderò che la regina, come ogni altro mortale, paga il fio di un delitto.» — _ _ — «Di un delitto!» — urlò il re._ _Menofa si inchinò profondamente._ _ — «Si, un delitto contro se stessa.» — _ _ — «Non sono d'umore di sciogliere enigmi.» — _ _ — «Ciò che dico non è un enigma. Ne-Ne Hofra crebbe sotto i miei occhi, e confidava ogni particolare della sua vita a me, fra gli altri che essa amava un tale Barbec, figlio del giardiniere di suo padre.» — _ _La fronte di Orete si rasserenò._ _ — «Con quell'amore in petto, o re, essa venne alle tue braccia. Di quell'amore sta per morire.» — _ _ — «Dove è il figlio del giardiniere?» — chiese Orete._ _ — «Ad Essuan.» — _ _Il re uscì ed impartì due ordini. A un ufficiale disse: — «Va ad Essuan e conducimi qui un giovine di nome Barbec. Lo troverai nel giardino del padre di Ne-Ne Hofra.» — _ _e costruisci per me nel lago Chemmis un'isola con un tempio, un palazzo, e un giardino pieno di fiori e alberi, che galleggi liberamente dove il vento la sospinge. Costruisci l'isola, e che essa sia finita al tempo della luna piena.»_ _Poi disse alla regina:_ _«Rallegrati. Io so tutto, e ho mandato a chiamare Barbec.»_ _Ne-Ne Hofra gli baciò le mani._ _ — «Tu lo avrai tutto per te sola un anno intiero, e nessuno disturberà i vostri amori.» — _ _Essa gli baciò i piedi; egli la rialzò, le diede un bacio. Le rose tornarono sulle guancie, lo scarlatto alle labbra, il riso al suo cuore._ VI. _Per un anno Ne-Ne-Hofra e Barbec il giardiniere, galleggiarono in balìa degli zefiri sull'azzurro lago di Chemmis. L'isola era una meraviglia, e per un anno, un anno intero, vi dimorarono come in paradiso, non vedendo nessuno. Poi la regina ritornò al palazzo di Menfi._ _ — «Chi ami tu di più, ora?» — chiese il re._ _Essa gli baciò la guancia e disse: — «Riprendimi, buon re, io sono risanata.» — _ _Orete rise, malgrado i suoi centoquattordici anni._ _ — «Dunque Menofa aveva ragione» — egli disse. — «Ah, ah! Il rimedio per l'amore è l'amore.» — _ _ — «Così è» — essa rispose._ _Tutto ad un tratto la sua fronte si corrugò e la sua voce divenne terribile:_ _ — «Io non lo trovai così» — disse._ _Essa lo guardò atterrita._ _ — «Donna rea!» — egli continuò — «La tua offesa ad Orete l'uomo, io perdono; ma la tua offesa ad Orete il re, deve esser punita.» — _ _Essa gli si prostrò ai piedi._ _ — «Silenzio,» — egli disse: — «Tu sei morta!» — _ _Egli battè le mani, e una terribile processione sfilò nella stanza, una processione di parachisti, o imbalsamatori, ciascuno con qualche strumento della sua arte disgustosa._ _Il re indicò Ne-Ne Hofra._ _ — «Essa è morta. Fate il vostro dovere.» — _ _Dopo settantadue giorni, Ne-Ne-Hofra, bella come Ator, fu condotta nella cripta per lei scelta l'anno prima, e messa a dormire insieme alle sue regali campagne. Ma nessun funebre corteo in suo onore attraversò il sacro lago._ Alla conclusione del racconto, Ben Hur era seduto ai piedi dell'Egiziana, e la mano con cui essa guidava il timone era stretta nella sua. — «Menofa aveva torto,» — egli disse. — «Perchè?» — — «L'amore vive amando.» — — «Dunque non vi è rimedio contro di esso?» — — «Sì, Orete lo trovò.» — — «Quale?» — — «La morte.» — — «Tu sei un buon ascoltatore, o figlio di Arrio.» — E così conversando e raccontando favole e novelle ingannarono le ore. Quando scesero a terra, essa disse: — «Domani andiamo in città.» — — «Ma ti troverai ai giuochi?» — egli chiese. — «Oh, sì.» — — «Ti manderò i miei colori.» — E così si divisero. CAPITOLO IV. Ilderim ritornò al dovar il giorno appresso circa all'ora terza. Quando smontò, un uomo della sua tribù lo accostò e gli disse: — «O sceicco, mi fu consegnato questo plico con l'ordine di recarlo a te, affinchè tu lo legga immediatamente. Se c'è risposta, devo attendere la tua buona grazia.» — Ilderim aprì subito il pacco, il sigillo del quale era già stato rotto. L'indirizzo diceva: _A Valerio Grato, Cesarea._ — «Abaddon lo pigli!» — mormorò lo sceicco, scorgendo che la lettera era in latino. Se l'Epistola fosse stata in Greco o in Arabo, egli non avrebbe avuto difficoltà nel leggerla. Così potè tutto al più decifrare la firma, scritta in grandi caratteri Romani — MESSALA, — che lesse strizzando l'occhio. — «Dov'è il giovine Ebreo?» — egli chiese. — «Al campo coi cavalli» — rispose un domestico. Lo sceicco ripose i papiri nella loro busta, e nascondendo il pacco nella cintura, rimontò a cavallo. In quel momento un forestiero, proveniente, all'apparenza, dalla città si presentò davanti a lui. — «Cerco lo sceicco Ilderim, chiamato il Generoso» — disse il forestiero. La sua lingua e le sue vesti lo rivelavano Romano. Se Ilderim non sapeva leggere il latino, lo sapeva però parlare. Il vecchio Arabo rispose con dignità: — «Io sono lo sceicco Ilderim.» — Gli occhi dell'uomo si abbassarono; li rialzò e con compostezza forzata disse: — «Ho inteso che siete in cerca di un auriga per i giuochi.» — Il labbro di Ilderim si contrasse sdegnosamente sotto i bianchi baffi. — «Va per la tua strada» — egli disse. — «Ho già trovato un auriga.» — Si voltò, in atto di partire, ma l'uomo indugiando riprese a parlare: — «Sceicco, io amo i cavalli, e dicono che i vostri siano i più belli del mondo.» — Il vecchio era tocco; arrestò il cavallo, e stava quasi per cedere davanti all'adulazione, poi rispose: — «No, non oggi, non oggi. Te li mostrerò un'altra volta. Ora sono troppo occupato.» — Mise il cavallo al trotto, mentre lo straniero riprese lentamente il cammino della città, sorridendo come un uomo contento di sè. Aveva eseguito la sua commissione. Ed ogni giorno, fino alla grande giornata dei giuochi, un uomo, qualche volta due o tre — venivano dallo sceicco nell'Orto delle Palme, sotto il pretesto di cercare un'impiego come auriga. In questo modo Messala vigilava sopra Ben Hur. CAPITOLO V. Lo sceicco aspettò, ben soddisfatto, finchè Ben Hur, ebbe terminate le esercitazioni del mattino. — «Questo pomeriggio, o sceicco, potrai riprenderti Sirio» — disse Ben Hur, accarezzando il collo del vecchio cavallo. — «Lo puoi riprendere, e darmi il cocchio.» — — «Così presto?» — chiese Ilderim. — «Con cavalli come i tuoi basta una giornata. Non hanno paura; hanno l'intelligenza di un uomo, ed amano l'esercizio. Questo, egli scosse le redini sul dorso al più giovine dei quattro, — tu lo chiamasti Aldebran, credo, — è il più veloce. In un giro di stadio avanzerebbe gli altri di tre lunghezze.» — Ilderim si lisciò la barba, con gli occhi scintillanti. — «Aldebran è il più veloce» — disse. — «E il più tardo?» — — «Eccolo.» — Ben Hur scosse le redini sopra Antares. — «Ma egli vincerà, perchè, vedi, sceicco, egli correrà tutto il giorno, e in sul calar del sole potrà raggiungere la sua massima velocità.» — — «Hai nuovamente ragione» — disse Ilderim. — «Io ho un solo dubbio, o sceicco.» — Lo sceicco si fece serio. — «Nella sua avidità di trionfare, un Romano transige anche con l'onore. Nei loro giuochi, — in tutti i loro giuochi, praticano una infinità di tranelli e di frodi; nelle gare dei cocchi, la loro furfanteria non risparmia nè i cavalli, nè l'auriga, nè il padrone. Quindi, buon sceicco, bada bene a quanto tu fai. Finchè la gara non sia terminata, non lasciare che nessun estraneo si avvicini ai cavalli. Per esser più sicuri, fa di più: — metti una guardia armata che li invigili notte e giorno. Allora non avrò paura per l'esito.» — Alla porta della tenda smontarono. — «Ciò che tu dici sarà fatto. Per lo splendore di Dio, nessuna mano dovrà avvicinarsi a loro tranne quella dei fedeli. Stanotte medesima porrò le sentinelle. Ma guarda, figlio di Arrio,» — Ilderim estrasse il plico dalla cintura e lo svolse lentamente, sedendo sopra il divano, — guarda, figlio di Arrio, e aiutami col tuo latino.» — Egli consegnò il dispaccio a Ben Hur. — «Ecco; leggi, leggi ad alta voce, traducendo le parole nella lingua de' tuoi padri. Il latino è un abbominio.» — Ben Hur era di buon umore e intraprese la lettura con leggerezza. _Messala a Grato!_ Si arrestò. Ebbe come un presentimento e il cuore gli cominciò a palpitare fortemente. Ilderim osservò la sua agitazione. — «Dunque? Aspetto.» — Ben Hur domandò scusa e ricominciò la lettura del papiro, che il lettore avrà già indovinato essere una copia della lettera con tanta cura spedita da Messala a Grato, la mattina dopo l'orgia nel palazzo. I primi paragrafi erano solo notevoli in quanto che rivelavano che lo scrittore non aveva perduto quelle qualità di scherno e d'ironia che adornavano il suo dire giovanile. Ma quando il lettore arrivò ai passi intesi a rammentare a Grato la famiglia dei Hur, la sua voce tremò, e due volte dovette arrestarsi, per riprendere padronanza di sè. Con uno sforzo continuò. — «Richiamerò anche le disposizioni che prendesti riguardo ai membri della famiglia Hur» — qui la voce del lettore fu rotta come da un singhiozzo — «affinchè il silenzio della tomba ci assicurasse il tranquillo godimento dei nostri guadagni, e allo stesso tempo il rimorso di aver versato sangue non ci macchiasse la coscienza.» — Ben Hur non potè continuare. Il papiro scivolò dalle sue mani ed egli si coprì il volto. — «Sono morte — morte. Io sono solo!» — Lo sceicco era stato muto ma commosso spettatore del dolore del giovine. Egli si alzò e disse: — «Figlio di Arrio, io devo chiederti perdono. Leggi la lettera da solo. Quando ti sarai riavuto abbastanza per comunicarmi il resto del contenuto, mandami a chiamare.» — Egli uscì dalla tenda. Il pensiero delicato era degno di lui. Ben Hur si gettò sul divano e si abbandonò alla foga della sua passione. Quando si fu rimesso alquanto, si ricordò che parte della lettera non gli era ancora conosciuta, e ne riprese la lettura. — «Ti ricorderai di ciò che hai fatto della madre e della figlia del malfattore, e se ora cedo alla curiosità di sapere se vivano o siano morte....» — Ben Hur trasalì, rilesse il passo: — «Egli non sa se siano morte; egli non sa!» — esclamò. — «Benedetto sia il nome del Signore! C'è ancora un po' di speranza.» — Sorretto da questo pensiero continuò la lettura fino al fondo. — «Non sono morte» — egli disse, dopo breve riflessione: — «Non sono morte; altrimenti egli lo saprebbe.» — Una seconda lettura, più attenta della prima, lo confermò in questa opinione. Allora mandò a chiamare lo sceicco. — «Quando venni la prima volta alla tua tenda ospitale, o sceicco» — egli incominciò con calma, quando l'arabo ebbe preso posto sul divano, e furono soli, — «io non aveva l'intenzione di parlarti della mia vita, tranne che di quella parte necessaria per provarti la mia destrezza ed esperienza nel guidare i cavalli. Non volli comunicarti la mia storia. Ma il caso che ha fatto pervenire questa lettera nelle mie mani, è così strano, che io sento il dovere di rivelarti ogni cosa. Mi conforta in questo proposito il fatto che siamo entrambi minacciati dal medesimo nemico, contro il quale è necessario che procediamo d'accordo. Io ti leggerò la lettera e ti darò la spiegazione, dopo la quale comprenderai facilmente il motivo della mia emozione. Se la considerasti debolezza o sentimentalità infantile, saprai ricrederti o scusarmi.» — Lo sceicco ascoltò in assoluto silenzio finchè Ben Hur arrivò al paragrafo in cui si faceva speciale menzione della sua persona. — «Io incontrai ieri l'Ebreo nel boschetto di Dafne» — diceva la lettera — «e se egli non vi è, tuttavia dimora certamente nelle vicinanze, cosicchè ti sarà facile tenerlo d'occhio. Anzi, se tu mi chiedessi dove sia in questo momento, io giuocherei che egli si trova nell'Orto delle Palme.» — — «Ah!» — esclamò Ilderim, afferrandosi la barba. — «Nell'Orto delle Palme,» — ripetè Ben Hur, — «sotto la tenda di quel canuto traditore, lo sceicco Ilderim....» — — «Traditore! Io?» — gridò il vecchio con voce fattasi acuta, mentre il labbro e la barba tremavano d'ira, e le vene della fronte e del collo si gonfiavano come per scoppiare. — «Un momento, sceicco» — fece Ben Hur. — «Tale è l'opinione di Messala, ascolta la sua minaccia»:.... sotto la tenda di quel canuto traditore, lo sceicco Ilderim, il quale non sfuggirà a lungo alle nostre mani. Non ti sorprenda se Massenzio, come passo preliminare faccia imbarcare l'Arabo sulla prima galera di ritorno, e lo mandi a Roma.» — — «A Roma! Me — Ilderim, — sceicco di diecimila cavalieri con lancie — me a Roma!» — Balzò in piedi, le mani tese, le dita che si aprivano e si stringevano con moto convulso, gli occhi scintillanti come quelli di un serpente. — «O Dio! — no, per tutti gli Dei, tranne per quelli di Roma! — quando finirà questa insolenza? Un uomo libero son io; libero è il mio popolo. Dobbiamo morire schiavi, o, peggio, dovrò io condurre la vita di un cane che striscia ai piedi del suo padrone? Devo leccare la sua mano perchè non mi batta? Ciò che è mio non è più mio, per l'aria che respiro devo dipendere da Roma. Oh, se fossi giovine un'altra volta! Oh se potessi scrollare dalle mie spalle venti anni, — o dieci, — o cinque!» — Strinse i denti, ed agitò le braccia sopra il capo; poi, sotto l'impulso di una nuova idea, fece due passi verso Ben Hur e gli afferrò con veemenza il braccio. — «Se io fossi come te, figlio di Arrio — giovine, forte, destro nelle armi; se avessi un torto come il tuo che mi spronasse alla vendetta, un torto tale da santificare l'odio — giù le maschere! Figlio di Hur, figlio di Hur, io dico!» — A quel nome il sangue di Ben Hur quasi si arrestò nelle vene; stupito, confuso, egli fissò gli occhi in quelli dell'Arabo, ora vicini ai suoi, e animati da una fiamma selvaggia. — «Figlio di Hur, io dico, se io fossi, come te, coi tuoi torti, coi tuoi ricordi, io non avrei, non potrei aver pace. Alle mie sofferenze aggiungerei quelle del mondo, e mi dedicherei alla vendetta. Per mare e per terra, in ogni paese, predicherei la rivolta contro il Romano. Ogni guerra di indipendenza mi troverebbe fra i combattenti, in ogni battaglia contro Roma brillerebbe la mia spada. Diventerei Parto, in mancanza di meglio. Che se anche gli uomini mi venissero meno, non interromperei i miei sforzi, no. Per lo splendore di Dio! Andrei fra i lupi, le tigri e i leoni nella speranza di aizzarli contro il comune nemico. Ogni arma sarebbe lecita, ogni eccidio giustificato, purchè le vittime fossero Romane. Alle fiamme tutto ciò che è Romano! Di notte pregherei gli Dei, i buoni e i cattivi egualmente, che mi prestassero i loro terrori, le loro tempeste, le carestie, il freddo, il caldo, e tutti gli innominabili veleni che essi lasciano liberi nell'aria, e tutto, tutto scaraventerei sul capo ai Romani. Oh, io non potrei dormire! Io, io....» — Lo sceicco si fermò per mancanza di respiro, e rimase muto, ansando, pallido, coi pugni serrati. Di tutto questo appassionato scoppio d'ira Ben Hur non ritenne che una vaga impressione di occhi fiammeggianti, di una voce stridula, di una collera troppo intensa per essere espressa con coerenza, a parole. Per la prima volta in otto anni il misero giovane era stato chiamato col suo vero nome. Un uomo almeno lo conosceva e lo riconosceva senza chiedere prove, e questi era un Arabo del deserto! Come era egli venuto a questa cognizione? La lettera? No. Essa parlava delle crudeltà inflitte alla sua famiglia, narrava la storia delle proprie sofferenze, ma non diceva che egli era la vittima provvidenzialmente sfuggita all'ira Romana. Questo anzi egli avrebbe voluto spiegare allo sceicco dopo terminata la lettura. La gioia e la speranza gli fiorirono in cuore, e con calma forzata domandò: — «Buon sceicco, dimmi, come venisti in possesso di questa lettera?» — — «La mia gente custodisce le strade fra le città» — rispose Ilderim bruscamente. — «La tolsero ad un corriere.» — — «Sanno che quella gente è tua?» — — «No. Davanti al mondo figurano come predoni, che è mio dovere di prendere ed impiccare.» — — «Un'altra domanda, sceicco. Tu mi chiamasti figlio di Hur — il nome di mio padre. Io mi credeva sconosciuto da tutti. Come apprendesti il mio nome?» — Ilderim esitò; poi, rinfrancandosi rispose. — «Io ti conosco, ma non sono libero di dirti altro.» — — «Qualcheduno ti tiene sotto padronanza?» — Lo sceicco tacque e fece per andarsene; ma osservando la disillusione di Ben Hur, ritornò indietro, e disse: — «Non parliamone più per ora. Io vado in città; quando ritorno ti parlerò liberamente. Dammi la lettera.» — Ilderim ripiegò con cura i papiri e li rimise subito nella loro busta. — «Che cosa dici» — egli chiese con energìa — «della mia proposta? Io ti esposi ciò che farei ne' tuoi panni, e tu non mi hai ancora risposto.» — — «Io voleva risponderti, sceicco, e ti risponderò.» — Il volto di Ben Hur si contrasse come sotto lo sforzo di un imperiosa volontà. — «Tutto ciò che tu hai detto, io farò, — almeno tutto quanto umanamente è possibile. Io ho dedicata la mia vita alla vendetta. Per cinque anni questa fu il mio unico pensiero. Senza tregua, senza riposo, sprezzando gli allettamenti di Roma e le tentazioni della gioventù, ho impiegato tutte le forze dell'animo mio a questo unico scopo. La mia educazione ebbe per meta ultima la vendetta. Praticai i più famosi maestri — non quelli di rettorica e di filosofia — ahimè! Non aveva tempo per questi. Le arti essenziali all'uomo d'armi erano la mia occupazione; vissi con gladiatori e con vincitori dell'arena; con centurioni nei campi Romani. E tutti furono orgogliosi di avermi a scolaro. O sceicco, io sono un soldato; ma per attuare i sogni ch'io nutrivo, avevo bisogno di essere un generale. Con questo intento mi sono arruolato nella guerra contro i Parti; quando essa sarà terminata, allora, se il Signore mi darà vita e forza, — allora» — egli alzò i pugni stretti, e parlò con veemenza — «allora, quando sarò un nemico perfezionato alla scuola di Roma, Roma dovrà pagarmi tutti i miei torti col sangue de' suoi figli. Questa è la mia risposta, sceicco.» — Ilderim gli gettò le braccia al collo e lo baciò, dicendo con voce bassa, quasi strozzata dall'emozione: — «Se il tuo Dio non ti aiuterà in questo, figlio di Hur, egli sarà morto. Senti ciò che ti prometto, che ti giuro, se vuoi: Tu avrai me stesso, e tutto ciò che io posseggo — uomini, cavalli, cammelli, — e il deserto per preparare i tuoi piani. Io lo giuro! E per ora basta. Mi vedrai, o udrai di me, prima di sera.» — Voltandosi bruscamente, lo sceicco uscì dalla tenda, e di lì a poco si trovò sulla via verso la città. CAPITOLO VI. La lettera intercettata era per più ragioni importante per Ben Hur. Era una confessione che l'autore di essa era stato complice nella soppressione della famiglia; che egli aveva sanzionato il piano proposto da Valerio Grato a questo scopo; che egli aveva ricevuto parte dei beni confiscati e che godeva ancora in quel momento; che egli temeva la improvvisa comparsa di quegli ch'egli chiamava il principale malfattore; nella quale vedeva una minaccia per la sicurezza propria e quella di Grato; infine che egli era pronto ad eseguire qualunque disegno che il fertile cervello del procuratore di Giudea avrebbe saputo escogitare, per togliere di mezzo il comune nemico. Specialmente quest'ultima considerazione, l'avviso di un pericolo vicino, diede molto a pensare a Ben Hur, rimasto solo nella tenda dopo la partenza di Ilderim. I suoi avversari erano personaggi potenti ed astuti. Se essi lo temevano, egli aveva maggior ragione di temerli. Cercò di chiarirsi bene la situazione e di riflettere sul modo in cui l'odio di essi avrebbe potuto esplicarsi, ma i suoi pensieri venivano costantemente turbati dalla visione della madre e della sorella. Poco importava se il fondamento di questa sua persuasione era debole, riposando essa interamente sul fatto che Messala non aveva appreso la loro morte; la gioia che egli provava, soffocava ogni dubbio. Finalmente aveva trovato una persona la quale sapeva dove esse erano celate, e, nella esaltazione del momento, la loro scoperta gli sembrava già vicina, un evento di prossima attuazione. Con tutti questi pensieri e sentimenti pensava con una specie di mistica certezza che Iddio stava per presceglierlo al compimento di una grande missione. Di tanto in tanto, richiamando le parole di Ilderim, egli si meravigliava donde l'arabo avesse tratte le informazioni sul suo conto; non da Malluch certamente; non da Simonide, l'interesse del quale stava al contrario nel celare ogni cosa. Messala? L'idea era ridicola. Ogni congettura approdava al medesimo risultato negativo. — «Meno male» — egli pensava consolandosi che da qualunque fonte lo sceicco avesse appreso il suo nome e i particolari della sua vita, non poteva essere che da un amico, il quale, come tale, si sarebbe a suo tempo dichiarato. — «Un po' di pazienza, un po' di attesa» — forse la gita dello sceicco in città aveva relazione con l'affare; possibilmente la lettera favorirebbe una completa rivelazione. E paziente egli sarebbe stato se solamente egli avesse potuto accertarsi che Tirzah e sua madre lo attendevano in circostanze tali da permettere anche ad esse le medesime speranze che egli nutriva; se, in altre parole, la coscienza non lo pungesse con mille accuse per la sua inazione. Per isfuggire a questi rimorsi, egli si diede a passeggiare sotto gli alberi dell'Orto, ora fermandosi a osservare i raccoglitori di datteri, ora a seguire i voli degli uccelli che andavano a nascondersi nel fogliame delle palme, ora le corse dello sciame delle api, che ronzando circondavano i cespugli fioriti e carichi di bacche. Più a lungo indugiò lungo le sponde del lago. Quelle limpide acque, appena increspate dal vento, che venivano con mormorìo sommesso a lambire voluttuosamente le rive, gli richiamavano l'immagine dell'Egiziana e la sua meravigliosa bellezza, e il ricordo di quella sera allietata dalle parole e dal canto di lei, gli riempiva il cuore di una grande dolcezza. Ripensava al fascino dei suoi modi, all'armonìa del suo riso, alle sue lusinghe e alle sue blandizie, al tepore molle di quella manina che stringeva la sua sopra il pomo del timone. Da lei il suo pensiero correva a Balthasar, e alla sua miracolosa narrazione; e da lui al Re dei Giudei, che il santo uomo con tanta profondità di convinzione diceva vivo e annunziava vicino. E qui la sua mente si arrestò, indagando il mistero di quello strano personaggio, e traendo da quelle riflessioni la soddisfazione di cui andava in cerca. Nulla è più facile della confutazione di un pensiero contrario ai nostri desideri, e Ben Hur rifiutò energicamente la definizione data da Balthasar del regno che doveva venire. Il concetto di un regno spirituale, se non era intollerabile alle dottrine Sadducee di cui era imbevuto, gli sembrava una deduzione tratta dalle profondità di una fede troppo astratta e sognatrice. Un regno della Giudea, ah sì, quello era più comprensibile; un tale regno era già esistito e per la stessa ragione potrebbe ritornare! E accarezzava il suo orgoglio il pensare un regno nuovo, più vasto nei suoi dominii, più ricco e più splendido dell'antico; un Re sotto il quale egli troverebbe e servizio e vendetta. In questa condizione d'animo egli ritornò al _dovar_. Terminata la colazione, per occupare il pomeriggio, Ben Hur fece condurre davanti alla tenda il cocchio che egli sottopose ad un attento esame. Questa parola non rende che poveramente lo studio e la cura ch'egli pose nell'osservare ogni minimo particolare del veicolo. Con una soddisfazione che apparirà più comprensibile in seguito, vide che il modello era Greco, a suo avviso preferibile a quello Romano. Era più ampio nello spazio fra ruota e ruota, più basso di sala e più pesante; ma lo svantaggio del peso maggiore sarebbe più che compensato dalla resistenza dei suoi Arabi. In generale i costruttori di cocchi in Roma fabbricavano solamente veicoli da corsa, sacrificando la sicurezza alla leggerezza, e la resistenza alla grazia; mentre i carri di Achille e del _Re degli uomini designati per la guerra e i suoi pericoli_ erano ancora i tipi preferiti nelle gare Istmiche e d'Olimpia. Poi attaccò i cavalli e li guidò sul campo delle esercitazioni, dove per parecchie ore li tenne sotto il giogo, obbligandoli ad ogni genere di evoluzioni. Quando ritornò al padiglione sul far della sera, il suo animo si era calmato e aveva deciso di sospendere ogni passo riguardo a Messala fin dopo la giornata delle corse. Il piacere di misurarsi col suo nemico al cospetto di tutto l'Oriente era una voluttà di cui egli non sapeva privarsi. La sua fiducia nella propria abilità e nel risultato finale era assoluta. Quanto ai cavalli, essi sarebbero stati i suoi compagni nella gloriosa impresa. — «Ch'egli stìa all'erta! Ch'egli badi! Nevvero, Antares, Aldebran? Nevvero Rigel, buon cavallo? E tu Altair, Re dei corsieri, non dovrà egli temerci? Buoni, buoni!» — Così parlava ai cavalli negli intervalli di riposo, andando dall'uno all'altro, e accarezzando loro le guancie e i colli. Sul far della notte Ben Hur sedeva davanti alla porta della tenda, aspettando Ilderim, non ancora ritornato dalla città. Non provava impazienza, nè dubbio, nè timore. Lo sceicco almeno avrebbe parlato. Anzi, fosse la soddisfazione dell'ottimo lavoro prestato dai cavalli, o la dolce stanchezza che succede a una giornata di tanta fatica, o la cena a cui aveva fatto largo onore, o la reazione, che, per una provvida legge di natura tien sempre dietro al momento di depressione e di tristezza, il giovane si trovava di ottimo umore, e quasi felice. Gli sembrava che la Provvidenza lo avesse preso sotto la sua speciale protezione. Finalmente si udì lo scalpitare di un cavallo, e Malluch smontò davanti alla tenda. Ben Hur non fece domande, ma entrò nel recinto dove pascolavano i cavalli. Aldebran gli si avvicinò, come profferendo i suoi servigi. Egli lo accarezzò affettuosamente, ma passò a scegliere un altro cavallo, non uno dei quattro: questi erano sacri alla gara. In breve tempo i due cavalieri percorrevano rapidamente e in silenzio la via della città. Prima d'arrivare al Ponte Seleucio, essi attraversarono il fiume su di una barca, e penetrarono nella città dal lato occidentale. Il cammino era più lungo, ma Ben Hur lo accettò senza far parola, pensando che fosse una precauzione necessaria. Passarono il molo di Simonide, e, davanti alla porta del grande magazzeno, Malluch fermò il suo cavallo. — «Siamo giunti» — egli disse — «smonta.» — Ben Hur riconobbe la località. — «Dov'è lo sceicco?» — — «Vieni con me. Te lo mostrerò.» — Un custode prese i cavalli, e quasi prima che Ben Hur si rendesse chiaramente conto di quanto avveniva, egli si trovò di nuovo davanti alla porta della casa sopra il terrazzo, e intese una voce: — «In nome di Dio, entrate.» — CAPITOLO VII. Malluch si fermò alla porta; Ben Hur entrò da solo. La stanza era quella medesima in cui aveva per la prima volta veduto Simonide, e nulla era mutato della sua apparenza, tranne che, presso alla poltrona del vecchio, era stato posto un grande candelabro di bronzo con molte braccia da cui pendevano numerose lampade d'argento, tutte accese. La luce era chiara e illuminava i tavolati delle pareti, la cornice dorata, e la volta di mica viola. Fatti due passi Ben Hur si arrestò. Tre persone erano presenti e lo guardavano. — Simonide, Ilderim ed Ester. Egli girò gli occhi dall'uno all'altro come per trovar risposta alla domanda mezzo formulata dal suo cervello: — «Che cosa vogliono da me questi tre?» — A questa tenne subito dietro un'altra: — «Sono amici o nemici?» — Finalmente i suoi sguardi si fermarono su Ester. I due uomini gli avevano risposto con espressione bonaria, ma ciò ch'egli lesse nel volto della fanciulla era qualche cosa di più spirituale, che, quantunque sfuggisse ad ogni definizione, penetrò profondamente nell'animo suo. Ebbe per un istante la visione di un altro viso, quella dell'Egiziana, ma si dileguò subito. — «Figlio di Hur.» — Egli si voltò verso Simonide. — «Figlio di Hur» — ripetè il negoziante, sillabando con enfasi solenne le parole, come per imprimergli bene in mente tutto il significato dell'apostrofe — «La pace del Signore Iddio, dei nostri padri sia con te. Prendila da parte mia e dei miei.» — Il vecchio sedeva nella sua poltrona. Era la stessa testa regale, il volto pallido, l'aria imperiosa, sotto l'influenza della quale i visitatori dimenticavano le sue membra deformi. I bianchi occhi neri brillavano sopra le bianche sopracciglia. Un momento rimase così, poi incrociò le braccia sul petto. L'atto, messo in rapporto col saluto, non poteva essere frainteso, e non lo fu. — «Simonide» — rispose Ben Hur, commosso — «la pace che tu offri, io l'accetto. Come figlio a padre te la ritorno: soltanto intendiamoci chiaramente fra di noi.» — Così, delicatamente, egli cercò di eludere la sottomissione del negoziante, ed invece della relazione fra padrone e schiavo, volle sostituire un vincolo più elevato e più santo. Simonide lasciò cadere le mani, e volgendosi ad Ester disse: — «Una sedia per il padrone, o figlia.» — Essa si affrettò a portargli una sedia, e rimase in piedi, con le gote coperte di rossore, guardando ora all'uno, ora all'altro, da Ben Hur a Simonide, da Simonide a Ben Hur. Dopo una breve pausa Ben Hur prese la sedia dalle sue mani e l'avvicinò alla poltrona del negoziante. — «Io siederò qui,» — egli disse. I suoi occhi incontrarono quelli di lei, per un istante solo, ma egli ed Ester si sentirono migliori per quello sguardo. Simonide si inchinò e disse con un sospiro di sollievo: — «Ester, mia figlia, portami le carte.» — Essa andò ad un tavolato nella parete, lo aperse e ne estrasse un rotolo di papiri che porse al padre. — «Tu dicesti bene, figlio di Hur» — cominciò Simonide, spiegando i fogli — «intendiamoci chiaramente. In anticipazione della richiesta — che io avrei offerto spontaneamente se tu l'avessi rifiutata io ho preparato alcune note che lumeggiano la situazione. Due sono i punti che hanno bisogno di essere spiegati — la proprietà dapprima, e poi i nostri rapporti. L'esposizione è chiara riguardo ad entrambi. Vuoi leggerla?» — Ben Hur prese le carte, ma diede uno sguardo ad Ilderim. — «No» — disse Simonide — «la presenza dello sceicco non ti impedisca di leggere; il conto che troverai ha bisogno di un testimonio. In calce di esso tu troverai il nome di Ilderim. Egli è al corrente di tutto ed è tuo amico. Tutto quanto egli è stato per me, sarà anche per te.» — Simonide guardò l'arabo con un sorriso che questi gli rese con un grave cenno del capo, dicendo: — «Tu l'hai detto.» — Ben Hur rispose: — «Io ho avuto già altre prove della sua amicizia e toccherebbe a me di mostrarmene degno.» — poi soggiunse: — «Più tardi, o Simonide, leggerò con attenzione le carte; per ora, riprendile, e, se ciò non ti stanca, esponi brevemente il loro contenuto.» — Simonide riprese il rotolo. — «Qui, Ester, vicino a me, e prendi le pagine man mano che te le porgo.» — Essa si pose presso alla sua poltrona, appoggiando la mano destra leggermente sulla spalla del vecchio. Formavano così un gruppo solo, e, quando egli parlava, sembrava che il rendiconto procedesse da entrambi. — «Questo» — disse Simonide, spiegando la prima pagina — «contiene l'esposizione delle somme che io ebbi da tuo padre, e che salvai dalla confisca Romana. Non v'erano beni, soltanto danaro, e anche questo i predoni avrebbero preso, se non fosse stato che, secondo consuetudini Ebraiche, esso si trovava sotto la forma di cambiali tratte sui mercati di Roma, Alessandria, Damasco, Cartagine e Valenza ed altre città minori. La somma così salvata ammontava a centoventi talenti Ebraici.» — Egli diede il foglio ad Ester e prese il secondo. — «Di questo importo io m'incaricai. Ora ascolta i miei crediti. Vedrai che in questa parola io intendo significar i guadagni ricavati da quella somma.» — Da vari fogli lesse le seguenti cifre, che rendiamo, omettendo le frazioni: _Crediti:_ Navi 60 talenti Merci nei magazzeni 110 » Carichi di transito 35 » Cammelli, cavalli, ecc. 20 » Magazzini 10 » Cambiali 54 » Contanti 254 » ——— Totale 553 talenti — «Aggiungi a questi, e ai cinquecento cinquantatre talenti guadagnati, il capitale originale ricevuto da tuo padre, tu hai SEICENTO SETTANTATRE TALENTI! — tutti tuoi, che ti fanno, o figlio di Hur, il suddito più ricco della terra.» — Egli prese i papiri dalle mani di Ester, tranne uno, e li porse a Ben Hur. L'orgoglio che traspariva da quel gesto, non offendeva; poteva derivare dal sentimento del proprio dovere ben compiuto, o riguardare unicamente Ben Hur. — «Ed ora non v'è nulla» — egli aggiunse, abbassando la voce, ma non gli occhi — «ora non v'è nulla che tu non possa fare.» — Il momento era solenne. Simonide tornò ad incrociare le braccia sul petto. Ester era ansiosa. Ilderim si lisciava la barba nervosamente. Una fortuna che giunga improvvisa è la prova di fuoco del carattere umano. Prendendo il rotolo, Ben Hur si alzò, lottando con la sua emozione. — «Tutto ciò è come una luce del cielo, mandata a dissipare le tenebre di una notte che io credeva dovesse durare eterna, tanto era lunga e priva d'ogni speranza» — egli disse con voce rauca. — «Io ringrazio il Signore, che non mi ha abbandonato, e poi te o Simonide; la tua fedeltà compensa la crudeltà di altri, e rivendica la natura umana. — «Non v'è nulla ch'io non possa fare:» — Sia così. Tu mi sei testimonio, sceicco Ilderim. Ascolta bene le mie parole, e ricordale; e tu pure, Ester, ottimo angelo di questo buon uomo, ascoltami.» — Egli tese la mano col rotolo a Simonide. — «Tutto ciò che queste carte contengono, navi, case, mercanzie, cammelli, cavalli, denaro, tutto io ti restituisco, o Simonide, confermandolo a te ed ai tuoi per sempre.» — Ester sorrise fra le sue lagrime; Ilderim afferrò con ambe le mani la sua barba, mentre gli occhi gli luccicavano come carboni. Simonide soltanto rimase calmo. — «Confermandole a te ed ai tuoi per sempre» — continuò Ben Hur — «con una eccezione e ad un patto.» — I suoi ascoltatori trattennero il respiro per ascoltarlo meglio. — «Tu dovrai restituirmi i centoventi talenti che appartenevano a mio padre.» — Il volto di Ilderim si rasserenò. — «E tu dovrai aiutarmi con tutte le tue forze e con tutti i tuoi beni nella ricerca di mia madre e di mia sorella.» — Simonide era commosso. Porgendogli la mano, egli disse: — «Riconosco l'animo tuo, o figlio di Hur, e sono riconoscente al Signore d'avermi mandato un uomo come te. Come io ho servito tuo padre, così continuerò a servirti; ma non posso accettar le tue proposte generose.» — Spiegando l'ultimo foglio continuò: — «Tu non hai veduto tutto. Prendi questo e leggi — leggi ad alta voce.» — Ben Hur prese il foglio e lesse. Nota degli schiavi di Hur, tenuta da Simonide suo amministratore. 1. Amrah, Egiziana, custode del palazzo in Gerusalemme. 2. Simonide, Agente in Antiochia. 3. Ester figlia di Simonide. Ora, in tutte le sue riflessioni intorno a Simonide, Ben Hur non aveva mai lontanamente pensato che, per legge, i figli seguono la condizione dei genitori. In tutte le sue visioni la soave persona di Ester figurava come una rivale dell'Egiziana, oggetto del suo affetto e forse del suo amore. Egli rabbrividì alla rivelazione così bruscamente presentatagli, e vedendo la fanciulla arrossire e chinare gli occhi mentre egli avvoltolava di nuovo il papiro nelle sue mani, egli disse: — «Un uomo con seicento talenti è ricco in verità, e può fare ciò che gli piace; ma più preziosi del denaro, più preziosi dei beni, sono l'intelligenza che ha saputo ammassare quella ricchezza, e il cuore che, in mezzo a quella ricchezza, non s'è lasciato corrompere. O Simonide, e tu Ester, non temete. Lo sceicco Ilderim attesterà che da questo momento io vi dichiaro liberi e affrancati, e questo confermerò con una scrittura. Vi basta?» — — «Figlio di Hur» — disse Simonide — «tu rendi dolce anche la servitù. Ma sappi che io ebbi torto: vi sono cose che tu non puoi fare, nemmeno con le tue ricchezze. Tu non puoi liberarci. Io sono tuo schiavo, perchè spontaneamente mi lasciai forare l'orecchio con la lesina per mano di tuo padre, e i segni rimangono ancora.» — — «E mio padre fece questo?» — — «Non biasimarlo,» — si affrettò a dire Simonide. — «Egli mi accettò quale schiavo di questa categoria, perchè io lo supplicai di fatto. Non mi sono mai pentito. Fu questo il prezzo che pagai per Rachele, la madre di mia figlia; perchè Rachele non volle diventare mia moglie, se io non fossi diventato ciò che essa era.» — — «Essa era schiava in perpetuo?» — — «Sì.» — Ben Hur misurò la stanza con passi concitati. — «Io era già ricco» — disse, arrestandosi di un colpo — «ricco pei doni del generoso duumviro; ora mi capita questa fortuna colossale e la mente che l'ha saputa ammassare. Non v'è il dito di Dio in tutto ciò? Consigliami, o Simonide! Aiutami a scoprire il vero. Fa che io diventi degno del mio nome, e se tu sei schiavo nella legge, io sarò tuo servo di fatto. Tu comanda.» — Il viso di Simonide era raggiante. — «O figlio del mio morto padrone! Io farò più che aiutarti; io metterò al tuo servizio tutta la forza della mia mente e del mio cuore. Il mio corpo però non giova alla tua causa, ma col cuore e con la mente ti servirò. Lo giuro, per l'altare del nostro Dio! Soltanto creami con nomina formale ciò che fin'ora ho finto di essere.» — — «Che cosa?» — chiese Ben Hur con sollecitudine. — «Amministratore dei tuoi beni.» — — «Lo sei da questo istante, o vuoi lo faccia in iscritto?» — — «La tua parola basta. Così fece tuo padre. Ed ora siamo intesi.» — Simonide tacque. — «Lo siamo» — disse Ben Hur. — «E tu, figlia di Rachele, parla!» — continuò Simonide, sollevando il braccio di lei dalla sua spalla. Ester, lasciata così sola, rimase confusa un istante; poi andò da Ben Hur, e con tutta la grazia della sua femminilità, disse: — «Io non sono diversa da mia madre; e poichè essa è morta, lascia, padrone, che io prenda cura di mio padre.» — Ben Hur prese la sua mano e la condusse presso la poltrona. — «Sei una buona figliuola» — disse. — «Sia fatta la tua volontà.» — Essa cinse di nuovo il collo di suo padre e per qualche tempo regnò il silenzio nella stanza. CAPITOLO VIII. Simonide alzò il capo. — «Ester, egli disse dolcemente, la notte è inoltrata; portaci da bere, affinchè ciò che ancora dobbiamo dire non ci affatichi.» — Essa suonò il campanello. Un domestico entrò con vino e pane. — «Qualche cosa rimane ancora da chiarirsi, mio buon padrone» — disse Simonide. — «D'ora innanzi le nostre vite dovranno correre insieme come due fiumi che hanno unite le loro acque e scorrono verso la medesima foce. È meglio che ogni nube sia dissipata. Quando tu partisti l'altro giorno dalla mia porta tu credesti che io ti avessi negato quei tuoi diritti che ora conosco in tutta la loro ampiezza. Ma non fu così, no, non fu così. Ester può attestare che io ti riconobbi, e che non ti perdei di vista lo può dire Malluch, il quale...» — — «Malluch!» — esclamò Ben Hur. — «Chi è inchiodato come me alla sua poltrona, deve servirsi di molte mani se vuol muovere il mondo dal quale lo divide una così crudele barriera. Io ho molte di queste mani, e Malluch è una delle migliori. E qualche volta,» — e rivolse uno sguardo riconoscente allo sceicco — «qualche volta mi rivolgo ad altri cuori generosi, come Ilderim, buono e coraggioso. Che egli ti dica se ti avevo ripudiato o dimenticato.» — Ben Hur guardò l'Arabo. — «Questi è colui che ti parlò di me, buon Ilderim.» — Ilderim accennò di sì col capo, e i suoi occhietti scintillarono. — «Come si può conoscere senza una prova, o mio padrone» — continuò Simonide, — «ciò che sia un uomo? Io ti ravvisai, per la somiglianza con tuo padre; ma non conosceva la tua indole e i tuoi costumi. V'è della gente per la quale le ricchezze sono una maledizione. Eri tu uno di questi esseri? Io mandai Malluch per accertarmene, e vidi coi suoi occhi, e ascoltai con le sue orecchie. Non biasimarlo. Ciò che egli mi riferì era tutto in tuo favore.» — — «Io non lo biasimo» — disse Ben Hur, cordialmente. — «Io approvo la tua saggezza.» — — «Le tue parole mi sono gradite» — continuò il negoziante, — «gradite assai. La mia paura di un malinteso è cessata. Ed ora i fiumi scorrano per la loro via nella direzione che Dio indicherà!» — Dopo una pausa egli riprese. — «Come il tessitore seduto al telaio vede scorrere veloci le spole, e la tela crescere sotto i suoi occhi e coprirsi di figure ed arabeschi, mentre egli sogna fulgidi sogni nel frattempo; così, nelle mie mani, si accumulava il denaro, ed io mi meravigliavo di questa prosperità e spesso me ne chiedevo il perchè. Io vedeva una mano che non era la mia guidare ogni impresa. Il Simun, che seppelliva le carovane degli altri nel deserto, risparmiava le mie; le tempeste che riempivano i mari di naufragi e gettavano i rottami sulle spiaggie, acceleravano il corso delle mie navi. Più strano di tutto, io, così dipendente dagli altri, immobile nella mia sedia come una cosa morta, non ho mai patito una perdita da parte di un agente — mai. Gli elementi sono aggiogati al mio servizio, e tutti i miei servitori mi sono stati fedeli.» — — «È strano veramente» — disse Ben Hur. — «Così io mi diceva. Finalmente, o padrone, venni alla tua conclusione: Iddio c'entrava — e come te mi chiesi: — «Quale sarà il suo scopo?» — La mente di Dio non si muove se non con un intento. E per tutti questi anni mi sono ripetuto questa domanda, aspettando una risposta, che sapevo Dio avrebbe fatta a suo tempo. E io credo che il momento sia venuto.» — Ben Hur ascoltò con attenzione crescente. — «Molti anni or sono, io sedeva con tua madre, o Ester, sulla strada ad oriente di Gerusalemme, presso le tombe dei Re, quando tre uomini mi passarono davanti sopra grandi cammelli bianchi, non mai veduti nella Città Santa. Questi uomini erano stranieri, e venivano da lontano. Il primo di essi si fermò e chiese: — «Dov'è colui che è nato Re degli Ebrei?» — E come per calmare la mia curiosità continuò: — «Noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente, e siamo venuti per adorarlo.» — Io non sapeva che cosa rispondere, ma tenni loro dietro fino alla porta di Gerusalemme, dove ripeterono la loro domanda alla guardia. Tutti quelli che la intesero, rimasero stupiti e credettero che si trattasse dell'atteso Col tempo dimenticai queste circostanze, che ora mi sono state nuovamente richiamate alla mente. Hai veduto Balthasar? — «Sì, ed ho udito il suo racconto» — disse Ben Hur. — «Un miracolo! Un vero miracolo!» — esclamò Simonide. — «Quando egli me lo narrò, mi parve di ascoltare la risposta che da tanti anni attendevo. Il pensiero di Dio mi balenò chiaro davanti agli occhi. Il Re che verrà sarà povero, povero e senza amici; senza seguito, senza esercito, senza flotte, senza città e piazze forti; c'era un regno da formare e una Roma da essere abbattuta. Vedi, o padrone, vedi! Tu pieno di forza, tu addestrato nelle armi, tu ricco; quale opportunità ti offre il Signore! Non abbraccerai l'occasione e non farai tuo questo compito? Quale gloria più perfetta potrebbe desiderare un uomo?» — Simonide aveva pronunciato questo appello con tutta l'anima sua. — «Ma il regno, il regno!» — Ben Hur rispose. — «Balthasar dice che sarà delle anime soltanto.» — L'orgoglio ebraico era forte in Simonide e con un leggiero tono di disprezzo egli replicò: — «Balthasar è stato testimonio di cose meravigliose, o padrone; di miracoli; e, quando egli ne parla, la mia fede si china dinanzi a lui, perchè egli le ha vedute ed udite. Ma d'altra parte egli è un figlio di Mizraim, pur non essendone un proselite. Non è dunque credibile ch'egli possegga cognizioni tali da costringerci a credere ciecamente tutto ciò che riguarda le intenzioni di Dio con Israele. I profeti ricevevano la loro luce direttamente dal cielo, come la ebbe lui. Essi sono molti, egli è solo. Io devo credere ai profeti: Ester, portami la Torah.» — Poi continuò senza attenderla: — «Si può rigettare la testimonianza di tutto un popolo, o padrone? Da Tiro al Nord, fino alla capitale di Edom all'estremo Sud, non trovai un pastore o un mendicante che non ti dica che il regno del Re che verrà, sarà come quello di Davide e di Salomone. Donde trassero la loro fede, è ciò che vedremo.» — In quella rientrò Ester, recando una quantità di rotoli entro astucci ornati di arabeschi e con strane lettere d'oro. Egli li prese e li ordinò sopra il tavolo. Spiegando ora l'uno ora l'altro dei vecchi papiri, egli confortò le sue argomentazioni con copiose citazioni, che noi, per brevità, risparmieremo al lettore. Dal Libro di Enoch, ai salmi di Davide, dalle profezie di Ezra, di Geremia e di Daniele, chiare come squilli di tromba uscivano le parole annunziatrici del Regno del Re che doveva venire, la sua gloria, i suoi trionfi. Ben Hur piegò la fronte sopraffatto, convinto, ed esclamò: — «Io credo, io credo!» — — «E allora?» — chiese Simonide. — «Se il Re sarà povero, non lo aiuterà il mio padrone con la ricchezza che possiede in abbondanza?» — — «Aiutarlo? Fino all'ultimo siclo e all'ultimo respiro! Ma perchè credi che verrà povero?» — — «Ascolta la parola del Signore, quale Zaccaria l'intese. Ecco come il Re entrerà in Gerusalemme.» — E lesse: — «Rallegrati, o figliuolo di Sion. Vedi il tuo Re che viene con la giustizia e con la salvezza; umilmente a cavallo di un asino.» — Ben Hur torse il capo e guardò altrove. — «Che cosa vedi, o padrone!» — — «Roma!» — rispose mestamente. — «Roma e le sue legioni. Io ho vissuto con esse nei loro accampamenti, e le conosco.» — — «Ah!» — disse Simonide. — «Tu guiderai le legioni del Re, sarai alla testa di milioni di uomini.» — — «Milioni di uomini!» — esclamò Ben Hur. Simonide stette alquanto sopra pensiero. — «La questione del numero non ti inquieti» — disse Simonide. Ben Hur lo guardò. — «Tu vedi da una parte il Re umile e dimesso, e dall'altra parte le serrate legioni di Roma, e ti domandi: Che cosa può egli fare?» — — «Questo era il mio pensiero.» — — «O mio padrone!» — continuò Simonide — «Tu non conosci la forza d'Israele. Tu te lo figuri come un vecchio cadente che piange amare lacrime presso i fiumi di Babilonia. Ma va a Gerusalemme il giorno di Pasqua, e fermati sullo Xisto o nella Via dei Barattieri, e conta la gente che passa. La promessa che il Signore fece a nostro padre Giacobbe si è avverata davvero; noi ci siamo moltiplicati infinitamente, ad onta della schiavitù in Egitto, della cattività Babilonese, della dominazione Romana. Ma non solo ai limiti della razza devi badare; ma pensa allo sviluppo della nostra fede che abbraccia tanti popoli nell'Asia, conta gli eserciti dei fedeli che aspettano il vecchio grido d'allarme: Alle tue tende, Israele! A centinaia e migliaia sono sparsi nella Persia, nell'Egitto, nell'Africa, nei mercati d'occidente, nella Spagna ed a Londra, nella Grecia e nelle isole, sul Ponto e qui in Antiochia, e nella stessa maledetta città dei sette colli. È un corteo di nazioni, è una selva di spade che attende l'avvento del Re.» — Le parole furono profferite con fervore ed ispirazione. Sopra Ilderim fecero l'effetto d'uno squillo di tromba. — «Oh se mi ritornasse la mia gioventù!» — egli gridò balzando in piedi. Ben Hur non si mosse. Egli comprendeva che questo discorso mirava ad invitarlo a sacrificare tutta la sua vita e la sua fortuna al servizio dell'Essere misterioso nel quale si concentravano le speranze di Simonide come quelle dell'Egiziano. L'idea, come abbiamo veduto, non era nuova, ma gli era venuta ripetutamente, dopo le parole di Malluch, dopo la cena con Balthasar; ma aveva urtato contro ostacoli, e non si era ancora mutata in una risoluzione certa. Ora non più. Una mano maestra era venuta a raccogliere la vasta trama, ad ordinarne le fila. Quelle parole alate ebbero sopra di lui l'effetto come se una porta invisibile si fosse improvvisamente spalancata, inondandolo di un fascio di luce, schiudendogli tutto un nuovo splendente avvenire, in cui il sogno della sua vita, quel sogno careggiato fra le catene e sul remo, e nelle palestre di Roma, trovava il suo posto e prometteva di avverarsi. Un ultimo dubbio rimaneva. — «Ammettiamo tutto quanto tu dici, o Simonide, che cioè il Re verrà e il suo regno sarà come quello di Salomone. Supponiamo anche che io sia pronto a mettere me stesso e le mie ricchezze al suo servizio; di più, che le vicende della mia vita, e la vasta fortuna da te accumulata siano state davvero ordinate da Dio a quello scopo; dovremo noi forse lavorare alla cieca? Dobbiamo aspettare l'arrivo del Re? Ch'egli mi chiami? Tu hai l'esperienza dell'età. Rispondi.» — Simonide rispose senza esitare. — «Non abbiamo altra scelta, nessuna. Questa lettera» — così parlando estrasse il messaggio di Messala — «è il segnale della lotta. Noi non siamo abbastanza forti per resistere l'alleanza di Messala con Grato; ci mancano l'influenza a Roma e la forza qui. Essi ti uccideranno se aspetti. Vedi nella mia persona qual'è la loro misericordia.» — Un fremito lo scosse al ricordo dei tormenti. — «O buon padrone» — egli continuò — «L'animo tuo è forte?» — Ben Hur non lo comprese. — «Io mi ricordo come bella mi sembrava la vita alla tua età» — proseguì Simonide. — «Nondimeno» — disse Ben Hur — «fosti capace di un grande sacrificio.» — — «Sì, per amore.» — — «Non ha la vita altri motivi forti del pari.» — Simonide scosse la testa. — «C'è l'ambizione.» — — «L'ambizione è vietata ai figli d'Israele.» — — «La vendetta!» — Era una scintilla cadente in un mare infiammabile. Gli occhi del vecchio brillarono, le sue dita si strinsero, ed egli rispose con veemenza: — «La vendetta è un diritto dell'Ebreo. Così dice la legge.» — — «Un cammello, fino un cane, ricorda l'offesa!» — gridò Ilderim. Simonide ripigliò il filo del suo discorso. — «Vi è un lavoro da compiersi prima dell'avvento del Re, un lavoro di preparazione. La mano d'Israele sorgerà in sua difesa, non v'ha dubbio, ma, ahimè, è una mano che la pace ha rattrappita, che la guerra deve snodare. Fra i milioni non vi è disciplina, non vi sono capitani. Io non parlo dei mercenari di Erode, che parteggerebbero pei nostri nemici. Questa pace è cara al Romano, ed è frutto della sua politica; ma un cambiamento è vicino, in cui il pastore butterà via il suo bordone e brandirà la spada e la lancia, e gli armenti pascolanti diverranno branchi di leoni. Qualcheduno, o mio figlio, dovrà occupare il posto alla destra del Re. E a chi spetterà questo onore se non a colui che avrà compiuto questo lavoro?» — Il volto di Ben Hur si accese. — «Io vedo. Ma parla chiaramente. Altro è dire: una cosa deve farsi; altro è dire come deve farsi.» — Simonide bevve un sorso del vino che Ester gli aveva offerto, poi proseguì: — «Lo sceicco e tu, mio padrone, avrete ciascuno una parte. Io rimarrò qui, continuando il mio mestiere affinchè non si esauriscano i fondi, e starò in vedetta. Tu andrai a Gerusalemme, e di là nei monti, e comincerai a contare gli uomini d'arme d'Israele, dividendoli in deche e in centene, scegliendo capitani ed esercitandoli nelle armi, che io ti manderò e che saranno nascoste in luoghi segreti. Partendo dalla Perea, andrai fra i Galilei, e quindi a Gerusalemme. Nella Perea avrai alle tue spalle il deserto con Ilderim e i suoi cavalieri. Egli proteggerà le retrovie e ti sarà utile in molte guise. Nessuno saprà nulla di nulla finchè il disegno non è maturo. Ho già parlato ad Ilderim. Che te ne pare?» — Ben Hur guardò lo sceicco. — «Le cose stanno com'egli dice, figlio di Hur,» — rispose l'Arabo. — «Io gli ho dato la mia parola, ed egli si è dichiarato soddisfatto; ma tu avrai il mio giuramento e quello di tutte le lancie della mia tribù.» — Tutti e tre — Simonide — Ilderim — Ester — fissarono Ben Hur. — «Ogni uomo» — egli rispose lentamente — «in un momento o l'altro della sua vita, appressa alle sue labbra la coppa del piacere e ne assaggia il liquido delizioso, ogni uomo tranne me. Io vedo, Simonide, e tu, generoso sceicco, a che cosa tendono le vostre proposte. Se io le accetto ed intrapprendo questo compito, addio pace e belle speranze di una vita tranquilla! Le porte che ora m'invitano si chiuderanno dietro di me per non riaprirsi più mai, perchè Roma ne tiene tutte le chiavi; il suo bando mi seguirà ovunque. Fuggendo i suoi segugi, le tombe e le caverne saranno la mia dimora, ultimo asilo il deserto.» — Un singhiozzo interruppe le sue parole. Tutti si voltarono verso Ester, che celò il volto sul petto del padre. — «Io non l'avrei creduto di te, Ester» — disse Simonide con dolcezza, commosso egli medesimo. — «Sta bene, Simonide» — disse Ben Hur. — «La sentenza sembra men dura al condannato quando vede la compassione che piange.» — — «Io stavo dicendo» — egli continuò, — «che non mi rimane altra scelta che di accettare la parte che voi mi destinate. E siccome, fermandomi qui, io mi esporrei ad una morte ignobile, imprenderò subito il lavoro.» — — «Dobbiamo mettere in iscritto il nostro accordo?» — chiese Simonide, mosso dalle abitudini commerciali. — «Mi basta la tua parola» — disse Ben Hur. — «Ed anche a me» — Ilderim rispose. Così, semplicemente, fu conchiuso il contratto che doveva mutare la vita di Ben Hur. — «Il signore Iddio di Abramo protegga la nostra impresa!» — esclamò Simonide. — «Ed ora un'ultima parola, amici» — disse Ben Hur con volto più lieto. — «Se permettete, voglio essere padrone di me stesso fino dopo i giuochi. Non è probabile che un pericolo mi minacci da parte di Messala prima che gli giunga la risposta del procuratore, e questo non può avvenire che in sette od otto giorni. Il nostro incontro nel Circo è un piacere che comprerei a qualunque rischio,» — Ilderim, felicissimo, annuì subito, e Simonide, intento agli affari soggiunse. — «Va bene, padrone; quest'indugio mi darà agio di renderti un servigio. Tu parlasti di un'eredità lasciata da Arrio. Consiste essa in beni?» — — «Una villa a Miseno e alcune case in Roma.» — — «Io propongo che siano vendute, e i guadagni depositati in luogo sicuro. Dammi l'autorizzazione e io manderò subito un agente. Per questa volta almeno preverremo gli imperiali predoni.» — — «Domani avrai la nota e la procura.» — — «Allora se non v'è altro, il lavoro, per questa notte è terminato» — disse Simonide. Ilderim si lisciò la barba con compiacenza dicendo — «E ben terminato» — — «Ester, offri il vino e il pane» — continuò Simonide. — «Lo sceicco Ilderim ci onorerà con la sua presenza questa notte, e domani; e tu mio padrone?» — — «Fa sellare i cavalli» — disse Ben Hur. — «Io ritorno all'Orto. Il nemico non mi scoprirà se vado ora, e» — diede uno sguardo ad Ilderim — «i quattro saranno contenti di vedermi.» — Ai primi albori del giorno, egli e Malluch smontarono davanti alla porta della tenda. CAPITOLO IX. La notte successiva, intorno all'ora quarta, Ben Hur stava sul terrazzo del grande magazzeno, al fianco di Ester. Sotto di essi si agitava la medesima folla rumorosa di operai, marinai, facchini, che lavorando al lume delle torcie avevano l'aspetto di genii di qualche fantastica favola orientale. Si stava caricando una galera che doveva partire sul far del giorno. Simonide non era ancora tornato dal suo ufficio, nel quale, all'ultimo momento, avrebbe consegnato al capitano del vascello l'ordine di procedere direttamente fino al Porto d'Ostia, sbarcarvi un passeggero, e continuare, con suo comodo, per Valenza, sulla costa di Spagna. Il passeggero è un agente di Simonide e si reca a Roma per vendere i fondi lasciati dal duumviro Arrio. Quando la nave avrà levata l'ancora, e la sua prua sarà vôlta ad occidente, Ben Hur sarà irrevocabilmente astretto all'impresa di cui si è parlato la notte prima. Se egli vuol mutare pensiero, se egli si pente dell'accordo conchiuso con Ilderim, egli è ancora in tempo di revocarlo. Egli è il padrone, e non ha che a dire una parola. Tali erano i suoi pensieri mentre dall'alto della terrazza, con le braccia incrociate, guardava fisso dinanzi a sè, come un uomo agitato dal dubbio. Giovine, bello, ricco, abituato ai circoli più aristocratici di Roma, con quante voci eloquenti le tentazioni del mondo gli lanciavano i loro appelli seducenti! Come gravosa doveva sembrargli la vita di sacrifici e di pericoli ch'egli stava per abbracciare! Possiamo immaginare anche gli argomenti che lo incalzavano: L'impresa disperata di una lotta con Cesare, l'incertezza che velava la venuta del Re, e tutto ciò che a lui si riferiva; gli agi, gli onori, l'autorità, che le ricchezze gli potevano procurare; e sopra tutto la vita tranquilla fra i nuovi amici che egli aveva trovato. Soltanto coloro che per anni hanno pellegrinato soli e desolati di paese in paese, possono apprezzare la forza di questo ultimo appello. Aggiungiamo a questi argomenti la voce del mondo, astuta, carezzevole, che sempre mormora al debole: — «Fermati: non ti muovere da dove stai bene,» — presentando sempre i lati più attraenti della vita, la voce del mondo era in questo caso aiutata da quella d'una donna. — «Sei mai stata a Roma?» — egli chiese alla sua compagna. — «No» — rispose Ester. — «Ti piacerebbe andarvi?» — — «Non credo.» — — «Perchè?» — — «Ho paura di Roma.» — Essa disse, con un lieve tremore nella voce. Egli guardò la piccola figura di bimba al suo lato. Nella penombra non poteva discernere il suo volto; le sue stesse forme erano indistinte. L'immagine di Tirzah gli si ripresentò alla mente, e una grande tenerezza lo prese. Così la sorellina perduta stava con lui sopra il tetto della casa, quella mattina fatale dell'accidente di Grato. Povera Tirzah! Dov'era essa? Ester gli diventò quasi santa a quel mesto ricordo. Egli non avrebbe mai potuto considerarla come sua schiava, e, se lo era legalmente, questo lo avrebbe anzi spronato ad usarle la massima cortesia e rispetto. — «Io non posso pensare a Roma» — essa esclamò con voce calma, e parlando con quel suo dolce fare di donna. — «Io non posso pensare a Roma come una città di templi e palazzi, affollata di abitanti; per me essa è un mostro che stende le sue spire in tutte le terre, che affascina gli uomini col magico splendore dei suoi occhi verdi e cattivi, e li trae alla loro rovina, un mostro non mai sazio di sangue. Perchè....» — Essa esitò, abbassò gli occhi, e si fermò. — «Continua» — disse Ben Hur, rassicurandola. Essa si fece più presso a lui e alzò il viso verso il suo. — «Perchè vuoi fartene una nemica? Perchè non rimanere in pace con essa e vivere tranquillo? Tu hai avuto molti dolori; hai sopravvissuto alle insidie dei tuoi avversari; hai penato tutta la tua gioventù; perchè non dare al piacere gli anni che ti rimangono?» — Il volto della fanciulla gli sembrava diventar più pallido e avvicinarsi sempre più, mentre la sua preghiera lo incalzava. Egli si chinò sopra di lei e chiese, sommessamente: — Che cosa vorresti ch'io facessi, Ester?» — Essa ebbe un momento di esitazione, e poi chiese a sua volta: — «È molto bella la tua villa presso Roma?» — — «È bellissima, un palazzo in mezzo a giardini e boschi, con fontane, statue, colline coperte di vigneti; in vista del Vesuvio e di Napoli, col suo mare azzurro popolato da bianche vele irrequiete. Cesare possiede una villa lì vicino, ma a Roma dicono che la vecchia villa di Arrio è più bella.» — — «E la vita vi è tranquilla?» — — «Mai giorno d'estate o notte di plenilunio era più tranquillo del soggiorno in essa, tranne quando venivano visite. Ora che il vecchio padrone è morto, e la proprietà è mia, non v'è nulla che ne interrompa il silenzio, se non il mormorio dei ruscelli, e delle fontane o il canto degli uccelli. Giorno succede a giorno. I fiori sbocciano, sfoggiano al sole i loro mille colori, poi avvizziscono, e danno luogo a nuovi bocci e a frutti. Il cielo è sempre eguale, sereno, interrotto qua e là da qualche cirro candido, passeggero. Era una vita troppo calma, Ester; che mi rendeva inquieto, collerico, persuadendomi in un sentimento della mia inutilità ed infingardaggine, — a me, che tanto aveva da fare! — Essa guardò lontano sul fiume. — «Perchè hai chiesto?» — egli domandò. — «Mio buon padrone....» — — «No, Ester; non così. Chiamami amico, fratello, se vuoi: io non sono il tuo padrone, e non voglio esserlo; Chiamami fratello,» — Egli non potè vedere il rossore che le tinse le guancie e il lampo di gioia che le brillò negli occhi. — «Io non posso comprendere» — essa continuò — «come tu possa preferire una vita come questa, una....» — — «Una vita di violenza e forse di sangue» egli rispose completando il periodo. — «Sì, preferire una tal vita alla lieta esistenza in quella bellissima villa.» — — «Ester, tu sbagli. Non si tratta di preferenza. Ahimè! Il Romano non mi lascia la scelta. Io vado perchè è necessario; s'io resto mi aspetta la morte nel pugnale di un sicario, in una tazza avvelenata, nella sentenza di un magistrato corrotto e comprato. Messala e il procuratore Valerio Grato, sono ricchi col bottino dei miei beni paterni, e la paura di perdere i loro guadagni li spingerà ad ogni eccesso. Un accordo pacifico con essi è impossibile, e anche se potessi comperare la loro amicizia, Ester, non so se lo farei. Io non sono nato per la pace, e l'irrequietezza ch'io provava sotto gli archi marmorei della mia villa mi perseguiterebbe dappertutto. Eppoi, non ho io il sacro compito di cercare i miei cari? Se li trovo, non è mio dovere vendicarmi sopra coloro che li hanno fatti soffrire; se sono morti, devo lasciar fuggire i loro assassini? No, il più santo affetto non potrebbe conciliarmi il sonno della pace, quando la mia coscienza mi pungesse col rimorso di aver mancato al mio dovere.» — — «Dunque tutto, tutto è invano?» — essa chiese con voce querula. Ben Hur prese la sua mano. — «La mia felicità ti è dunque di tanto momento?» — — «Si» — essa rispose semplicemente. La mano era tiepida e piccola, e tremava nella sua palma. Allora l'immagine dell'Egiziana gli balenò davanti; così slanciata, così audace, con la sua adulazione sagace, il suo spirito pronto, con la sua meravigliosa bellezza. Egli portò la mano alle sue labbra e disse: — «Tu sarai una seconda Tirzah per me, Ester.» — — «Chi è Tirzah?» — — «La sorellina che il predone Romano mi rubò e che io devo ritrovare.» — In quella un fascio di luce si proiettò sul terrazzo. Si voltarono, e videro Simonide avvicinarsi nella sua poltrona, spinta da un domestico. Dalla porta aperta si scorgeva la stanza illuminata. Allo stesso tempo la galera nel fiume alzò le ancore, girò su sè stessa, e fra un lungo urlo dei marinai e un confuso agitarsi di torce, si avviò verso l'alto mare — lasciando Ben Hur avvinto alla causa del Re che doveva venire. CAPITOLO X. Il giorno prima dei giuochi, durante il pomeriggio, tutti i beni mobili di Ilderim furono trasportati in città e depositati in un Khan vicino al Circo. I suoi servitori, vassalli armati, cavalli, buoi, pecore, cammelli formavano una lunga processione pittoresca e rumorosa, che destò l'ilarità di quante persone la incontrarono per via. D'altra parte lo sceicco, di solito così irascibile, accoglieva queste dimostrazioni con la massima equanimità e buon umore. Egli pensava infatti, che se, come aveva ragione di credere, egli si trovasse sotto sorveglianza, le spie Romane avrebbero descritto alle autorità, la pompa semi-barbarica con cui era venuto alle corse. I Romani avrebbero riso, la città si sarebbe divertita, e i sospetti si sarebbero acquetati. Il giorno dopo, tutta questa moltitudine di uomini e di animali si troverebbe sulla via del deserto, non lasciando indietro che il solo necessario per il buon esito della gara. Ilderim, con altre parole, stava per partire; le sue tende erano piegate, il dovar era sciolto; in dodici ore ogni cosa poteva mettersi in salvo. Così il vecchio Arabo preparavasi ad un eventuale colpo da parte di Messala. Nè Ben Hur da parte sua deprezzava l'influenza del suo nemico, quantunque fosse d'opinione che nessun atto d'ostilità sarebbe avvenuto prima del giorno delle corse. Se Messala vi rimanesse sconfitto, allora c'era d'aspettarsi il peggio. Probabilmente non avrebbe neppure atteso le istruzioni di Grato. Preparati ad ogni evento, cavalcavano l'uno di fianco all'altro sulla strada per Antiochia. Per via incontrarono Malluch, il quale nè con un segno nè con una parola diede a vedere di conoscere le nuove relazioni sorte fra Simonide e Ben Hur, e dell'accordo fra questi due ed Ilderim. Scambiati i saluti d'uso, estrasse una carta, dicendo allo sceicco: — «Ecco il programma delle corse, appena uscito; troverai i tuoi cavalli e l'ordine della partenza. Senza attendere, io mi congratulo, ottimo sceicco, della tua vittoria.» — Volgendosi poi a Ben Hur. — «Anche a te figlio di Arrio le mie congratulazioni. Tutti i preliminari sono stati osservati, ed ora nulla ti impedisce di misurarti con Messala.» — — «Io ti ringrazio Malluch» — disse Ben Hur. Malluch continuò: — «Il tuo colore è bianco, quello di Messala porpora ed oro. I ragazzi li vendono nelle strade, e domani ogni Arabo ed ogni Ebreo porterà il tuo distintivo. Vedrai che nel Circo il bianco ed il rosso si divideranno la gradinata.» — — «La gradinata — ma non la tribuna sulla Porta Pompae.» — — «No; lo scarlatto ed il rosso vi domineranno. Ma se noi vinciamo» — Malluch si struggeva tutto dalla gioia — «se vinciamo, come tremeranno quei signori! Essi scommetteranno tutti per Messala naturalmente, e nel loro disprezzo per tutto ciò che non è Romano, lo quoteranno a due, a tre, a cinque, perchè egli è uno di loro.» — Abbassando la voce continuò. — «Non è bene che un Ebreo di buona fama nel Tempio prenda parte alle scommesse; ma, in confidenza, io avrò, un amico dietro il posto del console, il quale accetterà le loro offerte a due, a cinque, a dieci — la loro pazzia potrà salire fino a questo. Ho messo a sua disposizione seimila sicli.» — — «No, Malluch» — disse Ben Hur. — «Un Romano non scommette che nella sua moneta. Se trovi il tuo amico questa sera, metti a suo credito quanti sesterzi vuoi. E bada, Malluch — digli di concludere scommesse con Messala ed i suoi amici. I quattro di Ilderim, contro quelli di Messala.» — Malluch pensò un momento. — «Il risultato sarà di concentrare tutto l'interesse della corsa sopra voi due.» — — «È proprio quello che desidero, Malluch.» — — «Vedo, vedo.» — — «Sì, Malluch, se vuoi aiutarmi, cerca di fissare l'attenzione del pubblico sulla nostra corsa — quella di Messala e la mia.» — — «C'è un modo» — disse Malluch con vivacità. — «Sia fatto» — rispose Ben Hur. — «Somme enormi offerte in scommesse contro di lui richiamerebbero l'attenzione di tutta la città. Se sono accettate tanto meglio.» — Così dicendo Malluch scrutò attentamente il volto di Ben Hur. — «Non dovrei io ricuperare parte dei beni di cui mi spogliarono?» — disse Ben Hur quasi fra sè. — «Forse un'altra occasione non si presenterà. E se potessi infrangere il suo orgoglio e rovinarlo nella fortuna, il nostro padre Giacobbe potrebbe aversene a male?» — Un fermo proposito si disegnò nei suoi maschi lineamenti, e accentuando le parole, continuò: — «Sì, Malluch. Sia così. Non rinculare da qualunque offerta. Se non bastano i sestersi, talenti. Cinque, dieci, venti talenti, se trovi chi li accetta; anche cinquanta, purchè la scommessa sia con Messala.» — — «È una somma ingente» — disse Malluch. — «Devo avere garanzia.» — — «L'avrai. Va da Simonide, e digli che voglio si faccia così, che voglio rovinare il mio nemico, e che una simile occasione non potrà forse offrirsi mai più. — Va, Malluch. Il Signore dei nostri padri è con noi.» — E Malluch, felicissimo, dopo averlo salutato, fece per andarsene, ma, poi, ravvedendosi, tornò indietro. — Un'altra cosa volevo dirti, figlio di Arrio. Io non ho potuto avvicinarmi in persona al cocchio di Messala, ma lo ho fatto misurare da un altro. Il mozzo della ruota è un palmo più alto da terra che non il tuo.» — — «Un palmo! Tanto?» — gridò Ben Hur con gioia. Poi si chinò verso Malluch. — «Se tu sei figlio di Giuda, Malluch, e fedele alla tua gente, prendi posto nella gradinata sopra la Porta del Trionfo, di faccia ai pilastri, e osserva bene quando facciamo le voltate; osserva bene, perchè se la fortuna mi favorisce, io — No, Malluch, è meglio non parlarne! Soltanto assicurati un posto, e sta attento.» — In quella un grido sfuggì dalla bocca di Ilderim. — «Ah, per lo splendore di Dio, che cosa significa ciò?» — Si avvicinò a Ben Hur indicando il programma. — «Leggi» — disse Ben Hur. — «No, leggi tu.» — Ben Hur prese il foglio, firmato dal prefetto della provincia, quale datore dei giuochi. — Avvertiva il pubblico che in primo luogo vi sarebbe stata una grandiosa processione, e che dopo i consueti sacrifici al dio Conso avrebbero avuto principio i giuochi; corse a piedi, salti, lotta, ciascuno nell'ordine in cui dovevano seguirsi. — L'elenco conteneva i nomi dei competitori, le loro nazionalità, le scuole donde uscivano, le gare cui avevano preso parte, i premi già vinti, e i premi offerti ora. Questi erano vistosi e scritti in grandi lettere illuminate, testimoniando il tempo trascorso e i costumi mutati da quando la semplice corona di alloro o di pino, bastava al vincitore, assetato più di gloria che di ricchezze. Su questa parte del programma Ben Hur sorvolò rapidamente finchè arrivò all'annuncio della corsa. Lesse con attenzione. Il colto pubblico era informato che Antiochia avrebbe allestito uno spettacolo non mai uguagliato nella storia. Le feste erano date in onore del Console. Centomila sesterzii e una corona d'alloro formavano il premio. Poi seguivano i particolari. I competitori erano sei, tutte quadrighe, e dovevan partire contemporaneamente. Eccone la descrizione: I. Una quadriglia di Lisippo di Corinto — due grigi, un bajo, un morello. Iscritti l'anno precedente in Alessandria e Corinto, entrambe le volte vincitori. Auriga, Lisippo. Colore, giallo. II. Una quadriglia di Messala di Roma — due bianchi, due morelli; vincitori del Premio Circense nel Circo Massimo. Auriga, Messala. Colore, scarlatto ed oro. III. Una quadriglia di Cleante Ateniese — tre grigi, un bajo; vincitori nei giuochi Istmici l'anno precedente. Cleante, auriga. Colore, verde. IV. Una quadriglia di Diceo Bizantino, due morelli, un grigio, un bianco; vincitori l'anno scorso a Bisanzio. Auriga, Diceo. Colore, nero. V. Una quadriglia di Admeto da Sidone — tutti grigi. Tre volte vincitori nello stadio di Cesarea. Admeto, auriga. Colore, azzurro. VI. Una quadriglia di Ilderim, sceicco del deserto — Tutti baj; prima corsa. Ben Hur, Ebreo, auriga. Colore, bianco. _Ben Hur, Ebreo, auriga!_ Perchè quel nome invece di Arrio? Ben Hur alzò gli occhi a quelli di Ilderim. Era stata questa la causa dell'esclamazione dell'Arabo. La medesima idea balenò al cervello di entrambi. Quella era la mano di Messala! CAPITOLO XI. Non era quasi caduta la sera, che già l'Omfalo, il centro della città, rigurgitava di una folla clamorosa e festante, che si versava in due correnti, al Ninfeo, ad Oriente, e lungo i colonnati di Erode verso Occidente. Nessuna cornice più grandiosa e più adatta a questo gaio e spensierato spettacolo poteva immaginarsi, di queste meravigliose strade fiancheggiate da porticati marmorei, doni di Principi e Re, alla città regina d'Oriente. L'oscurità era bandita come la malinconia. Fiaccole e bracieri illuminavano la massa ondeggiante del popolo, che, cantando, ridendo, e gridando si abbandonava ai piaceri di Apollo e di Bacco. Le molte nazionalità rappresentate, se avrebbero stupito un forestiero, non erano cosa nuova per Antiochia. Una delle missioni del grande Impero sembra esser stata la fusione degli uomini e il ravvicinamento dei popoli lontani. E dove era un centro d'autorità Romana, come a Roma affluivano i rappresentanti dei diversi paesi, con le loro divinità e con le loro costumanze. Un particolare però non avrebbe potuto sfuggire all'osservatore quella sera in Antiochia. Quasi ogni persona portava i colori di una delle quadrighe annunciate nelle corse di domani. Ora era un nastro, ora un distintivo, uno scialle, una piuma, significanti la preferenza e spesso la nazionalità del portatore: così il verde indicava gli amici di Cleante, l'Ateniese, il nero quelli del Bizantino. Costume questo antichissimo, che datava probabilmente fin dalle prime gare ai tempi di Oreste, e proficuo tema di studio a chi voglia indagare fino a qual punto di follìa gli uomini possono lasciarsi trascinare. Un esame superficiale avrebbe dimostrato che i colori predominanti erano tre — verde, bianco, e misto porpora ed oro. Ma abbandoniamo la via e rechiamoci nel palazzo sopra l'isola. I cinque grandi candelabri della gran sala sono accesi di fresco. La compagnia è quella identica a cui abbiamo già presentato il lettore. Il divano geme sotto il solito peso dei dormienti e di vestaglie gettatevi alla rinfusa, e dai tavoli sorge il medesimo rumore di dadi. Ma questa volta la maggioranza non è occupata al giuoco. I giovani passeggiano in su e in giù, a due, a tre, o si fermano in crocchi a discorrere. Molti sbadigliano; gli argomenti sono futili: Che tempo farà domani? I preparativi pei giuochi sono terminati? Le leggi del Circo di Antiochia sono come quelle di Roma? A dire il vero, i giovani patrizi soffrono di una noia terribile. Il gravoso lavoro della giornata è finito; vale a dire, se potessimo dare un'occhiata alle loro tavolette, le vedremmo coperte di annotazioni e di scommesse, — scommesse su tutti i capi del programma, sulle corse pedestri, la lotta, il pugilato, — tutto, tranne sulla corsa dei cocchi. E perchè non su quella? Buon lettore, essi non possono trovare un'anima che voglia arrischiare un denario contro Messala. Nella sala non vi sono altri colori dei suoi. Nessuno pensa alla sua sconfitta. La sua abilità e destrezza non sono esse conosciute? Non fu egli educato da un _lanista_ Imperiale? I suoi cavalli non vinsero il Gran Premio nel Circo Massimo? E poi — ah sì! non è egli Romano? In un angolo, adagiato comodamente sopra il divano, sta Messala medesimo. Intorno a lui, in piedi o seduti, i suoi cortigiani lo tempestano di domande. Naturalmente l'argomento è uno solo. Entrano Cecilo e Druso. — «Ah!» — esclama il giovine principe, lasciandosi cadere sul divano ai piedi di Messala: — «Ah, per Bacco, sono stanco!» — — «Dove sei stato?» — chiede Messala. — «Nelle vie, fino all'Omfalo, e più in là. Fiumi di gente, ti dico. La città non è mai stata così affollata. Dicono che tutto il mondo sarà domani nel Circo.» — Messala rise con disprezzo. — «Idioti! Non hanno mai veduto i giuochi Circensi, sotto la direzione di Cesare medesimo. Ma dimmi, mio Druso, che cosa hai trovato?» — — «Nulla.» — — «Cioè — Non ti ricordi?» — disse Cecilo. — «Che cosa?» — fece Druso. — «La processione di bianchi.» — — «Meraviglioso!» — esclamò Druso. — «Abbiamo incontrato un gruppo di bianchi, con uno stendardo. Ma — ah, ah, ah!» — Ricadde indietro ridendo. — «Crudele Druso, perchè non continuare?» — disse Messala. — «Feccia del deserto, erano, o Messala, e spazzini del Tempio di Gerusalemme. Che cosa avevano da vedere con me?» — — «No,» — disse Cecilio — «Druso ha paura che ridiate alle sue spese. Ma io non temo, o Messala.» — — «Parla tu, allora.» — — «Dunque, abbiamo fermato la processione, e....» — — «Abbiamo loro offerto una scommessa» — disse Druso, interrompendo, e togliendo le parole di bocca al suo parassita. — «Un piccolo individuo tutto rugoso uscì dalla fila ed accettò. Io estrassi le mie tavolette. — «Chi è il tuo campione?» — gli chiesi. — «Ben Hur, l'Ebreo,» — egli rispose. Io gli faccio: — «La posta? Quanto?» — Egli rispose. — «Un.... un....» — Scusami Messala, ma pel fulmine di Giove, non posso continuare dal gran ridere! Ah, ah, ah!» — Gli ascoltatori si volsero verso Cecilio. Messala lo guardò. — «Un siclo!» — disse questi. — «Un siclo! Un siclo!» — Uno scoppio di risa tenne dietro alla risposta. — «E che cosa fece Druso?» — chiese Messala. In questo momento un grande rumore si levò presso la porta e i giovani si precipitarono in quella direzione. Crescendo il frastuono, anche Cecilio si strappò dal divano, solo volgendosi per dire: — «Il nobile Druso, o Messala, intascò le sue tavolette, e rinunciò al siclo.» — — «Un bianco! Un bianco!» — — «Per di qui, per di qui!» — Queste ed altre esclamazioni echeggiarono nella sala coprendo ogni altra parola. I giuocatori abbandonarono i bossoli; gli addormentati si svegliarono, si stropicciarono gli occhi, tirarono fuori le loro tavolette, e si unirono al gruppo. — «Io scommetto....» — — «Ed io....» — — «Anch'io.» — La persona fatta segno a questa calorosa accoglienza era il rispettabile Ebreo di cui facemmo conoscenza insieme a Ben Hur, a bordo della nave che lo portava da Cipro ad Antiochia. Il suo portamento era grave, cortese, vigile. La veste era bianchissima come pure il turbante che gli cingeva il capo. Inchinandosi e sorridendo, si avvicinò lentamente al tavolo centrale. Arrivatovi, raccolse con un gesto dignitoso le pieghe della toga, si sedette, e alzò la mano. Lo scintillare di un gioiello sull'anulare, contribuì non poco al silenzio che seguì. — «Romani — illustri Romani — Vi saluto!» — egli disse. — «Mi piace la sua disinvoltura, per Giove! Chi è?» — chiese Druso. — «Un cane d'Israele — Samballat di nome — fornitore dell'esercito; domiciliato in Roma, immensamente ricco; diventato tale defraudando i Romani. Una testa fina, che ti sa tessere trame più sottili di quelle dei ragni. Andiamo, per la zona di Venere! Vediamo se possiamo spillargli denari.» — Così dicendo, Messala si alzò e con Druso raggiunse la folla che accerchiava l'Ebreo. — «Ho saputo in istrada» — egli diceva, tirando fuori le sue tavolette e collocandole aperte sopra il tavolo, — «che la disperazione regnava nel palazzo, perchè non si trovava chi accettasse scommesse contro Messala. Gli Dei, sapete, richiedono sacrifici, ed eccomi pronto. Vedete il mio colore. Passiamo agli affari. Prima le quotazioni, poi le somme. A cosa mi date Messala?» — La sua audacia sembrava sbalordire i suoi ascoltatori. — «Presto!» — egli disse. — «Ho un appuntamento col Console.» — Lo stimolo sortì il suo effetto. — «A due!» — gridò una mezza dozzina di voci. — «Che?» — esclamò il fornitore, stupito. — «Soltanto a due, un Romano!» — — «Tre, allora.» — «Tre, soltanto tre? — e il mio favorito non è che un cane d'un Ebreo! Datemi quattro.» — — «Quattro sia!» — esclamò un ragazzo, punto dallo scherno. — «Cinque — datemi cinque» — disse subito il fornitore. Un profondo silenzio cadde sopra l'assemblea. — «Il Console, padrone mio e vostro, mi attende.» — Il silenzio parve oltraggioso a molti. — «Datemi cinque — per l'onore di Roma, cinque.» — — «Cinque sia» — esclamò una voce. Un clamoroso urrà accolse le parole. Vi fu un movimento nella folla che si spartì a destra e sinistra, e Messala apparve. — «Cinque siano» — egli disse. E Samballat, sorridendo, si preparò a scrivere. — «Se Cesare morisse domani, Roma non sarebbe del tutto derelitta. Vi è almeno uno degno di prendere il suo posto. Dammi sei.» — — «Siano sei» — rispose Messala. Vi fu un altro urlo più forte del primo. — «Sei siano» — ripetè Messala. — «Sei contro uno — la differenza fra un Romano e un Giudeo. Ed ora che l'hai scoperta, o protettore della carne suina, passiamo alla posta. — La somma, presto. Il console potrebbe mandarti a chiamare e noi resteremmo privi della tua presenza.» — Samballat prese in buona parte la risata che tenne dietro a queste parole, e scrisse tranquillamente, poi offrì le tavolette a Messala. — «Leggi, leggi!» — gridarono tutti. E Messala lesse: — «Mem.» — Corsa di cocchi. Messala di Roma, scommette con Samballat pure di Roma, dicendo che batterà l'Ebreo Ben Hur. Posta, venti talenti. Quotazione di Messala, uno contro sei. _Testimoni._ SAMBALLAT. Non una parola, non un respiro turbò il profondo silenzio della sala. Nessuno si mosse. Messala fissava le tavolette, mentre gli occhi del fornitore fissavano lui. Egli sentì quello sguardo, e pensò rapidamente. Da questo posto egli aveva dettata la legge ai suoi compagni. Essi lo avrebbero ricordato. Se egli si rifiutava di firmare, la sua superiorità era sparita per sempre. Eppure egli non poteva firmare, non possedeva la somma di cento talenti; neppure un quinto di essa. La sua mente si oscurò. La lingua si rifiutò di parlare, le guancie impallidirono. Un istante rimase in questo stato, poi gli venne un'idea. — «Cane di un Ebreo!» — egli disse. — «Dove hai tu venti talenti? falli vedere.» — Il sorriso provocante di Samballat si accentuò. — «Ecco» — disse offrendo un foglio a Messala. — «Leggi, leggi!» — risuonò tutto all'intorno. Messala lesse: — «_Antiochia — Tamuz, 16 giorno._ Il portatore, Samballat di Roma, è accreditato presso di me per la somma di cinquanta talenti, moneta Romana. SIMONIDE.» — — «Cinquanta talenti! Cinquanta talenti!» — vociferò la folla, stupìta. Druso battè il piede per terra. — «Per Ercole!» — egli gridò — «il foglio mente, e l'Ebreo è un bugiardo. Chi, se non Cesare, ha cinquanta talenti all'ordine? Abbasso il bianco insolente!» — L'urlo era furioso, e fu ripetuto da venti gole; ma Samballat rimase tranquillamente seduto, col medesimo sorriso provocante sulle labbra. Finalmente Messala parlò. — «Silenzio! Uno contro uno, con cittadini — uno contro uno, per l'amore del nostro bel nome Romano.» — Il suo intervento opportuno salvò la sua dignità e gli riconquistò la vacillante supremazia. — «O cane circonciso!» — egli continuò verso Samballat. — «Tu dicesti sei contro uno, nevvero?» — — «Sì» — rispose tranquillamente l'Ebreo. — «Allora lasciami scegliere la posta.» — — «Come vuoi, a condizione, se è una bagatella, di rifiutarla.» — — «Scrivi cinque in luogo di venti.» — — «Possiedi tanto?» — — «Per la madre degli Dei, ti mostrerò le ricevute.» — — «No, no. Basta la parola di un così illustre Romano. Soltanto facciamo una cifra pari. Scrivo sei talenti?» — — «Scrivi.» — Si scambiarono le scritture. Samballat si alzò e con un ghigno di scherno in luogo del sorriso di prima, misurò l'assemblea. Egli conosceva con chi aveva da fare. — «Romani,» — egli disse, — «un'altra scommessa, se osate. Io punto cinque talenti contro cinque, sulla vittoria del bianco. Vi lancio una sfida collettiva.» — Di nuovo tutti stupirono. — «Ecchè?» — egli gridò, a voce più alta. — «Dovranno dire domani nel circo che un cane d'Israele è penetrato in una sala piena di patrizii Romani, e fra questi un parente di Cesare, ed ha offerto loro cinque talenti, alla pari, ed essi non hanno avuto il coraggio di accettare?» — L'offesa era terribile. — «Cessa, o insolente!» — disse Druso. — «Scrivi la scommessa e lasciala sul tavolo. Domani, se avremo trovato che tu possiedi veramente tanto denaro da buttar via, io, Druso, ti prometto che sarà accettata.» — Samballat scrisse nuovamente, e alzandosi, disse, con inalterabile calma: — «Ecco, Druso. Io ti lascio l'offerta; quando è firmata, mandamela prima che incominci la corsa. Mi troverai vicino al Console nella tribuna sopra la Porta Pompae. Pace a te; pace a voi tutti.» — Egli fece un inchino e partì, senza badare all'urlo che lo accompagnò fino alla porta. Quella notte la storia della scommessa prodigiosa volò di bocca in bocca per tutte le vie e piazze di Antiochia; e Ben Hur, vegliando presso i suoi quattro cavalli, la udì raccontare, e seppe anche che tutta la sostanza di Messala era impegnata in essa. E si addormentò sorridendo. CAPITOLO XII. Il Circo di Antiochia sorgeva sulla sponda destra del fiume, quasi dirimpetto al Palazzo e non differiva sostanzialmente da tutti gli altri edifici del genere. I giuochi erano, nel vero senso della parola, un dono fatto al popolo; l'entrata era quindi libera a tutti, e, vasta com'era la capacità dell'anfiteatro, la gente ebbe tanta paura di non ottenervi un posto, che, fin dalle prime ore del giorno precedente ai giuochi, aveva occupato tutte le adiacenze del Circo, le quali presentavano l'aspetto di un grande attendamento militare. A mezzanotte furono spalancati i cancelli, e la plebaglia si gettò attraverso le porte occupando rapidamente i posti a lei assegnati. Solo un terremoto o l'assalto di un esercito avrebbe potuto smuoverla di là. Passò la notte dormendo sulle gradinate, fece colazione su di esse, e aspettò pazientemente il principio dello spettacolo. Verso la prima ora del giorno cominciarono ad arrivare i borghesi più agiati, che avevano posti numerizzati, i più ricchi e più nobili fra di essi a cavallo o portati in lettiga con seguiti di domestici in livrea. All'ora seconda, la via conducente dalla città al Circo presentava l'aspetto di un vero fiume di persone. Quando l'indice dell'orologio a sole nella cittadella segnava trascorsa la prima metà dell'ora seconda, la legione in grande tenuta, con tutti i suoi stendardi ed insegne, discese dal monte Sulpio, e, quando l'ultima fila dell'ultima coorte sparì dall'altra parte del ponte, Antiochia si poteva dire letteralmente abbandonata; non già che il Circo potesse contenere tutta la moltitudine, ma ciò non ostante tutta la moltitudine era andata al Circo. Una galera riccamente addobbata andò a prendere il Console nell'isola, e quando il grande personaggio discese allo scalo, e la legione presentò le armi, per un istante la pompa militare fece dimenticare agli spettatori la maggiore attrattiva del Circo. All'ora terza l'Anfiteatro poteva dirsi completamente riempito; uno squillo di fanfara ordinò il silenzio, e tosto gli sguardi di oltre centomila persone si fissarono sopra un edificio del lato orientale dello stadio. Quivi sorgeva la celebre Porta Pompae, un arco poderoso che reggeva la tribuna consolare, magnificamente adorna di vessilli e di fiori, dove, circondato dalle insegne della legione, siedeva il console Massenzio. A destra e sinistra dell'arco, a livello del suolo, si aprivano i _carceres_, o stalli, ciascuno difeso da un proprio cancello. Sopra gli stalli correva una cornice, coronata da una bassa balaustrata; quindi si alzavano, una sopra l'altra, le ampie gradinate di marmo, occupate da una splendida folla di alti dignitari militari e borghesi. Questa mole occupava tutta la larghezza dell'edificio del Circo, ed era fiancheggiata da torri, le quali, pure aggiungendo grazia all'architettura dell'edificio, servivano di punto d'appoggio ai _velaria_, o grandi tende purpuree, tese dall'una all'altra di esse, e che gettavano un'ombra piacevolissima sopra l'augusta assemblea della tribuna. S'immagini ora il lettore di appartenere ai favoriti che siedono in questo posto privilegiato. A destra e a sinistra, sotto le due torri, vedrà le due entrate principali. Immediatamente sotto di lui si stende l'arena, coperta di sabbia finissima e bianca. Nel centro dell'arena corre un muro largo dieci o dodici piedi, alto cinque o sei, e lungo precisamente cento ottanta metri, o uno stadio Olimpico. Ad entrambi i capi di questo muro, lasciando solo un breve intervallo occupato da un altare, sorgono sopra piedestalli di marmo tre tozzi pilastri conici di pietra grigia, riccamente scolpiti. Queste sono le due méte, intorno alle quali gireranno i contendenti. I corridori entreranno sulla pista alla destra della mèta più vicina, e avranno il muro sempre alla loro sinistra. Principio e termine della gara hanno luogo di faccia alla tribuna Consolare, e per questa ragione quelli sono i posti più ricercati del Circo. Il limite esteriore della pista è segnato da un muro liscio, solido, dell'altezza di circa quindici piedi, terminato da una balaustrata come quella sopra i _carceres_. Se seguiamo la curva di questo balcone, la troveremo interrotta in tre punti, dove si aprono altrettante porte, due a nord, ed una ad ovest; quest'ultima adorna di magnifiche sculture e bassorilievi, è chiamata la Porta del Trionfo, perchè, a giuochi finiti, i vincitori passeranno sotto il suo arco, il capo coronato di lauro, e accompagnati da un corteo trionfale. Immediatamente dietro alla balaustrata laterale ascendono in lunghe file parallele, e sovrapposte l'una all'altra, i banchi degli spettatori, offrendo uno spettacolo curioso ed imponente, quello di una smisurata massa di popolo, in vesti diverse e variopinte. Erano questi i posti popolari, non coperti da alcuna tenda, privilegio esclusivo della tribuna. Avendo ora sott'occhio tutto il complesso del Circo, s'immagini il lettore il profondo silenzio tenuto dietro allo squillo delle trombe, doppiamente avvertibile dopo il vocìo e il frastuono che lo avevano preceduto, durante il quale gli sguardi della moltitudine erano concentrati tutti quanti sulla Porta Pompae. Da questa procede un suono di voci e di strumenti, e subito appare il coro della processione con la quale s'apre lo spettacolo. Prima il prefetto e le autorità civiche, padrone della festa, in ampie vesti e con ghirlande sul capo; poi le immagini degli Dei, alcune su piattaforme portate sulle spalle da schiavi, altre su grandi carri, splendidamente addobbati; poi ancora i contendenti nei singoli giuochi, ciascuno nel suo costume caratteristico. Attraversando lentamente l'Arena, la processione comincia a fare il giro del circuito. Lo spettacolo è magnifico, imponente. Come un'onda che s'ingrossa a mano a mano, la precede un coro di esclamazioni, esprimenti curiosità e ammirazione. Se i fantocci di carta rappresentanti gli Dei se ne stanno impassibili e silenziosi, il direttore dei giuochi e le autorità non si mostrano insensibili alla voce del plauso popolare. Sorridono e si inchinano a destra e a sinistra. Gli atleti sono ricevuti con favore ancora più rumoroso, perchè non v'è uno fra i centosettantamila spettatori che non abbia scommesso un siclo od un denario sopra uno dei campioni. I nomi dei favoriti corrono di labbro in labbro, e ghirlande e fiori sciolti piovono dalla tribuna e dalle gradinate. Ma se gli atleti sono ricevuti con tali testimonianze d'ammirazione, che dire dell'ovazione fatta all'apparire delle quadriglie? allo splendore dei cocchi, alla grazia e alla bellezza dei cavalli, i guidatori aggiungono il fascino personale della loro apparenza. Le loro tuniche, corte, senza maniche, sono dei colori prescritti. Un cavaliere accompagna ogni cocchio, tranne quello di Ben Hur, che ha rifiutato questo onore — forse per diffidenza. Così pure gli altri hanno elmi sul capo; egli ha la testa scoperta. Al loro appressarsi gli spettatori si alzano in piedi sopra i banchi, e il clamore si fa altissimo, assordante; allo stesso tempo la pioggia dei fiori dalla balaustrata diventa un diluvio, e copre gli uomini, i cocchi, i cavalli. Ben presto appare evidente che alcuni dei guidatori sono più favoriti di altri, e a questa rivelazione tiene dietro l'altra, che ogni individuo del pubblico, uomini, donne, e fanciulli è fregiato dei colori di uno dei contendenti, più spesso in forma di nastro sul petto o nei capelli; ora il nastro è verde, ora giallo, ora azzurro, ma esaminando attentamente la moltitudine, si vede che i colori dominanti sono due: il bianco, e il misto porpora ed oro. In una gara moderna, e in una assemblea come questa, che ha giuocato somme enormi sui singoli concorrenti, la preferenza sarebbe determinata dalla qualità dei cavalli e dalla abilità conosciuta dei guidatori; qui invece la nazionalità dettava le norme. Se il Bizantino ed il Sidonio non avevano che un esiguo numero di aderenti, la ragione era da ricercarsi nel fatto che le loro città erano scarsamente rappresentate sui banchi. D'altra parte i Greci, quantunque assai numerosi, erano divisi fra il Corinzio e l'Ateniese, facendo uno sfoggio relativamente povero di colori verdi e gialli. Lo scarlatto ed oro di Messala non avrebbe avuto sorte migliore, se i cittadini di Antiochia, proverbialmente una razza di cortigiani e di parassiti, non avessero concesso il favore del loro appoggio ai Romani, adottando il colore da quelli preferito. Rimanevano la popolazione del contado, gli Ebrei, i Siri, gli Arabi, e questi, per solidarietà con Ben Hur ed Ilderim, per la fiducia che nutrivano nei cavalli dello sceicco, ma massimamente in odio al Romano, che essi speravano di vedere battuto ed umiliato, portavano il color bianco, e formavano il partito più rumoroso se non il più numeroso di tutti. A mano a mano che i cocchi procedono sopra il percorso, l'eccitamento si accresce; alla seconda mèta, specialmente nelle gallerie, dove il bianco è il colore dominante, le grida del pubblico scrosciano altissime e i fiori piovono più fitti. — «Messala! Messala!» — — «Ben Hur! Ben Hur!» — Tali sono le grida. Passata la processione, le persone riprendono i loro posti e continuano i discorsi. — «Ah, per Bacco! com'era bello!» — esclama una donna che il nastro nei capelli proclama del partito Romano. — «E come è magnifico il suo cocchio!» — risponde un vicino del medesimo partito. — «È tutto oro ed avorio. Giove gli conceda la vittoria!» — Sul banco di dietro le opinioni erano diverse. — «Cento sicli sopra l'Ebreo!» — gridò una voce stridula. — «Non esser troppo temerario» — gli sussurra un amico. — «Questi giuochi sono vietati dalla legge e la maledizione del Signore potrebbe cadere sul figlio d'Israele.» — — «È vero; ma hai tu veduto mai un portamento più sicuro o più disinvolto? E che braccio è il suo!» — — «E che cavalli!» — dice un terzo. — «E dicono ch'egli conosca tutti gli accorgimenti dei Romani» — aggiunge un quarto. Una donna completa l'elogio: — «Sì, ed egli è ancora più bello del Romano!» — Incoraggiato da queste testimonianze l'uomo grida nuovamente: — «Cento sicli sopra l'Ebreo!» — — «Cretino!» — gli grida un cittadino di Antiochia, dalla sicura distanza di parecchi banchi. — «Non sai che cinquanta talenti sono giuocati contro di lui, uno contro sei, su Messala. Nascondi i tuoi sicli se non vuoi che Abramo ti fulmini.» — — «O asino di Antiochia! cessa di ragliare. Non sai tu che Messala ha scommesso contro se stesso?» — Tale la risposta, astutamente bugiarda. E così di banco in banco si moltiplicavano il vociare e le contese, non tutte pacifiche. Quando finalmente la marcia fu terminata, e la Porta Pompae si chiuse sull'ultimo vessillifero, Ben Hur sapeva che il suo desiderio era esaudito. Gli sguardi dell'Oriente erano fissati sopra la sua gara con Messala. CAPITOLO XIII. Circa alle ore quindici, per parlare in stile moderno, la prima parte del programma era esaurita, non rimanendo che la gara dei cocchi. Il direttore scelse questo momento per fare una breve sosta. I _vomitoria_ furono spalancati, e, tutti coloro che poterono, uscirono sotto il porticato esterno dove era disposto un servizio di rinfreschi. Quelli che rimanevano sbadigliavano, chiacchieravano, consultavano le loro tavolette, e liquidavano le scommesse; ogni distinzione di classe era dimenticata; la moltitudine era divisa in due grandi categorie; dei vincitori, allegri e rumorosi, e dei perdenti, accigliati e taciturni. In questo mentre però una terza classe di spettatori, formata da cittadini desiderosi soltanto di vedere la corsa dei cocchi, approfittò dell'intervallo per entrare nel Circo ed occupare i suoi posti riservati, credendo in questo modo di sfuggire all'attenzione del pubblico. Fra questi erano Simonide e la sua compagnia, che cercavano i loro posti nella tribuna sul lato settentrionale, di faccia a quella consolare. Quattro servitori portavano il negoziante nella sua sedia su per le scale, destando la viva curiosità degli spettatori. Qualcuno disse il suo nome. I vicini lo intesero e lo ripeterono di bocca in bocca. I più lontani si arrampicarono sui banchi per dare un occhiata all'uomo intorno al quale la diceria popolare aveva tessuto un romanzo miracoloso. Ilderim pure fu accolto calorosamente; ma nessuno conosceva Balthasar e le due donne che lo seguivano, gelosamente velate. La gente fece largo rispettosamente alla comitiva, e gli uscieri del Circo le assegnarono alcuni posti vicino alla balaustra, sui quali avevano fatto collocare scialli e cuscini. Le donne erano Iras ed Ester. Quest'ultima, appena seduta, diede uno sguardo spaventato intorno al Circo e si ravvolse ancor più dentro al velo; mentre l'Egiziana, lasciando scivolare il velo sopra le spalle, si offrì liberamente agli sguardi del pubblico, con la disinvoltura che solitamente è frutto di lunghe abitudini sociali. I nuovi venuti erano ancora occupati nell'esame generale del magnifico spettacolo che si offriva dinanzi a loro, a principiare dal console e dai suoi vicini, quando alcuni uomini nella livrea del Circo, cominciarono a stendere una corda ingessata da balcone a balcone in faccia ai pilastri della prima mèta. Allo stesso tempo sei uomini uscirono dalla Porta Pompae, e si fermarono davanti ai _carceres_, uno per ciascun stallo; al che un lungo mormorìo corse per la folla. — «Guarda, guarda! Il verde ha il numero quattro a destra; quello è l'Ateniese.» — — «E Messala... — sì, egli ha il numero due.» — — «Il Corinzio.» — — «Guarda il bianco! Egli si ferma, al numero uno, a sinistra.» — — «No, è il nero che si è fermato; il bianco è il numero due.» — — «È vero.» — Dobbiamo avvertire che ciascuno dei sei uomini indossava una tunica di color eguale a quello dei guidatori; cosicchè, quando essi si fermavano davanti ai cancelli, il popolo sapeva subito qual'era lo stallo del suo favorito. — «Hai tu mai veduto Messala?» — chiese l'Egiziana, ad Ester. L'Ebrea ebbe un tremito, e rispose di no. Egli era il nemico di suo padre, e di Ben Hur. — «Egli è bello come Apollo.» — Mentre Iras parlava i suoi grandi occhi scintillavano e il ventaglio si agitava violentemente. Ester la guardò, pensando: — «Sarà egli più bello di Ben Hur?» — Poi udì Ilderim dire a suo padre; — «Si, il suo stallo è il numero due, a sinistra della Porta Pompae;» — e credendo che egli parlasse di Ben Hur, essa guardò da quella parte. Una preghiera le sfiorò le labbra. Di lì a poco sopraggiunse Samballat. — «Vengo or ora dagli stalli, o sceicco,» — egli disse facendo un inchino grave ad Ilderim, il quale si lisciava la barba nervosamente, e lo osservava con sguardo interrogativo. — «I cavalli sono in perfetto stato.» — Ilderim rispose semplicemente: — «Se sono battuti, prego Iddio che lo siano da qualchedun'altro e non da Messala.» — Volgendosi a Simonide, ed estraendo una tavoletta, Samballat proseguì: — «Ti porto qualche cosa che ti interesserà. Ti ricorderai che, quando ieri sera ti recai la scrittura della prima scommessa, ti dissi che ne avevo lasciata un'altra sul tavolo del Palazzo, la quale, se, accettata, doveva venirmi consegnata prima della corsa. Eccola.» — Simonide prese la tavoletta e lesse attentamente l'annotazione. — «Lo so» — egli disse. — «Un loro emissario venne oggi da me chiedendo se tu fossi accreditato per una tal somma presso di me. Conserva bene la tavoletta. Se perdi, sai dove prendere il denaro; se vinci...» — le sue ciglia si corrugarono con una espressione di grande risolutezza — «se vinci, amico, bada, che nessuno ti sfugga, che paghino fino all'ultimo siclo. Questo si è quanto farebbero gli altri con noi.» — — «Fidati in me.» — disse il fornitore. — «Non vuoi sederti presso di noi?» — chiese Simonide. — «Ti ringrazio» — rispose l'altro, — «ma se lascio il Console, chi frenerà i bollori della giovine Roma, là in fondo? La pace sia con te, e con voi tutti.» — Alcuni squilli di tromba risuonarono nel circo, annunciando la ripresa dello spettacolo, e chiamando gli assenti ai loro posti. Allo stesso tempo alcuni inservienti apparvero nell'arena, e arrampicandosi sopra il muro di divisione, infissero sopra i pali vicino alla meta occidentale sette sfere di legno indorato; poi, ritornando alla prima meta, vi misero altrettanti pezzi di legno scolpiti in forma di delfino. — «Che cosa fanno con le sfere ed i pesci, o sceicco?» — chiese Balthasar. — «Non hai mai assistito ad una corsa?» — — «Mai.» — — «Ebbene, essi servono per contare il numero dei giri; alla fine di ogni giro, una palla ed un pesce verranno tolti.» — I preparativi erano terminati, e di lì a poco un trombettiere in uniforme vistosa si collocò presso il direttore, pronto ad un cenno di questi a dare il segnale. Subito l'agitarsi della moltitudine si acquetò, ed il vocìo ristette come per incanto. Ogni viso era rivolto ad oriente, ed ogni occhio si fissò sopra i sei stalli che racchiudevano i competitori. Il rossore insolito che coprì le pallide guancie di Simonide rivelava che anch'egli condivideva l'eccitazione generale. — «Attenti al Romano;» — disse la bella Egiziana ad Ester, che non la udì, perchè col cuore palpitante e gli occhi fissi aspettava Ben Hur. Dobbiamo ricordare che l'edificio contenente gli stalli aveva la forma di un segmento di cerchio, e si protendeva innanzi a destra della prima mèta, segnato dalla corda gessata, di cui parlammo. La tromba diede uno squillo acuto e prolungato. Gli _starters_, come li potremmo chiamare in linguaggio sportivo moderno, si schierarono sotto i pilastri della mèta, pronti ad aiutare i cocchieri nel caso che uno dei cavalli si spaventasse. Un secondo squillo risuonò, e i custodi spalancarono i cancelli. Dapprima uscirono a cavallo i servitori, addetti ai cocchi, cinque in tutto, perchè Ben Hur aveva rifiutato il suo. La corda gessata fu lasciata cadere per dar loro il passo, poi rialzata. Quantunque splendidamente vestiti, nessuno badò a loro, perchè, dietro ad essi, negli stalli, il calpestìo dei cavalli e le voci dei cocchieri, attiravan tutti gli sguardi verso i cancelli spalancati. Un terzo squillo risuonò nel circo. Gli uscieri sulle gradinate agitarono le mani, e gridarono: — «Seduti! seduti!» — Parlavano al vento. Come proiettili, uscenti dalla bocca di giganteschi cannoni, si scagliarono le sei quadrighe, e tutta l'immensa moltitudine balzò in piedi come un sol uomo, riempiendo il Circo di un unico urlo. Per questo aveva atteso pazientemente tante ore! Questo era il momento supremo, sogno delle sue notti e argomento dei suoi discorsi dal giorno della proclamazione dei giuochi! — «Eccolo, eccolo! guarda!» — esclamò Iras, indicando Messala. — «Lo vedo.» — rispose Ester guardando Ben Hur. Il velo era caduto; per un istante la piccola Ebrea si sentì coraggiosa. Essa comprese la voluttà di compiere un'azione eroica sotto agli occhi della moltitudine, e come in tali casi sia possibile che gli uomini ridano in faccia alla morte. I competitori erano ora visibili da tutte le parti del Circo, ma la corsa non era ancora cominciata; dovevano prima passare la corda. Questa aveva lo scopo di pareggiare le condizioni della partenza. Se i corridori vi si fossero scagliati addosso impetuosamente, cocchiere e cavalli, impigliati in essa, potevano uscirne malconci; se d'altra parte si fossero avvicinati timidamente, correvano il rischio di rimaner distanziati già sull'inizio della corsa, e, in ogni modo, perdevano la possibilità di conquistare il lato interno della pista, oggetto dell'ambizione comune. La difficoltà di quest'impresa, i suoi pericoli e le sue conseguenze, erano ben note agli spettatori. La vittoria doveva sorridere al più abile. Dunque, o mio caro, Tutti richiama al cor gli accorgimenti, Se vuoi che il premio di tue man non sfugga: L'arte, più che la forza, al fabbro, è buona. Tale il consiglio di Nestore al figlio Archiloco, consegnandogli le redini, prima della corsa, consiglio che poteva utilmente essere richiamato da ciascuno degli auriga. Ogni guidatore guardava per prima cosa la corda, poi il muro interno. Dimodochè, mirando al medesimo punto, e correndo a gran carriera, uno scontro sembrava inevitabile. Non solo. Se il direttore, all'ultimo momento, malcontento della partenza, non desse il segnale di lasciar cader la corda? O se non lo desse in tempo? Lo spazio intermedio era di circa duecentocinquanta piedi in lunghezza. Guai se, suggestionato dagli sguardi delle migliaia di spettatori o attratto dall'esclamazione insidiosa di un avversario, o dal grido animatore, ma non meno pericoloso, di qualche amico, l'auriga avesse alzati gli occhi un istante! Fermo il polso, le pupille fisse, i guidatori avanzavano. Il tocco divino che dà l'ultima perfezione alla bellezza, è l'animazione. Che il lettore tenti di immaginarsi quello spettacolo, al quale i nostri tempi moderni non saprebbero contrapporre nulla di eguale: guardi dapprima l'arena, immensa distesa luccicante di sabbia bianca, chiusa nella sua cornice di mura grigie; veda su questo campo perfetto i sei cocchi leggeri, graziosi, rilucenti, — quello di Messala splendido di oro e d'avorio; guardi i guidatori, il loro corpo eretto, rigido, le membra nude e abbronzate; nella destra i lunghi flagelli, nella sinistra, accuratamente separate, le redini, tese fino all'estremità dei timoni; osservi i cavalli scelti per bellezza come per velocità, le criniere al vento, i corpi distesi, le narici tumide, le gambe fine ma robuste come verghe di ferro, ogni muscolo dei loro splendidi corpi, pieno di vita, ora teso, ora contratto, giustificando il mondo che ha preso da essi la sua unità di forza; veda le ombre, che accompagnando cocchi, auriga e cavalli, radono la terra; veda, con l'occhio della mente, tutto questo, e potrà comprendere il piacere e il delirio che invadeva la folla per la quale questo spettacolo non era vana creazione di fantasia, ma vera, palpitante realtà. Tutte e sei le quadrighe correvano per la strada più breve verso il medesimo punto; il muro; cedere sarebbe stato come rinunciare alla vittoria. E chi avrebbe deviato in mezzo a quella pazza carriera, con le grida della moltitudine che gli tuonavano nell'orecchio come il rombo del mare in burrasca? Il trombettiere presso il direttore diede uno squillo poderoso. — A venti passi di distanza nessuno lo udì. Ma vedendo l'atto, i giudici di campo lasciarono cadere la corda a pena in tempo per evitare il cocchio di Messala, nell'abbassarla, e toccarono lo zoccolo del suo primo cavallo. L'impavido Romano, agitò il flagello, che si snodò sibilando nell'aria, allentò le redini, tese il corpo in avanti, e con un grido di trionfo conquistò il muro. — «Giove è con noi! Giove è con noi!» — urlò tutta la fazione Romana, in un delirio di entusiasmo. Alla voltata, la testa di leone, con cui terminava il mozzo della sua ruota, urtò la gamba anteriore del cavallo dell'Ateniese, gettando l'animale spaventato addosso al suo vicino di giogo. Entrambi vacillarono, s'impennarono. I custodi balzarono innanzi e li afferrarono per le briglie. Le migliaia di persone sulle gradinate trattennero il respiro, attente; solo dalla tribuna consolare continuavano le grida e il clamore. — «Giove è con noi!» — urlò Druso. — «Egli vince! Giove è con noi!» — echeggiarono i suoi compagni, vedendo Messala alla testa del gruppo. Samballat, con le sue tavolette in mano, si rivolse a loro. Un frastuono, seguito da grida strazianti lo obbligò a guardare nuovamente nell'arena. Messala essendo passato, il Corinzio era il solo che rimanesse alla destra dell'Ateniese, e in quella direzione quest'ultimo cercò di piegare la sua quadriglia spaventata; proprio in quel momento sventura volle che la ruota del Bizantino, suo vicino di destra, incontrasse di fianco il suo cocchio sbalzando l'auriga per terra. Con un urlo di rabbia e di terrore il misero Cleante cadde sotto le zampe dei propri cavalli; orribile spettacolo davanti al quale Ester si coprì gli occhi. Il Corinzio, il Bizantino, il Sidonio passarono avanti. Samballat diede uno sguardo a Ben Hur, e si volse nuovamente a Druso e ai suoi compagni. — «Cento sesterzi sopra l'Ebreo!» — esclamò. — «Accettato!» — rispose Druso. — «Altri cento sull'Ebreo!» — gridò Samballat. Nessuno gli badava. Gridò nuovamente; lo spettacolo dell'Arena assorbiva tutta la loro attenzione, ed essi erano troppo occupati ad urlare: — «Messala! Messala! Giove è con noi!» — Quando Ester osò guardare nuovamente, alcuni servitori stavano rimovendo i cavalli e il carro frantumato, mentre altri portavano via l'auriga; da ogni banco su cui sedeva un Greco partivano urli di rabbia e preghiere di vendetta. Essa giunse le mani per la felicità: Ben Hur, incolume volava al pari col Romano! Dietro a loro, in gruppo, venivano il Sidonio, il Corinzio e il Bizantino. La corsa era incominciata. La moltitudine tratteneva il respiro. CAPITOLO XIV. Ben Hur, come abbiamo veduto, si trovava all'estrema sinistra dei sei. Per un momento, come gli altri, fu quasi abbagliato dalla viva luce dell'arena. Pure riuscì a distinguere i suoi avversari e ne indovinò l'intento. Diede uno sguardo scrutatore a Messala. Il freddo orgoglio del patrizio Romano riposava, come d'usato, sul bellissimo volto, alle cui fattezze l'elmo accresceva maestà; ma, fosse giuoco di fantasia o effetto dell'ombra bronzea che copriva il suo viso, in quell'istante l'Ebreo credette di vedere tutta l'anima dell'uomo trasparire attraverso la venustà di quel corpo, un'anima crudele, scaltra, vigile e risoluta. In pari tempo lo spirito di Ben Hur s'irrigidì in un poderoso sforzo di volontà. A qualunque costo, a qualunque rischio, egli avrebbe umiliato il suo nemico! Premio, amici, scommesse, onori, tutto spariva davanti a quell'unico deliberato proposito! Neppure la morte lo avrebbe trattenuto! Con tutto ciò, nessuna passione gli ardeva nel petto; il sangue non affrettò la sua corsa dal cuore al cervello, dal cervello al cuore; non provava nessun impulso di gettarsi alla cieca in braccio alla Fortuna, poichè egli non credeva alla Fortuna. Fidava in sè, nel disegno da lunga mano preparato, e chiamò a raccolta tutte le forze del suo corpo, tutte le energie della sua intelligenza, per poter attuare il suo piano. A metà percorso egli si avvide che l'impeto di Messala, lo avrebbe, nel caso che non fosse successo alcuno scontro e la corda fosse caduta, infallibilmente condotto a rasentare il muro interno; e come un lampo gli venne il pensiero che Messala _sapesse_ che la corda doveva cadere all'ultimo momento. Un accordo col direttore avrebbe potuto facilmente stabilire questo; e l'accordo era abbastanza probabile, quando si pensi che il prefetto era Romano, e all'interesse che poteva avere nella vittoria del suo concittadino, il quale, oltre al godere tanta popolarità, aveva una somma così ingente a repentaglio. Nessun'altra ragione poteva spiegare la fiducia con cui Messala spingeva innanzi la sua quadriglia, proprio nell'istante che gli altri competitori cercavano di frenare le proprie, nessun'altra ragione, tranne la pazzìa. Ma vedere una cosa e approfittarne sono due cose diverse. Pel momento Ben Hur rinunciò al muro. La corda cadde, e tutte le quadriglie, meno la sua, balzarono sulla pista, sotto il doppio impulso dei flagelli e delle voci. Egli piegò a destra, e con tutta la velocità de' suoi Arabi, tagliò obliquamente la strada ai suoi avversari; dimodochè, mentre la moltitudine fremeva davanti all'infortunio dell'Ateniese, e il Sidonio, il Bizantino, e il Corinzio, cercavano con tutta destrezza di sfuggire alla rovina del compagno, Ben Hur passò loro davanti come una freccia, e procedette ruota a ruota col cocchio di Messala, ma dalla parte esterna. La meravigliosa abilità dimostrata nel portarsi, in questa guisa, dall'estrema sinistra a destra, non sfuggì ai vigili sguardi delle gradinate; il Circo minacciò di crollare sotto lo scroscio degli applausi. Allora Ester battè le mani; allora Samballat, sorridendo, offrì di nuovo i suoi cento sesterzi, senza ottenere risposta; e allora, per la prima volta, i Romani ebbero il dubbio che forse Messala avesse trovato il suo pari, forse anche il suo superiore, e questi in un Israelita! L'uno di fianco all'altro, separati da un intervallo quasi impercettibile, i due cocchi si avvicinavano alla prima mèta. Il plinto su cui s'ergevano i tre pilastri, veduto da ovest, presentava l'aspetto di un muro, in forma di semi cerchio, offrendo la convessità della curva agli spettatori, parallela all'opposta concavità del balcone di faccia. Questa voltata costituiva la prova di fuoco dei guidatori; Oreste medesimo vi aveva fallito. Un generale silenzio regnante nell'assemblea testimoniava l'interessamento con cui il pubblico seguiva questa fase. Il calpestìo dei cavalli ed il rumor delle ruote erano distintamente avvertibili. Allora, per la prima volta, sembrò che Messala si avvedesse della presenza di Ben Hur; e subito tutta l'audacia dell'uomo si manifestò in un modo sorprendente. — «_Abbasso Eros, evviva Marte!_» — egli gridò, brandendo il flagello. — «_Abbasso Eros, evviva Marte!_» — egli ripetè, assestando sulla schiena degli Arabi di Ben Hur, una sferzata, quale essi non avevano mai ricevuto. Il colpo era stato veduto da ogni settore, e lo stupore fu generale. Il silenzio divenne terribile nella sua intensità; sugli scranni intorno al Console i più coraggiosi trattennero il respiro, aspettando con gli occhi sbarrati. Solo un istante durò la tensione, poi, come rombo di tuono, scoppiò l'indignazione del pubblico. I quattro cavalli trasalirono dallo spavento e balzarono innanzi. Nessuno li aveva mai toccati, se non in segno di affetto; erano cresciuti accarezzati come bambini, e la loro fiducia negli uomini era commovente. Che cosa dovevano fare quelle delicate creature se non slanciarsi avanti come pazze? Il carro traballò. Non v'ha dubbio che ogni esperienza ci è utile nella vita. Donde trasse Ben Hur, in questo momento, il suo braccio vigoroso e il suo pugno di ferro? Donde, se non dai lunghi anni passati al remo? E che cos'era il sobbalzare del carro in confronto al rullìo improvviso della nave battuta dall'ebbro furore dei flutti? Egli mantenne il suo posto, allentò le redini sul capo ai cavalli, parlando loro con voce carezzevole, cercando unicamente di guidarli incolumi intorno all'angolo pericoloso; e prima ancora che l'agitazione del pubblico si fosse sedata, aveva riconquistata la padronanza su di essi. Non solo: nell'avvicinarsi alla seconda mèta egli si trovò nuovamente al fianco di Messala, seguìto dalla simpatia e dai voti di tutti gli spettatori non Romani. Questo sentimento appariva così evidente, che Messala, con tutta la sua audacia, non stimò opportuno scherzare più oltre. Mentre i carri passavano la mèta, Ester vide il volto di Ben Hur — un po' pallido, un po' rialzato — ma calmo, risoluto. Subito un uomo si arrampicò sull'estremità occidentale del muro di divisione, e levò una delle sfere. In pari tempo fu tolto un delfino dall'altra parte. Nello stesso modo, scomparvero la seconda sfera e il secondo delfino. Poi la terza sfera e il terzo delfino. Tre giri erano stati compiuti; Messala occupava ancora l'interno della pista; Ben Hur galoppava all'esterno. La corsa assumeva l'aspetto di una di quelle gare doppie così popolari nel secondo periodo dell'età imperiale. — Nella prima Messala e Ben Hur; il Sidonio, il Corinzio, il Bizantino, seconda. Intanto gli uscieri avevano ottenuto di far sedere la moltitudine, quantunque il clamore continuasse, precedendo i corridori. Al quinto giro il Sidonio riuscì a portarsi all'altezza di Ben Hur, ma perdette subito il vantaggio. Il sesto giro cominciò senza recare un spostamento nelle posizioni relative. Gradatamente la velocità era aumentata; a poco a poco il sangue dei guidatori si riscaldava. Uomini e cavalli sembravano sapere che la crisi finale si avvicinava. L'interessamento che, sul principio della gara, s'era concentrato nella lotta fra Messala e Ben Hur, accompagnato dall'universale simpatia per quest'ultimo, si mutò in ansietà e paura per lui. Su tutti i banchi gli spettatori tendevano gli occhi, seguendo silenziosi e immobili i cavalli dei due competitori. Ilderim cessò di lisciarsi la barba, ed Ester dimenticò la sua timidezza. — «Cento sesterzii sull'Ebreo!» — gridò Samballat ai Romani sotto alla tenda consolare. Nessuno rispose. — «Un talento — cinque talenti, — dieci, se volete!» — Agitò le tavolette in atto di sfida. — «Io vincerò i tuoi sesterzii» — disse un giovine Romano, preparandosi a scrivere. — «Non farlo» — lo ammonì un amico. — «Perchè?» — — «Messala ha raggiunta la sua massima velocità. Guarda come si piega sopra l'orlo del cocchio, e libera le redini, ed ora osserva l'Ebreo.» — L'altro guardò. — «Per Ercole!» — egli esclamò impallidendo. — «Il cane fa ogni sforzo per trattenerli. Lo vedo, lo vedo! Se gli Dei non aiutano il nostro amico, egli sarà battuto dall'Israelita. — Ma no, non ancora. Guarda! Giove è con noi, Giove è con noi!» — Questo grido, che uscì simultaneamente da ogni gola Romana, fece tremare il velario sopra la testa del Console. Se era vero che Messala aveva raggiunta la sua massima velocità, il risultato corrispondeva allo sforzo. Lentamente, ma distintamente, egli guadagnava terreno. I suoi cavalli correvano con le teste chinate e i colli tesi; dal balcone sembrava che radessero il suolo: le loro narici parevano schizzar sangue; gli occhi uscire dalle orbite. Certamente i buoni cavalli facevano tutto il possibile! Ma per quanto tempo avrebbero potuto mantenere quel passo? Era il principio del sesto giro soltanto. Volavano. Nel voltare la seconda mèta i cavalli di Ben Hur piegarono dietro il cocchio del Romano. La gioia dei partigiani di Messala non ebbe limiti: gridavano, urlavano, gettavano per aria i cappelli; e Samballat riempì le tavolette con le scommesse che essi offrivano. Malluch nella tribuna sopra la Porta del Trionfo potè a stento frenare le sue lacrime. Egli aveva fatto tesoro della allusione di Ben Hur, secondo la quale «qualche cosa» doveva avvenire allo svolto delle colonne occidentali. Era il quinto giro, il qualche cosa non era ancora avvenuto; ed egli s'era detto fra sè: — «Aspettiamo il sesto.» — Il sesto era venuto e Ben Hur galoppava in coda al cocchio nemico. Nella tribuna orientale, la compagnia di Simonide taceva. La testa del negoziante era chinata sul petto. Ilderim si tirava la barba, e corrugava le ciglia quasi a coprirne gli occhi. Ester respirava appena. Solo Iras sembrava contenta. Per la penultima volta i cocchi facevano il giro dell'arena. — Messala alla testa, dietro di lui Ben Hur. Era la vecchia corsa di Omero: Innanzi a tutti Le puledre volavano veloci Del Fereziade Eumelo; e dopo queste, Ma di poco intervallo, i corridori Di Troe, guidati dal Titide, e tanto Imminenti che ognor parean sul carro Montar d'Eumelo, a cui coi flati ardenti Già scaldano le spalle, e già le toccano Colle fervide teste. Così arrivarono alla prima mèta e la girarono. Messala, temendo di perdere il vantaggio conseguito, andò rasente al muro, sino quasi a toccarlo; un palmo più a sinistra e cocchio ed auriga sarebbero stati travolti; pure, quando la voltata fu fatta, nessuno, osservando le carreggiate dei due cocchi, avrebbe potuto dire: — «qui passò Messala, qui l'Ebreo.» — Uno solo era il solco lasciato dai due. Ester vide di nuovo il volto di Ben Hur, e le parve più pallido di prima. Simonide, più acuto osservatore di Ester, sussurrò nell'orecchio di Ilderim: — «Sceicco, io non sono buon giudice, ma credo che Ben Hur covi un progetto nella sua mente. Il suo viso me lo dice.» — Al che Ilderim rispose: — «Hai veduto come i cavalli erano freschi e lucidi? Per lo splendore di Dio, amico, non sembra che abbiano corso! Ma ora, attento!» — Una sola sfera e un solo delfino rimanevano; e tutto il popolo respirò, sapendo che il principio della fine era giunto. Il Sidonio lasciò cadere le correggie del suo flagello sulla schiena dei suoi cavalli, e, quasi pazzi dal dolore e dalla paura, i nobili animali si slanciarono innanzi disperatamente, minacciando di prendere il primo posto. Ma lo sforzo si esaurì nella promessa. Il Bizantino ed il Corinzio fecero il medesimo tentativo, con lo stesso risultato, e d'allora in poi essi si poterono considerare fuori giuoco. Con una prontezza facilmente spiegabile; tutte le fazioni meno la Romana accentrarono i loro voti su Ben Hur, animandolo con grida selvagge. — «Ben Hur! Ben Hur!» — urlarono, e il rombo di migliaia di voci arrivò come un'onda sino alla tribuna consolare. — «Avanti, Ebreo!» — — «Al muro, al muro!» — — «Forza, Arabi! Frusta e redini!» — — «Ora o mai!» — Sull'orlo della balconata si piegavano mille corpi, tendendo le mani verso di lui. Forse non udì, forse non potè far di più; in ogni modo l'ultimo giro era mezzo percorso senza che fosse avvenuto alcun mutamento! Ed ora per fare l'ultima voltata, Messala cominciò a raccogliere le redini dei cavalli di sinistra, movimento che necessariamente rallentò la sua velocità. Il suo cuore batteva in anticipazione della vicina vittoria. Più d'un altare avevano arricchito i suoi doni. Il genio Romano doveva prevalere. Sui tre pilastri, a seicento piedi di distanza, erano fama, fortuna, onori, e un trionfo che l'odio rendeva ineffabilmente dolce. Tutto ciò l'attendeva! In quell'istante Malluch, dalla gradinata, vide Ben Hur piegarsi innanzi sull'orlo del cocchio, e rallentare le redini sulla schiena dei suoi Arabi. Le cinghie del flagello si snodarono nell'aria, con un lungo sibilo di serpenti. Non caddero, ma la minaccia di quel suono, sortì il medesimo effetto. Nel passare dalla sua posizione, rigida e calma, a questa rapidità di azione, il volto dell'uomo si imporporò, gli occhi scintillarono; sembrava che la sua volontà, correndo lungo le redini, si comunicasse ai cavalli, i quali, come animati dal medesimo impulso, risposero con uno scatto che li portò al fianco del carro Romano. Messala, presso alla perigliosa voltata della mèta, udì, ma non osò volgere la testa. Dal pubblico non ricevette alcun avvertimento. Nel profondo silenzio dell'arena non si udivano che il rumore dei cocchi e la voce di Ben Hur, che, in pura lingua Amarica, come lo sceicco medesimo, parlava ai cavalli. — «Su, Atair! Su, Rigel! Avanti, Antares! Vorresti forse indugiare, Aldebran, nobile cuore? Io li sento cantare nel deserto; io sento le donne e i fanciulli cantare la canzone delle stelle: Atair, Antares, Rigel, Aldebran, vittoria! — e quel canto durerà eterno. Avanti, cavalli! Domani vi accoglieranno le tende paterne! Avanti, Antares! La tribù ci aspetta, e il padrone ci guarda! Vittoria, vittoria! E, fatto, è fatto! Ah, ah! L'orgoglioso è umiliato! La mano che ci colpì è nella polvere! Nostra la gloria! Ah, ah! — fermi! La fatica è compiuta! — Adagio — alt!» — Nulla di più semplice, nulla di più istantaneo. Nel momento scelto per lo scatto finale, Messala stava girando intorno alla mèta. Per sorpassarlo, Ben Hur doveva tagliargli la strada, e, precisamente percorrendo il medesimo cerchio, con un raggio di poco maggiore. Le migliaia di persone assiepate sopra le gradinate compresero tutto: videro il segnale dato da Ben Hur; la magnifica risposta; i quattro cavalli di fianco al cocchio di Messala, la ruota interna del cocchio di Ben Hur, dietro il carro del Romano, tutto ciò videro e compresero. Poi udirono un colpo secco che fece fremere tutto il Circo, e videro una pioggia di scheggie bianche cadere sulla pista. Il carro del Romano traballò e si piegò sopra il lato destro, urtando con l'estremità della sala la terra. Due volte rimbalzò, poi tutto il cocchio andò in frantumi, e Messala, avviluppato nelle redini, fu precipitato a capo fitto fra i propri cavalli. Per accrescere l'orrore dello spettacolo, il Sidonio, che rasentava il muro dietro Messala, non potè arrestarsi o deviare. Con tutta velocità piombò addosso ai resti del cocchio Romano, in mezzo ai cavalli di questo, quasi pazzi di terrore. Poco dopo, attraverso la nube di polvere, che velò per un istante la scena, egli fu visto trascinarsi carponi, mentre il Corinzio ed il Bizantino seguivano come freccie il cocchio di Ben Hur. Gli spettatori balzarono in piedi sui banchi con un lungo grido. Alcuni videro Messala sotto gli zoccoli dei cavalli tumultuanti e i rottami dei due carri. Non si muoveva; sembrava morto. Ma la maggior parte non aveva occhio che per Ben Hur. Era loro sfuggita l'abile mossa, per cui, piegando un poco verso sinistra, egli aveva urtata la delicata ruota di Messala con la ferrea punta del proprio mozzo, frantumandola; ma avevano veduto il mutamento avvenuto in lui. Essi medesimi si sentivano compenetrati dalla subita fiamma del suo spirito, dall'eroica risoluzione, dalla furiosa energìa, con cui, nel gesto, nello sguardo, nella voce, aveva improvvisamente inspirato i suoi Arabi. Correvano essi? O non erano piuttosto i lunghi salti di leoni aggiogati? Se non fosse stato pel carro pesante, si sarebbe detto che volassero. Quando il Bizantino ed il Corinzio erano ancora a metà percorso, Ben Hur voltava l'ultima mèta. _E la corsa era vinta!_ Il console si alzò, il pubblico gridò con quanta voce aveva in gola; il direttore discese dal suo scranno incontro ai vincitori. Il fortunato vincitore del pugilato era un gigantesco Sassone dai capelli flavi, e con un volto così brutale, da attirare l'attenzione di Ben Hur, che riconobbe in lui il suo antico maestro in Roma, di cui era stato l'alunno favorito. Poi alzò gli occhi verso il balcone di Simonide. La compagnia gli tese le mani. Ester rimase seduta; ma Iras si alzò e con un grazioso gesto del ventaglio gli mandò un bacio — favore non meno inebbriante, perchè noi sappiamo, o lettore, che sarebbe toccato a Messala, se a questi avesse arriso la vittoria. La processione, salutata da un nuovo scoppio di applausi, attraversò lentamente la Porta Trionfale. CAPITOLO XV. Ben Hur ed Ilderim dovevano, come d'accordo, partire a mezzanotte dello stesso giorno, e seguire la strada battuta dalla carovana, che li aveva preceduti di trenta ore. Lo sceicco era felice; aveva offerto doni principeschi, ma Ben Hur rifiutò ogni cosa, insistendo che gli bastava l'umiliazione inflitta al nemico. La disputa generosa continuò a lungo. — «Pensa» — diceva lo sceicco — «a quanto tu hai fatto per me. In ogni tenda nera, dall'Akaba all'Oceano, e attraverso le terre dell'Eufrate fino al mare degli Sciti, volerà la fama della mia Mira e dei suoi figli; e quelli che canteranno di loro, mi esalteranno, e dimenticheranno ch'io sono sul declinar dell'età. Tutte le nomadi lancie del deserto verranno a me, e mi riconosceranno sceicco. Tu non sai che cosa significhi il dominio che ora terrò sul deserto. Principi e commercianti mi pagheranno innumerevoli tributi. Sì, per la spada di Salomone, Cesare stesso dovrà piegarsi innanzi a me! E tu non vuoi nulla — nulla?» — E Ben Hur rispondeva: — «No, sceicco; non sono io forse amato da te e non ho il tuo aiuto? L'incremento della tua potenza potrà servire al Re che verrà. Chi può dire che non ti fu concessa a questo scopo? Nell'opera ch'io intraprendo avrò bisogno di te. Rifiutando oggi, potrò chiedere più apertamente in seguito.» — Mentre essi disputavano con tanta vivacità arrivarono due messaggeri — Malluch ed uno sconosciuto. Il primo ebbe naturalmente la precedenza. Dopo aver nuovamente espresso la sua gioia per gli eventi della giornata, venne allo scopo della sua visita. — «Simonide mi manda a dirvi, che, terminati i giuochi, alcuni Romani si affrettarono a reclamare contro il pagamento del premio.» — Ilderim balzò in piedi, gridando colla sua voce più acuta. — «Per la potenza di Dio, l'Oriente deciderà se la corsa fu lealmente guadagnata!» — — «No, buon sceicco,» — disse Malluch — «Il direttore ha pagato.» — — «Sta bene.» — — «Quando dissero che Ben Hur urtò la ruota di Messala, il direttore rise e rammentò loro la sferzata ricevuta dagli Arabi in principio della corsa.» — — «E l'Ateniese?» — — «È morto.» — — «Morto!» — esclamò Ben Hur. — «Morto!» — ripetè Ilderim. — «Solo quei mostri Romani hanno tutte le fortune. Messala scampò.» — — «Scampò, — sì, o sceicco, con la vita; ma essa gli sarà di peso. I medici dicono che vivrà, ma che non potrà mai più camminare.» — Ben Hur alzò gli occhi al cielo, in silenzio. Ebbe la visione di Messala, inchiodato alla sua sedia come Simonide, e come lui portato in giro sopra le spalle degli schiavi. L'infermità dei buoni è facile a sopportarsi; ma che sarebbe di costui col suo orgoglio e la sua ambizione? — «Simonide vi fa sapere inoltre» — continuò Malluch — «che Samballat ha dei fastidii. Druso e quelli che hanno firmato con lui, hanno appellato al console Massenzio circa il pagamento dei cinque talenti perduti, e il Console ha rimandata la decisione a Cesare. Anche Messala si rifiuta di pagare, e Samballat, seguendo l'esempio di Druso, ha portato l'affare davanti al console. I migliori Romani dicono che coloro che protestano dovranno pagare, e tutti i partiti avversarii si schierano con loro. In città non si parla che dello scandalo.» — — «E che dice Simonide?» — chiese Ben Hur. — «Il padrone ride, ed è contento. Se il Romano paga, è rovinato; se si rifiuta, è disonorato. La politica imperiale deciderà. Offendere l'Oriente sarebbe un brutto principio nella campagna coi Parti; offendere lo sceicco Ilderim, significherebbe inimicarsi il Deserto, attraverso il quale corrono tutte le linee di operazione di Massenzio. Quindi Simonide vi esorta a star di buon animo: Messala pagherà.» — Il volto di Ilderim si rasserenò subito. — «Ed ora andiamo» — egli esclamò, stropicciandosi le mani. Simonide ha in mano la cosa, ed essa non può andar male. Intanto la gloria è nostra. Ordinerò che siano approntati i cavalli.» — — «Fermati,» — disse Malluch. — «Ho lasciato là fuori un messaggero. Vuoi vederlo?» — — «Per lo splendore di Dio! l'avevo dimenticato!» — Malluch si ritirò, lasciando il passo ad un giovinetto di delicata apparenza, e modi cortesi, il quale, piegatosi sopra un ginocchio fece la sua ambasciata. — «Iras, figlia di Balthasar, manda allo sceicco Ilderim saluti e felicitazioni per la vittoria ottenuta.» — — «La figlia del mio amico è assai gentile,» — disse Ilderim con gli occhi scintillanti. — «Portale questo gioiello in segno della mia riconoscenza.» — Così dicendo si tolse un anello dal dito. — «Farò come tu dici, o sceicco» — continuò il paggio — «La figlia dell'Egiziano mi ha dato anche un'altra commissione. Essa prega il buon sceicco Ilderim, di far noto al giovine Ben Hur, che suo padre dimora attualmente nel palazzo di Idernee, dove essa riceverà il giovine, domani, dopo l'ora quarta. E se, con le sue congratulazioni, lo sceicco Ilderim vorrà accettare anche la sua gratitudine per questo secondo favore, essa sarà felicissima.» — Lo sceicco guardò Ben Hur, che arrossì di gioia. — «Che devo rispondere?» — chiese. — «Se permetti, o sceicco, andrò a trovare la bella Egiziana.» — Ilderim rise e disse: — «La gioventù non viene che una volta sola; non deve l'uomo approffittarne?» — Ben Hur si volse al messaggero. — «Dirai a colei che ti inviò, che io, Ben Hur, sarò felice di vederla domani al pomeriggio, nel palazzo di Idernee, dovunque esso si trovi.» — Il giovinetto si alzò e, con un profondo inchino, partì. A mezzanotte Ilderim si mise in cammino, lasciando indietro un cavallo e una guida per Ben Hur che doveva seguirlo. E Ben Hur rimase solo in Antiochia. CAPITOLO XVI. Il giorno appresso, una buona mezz'ora prima del tempo fissato per l'appuntamento, Ben Hur, lasciato l'Omfalo, che era nel cuore della città, ed attraversati i Colonnati di Erode, arrivò al palazzo di Idernee. Dalla strada penetrò dapprima in un vestibolo, dai lati del quale si partivano due scalinate conducenti a una galleria superiore. Leoni alati fiancheggiavano la scala; nel centro una gigantesca gru in mezzo a un bacino di marmo lasciava zampillar l'acqua dal becco. I leoni, la gru, le scale ricordavano l'Egitto. Le pareti e pavimenti, la volta, la rampa della scala erano di pietra grigia. Sopra il vestibolo, sul pianerottolo della scala, sorgeva un porticato, così leggero, di tale grazia, e di così squisite proporzioni, quali solo uno scalpello Greco avrebbe potuto eseguire. Colonne ed archi di marmo bianchissimo, spiccavano come gigli sopra il grigio della pietra. Ben Hur si fermò all'ombra del porticato, per ammirarne la finitezza del disegno e la purezza del marmo; quindi entrò nel palazzo. L'ampio portone era spalancato per riceverlo. Il corridoio in cui penetrò, era alto, ma stretto, pavimentato di mattoni rossi, con le pareti di egual colore; ma questa stessa semplicità avvertiva e preparava l'animo alle bellezze che dovevano venire di poi. Egli camminava lentamente assaporando la quiete signorile del luogo e pensando al vicino colloquio con Iras. Essa lo aspettava, lo aspettava col suo canto e i suoi racconti, con la vivacità del suo spirito, con la sua voce voluttuosamente sommessa e suggestiva. Lo aveva mandato a chiamare la sera, sul lago, all'Orto delle Palme; ora lo aveva invitato di nuovo, — nel suo magnifico palazzo di Idernee. Egli procedeva come in un sogno felice. Il corridoio lo condusse ad una porta chiusa davanti alla quale egli si fermò; in quella gli ampî battenti si spalancarono da soli, senza stridore, silenziosamente. Nessuna chiave era girata nella toppa; nessuna mano aveva sospinto l'uscio. La singolarità del caso gli passò inavvertita davanti allo spettacolo che gli si offrì. Attraverso il vano della porta egli vide il vasto atrio di una casa Romana, e di una ricchezza e di una magnificenza favolosa. Era impossibile dire l'ampiezza della sala, mirabilmente celata dall'armonia delle proporzioni. Abbassando gli occhi, s'avvide d'essere in piedi sul petto di una Leda che accarezzava il collo di un cigno, guardando più in là, vide che tutto il pavimento era un grande mosaico rappresentante soggetti mitologici. Intorno alle pareti, sparsi in artistico disordine per la sala, erano sedie e sgabelli di squisita fattura, ciascuno secondo un proprio disegno, e tavoli, meravigliosamente scolpiti, e giacigli coperti di soffici pelliccie che invitavano ad adagiarvisi sopra lunghi distesi. Tutti questi oggetti di mobiglio, insieme alle sculture e ai bassorilievi delle pareti, si riflettevano sul lucido pavimento, e sembravano quasi galleggiare sulla trasparente superficie di uno stagno. Il soffitto era a volta e si incurvava verso il centro, donde attraverso una grande apertura pioveva la luce del giorno e traspariva l'azzurro del cielo; l'_impluvium_, sotto l'apertura, era circondato da grate di bronzo; i pilastri dorati che sopportavano la volta intorno all'orlo dell'apertura, corruscavano di viva fiamma là dove erano toccati dal sole, e i loro riflessi sul pavimento sembravano prolungarsi a profondità infinite. Strani candelabri pendevano dall'alto, o si partivano in fantastiche curve dalle pareti, alternandosi con statue e vasellami; il tutto formando una sala degna della villa sul Palatino che Cicerone comperò da Crasso, o di quell'altra ancora più celebre per la sua stravagante magnificenza, la villa Tusculana di Scauro. Assorto nell'ammirazione di quanto vedeva, Ben Hur girava per la sala, aspettando. Non era impaziente. Quando Iras sarebbe stata pronta, sarebbe venuta o l'avrebbe mandato a chiamare. In ogni casa Romana l'atrio era la sala di ricevimento degli ospiti. Due, tre volte, fece il giro delle pareti; poi si fermò sotto all'apertura a contemplare con lo sguardo l'azzurra immensità del cielo sopra il suo capo; poi ancora, appoggiato contro una colonna, studiò gli effetti di luce e di ombra. E non veniva nessuno! L'attesa cominciò a pesargli, e principiò pensare sulle possibili ragioni del ritardo di Iras. Esaminò di nuovo i disegni del pavimento, ma ne trasse minore diletto di prima e vi scoprì parecchi difetti. Di tanto in tanto si fermava ad ascoltare. L'impazienza cominciava a pungerlo, e il silenzio che lo circondava si fece opprimente. Una vaga inquietudine lo prese, e cercò invano di soffocarla: — «Starà dandosi un'ultima pennellata alle sopracciglia, o, forse, starà facendo una ghirlanda per me; cercherà d'esser più bella onde farsi perdonare il ritardo!» — Con tali riflessioni tentò di cacciare la noia e la febbre dell'attesa. Si sedette per ammirare un candelabro — un plinto di bronzo scorrente sopra rotelle; all'estremità si elevava lo stelo di una palma, dall'altra la figura di una donna inginocchiata dinanzi ad un'ara; le lampade pendevano in guisa di frutti fra le fronde dell'albero; — un capolavoro del suo genere. Ma l'ansia di quel silenzio non cedeva davanti alla contemplazione del bellissimo oggetto. Egli tendeva l'orecchio, ma non si udiva un suono; il palazzo era muto come una tomba. Forse vi era stato un errore. No: il messaggiero veniva da parte dell'Egiziana, e questo era il palazzo di Idernee. Poi si rammentò che la porta si era aperta in modo misterioso, da sola, senza chiasso. Andrebbe ad accertarsi! Mosse verso la porta. Quantunque si sforzasse di camminare in punta di piedi, i suoi passi risuonarono sgradevolmente, ed egli ne ebbe quasi paura. Diventò nervoso. Il pesante chiavistello romano resistette al primo tentativo fatto per smuoverlo; provò una seconda volta — il sangue gli si agghiacciò nelle vene — finalmente diede uno strappo alla serratura con tutte le sue forze: invano — la porta non si mosse neppure. Un senso di timore lo prese, e per un momento rimase irresoluto. Chi, in Antiochia, aveva motivo di fargli del male? _Messala!_ E questo palazzo di Idernee? Aveva veduto l'Egitto nel vestibolo, Atene nel candido porticato; ma, qui, nell'atrio, era Roma; tutto quanto, all'ingiro, tradiva l'appartenenza Romana. È vero, il palazzo era in una delle strade più popolose della città; ma, per questa cagione appunto, poteva esser stato scelto dal genio audace del suo nemico. L'atrio subì una metamorfosi; con tutta la sua eleganza e bellezza, non era che una trappola. Il timore dipinge tutto in nero. L'idea d'essere stato colto come un uccello nella pania irritava Ben Hur. Molte porte apparivano a destra e a sinistra dell'atrio, conducenti probabilmente alle camere da letto; cercò di aprirle ma senza riuscirvi. Forse bussando avrebbe chiamato gente; ma vergognoso di far rumore, si gettò sopra un giaciglio e raccolse i suoi pensieri. Evidentemente egli era prigioniero; ma a che scopo? e di chi? Era opera di Messala? Egli si alzò, girò gli occhi attorno, atteggiò le labbra a un sorriso di scherno. Armi pendevano dalle pareti, e giacevano sui tavoli; avrebbe saputo difendersi. La fame? Uccelli erano morti di inedia in gabbie d'oro! ma egli non sarebbe morto là. Le statue di bronzo ed i mobili gli avrebbero servito da arieti, e la sua forza, triplicata dall'ira e dalla disperazione, avrebbe sfondata qualunque porta. Messala non sarebbe venuto. Egli non poteva muoversi dal letto. Era paralizzato come Simonide; pure avrebbe potuto mandare altri sicari, comperati e pronti a qualunque delitto. Ben Hur si alzò ed esaminò nuovamente le porte. Chiamò una volta; ma il suono della sua voce lo spaventò. Decise di aspettare con calma qualche tempo, prima di fare un tentativo estremo. In simili situazioni la mente ha i suoi flussi e riflussi, con intervalli di tranquillità fra l'uno e l'altro. Finalmente, dopo matura riflessione, concluse che dovesse esser successo un errore o un accidente. Il palazzo doveva appartenere a qualcheduno. Doveva avere almeno un custode, e questi sarebbe venuto ad aprirgli — fra un ora — fra due ore. Pazienza. Così, pensando, attese. Passò mezz'ora — a Ben Hur essa sembrò assai lunga — quando la porta per cui era entrato, si aprì e si rinchiuse silenziosamente, senza che egli se ne avvedesse, seduto com'era dalla parte opposta della sala. Il rumore dei passi lo fece trasalire. — «Ecco Iras!» — egli pensò con un fremito di sollievo e di gioia. I passi erano pesanti e accompagnati dallo stropiccio di rozzi sandali. Egli si alzò, e, silenziosamente, si appostò dietro le colonne dorate nel centro della sala. Di lì a poco intese voci — voci di uomini, ma non potè, comprendere ciò che dicevano, perchè parlavano un linguaggio sconosciuto all'oriente. Dopo un esame superficiale della stanza gli stranieri si avanzarono a sinistra, e Ben Hur li vide: erano due uomini, uno grasso, entrambi alti di statura, abbigliati con tuniche succinte. Non avevano l'aria nè di padroni nè di domestici della casa. Tutto ciò che vedevano destava la loro meraviglia, e si fermavano spesso a toccare gli oggetti con una curiosità animalesca. Erano due tipi volgari, che sembravano profanare l'atrio con la loro presenza. D'altra parte la loro aria sicura e disinvolta rivelava un intento preciso. Quale? Chiacchierando vivacemente, e arrestandosi ora qui ora lì, si avvicinarono alla colonna dietro alla quale stava Ben Hur. Un fascio di luce pioveva sul pavimento, a poca distanza, illuminando un mosaico, ad osservare il quale essi si fermarono di nuovo, permettendo a Ben Hur di esaminarli dettagliatamente. Il lungo silenzio e l'aria di mistero che dominavano sul palazzo avevano reso Ben Hur alquanto nervoso, e un fremito di paura gli attraversò ogni fibra, quando riconobbe, nel primo e più grasso degli stranieri, quel Germano ch'egli aveva conosciuto in Roma, e che aveva veduto il giorno prima al Circo, vincitore del premio al pugilato; il volto abbronzato dell'uomo, deturpato dalle cicatrici di molte battaglie e dalle impronte di vizi brutali; le membra colossali, vere meraviglie di quanto l'esercizio e la disciplina della palestra possono produrre, spiravano una minaccia, che era impossibile disconoscere. L'istinto gli disse che il momento per un assassinio era troppo ben scelto per essere il frutto di un caso. Posò lo sguardo ansioso sul compagno del gigante: un giovine, dagli occhi neri, e dai capelli scuri, Ebreo all'apparenza; osservò che entrambi indossavano i costumi dell'Arena. Sommando queste diverse circostanze, Ben Hur non potè che dedurne una conclusione: Egli era caduto in un trabocchetto. Lontano da ogni aiuto, in questo splendido carcere, doveva morire! Dubbioso ed incerto, guardava ora l'uno ora l'altro dei due uomini, mentre, nella sua mente, si svolgeva quell'ultimo miracolo della memoria in procinto di oscurarsi per sempre, la quale richiama alla coscienza del moribondo tutta quanta la vita passata e gli fa sfilare dinanzi agli occhi ogni minimo dettaglio della sua vita trascorsa, con tutta l'evidenza della realtà. Sino a pochi giorni fa egli era il perseguitato, l'agnello. Da poco era avvenuto il grande mutamento della sua vita che lo avrebbe dovuto rendere aggressore, e che lo avrebbe avviato a quel grande sogno di vendetta e di gloria, di cui la giornata di ieri era stato il primo, importantissimo passo. Ieri aveva trovata la prima sua vittima! Ad uno spirito puramente Cristiano, questa immagine avrebbe portata la debolezza del rimorso. Non così con Ben Hur; l'anima sua era stata modellata sulle dottrine del grande legislatore del suo popolo. Il castigo di Messala era meritato, era giusto! Iddio stesso gli aveva concessa la vittoria, e questo pensiero gli accrebbe fiducia. Non solo. Gli era stato detto, e le circostanze lo avevano concordemente confermato, che il Cielo lo aveva scelto per una missione santa, come era santo il Re che doveva venire, — una missione che rendeva legittima e sacra anche la vendetta, perchè necessaria. Doveva egli, sulla soglia appena del suo grande compito, temere e disperarsi? Disfece il nodo della fascia che gli stringeva la vita, e lasciò scivolare a terra l'ampia vestaglia bianca, che portava, alla foggia degli Ebrei, rimanendo in una tunica succinta non dissimile da quelle degli avversari. Incrociando le braccia sul petto, ed appoggiando le spalle alla colonna, aspettò tranquillamente. L'esame del mosaico fu breve. Tosto il Germano si voltò, e disse qualche cosa al compagno; entrambi guardarono Ben Hur. Scambiate poche altre parole nella loro lingua, avanzarono verso di lui. — «Chi siete!» — chiese Ben Hur. Il Germano sorrise, senza che quest'atto giovasse ad attenuare la feroce bruttezza del suo volto, e rispose: — «Barbari.» — — «Questo è il palazzo di Idernee. Che cosa cercate? Fermatevi e rispondete.» — La voce era calma ma imperiosa. I due si fermarono, e, a sua volta, il Germano domandò: — «Chi sei tu?» — — «Un Romano.» — Il gigante rovesciò il capo all'indietro e spalancando la bocca rise: — «Ah, ah! Ho udito dire che un Dio nacque da una vacca per aver leccato una pietra salata; ma neanche un Dio può fare Romano un Giudeo.» — Poi parlò di nuovo al compagno e i due si avvicinarono. — «Fermi!» — disse Ben Hur, abbandonando la colonna. — «Una parola.» — Si fermarono nuovamente. — «Una parola?» — ripetè il Sassone, incrociando le braccia poderose sopra il petto. — «Una parola? Parla.» — — «Tu sei Thord, il Germano.» — Gli occhi azzurri del gigante si spalancarono per la sorpresa. — «Fosti _lanista_ in Roma.» — Thord accennò di sì. — «Io fui tuo scolaro.» — — «No» — disse Thord, crollando il capo. — «Per la barba d'Irmino, non ho mai avuto nelle mie mani un Ebreo.» — — «Io posso provare il mio asserto.» — — «Come?» — — «Voi veniste qui per uccidermi.» — — «Questo è vero.» — — «Allora lascia che quest'uomo lotti con me, da solo, ed io ti fornirò la prova sopra il suo corpo.» — Un lampo d'allegrìa scintillò negli occhi del Germano. Disse due parole al compagno, il quale gli rispose; poi, volgendosi a Ben Hur, disse con la compiacenza di un fanciullo che si diverte: — «Aspettate il mio segnale. Poi cominciate.» — Con ripetuti calci avvicinò uno dei giacigli, e, con tutta tranquillità, vi si distese sopra comodamente; poi disse semplicemente: — «Ora cominciate.» — Senza preamboli, Ben Hur avanzò sopra il suo avversario. — «Difenditi» — gli disse. L'avversario alzò le mani e si mise in posizione. Stando così, l'uno di fronte all'altro, non presentavano nessuna apparente disparità; al contrario, si rassomigliavano come due fratelli. Lo straniero aveva sulle labbra un sorriso fiducioso, mentre il volto di Ben Hur esprimeva una serietà ed una risoluzione, che avrebbero suonato avvertimento e minaccia a chi avesse meglio conosciuto la sua abilità. Entrambi sapevano che il combattimento era mortale. Ben Hur fece una finta con la mano destra. Lo straniero parò, avanzando leggermente il braccio sinistro. Prima ch'egli potesse ritornare alla posizione di guardia, Ben Hur gli afferrò il polso con una stretta che gli anni passati al remo avevano reso terribile come una morsa. La sorpresa fu completa. Scagliarsi innanzi, spingere il braccio imprigionato sotto il mento dell'avversario, e sopra la spalla destra, quindi far girare l'uomo in modo che presentasse il fianco sinistro senza difesa, assestargli un pugno — un pugno solo — sul collo nudo, sotto l'orecchio, — fu l'affare di pochi secondi. Il sicario precipitò a terra, pesantemente, senza un grido, e giacque immobile. Ben Hur si volse a Thord. — «Ah! Che? Per la barba d'Irmino!» — gridò questi, attonito, alzandosi. Poi rise. — «Ah, ah, ah! Non avrei potuto farlo meglio io stesso.» — Egli osservò Ben Hur tranquillamente dalla testa ai piedi, e lo fronteggiò con aperta ammirazione. — «È il mio colpo — il colpo che per dieci anni praticai nelle scuole di Roma. — Tu non sei Ebreo. Chi sei?» — — «Conoscesti Arrio, il duumviro?» — — «Quinto Arrio? Sì, egli era mio patrono.» — — «Egli aveva un figlio.» — — «Sì,» — disse Thord, mentre il suo volto abbrutito fu illuminato da un lampo di gioia. — «Io conobbi il ragazzo; egli sarebbe diventato il Re dei gladiatori. Cesare gli offerse il suo favore. Io gl'insegnai quello stesso colpo che tu hai eseguito su costui, — un colpo impossibile tranne ad un pugno e ad un braccio come i miei. Mi ha valso più d'una corona.» — — «Io sono il figlio di Arrio.» — Thord si avvicinò, e lo esaminò con attenzione; poi i suoi occhi azzurri sfavillarono di schietta compiacenza, e, ridendo, gli tese la mano. — «Ah, ah, ah! Egli mi disse che troverei un Giudeo — un cane di un Giudeo — ammazzando il quale avrei servito gli Dei!» — — «Chi te lo disse?» — chiese Ben Hur, stringendogli la mano. — «Egli — Messala — ah, ah!» — — «Quando, Thord?» — «Ieri notte.» — — «Credevo che fosse malconcio.» — — «Egli non camminerà mai più. Mi parlò dal suo letto, tra spasimi ed urli.» — Era un quadro vivo, disegnato in pochi tratti; e Ben Hur capì che il Romano, se fosse sopravvissuto, avrebbe covato un odio inestinguibile, e gli sarebbe stato sempre pericoloso. Solo la vendetta gli rimaneva per addolcire la sua vita rovinata; donde quel suo convulso aggrapparsi alla fortuna, perduta nella scommessa con Samballat. Ben Hur fissò gli sguardi nel futuro, e vide in quante guise il suo nemico avrebbe potuto nuocere ai suoi disegni, intralciare la grande opera intrapresa pel servizio del Re. Perchè non ricorrere ai metodi del Romano? Questo uomo, prezzolato per assassinarlo, si poteva comperare per uccidere Messala. Egli poteva offrirgli un prezzo maggiore. La tentazione era forte; e, quasi in procinto di cedere, i suoi occhi incontrarono per caso il cadavere del suo avversario, col pallido volto scoperto, così simile al suo. Gli balenò un'idea e chiese: — «Thord, quanto ti ha dato Messala per uccidermi?» — — «Mille sesterzii.» — — «Tu li avrai; e purchè tu eseguisca a puntino i miei ordini, ne aggiungerò altri tremila dei miei.» — Il gigante espresse il suo pensiero ad alta voce: — «Ieri ho vinto cinquemila sesterzii; dal Romano mille — fanno seimila. Dammene quattro, buon Arrio, — quattro altri — e io t'aiuterò, quand'anche Thord, il mio divino omonimo, mi dovesse fulminare col suo martello. Dammene quattro, e, ad una tua parola, ti freddo quel bugiardo patrizio; ho solo da coprire la sua bocca con la mia mano — così.» — Il gesto che accompagnò queste parole era suggestivo. — «Capisco» — disse Ben Hur: — «diecimila sesterzii sono una fortuna. Ti permetteranno di andare a Roma e di aprire un nuovo negozio di vino in prossimità al Circo Massimo, e vivere come si addice al primo dei _lanisti_.» — Persino le vecchie cicatrici sul viso del gigante raggiarono di gioia. — «Io ti darò quattromila sesterzii» — continuò Ben Hur — «e non ti chiederò di versar sangue. Ascolta. Quel tuo compagno non aveva una accentuata rassomiglianza con me?» — — «Vi avrei detto due mele dello stesso albero.» — — «Ebbene, se io indosso la stessa tunica, e vesto lui coi miei panni, noi due possiamo andarcene tranquillamente, e tu ricevere ugualmente i tuoi sesterzii da Messala. Non hai che da dargli ad intendere che il morto sono io.» — Thord rise fino alle lacrime. — «Ah, ah, ah! Diecimila sesterzii in due giorni, guadagnati così facilmente! E un negozio di vino presso il Circo! tutto per una bugia, senza una goccia di sangue. Ah, ah, ah! Dammi la tua mano, o figlio di Arrio. Se mai vieni a Roma, non dimenticarti di visitare la bettola di Thord, il Germano. Per la barba di Irmino, ti darò il miglior Cecubo di Roma, dovessi andarlo a rubare nelle cantine di Cesare!» — Si scambiarono un'altra stretta di mano, dopo la quale compirono il travestimento del morto, di cui Ben Hur indossò la tunica ed i sandali. Quando tutto fu finito, il gigante bussò alla porta, che si aperse. Quindi scesero in istrada e, giunti all'Omfalo, si divisero. — «Non dimenticarti la bettola presso il Circo, o figlio di Arrio! Ah, ah, ah! Per la barba di Irmino, non vi fu mai fortuna guadagnata a miglior mercato. Gli Dei vegliano su di te!» — Questo fu l'addio del gladiatore. Nel lasciare l'atrio, Ben Hur diede un ultimo sguardo al sicario, giacente per terra nel suo costume d'Ebreo, e fu soddisfatto. La somiglianza era perfetta. Se Thord stava zitto, l'inganno non correva rischio d'essere scoperto. Quella notte, nella casa di Simonide, Ben Hur raccontò al negoziante tutto quanto era avvenuto nel palazzo di Idernee; e fu stabilito, che, dopo qualche giorno, si sarebbe aperta un'inchiesta per scoprire le traccie dello scomparso figliuolo d'Arrio. Anzi l'affare doveva essere portato francamente ai piedi di Massenzio; e allora, se il mistero non fosse penetrato, Messala e Grato sarebbero rimasti felici e contenti nella credenza della morte di Ben Hur, mentre questi sarebbe stato libero di recarsi in Gerusalemme, e iniziare le ricerche intorno alla sua famiglia. Alla partenza, Simonide, seduto nella sua poltrona sopra il terrazzo, impartì al giovine la benedizione del Signore con l'affetto di un padre; mentre Ester lo accompagnò sino sul pianerottolo della scala. — «Se io trovo mia madre, Ester, tu verrai da lei a Gerusalemme, e sarai una sorella per la mia Tirzah.» — Così dicendo egli la baciò. Fu solo un bacio fraterno? Il giovane dopo ripassò il fiume e si recò all'ormai deserto Orto delle Palme. Qui l'attendeva la guida con due cavalli. — «Questo è tuo» — disse l'Arabo indicando uno di essi. Ben Hur guardò: Era Aldebran, il più rapido e il più bello dei figli di Mira, e, dopo Sirio, il preferito del suo padrone; Ben Hur sapeva che il cuore del vecchio sceicco accompagnava questo dono. Il cadavere nell'atrio fu trovato e seppellito; un corriere di Messala partì lo stesso giorno per Cesarea, annunziando a Valerio Grato la morte di Ben Hur, questa volta certa e indubitata. Non molto tempo dopo questi eventi, nelle adiacenze del Circo Massimo, fu aperta una bettola con questa iscrizione: THORD IL GERMANO. LIBRO SESTO Forse è la Morte? o due forse ven sono? Morte è compagna a quella donna forse? Terrea nel volto e d'un color simile A quel che il viso de i lebbrosi imbianca l'incubo ell'era tra vita e tra morte che il sangue all'uom di lento gelo agghiaccia. COLERIDGE. _Il vecchio marinaio._ CAPITOLO I. Gli avvenimenti che adesso narreremo avvennero tre giorni dopo dalla notte in cui Ben Hur lasciò Antiochia per recarsi collo sceicco Ilderim nel deserto. Un grande avvenimento — grande almeno rispetto alle sorti del nostro eroe — è accaduto: a Valerio Grato è subentrato Ponzio Pilato. La destituzione, rammentiamolo, costò a Simonide cinque talenti in denaro romano, pagati a Seiano che allora era all'apogeo della sua potenza come favorito imperiale; lo scopo del tentativo era quello di diminuire i pericoli di Ben Hur durante la sua permanenza in Gerusalemme e nei suoi dintorni, permanenza dovuta alla ricerca della famiglia. A questo pietoso fine il servo metteva a disposizione i guadagni di Druso e de' suoi compagni, i quali, avendo pagate le loro scommesse, divennero tosto — com'è logico — i nemici di Messala, la cui riputazione in Roma non aveva ancor ricuperata l'antica fama. Pur essendo breve il tempo dal quale erano a Gerusalemme i Romani, gli Ebrei sapevano che il cambio non poteva, così provvisorio, esser di un gran vantaggio per sè. Le coorti mandate a sostituire la guarnigione d'Antiochia facevano la loro entrata in città verso sera; il mattino seguente il primo spettacolo che s'offrì al popolo fu quello delle mura dell'Antica Torre ornate di insegne militari che consistevano in busti degli imperatori adorni di aquile e di sfere rappresentanti il mondo. Una moltitudine di gente si pose in marcia per recarsi a Cesarea dove Pilato indugiava e lo supplicò di togliere quelle immagini detestate. Cinque giorni e cinque notti circondò le porte del suo palazzo; finalmente egli stabilì di avere un colloquio coi capi, nel Circo. Quando essi si adunarono là, egli li attorniò di soldati, ma, invece di incontrare resistenza, trovò umiliazioni e profferte di vite; vinto da questo nuovo metodo, concesse quel che gli avevano chiesto. Fece riportare le imagini e le insegne a Cesarea, dove Grato, con giusta riflessione, aveva tenuti celati tali abbominii durante gli undici anni del suo comando. Anche gli uomini malvagi, ogni tanto, frammettono delle buone azioni alle loro malvagità. Pilato ordinò di fatti una ispezione di tutte le prigioni della Giudea e un elenco di nomi delle persone carcerate, con una relazione sui delitti dei quali eran state accusate. Senza dubbio il motivo era quello così comune agli ufficiali appena entrati in carica: il timore della responsabilità che erano per incontrare; il popolo, nondimeno, pensando al bene che poteva derivarne, lo elogiava, e, per un po' di tempo, fu rallegrato e confortato dal fatto. Avvenivano scoperte stupefacenti nelle inchieste eseguite. Centinaia di persone vennero liberate perchè incatenate senz'accusa; altre, ritenute per molti anni per morte, ritornavano a goder la luce della quale in tristi segrete eran state private; e, peggio ancora, furon trovate prigioni sotterranee di cui non v'era sentore e di cui le stesse autorità carcerarie si erano dimenticate. Appunto su una di queste prigioni ignorate di Gerusalemme, richiamiamo l'attenzione del lettore. La Torre d'Antonia, che è bene rammentare come occupasse i due terzi dell'area sacra nel monte Moriah, era, in origine, un castello fabbricato dai Macedoni. Più tardi, Giovanni Ircano, ridusse il palazzo ad una fortezza per la difesa del Tempio, ed in quell'epoca esso era considerato come inespugnabile. Quando però venne Erode, col suo genio ardito, ne rinforzò le mura e le estese, lasciando un vasto fabbricato a racchiudere tutte le dipendenze necessarie alla fortezza, vale a dire scuderia, capanne, armerie, magazzeni, cisterne, e, non ultime per importanza, prigioni d'ogni qualità. Egli appianò la rupe massiccia e la forò per porvi le fondamenta di un fabbricato, unendolo con un enorme colonnato al Tempio, dal tetto del quale si poteva guardare sopra le corti dell'edificio sacro. In tali condizioni la Torre cadde alfine dalle sue mani in quella dei Romani che furono pronti ad intuirne i vantaggi e a convertirla ad usi più degni. Mentre comandava Grato era una cittadella fortificata e una prigione sotterranea pei rivoluzionari. Guai se le truppe uscivano da quelle porte per reprimere un disordine! Guai se un Ebreo v'entrava come arrestato! Ma, dopo questa piccola divagazione, ci affrettiamo a riprendere il filo della nostra storia. L'ordine del nuovo Procuratore, che richiedeva il rapporto delle persone imprigionate, fu ricevuto alla Torre d'Antonia, e sollecitamente eseguito; due giorni eran passati dacchè l'ultimo prigioniero era stato condotto su negli uffici per essere interrogato. Il rapporto, pronto per esser spedito, giaceva sul tavolo del tribuno; fra cinque minuti sarebbe stato rimesso a Pilato che abitava il palazzo sul monte Sion. L'ufficio del tribuno era spazioso e fresco, ammobiliato in uno stile atto alla dignità di un comandante investito d'una carica così importante. Il tribuno sembrava stanco ed impaziente; allorchè gli fosse giunto il rapporto sarebbe andato sulla terrazza del colonnato per respirare e per muoversi divertendosi ad osservar gli Ebrei giù nelle corti del Tempio. I suoi dipendenti e i suoi servi dividevan la sua impazienza. Mentre attendeva apparve un uomo sulla porta. Egli faceva risuonare un mazzo di chiavi, ognuna pesante come un martello, e riuscì così ad attrarre l'attenzione del tribuno. — «Ah! Gesio! entra pure» — egli gli disse. Mentre il nuovo venuto s'avvicinava al tavolo dietro al quale il Capo sedeva in una poltrona a bracciuoli, tutti i presenti lo guardarono, e, avendo osservata una certa espressione di spavento e di mortificazione sul suo viso, divennero silenziosi per poter udire ciò che egli avesse a narrare. — «O tribuno» — cominciò egli, facendo un profondo inchino — «ho paura di spiacerti dicendo ciò che dovrò dire.» — — «Un altro errore commesso, eh, Gesio? Una condanna ingiusta?» — — «Se potessi persuadermi che non fosse che un semplice errore non avrei una tal paura.......» — — «Un delitto allora? oppure una trasgressione a qualche ordine impartito? tu puoi offendere Cesare e maledire gli Dei, e vivere, ma non così se l'offesa si riferisce alle aquile.... ah tu sai, Gesio!..., ma, prosegui!...» — — «Son ormai otto anni dacchè Valerio Grato mi scelse come custode dei prigionieri, qui, nella torre» — disse l'uomo, calmo — «Rammento ancora il giorno in cui entrai in servizio. V'era stato un tumulto il dì innanzi ed erano accadute delle zuffe per via. Noi uccidemmo parecchi Ebrei ed avemmo vittime per parte nostra. Il baccano avvenne, così almeno mi dissero, per un tentato assassinio contro Grato, ch'era caduto da cavallo a cagione di una tegola gettatagli addosso da un tetto. Io trovai Grato seduto dove precisamente siedi tu, o tribuno, con la testa fasciata. Egli mi comunicò la mia nomina e mi diede queste chiavi, numerate in corrispondenza delle celle; erano i distintivi del mio ufficio e non avrei mai dovuto abbandonarli. Sul tavolo v'era un rotolo di pergamena. Chiamandomi a sè, egli aprì il rotolo. — «Qui vi son le piante delle celle» — disse. Ve ne erano raffigurate tre. — «Questa — proseguì — mostra la disposizione dell'ultimo piano; questa vi da a comprendere come sia fatto il secondo piano, e quest'altra è quella del primo. Ve le affido.» — Io le presi. — Egli continuò: — «Ora avete le chiavi e le piante; andate subito e famigliarizzatevi di tutto l'ordinamento delle carceri; visitate ogni cella ed osservate in che condizioni essa si trovi. Quando occorra qualche riparo, per assicurarvi meglio del prigioniero, ordinate secondo quel che meglio vi sembra, poichè, finch'io comanderò, sarete il capo delle prigioni e niun altro in esse avrà l'autorità vostra.» — Io lo salutai e mi volsi per andarmene, ma fui richiamato addietro. — «Ah, mi dimenticavo — soggiunse — datemi la pianta del secondo piano.» — Gliela diedi ed egli la distese sul tavolo. — «Qui, Gesio, vedete una cella» — e pose il dito su quella segnata col numero V. — «In essa vi son tre uomini, di carattere rivoluzionario. Impadronitisi di un segreto di Stato, scontano ora la propria curiosità, la quale — e mi guardò severamente — è, in casi come questi, peggiore di un delitto. In pena della colpa commessa son stati resi ciechi e muti e dovranno rimanere tali per la vita. Non dovranno ricevere che cibo e bevande attraverso un buco che troverete nel muro. Comprendete, Gesio?» — Gli risposi di aver capito. — «Sta bene» — continuò — «un'altra cosa non dovete dimenticare» — e mi fissò con cipiglio minaccioso — «la porta della loro cella — cella numero V sul medesimo piano — questa qui, Gesio — » e mise il dito sopra il disegno della cella perchè mi rimanesse impressa — «non dovrà mai esser aperta per qualsivoglia motivo, nè per lasciar entrare o sortire alcuno, neppur voi stesso.» — — «Ma se essi muoiono?» — chiesi. — — «Se muoiono — rispose — la cella sarà la loro tomba. La cella è infetta di lebbra. Capite?» — Detto ciò, mi congedò. Gesio tacque e dalla sua tunica estrasse tre pergamene tutte ingiallite dal tempo e dall'uso; scegliendone una la stese sul tavolo innanzi al tribuno dicendo semplicemente: — «Questo è il primo piano.» — Tutti quelli che eran lì presenti osservarono la pianta: +-----------------------------------+-----+ | CORRIDOIO | • | +-------+-------+-------+-------+---+-----+ | V | IV | III | II | I | +-------+-------+-------+-------+---------+ — «Questa è, precisamente, o tribuno, la pianta così quale la ricevetti da Grato. — Guarda: qui è la cella numero V» — disse Gesio. — — «Vedo,» — rispose il tribuno — «Prosegui. La cella è infetta di lebbra....» — — «Desidererei chiederti una cosa» — interruppe il carceriere. Il tribuno fece un segno d'incoraggiamento. — «Non avevo io il diritto, date le affermazioni fattemi, di presumere che la pianta fosse esatta?» — — «Non potevi credere diversamente.» — — «Ebbene: la pianta non è esatta.» — Il Tribuno lo guardò sorpreso. — «Non è esatta — ripigliò il custode. — Non parla che di cinque celle esistenti in quel piano, mentre ve ne sono sei.» — — «Sei, dici?» — — «Vi mostrerò il piano com'è realmente — o come credo ch'esso sia. Sopra una pagina del suo taccuino disegnò la pianta che segue e la offrì da osservare al tribuno: +-----------------------------------+-----+ | CORRIDOIO | • | +-------+-------+-------+-------+---+-----+ | V | IV | III | II | I | +-------+-------+-------+-------+---------+ | VI | +-----------------------------------------+ — «Tu hai fatto bene — disse il tribuno esaminando il disegno e credendo che la narrazione fosse finita. — «Farò correggere la pianta, o, meglio ancora, ne farò fare una nuova da dare a te. Vieni a prenderla domattina.» — Così dicendo s'alzò. — «Odimi ancora, o tribuno.» — — «Domani, Gesio, domani.» — — «Ciò che ho ancora da dirti è urgente.» — Il tribuno riprese con bonarietà il suo posto. — «Mi sbrigherò» — disse il custode umilmente — «solo lascia che ti domandi ancora una cosa. Non avevo il diritto di credere a Grato riguardo a quanto mi disse intorno ai prigionieri della cella numero V?» — — «Sì, era tuo dovere di credere che vi fossero tre prigionieri nella cella — prigionieri di Stato — ciechi e muti.» — — «Ebbene» — disse il carceriere — «neppur quello era vero.» — — «No?» — interruppe il tribuno con interessamento. — «Senti e giudica tu stesso, o tribuno. Come mi hai ordinato, visitai tutte le celle incominciando da quelle dell'ultimo piano e terminando con quelle del primo. L'ordine che la porta del V. non venisse aperta era stato rispettato; durante tutti gli otto anni, cibi e bevande per tre uomini erano stati passati attraverso al buco esistente nel muro. Ieri andai ad aprir la porta curioso di veder i miserabili che, contro ogni previsione, eran vissuti così a lungo. La chiave non entrava nella toppa. Spingemmo un po', e la porta cadde arrugginita sui cardini. Entrando, non trovai che un uomo, vecchio, cieco, muto, e nudo. I suoi capelli cadevano in disordine oltre la vita. La sua pelle era indurita come pergamena. Tendendo le mani mostrava le sue unghie lunghe ed attorcigliate come gli artigli di un uccello. Gli chiesi ove fossero i suoi compagni: egli scosse il capo in segno di diniego. Credendo di trovare gli altri frugammo per la cella. Il pavimento e le mura erano nude. Se tre uomini fosser stati rinchiusi là dentro, e due di essi fossero morti, almeno le loro ossa si sarebbero trovate.» — — «Perciò tu credi...» — — «Credo, o tribuno, che un solo prigioniero sia stato là per otto anni.» — Il tribuno guardò il carceriere scrutandolo profondamente e disse: — «Bada; tu accusi Valerio Grato di qualche cosa più che d'una menzogna.» — Gesio s'inchinò ma disse: — «Egli potrebbe essersi sbagliato.» — — «No; egli aveva ragione» — replicò il tribuno vivamente. — «Ciò risulta dal tuo stesso rapporto. Non hai tu detto or ora, che, per otto anni, furono somministrati cibi e bevande per tre uomini?» — Gli astanti approvarono l'avvedutezza del loro capo: tuttavia Gesio non sembrò darsi per vinto. — «Tu non hai udito neppur la metà del mio racconto, o tribuno. Allorchè l'avrai udito per intero sarai del mio stesso parere. Vuoi sapere che feci di quell'uomo? Gli feci fare un bagno, lo feci calzare e vestire e poi lo condussi alla porta della torre e gli diedi la libertà. Credevo di essermene sbrigato. Oggi invece egli tornò indietro e fu condotto da me. Con cenni e lagrime finì per farmi comprendere che desiderava far ritorno nella sua cella e gliene diedi il permesso. Mentre stavano per condurlo via, egli si liberò un momento, mi baciò i piedi, poi, con una pietosa e muta preghiera, insistette perchè andassi con lui. Accondiscesi. Il mistero dei tre uomini era tuttavia impresso nella mia mente. Ero insoddisfatto di non esserne venuto a capo. Ora son contento di aver ceduto alla preghiera di quel cieco.» — Tutti i presenti si fecero silenziosi. — «Allorchè fummo nella cella ed il prigioniero lo seppe, prese la mia mano premurosamente e mi condusse vicino ad un buco simile a quello attraverso al quale noi passavamo il cibo dal corridoio. Sebbene avesse la grandezza d'un elmo, ieri m'era sfuggito. Sempre tenendo la mia mano nella sua egli accostò il viso al buco e diede in un grido simile a quello di una belva. Una voce debole rispose. Io ne fui stupito e chiamai forte: — «Olà!» — a tutta prima non ebbi nessuna risposta. Chiamai di nuovo e udii queste parole: — «Che tu sia benedetto, o mio Dio!» — Ancor più sorprendente, o tribuno, la voce era quella di una donna. Ed io chiesi: — «Chi siete?» — ed ebbi in risposta: — «Una donna d'Israele sepolta qui con sua figlia. Aiutateci presto o morremo!» — Dissi loro di star di buon animo e corsi qui per saper la tua volontà. Il tribuno si alzò frettolosamente. — «Avevi ragione, Gesio;» — diss'egli, — «e adesso capisco. La pianta era falsa e bugiarda era pure la storia dei tre uomini. Vi sono stati dei Romani migliori di Valerio Grato.» — — «Sì, disse il carceriere, poichè seppi dal prigioniero che aveva regolarmente dato alla donna i cibi e le bevande che aveva ricevuti.» — — «Il perchè ne è chiaro» — disse il tribuno, e osservando il contegno degli amici e riflettendo che avrebbe fatto bene l'avere dei testimoni, soggiunse: — «Salviamo quelle donne. Venite tutti.» — Gesio era raggiante. — «Bisognerà che foriamo la parete» — egli disse: — «Io potrei trovare il posto ove era la porta, ma essa è stata murata con pietre e calcina.» — Il tribuno si fermò per dire al suo scrivano: — «Manda degli uomini dietro a me cogli utensili necessari. Fa presto, e conserva la pianta che dev'essere corretta.» — Poco dopo essi erano partiti alla volta del carcere. CAPITOLO II. Per comprendere quale fosse la vita della madre e della figlia durante questi otto anni dobbiamo rammentare la raffinatezza e la coltura dell'ambiente in cui erano abituate a vivere. Le condizioni ci sono piacevoli o dolorose a seconda delle nostre abitudini e delle nostre sensibilità. Non sarebbe un paradosso l'affermare che se avvenisse un improvviso esodo di tutti gli uomini dal mondo verso il Paradiso, tal quale com'è raffigurato dalla dottrina cristiana, esso non sarebbe un paradiso per i più, e, d'altra parte, le sofferenze dell'inferno non toccherebbero tutti con la medesima intensità. È appunto per dar un'idea adeguata delle torture morali che attendevano le due donne nel carcere della torre d'Antonia che noi, al principio del nostro racconto, ci siamo dilungati nel descrivere il palazzo dei Hur con tanta ricchezza di particolari, e la scena svoltasi tra Giuda e la madre sul terrazzo di esso. La compassione e la simpatia del lettore saranno tanto maggiori, quanto più astraendo dai semplici dolori fisici potrà immaginare i patimenti morali e intellettuali delle due donne. Ricordiamo il discorso tra madre e figlio, in cui essa gli parlava di Dio, del suo popolo prediletto, degli Eroi, ora con la dottrina di un filosofo, ora con l'ispirazione di un poeta, sempre però col cuore di madre; e in preda a tali pensieri scendiamo nella loro cella. — «Una donna d'Israele qui sepolta con sua figlia. Aiutateci presto o morremo.» — Tale fu la risposta che Gesio, il custode, udì dalla cella, la sesta, come appariva dal disegno da lui consegnato al tribuno. Il lettore riconoscerà dalla risposta chi fossero le infelici ed esclamerà senza dubbio: — «Ecco alla fine la madre e la sorella di Ben Hur!» — Difatti erano esse. Otto anni prima, la mattina della loro cattura, erano state condotte alla torre dove Grato aveva destinato che fossero rinchiuse. Egli aveva scelto quel luogo perchè era quello che rimaneva sotto la sua più immediata sorveglianza e, in esso, la sesta cella, perchè era lontana dalle altre, e perchè era infetta dalla lebbra, volendo così che le prigioniere si trovassero rinchiuse non in un carcere sicuro e sano ma in una vera tomba. Esse vi furono perciò condotte da schiavi, in un momento in cui non vi potessero essere testimoni, poi, a compimento del proposito crudele, gli stessi schiavi, murata la porta, furon fatti scomparire, nè di loro si seppe più nulla. Perchè le vittime potessero avere un martirio più prolungato, Grato collocò in una cella vicina ad esse un condannato cieco e muto ond'egli passasse loro il nutrimento attraverso ad un foro. Il pover'uomo non avrebbe potuto, in nessuna circostanza raccontare la sua storia, riconoscere le prigioniere o i loro giudici. Così, con un'astuzia dovuta in parte a Messala, il Romano, sotto pretesto di punire una banda d'assassini, trovò modo di confiscare i beni dei Hur, dei quali nulla pervenne agli scrigni imperiali. Come compimento dell'ultima parte del suo progetto, Grato licenziò il vecchio custode delle prigioni, non per timore che fosse a giorno dell'accaduto, perchè in realtà nulla poteva saperne, ma perchè, pratico dei sotterranei com'egli era, sarebbe stato impossibile il nasconderglielo a lungo; con sorprendente abilità il Procuratore fece disegnare delle nuove carte topografiche omettendo, come vedemmo, la sesta cella: le infelici prigioniere potevano considerarsi sepolte per sempre. La sesta cella corrispondeva a quella che Gesio aveva disegnata. Non si son potute avere informazioni esatte sulle sue dimensioni; solo si sa ch'essa era ristretta, rustica, dal terreno e dalle pareti fatte a guisa di roccie. In origine il Castello dei Macedoni era separato dal tempio da una stretta rupe. Gli operai, desiderosi di fabbricare un certo numero di camere, incominciarono a forare la facciata al nord di questa rupe e s'inoltrarono lasciando un soffitto naturale di pietra; poi continuarono a costruire le celle V, IV, III, II, I, senza nessuna comunicazione col numero VI. La sola cella numero V aveva un foro comunicante con essa. Fabbricarono poi il corridoio e la scala che doveva condurre al piano superiore. I lavori furono eseguiti nel medesimo modo in cui furono intagliate le tombe dei Re, visibili anch'oggi a poca distanza di Gerusalemme, solo che, finiti gli scavi, la VI cella fu chiusa dalla parte esteriore con un muro in cui si aprivano delle feritoie per il passaggio dell'aria. Quando Erode s'impadronì del Tempio e della torre, fece ricostruire queste mura più solidamente e chiuse tutte le feritoie meno una, la quale, pure immettendo un po' d'aria libera e un po' di luce, lasciava la cella nella più desolante oscurità. Le due donne erano rannicchiate vicino alla feritoia, l'una seduta, l'altra mezza sdraiata, appoggiandosi alla nuda roccia. Esse erano completamente prive di vesti e la luce, penetrando dall'alto, dava loro un aspetto spettrale. Il loro reciproco affetto, ancor vivo, ci è rivelato dal vederle l'una nelle braccia dell'altra. La ricchezza, i conforti, e le speranze, spariscono, ma l'amore rimane. L'amore è eterno. Il terreno sul quale le due donne stavano accovacciate, era completamente levigato. Chi avrebbe potuto dire, per quanto tempo, durante gli otto anni, esse eran rimaste sedute davanti all'unica feritoia dalla quale un timido, ma amichevole raggio di luce ravvivava le loro speranze? Quando la luce faceva capolino esse comprendevano che albeggiava, quando svaniva, capivano che scendeva la notte, in nessun altro luogo così lunga e buia come laggiù!... Il mondo?... Attraverso a quella fessura, come se essa fosse stata larga ed alta al pari della porta di un palazzo reale, esse vagavano pel mondo con la fantasia, cercando l'una il figlio, l'altra il fratello. Esse lo pensavano navigante sul mare o sbarcato nelle isole; oggi in quella, domani in un'altra città, ma sempre viaggiando, senza tregua, giacchè, come esse vivevano attendendolo, egli doveva certo vivere cercandole. Quante volte, pur essendo lontane, esse s'incontravan con lui col pensiero! Era una così dolce lusinga per esse dirsi l'una coll'altra. — «Finchè egli vivrà non saremo dimenticate, finchè egli si rammenterà di noi ci sarà speranza!» — Chi può comprendere, se non dopo averlo provato, che un nonnulla basta per incuter coraggio? Il ricordo di quei giorni trascorsi così miseramente ci impone il rispetto; le loro sofferenze le rivestono ai nostri occhi di santità. Anche senz'avvicinarci troppo alla prigione ci accorgiamo ch'esse hanno subìto un gran mutamento, non dovuto al tempo od alla prigionia. La madre era bella come donna, la figlia bella come giovinetta. Neppur una persona amica avrebbe potuto dire di loro ora la stessa cosa. I loro capelli erano lunghi, arruffati, e completamente bianchi; e da tutta la loro persona spirava un'aria di ribrezzo che avrebbe arrestato il più coraggioso visitatore. Forse soffrivano per l'aria malsana, per le torture della fame e della sete non avendo avuto di che sfamarsi dopo che il loro servo, il forzato cieco e muto, era stato allontanato. Tirzah, lamentandosi, si appoggiò alla madre e le cinse il collo dandole un bacio. — «Quietati, Tirzah, verranno: Dio è buono. Noi ci siamo sempre ricordati di lui e non ci siamo mai dimenticate di pregarlo ogni qualvolta udivamo il suono delle trombe nel Tempio. Vedi, è ancora chiaro e il sole splende, non possono esser che le sette. Qualcuno verrà. Ne ho fede. Dio è buono!» — Così parlò la madre. Le sue parole erano semplici e persuasive, quantunque Tirzah, che aveva appena compiuti i tredici anni quando noi le vedemmo per l'ultima volta, ora, aggiungendole gli otto anni di carcere, non fosse più una bambina. — «Proverò ad esser forte, mamma,» — disse ella. — «Le tue sofferenze devono essere grandi quanto le mie ed io voglio assolutamente vivere per te e per mio fratello! Ma mi sento ardere la lingua e le labbra!... Chissà dove si trova egli ora, chissà se riescirà mai a salvarci!» — Le loro voci impressionavano stranamente: eran dure, pungenti, d'un suono metallico. La madre avvicinò a sè la figlia e disse: — «La notte scorsa ho sognato, Tirzah, e l'ho visto da vicino come vedo te, ora. Dobbiamo credere nei sogni perchè anche i nostri padri ci credevano. Il nostro Signore parlò loro così parecchie volte. Mi sembrava che ci trovassimo alla Porta delle Donne proprio di fronte alla Porta Magnifica, in compagnia di molte persone, quando Giuda entrò guardando di qua e di là; lo vidi ritto all'ombra della Porta. Il mio cuore palpitò forte forte. M'accorsi ch'egli ci cercava, e gli corsi incontro aprendogli le braccia e chiamandolo per nome. Egli m'udì, mi scorse, ma non mi riconobbe. Dopo un attimo la visione scomparve.» — — «Non accadrebbe forse così, mamma, se noi lo avessimo realmente ad incontrare? Siamo assai cambiate. Chissà se ci riconoscerebbe!» — — «Potrebbe darsi che non ci riconoscesse, ma...» — e la madre chinò il capo: il suo viso si rannuvolò come s'essa fosse colpita da un gran dolore, poi riprendendo la parola, ella disse: — «.... ma potremmo anche farci riconoscere!» — Tirzah alzò le braccia al cielo e supplicò, lamentandosi: — «Dammi dell'acqua, mamma, un po' d'acqua! Anche una goccia sola mi basterebbe!» — La madre si guardò attorno confusa ed impotente a soddisfarla. Ella aveva nominato Dio così spesso; aveva promesso in nome suo, ed ora le sembrava che il ripetere la preghiera sarebbe stato uno scherno. Un'ombra passò davanti alla feritoia, oscurandole la luce fioca, ed ella pensò alla morte che si avvicinava sempre più e l'attendeva mentre la sua fede andava man mano scemando. Inconscia delle sue azioni, parlando come un automa perchè essa doveva parlare per confortar la figlia, disse di nuovo: — «Abbi pazienza, Tirzah; vengono; son quasi qui.» — Le parve di udire un rumore proveniente dalla cella vicina, la loro unica comunicazione col mondo esterno. Infatti non s'era sbagliata. Dopo un minuto o due il grido del forzato risuonò attraverso la cella. Anche Tirzah lo sentì ed entrambe si alzarono tenendosi per mano. — «Sia ringraziato per sempre il Signore!» — esclamò la madre col fervore di una persona che avesse ricuperata la fede e la speranza. — «Olà» — sentirono gridare, e poi: — «Chi siete?» — La voce era sconosciuta. Che cosa accadeva? Eccettuate le parole scambiate con Tirzah queste eran le prime e le sole che essa avesse udito in otto anni. Che gran salto — dalla morte alla vita — e che salto repentino! — «Una donna d'Israele, qui sepolta con sua figlia. Aiutateci presto o morremo.» — — «Fatevi animo. Ritornerò.» — Le donne ruppero in forti singhiozzi. Erano state trovate e si veniva in loro aiuto. Di desiderio in desiderio le loro speranze volavano veloci, come le rondini. Poichè si sapeva dov'esse erano, verrebbero anche liberate. Avrebbero ricuperato tutto ciò che avevano perduto: casa, amici, possedimenti, libertà, figlio e fratello! La scarsa luce celava loro ancora le bellezze del giorno, ma, immemori delle sofferenze, della sete e della fame, del pericolo continuo di morte, le due donne caddero per terra piangenti, tenendosi strette l'una all'altra. Non aspettarono a lungo; Gesio si sbrigò in due parole e il tribuno era un uomo d'azione. — «O voi là dentro — gridò il tribuno dall'apertura — dove siete?» — — «Qui» — rispose la madre alzandosi. Subito essa sentì un rumore proveniente da un'altra parte come di colpi battuti contro il muro, colpi rapidi, sonori, dati da un'arma di ferro. Madre e figlia non apersero bocca sapendo bene il significato di tutto ciò; — una via di libertà si apriva loro d'innanzi. Come uomini sepolti da lungo tempo nelle profonde miniere odon l'arrivo dei loro salvatori annunciati dal martello e dal colpo del piccone, esse sentivan i loro cuori palpitar più velocemente e i loro occhi si fissavano sul punto donde procedevano i colpi. Le braccia che lavoravano al di fuori erano forti; le mani abili, e la buona volontà non mancava di certo. I colpi si facevano ogni minuto più vigorosi; di quando in quando, un pezzo di mattone cadeva con fracasso, e la libertà s'avvicinava sempre più. Si udivano le voci degli operai. E.... o gioia! — Un bagliore di luce rossa, luce di torcia, faceva capolino attraverso un crepaccio rompendo l'oscurità con un bagliore intenso, bello come i primi raggi del mattino. — «È lui, mamma, è lui! Egli ci ha finalmente trovate!» — gridò Tirzah colla vivacità della giovinezza. Ma la madre rispose dolcemente: — «Dio è buono!» — Una pietra cadde nell'interno della cella, poi un'altra, poi un'ammasso intero, e la porta si aprì. Entrò un uomo sfigurato dalla polvere e dalla calcina, sollevando al disopra della propria testa una torcia, e si fermò. Altri due o tre lo seguirono con parecchie torcie e si posero in disparte per lasciar entrare il tribuno. Il rispetto per le donne non è del tutto una cosa convenzionale, ma un naturale omaggio al loro sesso. Il tribuno si fermò perchè esse fuggivano in un angolo, non pel timore ma per la vergogna: e, o lettore, non solo per la vergogna! Dall'oscurità ov'esse s'erano mezze nascoste s'udirono queste parole, le più strazianti, le più tristi, le più disperate: — «Non avvicinatevi! siamo infette! siamo infette!» — Gli uomini guardandosi nel viso alzarono le loro torcie. — «Siamo infette! Siamo infette!» — ripeterono le donne con un lungo gemito. Con un tal grido possiamo immaginare uno spirito che sia fuggito dalla porta del Paradiso, e che si volga indietro a guardare la vita. La vedova e la madre fecero il loro dovere, ma, purtroppo, si convinsero che la libertà per cui esse avevan tanto sognato e pregato, non l'avrebbero mai ricuperata intera, non avrebbero mai potuto avvicinare quel frutto d'oro che vedevano da lontano. _Essa e Tirzah erano lebbrose!_ Forse il lettore non sa completamente ciò che significa questa parola. La consideri in rapporto alla durezza della legge del tempo di poco modificata nel nostro. — «Quattro disgrazie rendono gli uomini dei paria — la cecità, la lebbra, la povertà, e la sterilità» — disse il Talmud. Essere lebbrosi significa essere trattati come morti, allontanati dalla città, dai parenti, obbligati a parlare solo ad una gran distanza con quelli che ci sono più cari al mondo, obbligati a rimaner sempre coi lebbrosi; maltrattati, respinti dalle cerimonie del Tempio o della Sinagoga; ed obbligati a starsene in vesti logore, colle bocche coperte tranne che per gridare: — «Siamo infetti, siamo infetti!» — di trovar forse ricovero in un luogo selvaggio od in una tomba, di divenire come spettri, d'esser di peso agli altri più che a se stessi, di vivere sperando solo nella morte. Una volta, ma la madre non si ricorda nè il giorno nè l'anno, perchè in quella cella di tortura non potevano aver un'idea del tempo, essa sentì come una piaga asciutta nella palma della sua mano destra, e cercò di lavarla. La piaga si allargò, ciò nonostante per tutta la mano, ma la donna non disse nulla fino a che Tirzah si lamentò del medesimo male. L'acqua era scarsa, ma esse cercavano di risparmiarne per usarne come un rimedio. La mano fu a poco a poco interamente inferma, la pelle si ruppe, e le unghie si distaccarono completamente dalle dita. Con tuttociò non sentivano un gran dolore ma un continuo e crescente malessere. Le loro labbra incominciarono a bruciare ed a screpolarsi. Un giorno la madre, amante della pulizia, pensando che forse il male dipendesse dalle condizioni della prigione e temendo che il viso di Tirzah fosse invaso dal terribile nemico ravvicinò alla luce e la guardò spaventata; le sopracciglia della ragazza erano bianche come la neve. Oh! quale angoscia a tale certezza! La madre rimase per qualche tempo muta, immobile, coll'animo paralizzato e capace di un sol pensiero: — «Lebbrose, lebbrose!» — Quando riacquistò un poco di padronanza la madre non pensò a sè stessa, ma alla figliuola; la sua tenerezza le infuse coraggio e la preparò all'ultimo ed eroico sacrificio. Essa seppellì nel suo cuore la triste scoperta, raddoppiò di devozioni per Tirzah, e, con meravigliosa ed inesauribile costanza continuò a tenerla all'oscuro di quanto le circondava, cercando di infonderle la speranza che non fosse nulla di grave. Ripetè i suoi scherzi, raccontò le solite storie, ne inventò anche di nuove, ascoltò con immenso piacere i canti di Tirzah: giacchè, sulle sue labbra, i salmi del Re Cantore raddolcivano la solitudine e mantenevano desto in entrambe il ricordo di Dio, e del mondo che sembrava le avesse dimenticate. Lentamente, costantemente, con orribile certezza, l'infezione si propagava, imbiancando le loro teste, rodendo le labbra, le palpebre, coprendo i corpi di piaghe; quindi le assalì alla gola, rendendo le loro voci tremanti e prese pure le loro giunture, indurendo i tessuti e le cartilagini. La madre era ben sicura che, alla fine, anche i polmoni, le arterie e le ossa sarebbero state corrose rendendo ad ogni progresso del male sempre più ributtanti le inferme, e continuando così fino alla morte che poteva farsi attendere per anni ed anni. Venne alfine un altro dei giorni tanto temuti dalla madre, il giorno cioè in cui il dovere le impose di rivelare a Tirzah il nome della terribile malattia; e, atterrite dalla tremenda agonìa che loro si preparava, pregarono insieme perchè la morte venisse presto a liberarle. Vennero anche i giorni in cui le poverette parlavano ed osservavano con calma la ripugnante trasfigurazione delle loro persone amando di nuovo la vita. Un vincolo le legava ancora alla terra. Cercavano di mantenere alto il morale e dimenticare la loro solitudine parlando e pensando di Ben Hur. Lusingandosi a vicenda di rivederlo, e non dubitando ch'egli si sarebbe sempre mantenuto religioso e sarebbe stato felice di riabbracciarle, trovavano piacere nel torcere e ritorcere questo tenue filo di speranza. Fu proprio in uno di questi momenti che Gesio venne in loro soccorso dopo dodici ore di digiuno. Le torcie fiammeggiarono attraverso la prigione; la liberazione era giunta. — «Dio è buono?» — gridò la vedova. Il tribuno entrò immediatamente. Un senso di dovere scosse la più vecchia delle donne e dall'angolo ove erasi essa rifugiata gridò: — «Allontanatevi! siamo infette!» — Quale angoscia costò alla madre il compiere il proprio dovere! Ma la gioia della liberazione non le impedì di misurare tutte le conseguenze della prossima libertà. La vita felice d'un tempo non ritornerebbe mai più! Se per caso fossero passate presso la loro casa sarebbe stato solo per avvicinarsi al cancello pronunciando il consueto grido! Esse avrebbero proseguito la loro via coll'ardente desiderio d'un amore più vivo che mai, più ineffabile perchè non sarebbe mai stato ricambiato. Anche il figlio, a cui la madre aveva costantemente pensato, incontrandola, avrebbe dovuto schivarla. Se egli le avesse porta la mano chiamando: — «Mamma, mamma!» — ella avrebbe dovuto rispondergli col vero amore di una madre: — «Allontanati! sono infetta!» — E quest'altra figlia che ella cercava di ricoprire colla sua folta e bianca capigliatura, doveva dividere la sua miserabile compagna della sorte unica, maledetta vita che le rimaneva! La coraggiosa donna accettò il destino e fece risuonare quel grido che, da tempo immemorabile, era caratteristico dei lebbrosi: — «Siamo infette, siamo infette!» — Il tribuno l'udì con un fremito, ma non si mosse. — «Chi siete?» — domandò. — «Due donne morenti di fame e di sete. Ma» — non esitò a dire la madre — «non avvicinatevi, non toccate nè il pavimento nè le pareti: tutto è infetto, infetto!» — — «Raccontami la tua storia, o donna, dimmi il tuo nome, dimmi quando, per che ragione e per opera di chi, tu fosti qui rinchiusa!» — — «Una volta v'era in questa città di Gerusalemme un principe, chiamato Ben Hur, l'amico dei generosi Romani; aveva Cesare per suo amico. Io sono la sua vedova, e questa è la sua figlia. Come posso dirti la ragione per cui fummo qui rinchiuse quando io stessa non ne so nulla, se non perchè siamo ricche? Valerio Grato vi potrà dire chi era il nostro nemico, e quando cominciò la nostra prigionia. Io non posso. Guardate allo stato in cui siamo ridotte: abbiate pietà di noi!» — L'aria era diventata pesante causa l'odore ed il fumo delle torcie, ma il Romano chiamò a sè uno dei portatori e scrisse la risposta, parola per parola. Essa era chiara e comprensibile, e conteneva insieme una storia, un'accusa, una preghiera. Una persona comune non avrebbe potuto farne una uguale, ed egli non poteva fare a meno di crederle ed averne pietà. — «Tu sarai aiutata, donna» — disse, chiudendo la sua tavoletta. — «Ti manderò del cibo e delle bevande.» — — «E dei vestiti, dell'acqua pura, ve ne preghiamo, o generoso Romano.» — — «Come desiderate.» — rispose egli. — «Dio è buono!» — disse la donna singhiozzando — «Possa la sua pace esser con voi!» — — «Ma» — egli aggiunse» — io non posso rivedervi. Fate i vostri preparativi, e questa sera vi farò accompagnare alla porta della torre e vi libererò. Voi conoscete la legge, addio.» — Diede gli ordini agli uomini ed uscì. Poco dopo altri schiavi entrarono nella cella con un gran recipiente d'acqua, un catino, dei tovagliuoli ed un piatto con pane e carne. Portarono pure degli abiti affinchè le donne li potessero indossare, e li posarono per terra ove le prigioniere avrebbero potuto facilmente prenderli allontanandosi subito. Le due donne furono condotte alla porta e poi lasciate sulla strada, verso la metà della prima veglia. Così il Romano se ne liberò ed esse furono ancora una volta padrone di sè nella città dei loro padri. Esse guardarono le stelle, belle e lucenti come per lo passato, e si domandarono a vicenda: — «Cosa accadrà ora? e dove anderemo?» — CAPITOLO III. Mentre Gesio, il custode, si presentava al tribuno nella Torre di Antonia, un uomo saliva il declivio orientale del monte degli Ulivi. La strada era scabrosa e polverosa, e la vegetazione all'intorno era bruciata dal sole d'estate. Il viaggiatore poteva dirsi fortunato, non solo perchè era giovane e vigoroso, ma anche per gli abiti leggeri che indossava. Procedeva lentamente, guardandosi intorno non con l'occhio cauto e ansioso di chi non è ben sicuro del suo cammino, ma piuttosto coll'espressione di colui, che, dopo una lunga assenza, rivede antiche conoscenze, espressione piacevole, che sembrava dire: — «Sono contento di trovarmi ancora con voi, lasciatemi vedere quanto siete cambiate.» — Ogni tanto s'arrestava per la salita volgendo lo sguardo indietro sullo splendido panorama che gli si offriva e che era chiuso dalle montagne del Moab; però, mano mano che egli s'avvicinava alla vetta, affrettava sempre più il passo, dimentico della fatica. Per arrivare alla sommità, piegò a sinistra della strada un giorno assai frequentata. Si fermò all'improvviso, come se una mano invisibile lo avesse arrestato. Dando una rapida occhiata allo splendido paesaggio che gli si presentava dinanzi, i suoi occhi si dilatarono, le guancie s'imporporarono, ed il respiro gli si fece più rapido. Il viaggiatore era Ben Hur, il luogo Gerusalemme. Non la Città Santa d'oggi, ma la Città Santa tale e quale fu lasciata da Erode, la Città Santa di Cristo. Se essa, veduta dal vecchio Monte degli Ulivi, è ancora bella al giorno d'oggi, che cosa doveva sembrare a lui? Ben Hur si assise sopra una pietra, e, liberandosi dal fazzoletto bianco che gli copriva il capo, si mise ad osservare minutamente. Molti altri hanno guardato Gerusalemme da quella sommità in epoche diverse. Il figlio di Vespasiano, il Saraceno, il Crociato, tutti conquistatori, e molti pellegrini d'ogni parte del mondo, ma, probabilmente, nessuno di essi avrà mai osservato il panorama con sentimenti più tristi e più amari di quelli di Ben Hur. Eran ricordi dei tempi passati, della famiglia, dei discorsi tenuti nell'infanzia, delle proprie vicende, che gli affollavano la mente. La città coi suoi fabbricati, era un testimonio vivente ed eterno dei delitti, della devozione, delle debolezze, del genio e della religione del suo popolo. Sebbene conoscesse Roma, Ben Hur rimase incantato. Quella vista lo avrebbe inebriato di vanagloria, se non avesse pensato che quel principesco dominio non apparteneva più ai suoi compatrioti, che l'adorazione nel Tempio ora dipendeva dal beneplacito di stranieri, che la collina dove Davide s'era fermato era sede di un palazzo marmoreo, donde emanavano gli editti i crudeli dominatori, i quali con essi perseguitavano i servi della fede. Ma questi erano piaceri e dolori comuni a tutti gli Ebrei di quel tempo: Ben Hur vi aggiungeva poi riflessioni tutte personali, ricordi che non avrebbe mai potuto dimenticare e che la vista della patria richiamavan con più viva intensità. Un paesaggio di colline subisce pochi cambiamenti; quando poi le colline sono rocciose non ne subisce affatto. Lo spettacolo che la natura offriva a Ben Hur era uguale a quello che la natura di quei luoghi offre oggi, tranne il panorama della città, che è, naturalmente, variato, per l'opera alacre dell'uomo sempre più incivilito. Il sole riscaldava il versante occidentale del Monte degli Ulivi più di quello orientale, e, naturalmente, gli uomini davano a quello la loro preferenza. I vigneti, di cui il monte era parzialmente rivestito, ed i pochi alberi sparsi, per la maggior parte fichi e vecchi ulivi selvatici, erano verdeggianti. In fondo, presso l'asciutto letto del Cedron, la verzura si faceva più bella e più piacevole alla vista; là terminava il Monte degli Ulivi e cominciava il Moriah, baldanzoso, bianco come la neve, fabbricato da Salomone e completato da Erode. Gli occhi salivano poi di mano in mano sulle poderose roccie, fino alla porta di Salomone; che formava il piedestallo del monumento di cui la collina era lo zoccolo; gli occhi risalivano alla Corte dei Gentili, a quella degli Israeliti, poi alla Corte delle Donne, insieme a quella dei Sacerdoti, ciascuna delle quali era una mole di bianche colonne di marmo, sovrapposte l'una all'altra come tante terrazze in cima delle quali, formando la corona di questa superba mole, infinitamente sacri, belli, maestosi, sfolgoranti d'oro, ecco il Padiglione, il Tabernacolo, ed il Santo dei Santi! L'Arca non era là, ma Jeova viveva nella fede dei figli d'Israele. In nessun altro luogo si sarebbe trovato un tempio, un monumento che pareggiasse questo edificio straordinario. E di tutto ciò ora non rimane neppure una pietra. Chi lo rifarà? Quando ricomincierà la ricostruzione? Così si domanda ogni pellegrino che si ferma al posto occupato adesso da Ben Hur, ben sapendo che la risposta non può venire che da Dio, che custodisce gelosamente i suoi segreti. Ed ancora gli occhi di Ben Hur osservavano i tetti del tempio, la collina di Sion piena di sacre memorie. Egli sapeva che la vallata, da Fermaggiai, si stendeva lassù profondamente incassata fra il Moriah e il Sion, e attraversata dallo Xisto; ricca di giardini e di palazzi, ma sopratutto egli fissava con sguardi avidi il paesaggio maestoso per edifici che incoronava la collina reale; la casa di Caifa; la Sinagoga centrale, il Pretorio romano, l'Hippico, e i tristi ma superbi cenotafi — Faselo e Marianna — sorgenti sullo sfondo del Gareb, rosseggiante in lontananza. E quando, fra tutti, riconobbe il palazzo d'Erode, potè forse pensare ad altro che al Re che doveva venire, sovrano cui egli stesso si professava devoto, il cui cammino voleva spianare? La sua fantasia corse veloce al giorno nel quale il nuovo Re sarebbe stato proclamato e avrebbe preso possesso del Moriah, del sacro Tempio, di Sion e delle sue torri e dei suoi palazzi, di Antonia minacciosa, alla destra del Tempio, della nuova città di Bezetha, ancor priva di mura, accolto da milioni di Israeliti acclamanti con palme e con bandiere, cantando inni festosi perchè il Signore aveva vinto e li aveva fatti signori del mondo. Si dice che il sognare sia un fenomeno non del giorno ma della notte. Se si studiasse meglio si vedrebbe che quasi tutti i propositi si nutrirono in una specie di dormiveglia. Sognare è il premio di chi lavora, è il vino che sostiene le nostre forze, che ci rende cara la fatica perchè la stanchezza ch'ess'ingenera è propizia al sonno. Vivere è sognare. Solo dopo morti non si sogna. Nessuno rida dunque di Ben Hur per le sue fantasticherie, perchè chiunque si fosse trovato in quel luogo ed in quelle condizioni di animo, avrebbe fatto altrettanto. Il sole stava per tramontare. Per un momento il fiammeggiante disco sembrava accovacciarsi sulle lontane vette delle montagne dell'ovest, tingendo il cielo, sopra alla città, di un color di rame e indorando le mura e le torri. Poi scomparve. Nella calma della sera, i pensieri di Ben Hur si indirizzavano verso la casa paterna. Egli fissava i suoi sguardi in un punto del cielo, un po' a nord dell'incomparabile facciata del Santo dei Santi. Sotto di esso, proprio nella direzione del filo a piombo, sorgeva la casa di suo padre, se pure ancora esisteva. La dolce influenza di quell'ora inteneriva i suoi sentimenti, e, mettendo da parte le sue ambizioni, egli pensò al dovere che lo conduceva a Gerusalemme. Una sera mentre si trovava con Ilderim sul deserto esaminando il terreno con occhio di soldato, in cerca di luoghi atti alla battaglia, giunse un messaggero colla notizia che Grato era stato rimosso e Ponzio Pilato ne prendeva il posto. Messala, ridotto all'impotenza, credeva morto Ben Hur. Grato non aveva più alcun potere; perchè avrebbe dovuto Ben Hur differire più oltre la ricerca della madre e della sorella? Non v'era più nulla da temere, ora. S'egli non poteva cercare le due donne personalmente nelle prigioni della Giudea altri poteva farlo per lui. Se le due perdute si fossero trovate, Pilato non poteva aver ragioni per trattenerle, e se ne avesse avute, sarebbero state tali da cedere davanti al denaro. Una volta trovate, egli le avrebbe portate in luogo sicuro, poi, con la mente più calma, la coscienza tranquilla per aver compiuto questo primo dovere, si sarebbe dedicato intieramente al _Re atteso_. La sua risoluzione fu subito presa. Quella notte egli si consigliò con Ilderim ed ottenne il suo assenso. Tre Arabi lo accompagnarono a Gerico, dove egli li lasciò coi cavalli e procedette solo ed a piedi. Malluch doveva incontrarlo a Gerusalemme. I disegni di Ben Hur erano molto vaghi. Egli cercava di tenersi, in vista del futuro, nascosto alle autorità, specialmente Romane. Malluch era un uomo astuto e fidato, proprio quello che ci voleva per dirigere le ricerche. Dove cominciare? Questo era il problema. Egli non ne aveva un'idea chiara. Avrebbe desiderato di cominciare dalla Torre di Antonia. La tradizione che non si poteva resistere a lungo negli oscuri labirinti delle tristi celle, metteva il terrore nella mente degli Ebrei, più che la forte guarnigione che custodiva il castello. Potevano benissimo essere sepolte laggiù. Inoltre l'istinto c'insegna di cominciare le ricerche nel posto dove le ultime vestigia si perdettero di vista, ed egli non poteva dimenticare che l'ultimo sguardo che aveva ricevuto dalle sue care perdute, era stato appunto mentre le guardie le spingevano in direzione della Torre. Se non vi erano più, ma vi erano state, rimarrebbe certamente qualche ricordo del fatto, qualche traccia da seguire. Oltre all'istinto anche una speranza lo spingeva. Aveva saputo da Simonide che Amrah, la nutrice Egiziana, era ancora in vita. Il lettore si ricorderà senza dubbio che la fedele creatura, la mattina in cui la sventura piombò sugli Hur, sfuggì alle guardie, e ritornò al palazzo, dove rimase rinchiusa. Simonide la mantenne durante gli anni seguenti, cosicchè essa si trovava ancora là, sola ad occupare la gran casa che Grato non era riuscito a vendere ad onta di tutte le sue esibizioni. La storia dei suoi legittimi proprietari bastava ad allontanare sia i compratori che i semplici affittuarî. Passando davanti alla casa la gente mormorava e diceva ch'essa era invasa dagli spiriti. Tale diceria derivava probabilmente dalle apparizioni della povera e vecchia Amrah talvolta sul tetto, tal'altra ad una finestra dietro le grate. Certamente nessun altro spirito vi avrebbe potuto abitare con maggior costanza e nessun'altra casa si prestava meglio di quella, alla secretezza, al mistero della sua vita ritirata. Ben Hur si immaginava che potendo raggiungere la vecchia, questa gli sarebbe stata d'aiuto nelle indagini che stava per intraprendere. In ogni modo il vederla in quel posto così pieno di cari ricordi sarebbe stato per lui un lieto pronostico per la ricerca della sua famiglia. Così prima di tutto egli voleva dirigersi alla casa paterna in cerca di Amrah. Presa questa decisione, si alzò poco dopo il tramonto del sole, e cominciò la discesa del monte per la strada che dalla vetta piega a nord-est. In fondo, quasi al piede di esso, vicino al letto del Cedron, la strada s'incontrava con quella che conduceva al villaggio di Siloam ed allo stagno dello stesso nome. Là egli s'imbattè con un pastore il quale conduceva alcune pecore al mercato. Gli parlò, ed in sua compagnia, passando da Getsemani, entrò nella città per la Porta dei Pesci. CAPITOLO IV. S'era fatto scuro allorchè, separandosi dal mandriano, davanti alla porta, Ben Hur voltò in un vicolo che conduceva verso sud. Le poche persone ch'egli incontrò, lo salutarono. I ciottoli del lastricato eran pungenti; le case, da entrambi i lati, eran basse, oscure, melanconiche; le porte eran chiuse; dai tetti egli udiva, di tanto in tanto, voci di donne che cantavano ai loro bambini. L'isolamento in cui si trovava, la notte, l'incertezza che circondava lo scopo della sua venuta, tutto ciò contribuiva a renderlo triste. Camminando sopra pensiero pervenne ad un profondo serbatoio d'acqua, conosciuto ora sotto il nome di stagno di Betesda, nel quale il cielo si specchiava tranquillamente. Guardando in su egli scorse la muraglia a settentrione della Torre d'Antonia, un masso minaccioso che spiccava nel cielo torbido e grigio. Egli si fermò come al comando imperioso di una sentinella. La Torre era così alta e poderosa, sorgeva sopra basi così sicure, da sembrare una nube gigantesca nell'oscurità, ed egli fu costretto a riconoscere che, se sua madre fosse stata colà rinchiusa, egli sarebbe stato impotente a salvarla. Che cosa avrebbe potuto fare per liberarla da quella tomba? Nulla. Un esercito avrebbe percossa invano quella facciata di pietra con baliste ed arieti. La gran torre di sud est lo sembrava guardare con aria di rude disprezzo ed egli pensò che le forze umane son ben deboli e che Dio è l'ultima speranza dei miseri. Ma Iddio è spesso, per motivi imperscrutabili, lento ad agire! Oppresso dal dubbio e dal presentimento, prese la via di fronte alla torre e la seguì lentamente, mantenendosi all'ovest. In Bezetha egli sapeva esservi un Khan ove avrebbe potuto trovar alloggio durante il suo soggiorno in città, ma adesso non poteva resistere al desiderio di rivedere la sua casa. Il suo cuore lo conduceva da quella parte. Il vecchio saluto solenne ch'egli riceveva da quelle poche persone che incontrava non gli era mai sembrato così piacevole. Di lì a poco tutta la parte ad oriente del cielo cominciò a inargentarsi e a brillare. Cose prima invisibili, specie le alte torri sul Monte Sion s'illuminarono d'un chiarore spettrale sembrando castelli librantisi in aria. Egli giunse alfine alla casa di suo padre. Fra quelli che leggono queste pagine vi sarà chi indovinerà i sentimenti dai quali era invaso il giovane. Alcuni avranno avuto case nelle quali vissero felici nella loro gioventù, paradisi donde partiron con gioia infantile colle lagrime agli occhi, e cui tornerebbero: luoghi di risa e di canti, di amicizie più care di tutti i trionfi della vita. Alla porta settentrionale della vecchia casa Ben Hur si fermò. La ceralacca adoperata per sigillare l'uscio si vedeva ancora, e attraverso le imposte v'era un asse con scritto: PROPRIETÀ DELL'IMPERATORE Nessuno vi era uscito od entrato dal giorno terribile della separazione. Doveva egli bussare come per l'addietro? Era inutile, egli lo sapeva; pure non poteva resistere alla tentazione. Amrah potrebbe udire, e guardare da una di quelle finestre o da qualche porta. Prendendo un ciottolo, montò sul largo gradino di pietra e picchiò tre volte. Un eco lenta rispose. Egli picchiò una seconda volta più forte di prima; e poi ancora, fermandosi ogni volta per ascoltare. Nessun suono ruppe il silenzio. Ritornando sulla strada egli guardò attentamente le finestre; anch'esse erano mute e senza vita. Il parapetto del tetto spiccava chiaramente nel cielo illuminato; nulla avrebbe potuto muoversi senza che egli se ne fosse accorto, e nulla realmente si mosse. Dal lato settentrionale egli passò all'ovest, ove s'aprivano quattro finestre che guardò a lungo ed ansiosamente, ma con lo stesso risultato. Certe volte il suo cuore si gonfiava di desiderî impotenti; certe altre tremava innanzi alle illusioni della sua fantasia. Amrah non fece alcun cenno; neppure un fantasma si mosse. Silenziosamente, allora, egli si avvicinò alla facciata meridionale. Anche là la porta era sugellata e recava la medesima soprascritta. L'armonioso splendore della luna di agosto, apparendo sulla cresta dell'Oliveto, poi chiamato Monte dell'Offesa, faceva risaltare le parole, ed egli le lesse, in preda a un'ira muta e impotente. Tutto ciò che egli poteva fare, era di strappare l'asse dall'inchiodatura, e di lanciarla nel fosso; poi si sedette sul gradino, e pregò Dio affinchè affrettasse la venuta del nuovo Re. Questo sfogo lo rese più calmo; a poco, a poco cedette alle fatiche del lungo viaggio, compiuto sotto la sferza del sole; chinò la testa lentamente e si addormentò di un sonno profondo. Poco dopo, due donne discesero la strada nella direzione della Torre di Antonia, avvicinandosi alla casa dei Hur. Esse avanzavano furtivamente, con passi timidi, fermandosi ogni tanto per ascoltare. All'angolo del fabbricato una si rivolse all'altra, e disse a bassa voce: — «Eccoci, Tirzah.» — E Tirzah, dopo aver guardato intorno a sè, afferrò la mano della madre, e vi si appoggiò pesantemente, singhiozzando, senza profferire una parola. — «Andiamo innanzi, figlia mia, perchè....» — la madre esitò e tremò; poi sforzandosi d'essere calma, continuò — «perchè quando spunterà il giorno, ci cacceranno dalle porte della città che si chiuderanno per sempre dietro di noi.» — Tirzah si lasciò cadere sulle pietre. — «Ah, sì!» — ella disse fra i singhiozzi; — «Dimenticavo. Credevo di andare a casa. Ma siamo lebbrosi, e non abbiamo casa; apparteniamo ai morti!» — La madre si abbassò e la sollevò teneramente, dicendo: — «Non abbiamo nulla a temere. Andiamo avanti.» — E in verità, alzando semplicemente le loro mani, esse avrebbero messo in fuga una intera legione. Avanzandosi pian piano, rasente alla muraglia, procedettero come due fantasmi, sinchè arrivarono alla porta, davanti alla quale esse pure si fermarono. Vedendo l'asse, montarono sul gradino, e lessero la scritta: _Questa è proprietà dell'Imperatore_ Allora la madre giunse le mani, e con gli occhi rivolti al Cielo, gemette con indicibile angoscia. — «Che cosa c'è mamma? Tu mi spaventi!» — Lentamente essa rispose: — «Oh! Tirzah, i poveri muoiono! Egli è morto!» — — «Chi, mamma?» — — «Tuo fratello! Tutto gli fu tolto — tutto — perfino questa casa!» — — «Povero!» — disse Tirzah con sguardo smarrito — «Egli non potrà mai aiutarci.» — — «E allora, mamma?» — — «Domani, domani, figlia mia, troveremo un posto presso la strada, e chiederemo l'elemosina come fanno i lebbrosi; mendicheremo.» — Tirzah si appoggiò di nuovo alla madre e con voce fioca bisbigliò: — «Morire, morire!» — — «No!» — disse la madre con prontezza. — «Iddio ha fissata la nostra ora, e noi siamo credenti in Dio. Lo rispetteremo anche in questo. Andiamo.» — Ella afferrò la mano di Tirzah mentre parlava e insieme voltarono l'angolo ovest della casa, sempre rasentando il muro. Non trovando alcuno proseguirono fino all'altro angolo sfuggendo il chiaro di luna, che illuminava tutta la facciata meridionale e parte della strada. Ma il desiderio della madre era forte. Lanciando uno sguardo indietro ed in alto verso le finestre, entrò nell'area illuminata attirando seco Tirzah; allora apparve in tutto il suo orrore la loro afflizione — le labbra e le gote screpolate, gli occhi cisposi, le mani scarne; le ciocche di capelli indurite da una materia ripugnante, e, come le loro ciglia, spaventosamente bianche. Nè era possibile il poter dire quale fosse la madre, e quale la figlia; ambedue sembravano vecchie e cadenti. — «Zitto!» — fece la madre — «V'è qualcuno coricato sul gradino — un uomo. Facciamo il giro e avviciniamoci.» — Esse attraversarono la strada, rapidamente, e tenendosi nell'ombra, proseguirono fin davanti alla porta, ove si fermarono. — «Egli dorme, Tirzah!» — L'uomo rimaneva immobile. — «Rimani qui, mentr'io tenterò d'aprire la porta.» — Così dicendo la madre s'avvicinò cautamente, senza far rumore, e toccò l'uscio. Non ebbe il tempo d'accertarsi se avrebbe ceduto, perchè, in quel momento, l'uomo sospirò, e, voltandosi inquietamente, mosse il fazzoletto che gli avvolgeva il capo, scoprendo il suo viso che apparve chiaramente illuminato dai raggi della luna. Ella lo guardò e trasalì; guardò di nuovo, curvandosi lievemente, e giunse le mani e alzò gli occhi al cielo, in muto appello. Rimase un istante così, poi corse da Tirzah. — «Come è vero che esiste Dio, quell'uomo è mio figlio, è tuo fratello!» — sussurrò sommessamente. — «Mio fratello? Giuda?» — La madre le afferrò la mano con veemenza. — «Vieni» — ella disse, sempre a voce bassa e concitata: — «andiamo a guardarlo insieme — ancora una volta, una volta sola — poi, o Dio, aiuta i tuoi servi!» — Esse attraversarono la strada, tenendosi per mano, leste silenziose come fantasmi. Quando le loro ombre si proiettarono sopra di lui, le donne si fermarono. Una delle sue mani giaceva sul gradino col palmo rivolto in alto. Tirzah cadde in ginocchio e lo avrebbe baciato, ma la madre la trasse indietro. — «No, se ti è cara la sua vita, non toccarlo! Siamo infette! siamo infette!» — ella sussurrò. Tirzah si ritrasse come se egli fosse il lebbroso. Ben Hur era bello: d'una bellezza maschia. Le guancie e la fronte erano abbronzate dal sole e dall'aria del deserto; sotto ai baffi biondi apparivano le labbra rosse e fresche, e i denti bianchissimi; la morbida barba non celava la piena rotondità del mento e della gola. Come appariva bello agli occhi della madre! Quale immensa brama la struggeva di gettargli le braccia al collo, di stringergli il capo al suo petto e di baciarlo come soleva fare nella sua fanciullezza! Dove trovò ella la forza per resistere all'impulso? Dall'amor suo, o lettore! dal suo amore materno, che, se tu poni ben mente, in questo differisce da ogni altro affetto: che, tenero per l'oggetto, può essere infinitamente tirannico per se stesso; di qui tutta la infinita forza del sacrificio. Neppure se avesse potuto ricuperare la salute e la fortuna, per nessuna benedizione di questa vita, non per la vita medesima, avrebbe permesso che il suo bacio infetto posasse sulla di lui guancia! Eppure ella deve toccarlo; in quell'istante che l'ha trovato, deve rinunciare a lui per sempre! Fate che un'altra madre vi dica l'amarezza di quel pensiero! Essa cadde in ginocchio, e, strisciando fino ai suoi piedi, accostò le labbra alla suola di un sandalo, la toccò una volta e poi un'altra ancora, e infuse tutta l'anima sua in quei baci. Egli si mosse, ed agitò la mano. Esse fecero un passo indietro, e l'udirono mormorare in sogno: — «Dov'è la mamma, Amrah?» — E di nuovo ricadde in un sonno profondo. Tirzah lo divorava cogli occhi ardenti. La madre nascose il viso nella polvere cercando di soffocare un singhiozzo così profondo e così forte che le sembrava il suo cuore scoppiasse. Quasi desiderava ch'egli si svegliasse. Egli aveva chiesto di lei; ella non era dimenticata; fin nel sonno pensava a lei. Non era abbastanza? La madre fece un cenno a Tirzah, si alzò, e, gettando sull'assopito ancora un ultimo sguardo, come per stamparne eternamente in cuore l'immagine, riattraversò lentamente la strada. Là, nascoste dall'ombra del muro, si fermarono, e, fissandolo in ginocchio, aspettarono ch'egli si svegliasse. Aspettavano qualche miracolo: non sapevano quale. A noi non è dato misurare la pazienza di un amore come il loro. Di lì a poco, mentre egli dormiva ancora, un'altra donna apparve sull'angolo del palazzo. Le due lebbrose, accovacciate nell'ombra, la scorsero perfettamente, illuminata come era dalla luna; una figura piccola, curva, scura di carnagione, grigia di capelli, vestita decentemente alla foggia di una serva, e portando un cesto pieno di verdura. Alla vista dell'uomo coricato sul gradino, la nuova venuta si fermò; poi, come se avesse presa una risoluzione, continuò la su strada camminando in punta di piedi. Passò vicina al dormiente, s'appressò alla porta, aprì facilmente lo sportello e mise la mano nell'apertura. Una delle larghe assi formanti l'imposta sinistra, girò su se stessa senza far rumore. Ella depose nell'interno il canestro, e stava per entrare essa medesima, quando, cedendo alla curiosità, si piegò per dare un'occhiata al forestiero, il viso del quale poteva benissimo vedersi. Le spettatrici dall'altra parte della strada udirono un'esclamazione soffocata e videro la donna fregarsi gli occhi come per rinnovare in loro la forza; piegarsi di nuovo, giungere le mani, guardare storditamente intorno, e poi chinarsi ancora, sul dormiente, prendergli la mano e baciarla teneramente. Ah! ciò ch'esse bramavano tanto di fare e che non osavano! Svegliato da quell'atto, Ben Hur, istintivamente ritirò la mano, e così facendo i suoi occhi incontrarono quelli della donna. — «Amrah! O Amrah! sei tu?» — egli disse. La vecchia non potè rispondere a parole, ma gli cadde al collo piangendo di gioia. Con delicatezza egli si svincolò dal suo braccio; sollevando il vecchio viso rugoso della serva, tutto bagnato di lagrime lo baciò, con una gioia non meno intensa di quella da lei dimostrata. Poi le due ascoltatrici dalla strada l'udirono esclamare: — «Mamma... Tirzah.... dimmi che è successo di loro, parla; ti prego.» — Amrah diede in un nuovo scoppio di pianto. — «Tu le hai vedute, Amrah. Tu sai dove sono: Dimmi che sono qui in casa.» — Tirzah si mosse come per slanciarsi verso di lui, ma la madre, indovinando il suo intento, l'afferrò per la mano sussurrando: — «No; no, per la tua vita. Noi siamo infette, noi siamo infette!» Il suo amore era tirannico nella sua magnanimità. Sebbene i loro cuori fossero straziati, egli non avrebbe dovuto diventare, per colpa della madre e della sorella, lebbroso com'esse. Perciò l'amore vinse. Intanto Amrah, cui si rivolgevano le suppliche di Ben Hur, piangeva sempre più. — «Stavi per entrare,» — egli continuò vedendo che il battente era aperto. Andiamo allora, io verrò con te. E così dicendo si alzò. — «I Romani — la maledizione di Dio cada su di loro, — i Romani mentirono. La casa è mia, alzati Amrah, ed entriamo.» — Un momento dopo essi erano spariti, lasciando le due donne sole nell'oscurità. Esse tenevano gli occhi fissi sulla porta la quale non si sarebbe mai più spalancata per loro, e si strinsero sempre più l'una all'altra. Avevano fatto il loro dovere, il loro amore era stato messo alla prova ed avevano vinto. Il giorno seguente furono trovate dalle guardie e cacciate dalla città a sassate. — «Via di qua, voi siete morte pel mondo, via!» — Con questa sentenza che risonava minacciosa alle loro orecchie, uscirono dalla città. CAPITOLO V. Al giorno d'oggi i viaggiatori in Terra Santa, che cercano il bellissimo Giardino Reale, discendono il letto del Cedron, o proseguono per la curva di Gihon fino ad arrivare alla vecchia fontana di En-rogel. Qui sostano, bevono un sorso dell'acqua freschissima e dolce, osservano le grandi pietre che circondano l'orlo del pozzo, chiedono la sua profondità, sorridono forse del modo primitivo di attinger l'acqua, e dopo aver dato qualche soldo al povero diavolo che presiede a quella funzione, si rivolgono indietro. È allora che il panorama di Gerusalemme appare più maestoso che mai ai loro sguardi. Qui i monti di Moriah e di Sion, degradante in lene pendio verso l'antica città di Davide; là, sulla cima dei colli appaiono le rovine dei palazzi reali, il duomo elegante dell'Haram, i poderosi avanzi dell'Ippico, minaccioso ancora nelle sue rovine. A destra è il Monte dell'Offesa, solitario e roccioso, a sinistra il Colle del Cattivo Consiglio, che le leggende rabbiniche e monastiche hanno circondato di una fama così misteriosa e terribile. La sua base infatti, secondo la tradizione, copre l'entrata dell'inferno, il Gehenna della religione Ebraica. Sul fianco orientale fronteggiante la città si aprono caverne e sorgono innumerevoli tombe, che, al tempo di cui scriviamo, erano abitate dai lebbrosi, non singolarmente, ma formanti un'intera colonia. Quello era il loro dominio, quivi avevano fondato una città, e vi dimoravano da soli, fuggiti da tutti, come quelli su cui la maledizione di Dio aveva visibilmente impresso il suo segno. La seconda mattina dopo gli avvenimenti descritti nel precedente capitolo, Amrah si avvicinò al pozzo di En-rogel, e sedette sopra un macigno. All'apparenza la si sarebbe presa per la domestica di una agiata famiglia. Aveva recato un anfora ed un cesto, coperto da un bianco tovagliolo, ch'ella aveva deposto in terra presso di sè. Si tolse lo scialle dal capo, intrecciò le mani sopra le ginocchia, e fissando gli sguardi in direzione del burrone di Aceldama, rimase in posizione di chi aspetta. Era di buon mattino, ed ella fu la prima ad arrivare al pozzo. Tuttavia, poco dopo, venne un uomo portando una corda ed una secchia di cuoio. Salutando la piccola donna dalla faccia scura, egli slegò la corda, l'attaccò alla secchia, ed aspettò gli avventori. Amrah sedeva silenziosa, senza far parola. Vista l'anfora, l'uomo domandò, dopo qualche tempo, se desiderava che la si riempisse; ella rispose civilmente: — «Non adesso;» — Allora egli non si occupò più di lei. Quando il sole apparve sopra il monte Oliveto, gli avventori arrivarono a frotte. Per tutto questo tempo ella mantenne il suo posto, volgendo tratto tratto gli sguardi alla sommità delle colline, nè si mosse, quando, il sole, sorgendo, cominciò a scottare. Mentre essa aspetta, parliamo del suo scopo. La sua abitudine era di recarsi al mercato a notte fatta. Scappando di casa inosservata, ella cercava i negozi nel Tiropeo, o quelli presso alla Porta dei Pesci, faceva le sue compere di carne e di verdure, e ritornava rinchiudendosi nuovamente in casa. Il piacere che provò dalla presenza di Ben Hur nel vecchio palazzo si può facilmente immaginare. Ella non aveva nulla a dirgli riguardo alla padrona od a Tirzah — nulla. Egli avrebbe voluto condurla in un luogo meno malinconico; essa rifiutò. Ella gli avrebbe voluto dare ancora la sua stanza, rimasta tale e quale come l'aveva lasciata; ma il pericolo d'essere scoperto era troppo grande, ed egli desiderava sopra tutto di evitare inchieste. Egli verrebbe a trovarla più spesso che gli sarebbe possibile. Sarebbe andato e tornato di notte. Ella dovette starsi contenta di questa decisione; soddisfatta, subito si occupò di cercare ogni mezzo per rendergli piacevoli queste visite di sfuggita. Non le passava per la testa che egli era già un uomo, e i suoi gusti giovanili si sarebbero potuti cambiare. Si ricordava che da bambino era appassionatissimo dei dolci, e decise di prepararne varie qualità e averle sempre pronte ogni volta che egli veniva. Non era una idea felice forse? Così la sera seguente, più presto del solito, ella uscì, col suo cesto, ed andò al mercato della Porta dei Pesci. Girando di qua e di là, in cerca del miglior miele, le accadde di udire un uomo raccontare una storia. Quale era questa storia, il lettore si potrà facilmente immaginare quando sappia che il narratore era uno degli uomini che avevano tenuto le torcie per il comandante della Torre di Antonia, allorchè fu demolita la porta della cella numero VI. Ella udì tutti i particolari della scoperta e insieme i nomi dei prigionieri. Ascoltò il racconto trattenendo il fiato, temendo di perdere una parola. Terminate le sue compere, ritornò a casa, credendo di sognare. Quale felicità poteva procurare al suo protetto! Aveva trovata sua madre! Ella pose in un canto il canestro, ora ridendo, ora piangendo. Tutto ad un tratto si fermò e pensò. Il sentirsi dire che sua madre e Tirzah erano infette dalla lebbra, lo avrebbe esposto alla morte. Egli si sarebbe recato nell'orrenda città sopra la collina del Cattivo Consiglio, bussando alla porta di ogni tomba infetta, senza pace, domandando di loro, e la malattia avrebbe colto anche lui; il loro destino sarebbe stato anche il suo. Ella si torse le mani. Che cosa doveva fare? Come tanti prima di lei, e tanti fecero dopo, traendo dall'intensità dell'affetto ispirazione, se non saggezza, venne ad una conclusione singolare. I lebbrosi, ella lo sapeva, solevano ogni mattina discendere dalle loro sepolcrali dimore sulla collina, e prendere una provvista d'acqua per la giornata, dal pozzo En-rogel. Portavano le loro anfore, le appoggiavano per terra ed aspettavano, stando lontano, finchè fossero riempite. A quel pozzo la sua padrona e Tirzah dovevano venire; poichè la legge era inesorabile, e non ammetteva alcuna distinzione. Un ricco lebbroso non era trattato meglio di uno povero. Così Amrah decise di non parlare a Ben Hur della storia che aveva udito, ma di andare sola al pozzo ad aspettare. La fame e la sete vi spingerebbero gli sventurati, ed essa credeva di poterle riconoscere a prima vista. Ad ogni modo sarebbe stata da loro riconosciuta. Intanto arrivò Ben Hur e chiacchierarono a lungo insieme. L'indomani doveva venire Malluch; e la ricerca sarebbe subito incominciata. Egli era impaziente. Per distrarsi, durante l'attesa, voleva visitare i luoghi sacri del vicinato. Quantunque il segreto pesasse sulla coscienza della donna e le sue labbra ardessero dal desiderio di svelarlo, essa si mantenne calma. Quando se ne fu andato, ella si affaccendò a preparargli una buona colazione che lo sfamasse al suo ritorno. E sul far dell'alba riempì il canestro, si provvide di un'anfora e prese la via che conduce a En-rogel, sortendo per la Porta dei Pesci, che era una delle prime ad aprirsi. Poco dopo il levar del sole quando la gente si affollava maggiormente intorno al pozzo una mezza dozzina di secchie erano in moto nello stesso tempo, ognuno volendo andarsene finchè durava il fresco del mattino; gli abitatori della triste collina incominciarono a far capolino e a muoversi fra le loro tombe. Un po' più tardi apparvero a gruppi, formati in parte da fanciulli, alcuni in tenera età. Altri venivano furtivamente allo svolto della rupe — donne con anfore sopra le loro spalle, uomini vecchi, zoppicanti, sorretti da bastoni e da gruccie. Alcuni si appoggiavano sulle spalle dei compagni, altri, totalmente impotenti, si lasciavano trasportare dagli amici sopra lettighe. Anche quel dolore, comune a tanti esseri che si amavano nella sventura, trovava un po' di sollievo in questo reciproco conforto. Dal suo posto presso il pozzo, Amrah teneva d'occhio quei gruppi spettrali. Più d'una volta essa credette di riconoscere le infelici delle quali andava in cerca. Non dubitava che esse fossero sulla collina e che dovessero venire al pozzo: forse aspettavano solo che tutti gli altri si fossero serviti. Quasi alla base della rupe, vi era una tomba che più d'una volta aveva attratta l'attenzione di Amrah per l'ampiezza della sua entrata. Una pietra di grandi dimensioni stava vicina all'ingresso. Il sole penetrava liberamente nelle ore più calde, e pareva che fosse deserta a meno che non servisse di rifugio a qualche cane di ritorno dalle consuete scorrerie. Con sorpresa, la paziente Egiziana vide uscire di là due donne, una delle quali a metà sosteneva e a metà conduceva l'altra; avevano entrambe i capelli bianchi, sembravano vecchie, ma le loro vesti non erano stracciate e si guardavano attorno, come se la località fosse loro nuova. Amrah credette di vederle anche indietreggiare davanti allo spettacolo della ripugnante compagnia della quale facevano parte. Il suo cuore battè più veloce, ed essa osservò le due donne con crescente attenzione. Per qualche tempo esse rimasero immobili presso la tomba, poi si mossero lentamente, trascinandosi con pena e s'avvicinarono al pozzo. Parecchie voci le avvertirono d'arrestarsi; tuttavia esse proseguirono: l'uomo che attingeva l'acqua raccolse alcuni ciottoli, per scagliarli loro addosso. Tutta la gente che si trovava là attorno le maledisse, e la schiera dei lebbrosi numerosa sulla collina gridò, ammonendole, con voce stridula: — «Siete infette, siete infette!» — — «Certamente,» — pensò Amrah, — «quelle due creature sono nuove agli usi dei lebbrosi.» — Si alzò ed andò ad incontrarle, prendendo con sè il canestro e l'anfora. L'allarme al pozzo scemò subitamente. — «Che sciocca,» — disse una ridendo, — «che sciocca, dare del buon pane ai lebbrosi!» — — «E pensare che è venuta fin qui a bella posta, — osservò un'altro, — io almeno avrei aspettato d'imbattermi in loro casualmente davanti alla porta.» — Amrah animata da più elevati sentimenti, procedette. Se si fosse sbagliata! E più si avvicinava, più sentiva un nodo stringerle la gola, e diventava confusa ed esitante. A quattro o cinque passi dal luogo ov'erano le donne, si fermò. Dio! era dunque quella la padrona ch'ella amava? la mano della quale ella aveva baciato così spesso in segno di gratitudine? La sua immagine era un giorno per lei il più puro tipo di bellezza matronale, tipo ch'ella serbava fedelmente nella memoria! e quella Tirzah ch'ella aveva allevata da bambina, della quale aveva calmati i dolori, aveva divisi i passatempi infantili, era mai quella la sorridente, la dolce Tirzah, il conforto della casa, la benedizione promessa alla sua vecchiaia? La sua padrona, il suo tesoro? L'anima della donna trasalì a quella vista. — «Queste sono vecchie,» — ella disse tra sè. — «Io non le ho mai vedute. Tornerò indietro.» — E si voltò. — «Amrah!» — disse una delle lebbrose. L'Egiziana, lasciò cadere l'anfora, e guardò indietro, tremando. — «Chi mi chiama?» — domandò ella. — «Amrah!» — Gli occhi pieni di meraviglia della serva si posarono sul viso delle donne. — «Chi siete?» — ella gridò. — «Noi siamo quelle che tu cerchi.» — Amrah cadde sulle sue ginocchia. — «O padrona mia, padrona mia! Sia lodato Iddio che mi condusse a voi!» — E la povera creatura sopraffatta dall'emozione, incominciò a farsi avanti. — «Sta lì, Amrah! Non ti accostare di più! Siamo infette! Siamo infette!» — Quelle parole bastarono. Amrah cadde a terra colla faccia fra le mani, singhiozzando così forte che la gente al pozzo la udì. Tutta ad un tratto essa si alzò di nuovo sulle ginocchia. — «O padrona mia, dov'è Tirzah?» — — «Son qui, Amrah, son qui! Vuoi portarmi un po' d'acqua?» — L'istinto d'ubbidienza della serva riprese il sopravvento. Tirando indietro i capelli che le erano caduti sul viso, Amrah si alzò, andò vicino al cesto e lo scoprì. — «Guardate» — ella disse — «qui v'è pane e carne.» — Ella avrebbe disteso per terra il tovagliuolo, ma la padrona le si rivolse di nuovo. — «Non fare così. Amrah. Quelli laggiù ti possono gettare delle pietre, e rifiutare di darci da bere. Lascia il cesto, prendi l'anfora, riempila e riportala qui. Per oggi ci avrai reso il più gran servizio che ti sia concesso di prestarci. Presto, Amrah.» — La gente, sotto agli occhi della quale tutto ciò era accaduto, fece strada alla serva, e l'aiutò a riempire l'anfora, commossa dal dolore che traspariva dal suo aspetto. — «Chi sono esse?» — domandò una donna. Amrah sommessamente rispose; — «Esse furono una volta molto buone con me!» — Alzando l'anfora sopra le spalle, si affrettò a tornare indietro. Per dimenticanza, ella sarebbe andata sin dov'eran esse, ma il grido: «Infette, infette! All'erta!» l'arrestò. Mettendo l'acqua vicino al cesto, fece qualche passo indietro, e si fermò. — «Grazie, Amrah,» — disse la padrona impadronendosi delle provviste. — «Cuor d'oro!» — — «Non v'è altro ch'io possa fare per voi?» — domandò Amrah. Lo mano della inferma era sopra l'anfora, e la donna ardeva dalla sete; tuttavia si fermò, ed alzandosi disse con fermezza: — «Sì, io so che Giuda è tornato a casa. Lo vidi l'altra sera alla porta, addormentato presso il gradino, e tu lo facesti alzare di là.» — Amrah giunse le mani. — «O signora mia! Voi vedeste tutto ciò, e non siete accorsa!» — — «Sarebbe stato un volerlo uccidere. Io non posso più prenderlo fra le mie braccia. Non posso più baciarlo. O Amrah, Amrah, tu l'ami, lo so!» — — «Sì,» — disse essa con effusione, scoppiando di nuovo in lagrime, ed inginocchiandosi. — «Io morirei per lui!» — — «Dammi una prova di quanto tu dici, Amrah.» — — «Sono pronta.» — — «Non gli dirai dove siamo e che ci hai vedute. Non dirgli nulla, Amrah.» — — «Ma egli vi sta cercando. È venuto da lontano per trovarvi.» — — «Egli non deve trovarci. Non deve diventare ciò che siamo noi. Ascolta Amrah. Tu ci servirai come hai fatto oggi. Ci porterai quel poco che ci abbisogna. Ora va. Tornerai la mattina e la sera, d'ora innanzi, e...» — e la voce tremò, poichè la ferrea volontà stava per abbandonarla — e tu ci parlerai di lui, Amrah; ma a lui non dire una parola. Hai capito?» — — «Oh! sarà così duro il sentirlo discorrere di voi, e vederlo girare in cerca di voi — di comprendere il suo dolore e non dirgli almeno che voi vivete!» — — «Puoi dirgli che stiamo bene, Amrah.» — La serva abbassò il capo silenziosa. — «No» — continuò la padrona; — «è meglio che tu taccia completamente. Va adesso e ritorna questa sera, noi ti aspetteremo. Intanto, addio!» — — «Il fardello sarà pesante a sostenersi signora mia» — disse Amrah colle mani davanti al viso. — «Quanto più duro sarebbe il veder lui nello stato in cui siamo ridotte!» — rispose la madre, dando il cesto a Tirzah. — «Torna ancora stasera» — ripetè, prendendo l'anfora ed avviandosi verso il rifugio. Amrah attese, in ginocchio, che scomparissero, poi riprese la via del ritorno. La sera essa venne ancora, e d'allora in poi fu suo pensiero costante il servirle mattina e sera, e non lasciarle mancar di nulla. La tomba, benchè così nuda e deserta, era meno triste, per le sventurate, della cella nella torre. La porta di essa lasciava, quand'era socchiusa, passar la luce, e dinanzi ad esse si stendeva un panorama pieno di vita, quantunque lontano e inarrivabile. Così era meno duro attendere la morte. CAPITOLO VI. La mattina del primo giorno del settimo mese, — Tishri in Ebraico, ottobre in italiano — Ben Hur si alzò dal letticciuolo nel Khan, di pessimo umore. Dopo l'arrivo di Malluch poco tempo era stato perduto in chiacchiere. Egli aveva cominciate le sue ricerche alla Torre di Antonia, andando audacemente, per via diretta, al tribuno. Gli spiegò la storia dei Hur e i particolari dell'accidente toccato a Grato, facendo risaltar l'innocenza dei condannati. Scopo della ricerca era di scoprire se alcuno della disgraziata famiglia fosse vivo e di portare una supplica a Cesare, pregandolo di restituire ai superstiti i beni e i diritti civili. Tale supplica, Malluch non ne dubitava, avrebbe determinata un'inchiesta per ordine imperiale, dalla quale gli amici della famiglia non avevan ragione di temere. In risposta, il tribuno espose, con tutti i ragguagli, come avesse scoperta la prigione delle due donne nella Torre, e lesse il verbale che egli aveva fatto stendere intorno all'accaduto. Malluch ottenne che se ne facesse una copia e quindi corse con essa da Ben Hur. Sarebbe vano descrivere l'effetto che produsse la terribile storia nel giovine. Il suo dolore non si sfogò in lagrime o in grida; era troppo profondo per prorompere in manifestazioni rumorose. Egli rimase seduto e silenzioso per un pezzo, col viso pallido ed il cuore affranto da pensieri che lo torturavano e che ogni tanto si esprimevano con parole tronche e dette sotto voce. — «Son lebbrose! son lebbrose! — Esse — mia madre — Tirzah — sono lebbrose! mio Dio!» — Era in preda allo strazio più vivo; quindi prese il sopravento l'idea della vendetta. Si alzò e disse frettolosamente: — «Debbo andar in cerca di loro. Potrebbero esser moribonde.» — — «Dove andrai a cercarle?» — — «In un solo posto esse possono essere!» — Malluch s'interpose ed ottenne, dopo molti sforzi, che la direzione delle ricerche fosse affidata a lui. Andarono insieme alla Porta davanti alla Collina del Cattivo Consiglio, dove mendicavano i lebbrosi. Là essi stettero tutto il giorno facendo elemosine, e così continuarono per tutto il resto del quinto mese e per tutto il sesto sempre infruttuosamente. La spaventevole città sulla collina fu frugata in ogni angolo dai lebbrosi eccitati dalle laute ricompense offerte. Anche la vecchia tomba fu invasa e i suoi ospiti furono assaliti di domande, ma essi si guardarono bene dal rivelare il proprio segreto. Il tentativo di Ben Hur quindi fallì. E finalmente, la mattina del primo giorno del settimo mese giunse informazione che, poco tempo prima, due donne, infette di lebbra, eran state scacciate e sospinte fuor della città, alla Porta dei Pesci, dalle guardie. Proseguendo nelle indagini e facendo confronto di date, Ben Hur s'accertò che le due infelici eran proprio quelle cercate da lui. Una triste conclusione derivò da questa sicurezza. Ove si trovavan adesso le sventurate? Che era avvenuto di loro? Non bastava che fossero lebbrose — pensava il figlio con quell'amarezza che il lettore può immaginare — non bastava! Erano anche state scacciate dalla città natìa! Sua madre era morta! morta abbandonata! Tirzah era morta! Egli solo era in vita. E perchè? Per quanto ancora, o Dio, per quanto ancora sarebbe durata questa Roma? Pieno d'ira, senza speranza, ardente del desiderio di vendetta, entrò nella corte del Khan e la trovò piena di gente arrivata durante la notte. Mentre faceva la sua prima colazione ascoltò i discorsi dei vicini, ed in ispecie quelli di alcuni giovani, forti e robusti, che il modo di discorrere rivelava provinciali. L'aspetto maschio e vigoroso, del loro viso, la posa del capo, lo sguardo dell'occhio, rivelavano una vivacità ed una tenacia che non eran comuni al basso popolo di Gerusalemme. Traspariva nei loro modi un brio che, secondo alcuni, era l'effetto di una vita sana condotta in paesi montuosi, ma che potremmo attribuire, con più sicurezza, al regime di libertà che godevano. Erano Galilei venuti in città per varie ragioni, ma, in primo luogo, per prendere parte alla Festa della Tomba, fissata per quel giorno. Essi divennero tosto per lui oggetti di interesse, perchè provenivano da una regione in cui sperava di trovar pronto appoggio al compito che stava per assumersi. Mentre li stava osservando, la sua mente riandava velocemente le imprese eroiche possibili ad una legione composta di tali soldati, addestrati nella severa disciplina Romana, un uomo entrò nella corte. Aveva il viso rosso come per fuoco, e gli occhi scintillanti rivelavano una certa agitazione. — «Che cosa fate» — chiese ai Galilei. — «I Rabbini e i principali fra i nostri vanno al Tempio a veder Pilato. Venite. Fate presto. Andremo anche noi con loro.» — Subito tutti lo circondarono. — «A veder Pilato? E che cosa farà Pilato?» — — «Hanno scoperto una congiura. Il nuovo acquedotto di Pilato deve venir pagato col denaro del Tempio.» — — «Come? Col tesoro sacro?» — Ripeterono in coro la domanda con gli occhi pieni d'ira. — «È il _Corban_ — denaro di Dio — Ah! il barbaro tocchi un siclo di quel denaro, se osa!» — — «Venite! — gridò il messaggiero. — La processione sta attraversando il ponte. Tutta la città la segue. Posson aver bisogno di noi. Fate presto!» — In un batter d'occhio tutti furono pronti. Col capo scoperto e le corte tuniche senza maniche, presentavan l'aspetto caratteristico dei mietitori e dei braccianti del loro paese. Stringendo alla vita le cintole per assettare le vesti essi fecero per uscire dal Khan. Allora Ben Hur si fece avanti e disse loro: — «Uomini della Galilea. Io son un figlio di Giuda. Volete prendermi con voi?» — — «Ma forse ci batteremo!» — risposero. — «Io non sarò il primo a fuggire, nel caso!» — La risposta li mise di buon umore, ed il messo disse: — «Hai l'aria abbastanza robusta. Vieni con noi.» — Ben Hur si gettò il mantello sulle spalle. — «Voi prevedete una lotta?» — chiese calmo, nello stringersi la cintura alla vita. — «Sì.» — — «Con chi?» — — «Con il corpo di guardia Romano.» — — «Sono legionari?» — — «E di chi potrebbe fidarsi un Romano?» — — «Che cosa adopererete per battervi?» — Essi lo guardarono tacendo. — «Ebbene — egli disse — bisognerà fare quello che si potrà, ma non sarebbe meglio eleggere un capo? I legionari hanno sempre uno che loro comanda, ed è così che possono agire come se fossero mossi da una sola volontà.» — I Galilei lo fissarono curiosamente che, quasi, l'idea tornasse loro nuova. — «Rimaniamo almeno d'accordo di non dividerci e di restare vicini. — egli soggiunse. — Adesso son pronto e voi?» — — «Lo siamo. Avanti.» — Il Khan, rammentiamolo, era in Bezetha, la nuova città, e per arrivare al Pretorio, come i Romani chiamavano il palazzo di Erode sul Monte Sion, i Galilei dovevano percorrere la pianura a nord-ovest del Tempio. Per viottoli e scorciatoie attraversarono rapidamente il distretto di Akra, giungendo alla Torre di Marianna, donde, in pochi passi, si arrivava alla porta della fortezza. Per via essi incontrarono molta gente che, come loro, andava a chieder notizie della nuova empietà commessa dai Romani. Finalmente arrivarono alle mura del _Pretorium_, dove la processione degli anziani e dei Rabbini era già entrata, con gran seguito, lasciando dietro sè una folla immensa e clamorosa. Un centurione stava alla porta con un corpo di guardie completamente armato, schierato sotto alle magnifiche mura di marmo. Il sole si rifletteva sugli elmi e sugli scudi dei soldati, ma essi erano ugualmente indifferenti al suo splendore e alle grida e agli insulti della plebaglia. Attraverso alle porte di bronzo una corrente di cittadini continuava ad entrare mentre un'altra, più esigua, sortiva. — «Che succede?» — domandò un Galileo a uno di quelli che uscivano. — «Nulla — fu la risposta — i Rabbini son davanti alla porta del palazzo e chiedono di veder Pilato. Egli rifiutò di accordare udienza, ed essi gli mandarono a dire che non se ne sarebbero andati finchè non fossero stati ascoltati. Ora stanno aspettando.» — — «Entriamo» — disse Ben Hur tranquillamente prevedendo ciò che probabilmente i suoi compagni non avrebbero preveduto — e cioè che un dissidio era sorto fra i pretendenti e il governatore, dissidio facile a tramutarsi in un tentativo serio di ribellione. Dentro alla Porta vi eran molti alberi che formavano un doppio filare; essi eran coperti di foglie e ombreggiavano dei sedili fatti di assi inchiodate alla meglio. La gente, tanto entrando che sortendo, evitava cautamente l'ombra degli alberi, poichè, — e potrà parer davvero strano, — un ordine dato dai Rabbini e che pretendeva esser tratto dalla legge divina, proibiva che entro alle mura di Gerusalemme crescesse alcun che di verde. Si dice che perfino il Re Sapiente, il quale desiderava un giardino per la sua moglie Egiziana, fu costretto a cercarselo nel crocicchio delle valli al di là di En-rogel. Attraverso le cime degli alberi si vedeva la facciata del palazzo. Voltando a destra, la compagnia penetrò in una piazza larga, a sinistra della quale sorgeva l'abitazione del governatore. Una moltitudine eccitata riempiva la piazza. Tutti guardavano verso un porticato sotto al quale appariva una gran porta chiusa, davanti alla quale stazionava un'altra schiera di legionari. La folla era così fitta che gli amici non avrebbero potuto avanzarsi, se tale fosse stato il loro desiderio; rimasero perciò indietro, osservando ciò che succedeva. Vicino al portico potevano vedere gli alti turbanti dei Rabbini, l'impazienza dei quali si comunicava a volte alla folla dietro di essi. Spesso si udiva un grido: — «Pilato se sei il governatore, fatti avanti, fatti avanti!» — Dopo un po' un uomo si spinse tra la folla: il suo viso era rosso dalla collera. — «Israele non ha più voce in capitolo!» — egli disse a voce alta. — «Su questa terra santa siamo cani di Roma.» — — «Credete voi ch'egli uscirà?» — — «Uscire? Non ha egli rifiutato tre volte?» — — «Che cosa faranno i Rabbini?» — — «Come a Cesarea — rimarranno qui, sinchè darà loro udienza.» — — «Non oserà toccare il tesoro, nevvero?» — domandò uno dei Galilei. — «Chi lo sa? Un Romano, non profanò il Santo dei Santi? V'è nulla di sacro per essi.» — Un'ora trascorse, e, sebbene Pilato non si fosse degnato di rispondere, i Rabbini e la folla non si mossero. Venne mezzogiorno, portando un acquazzone, che si rovesciò sul capo degli aspettanti, ma senza recare alcun cambiamento nella situazione, tranne che la folla, se era possibile, era aumentata e rumoreggiava di più. Il gridìo era quasi continuo: — «Vieni fuori, vieni fuori!» — Certe volte erano varianti poco rispettose. Ben Hur teneva riuniti i suoi amici. Egli giudicava che l'orgoglioso Romano si sarebbe stancato, e che la fine del dramma non poteva esser molto lontana. Pilato non aspettava altro che il popolo gli offrisse un pretesto per ricorrere alla violenza. E la fine venne. In mezzo alla confusione si udì un rumore di colpi, seguito da grida di dolore e di rabbia. Gli uomini venerabili davanti al portico si voltarono spaventati. La gente che stava di dietro si spinse avanti. Quelli nel centro si sforzavan di uscire dal parapiglia; e per un istante, la pressione delle forze contrarie fu terribile. Mille voci si alzarono per rispondere, la sorpresa si mutò rapidamente in panico. Ben Hur si mantenne calmo. — «Puoi vedere?» — egli disse ad uno dei Galilei. — «No.» — — «Ti alzerò.» — Prese l'uomo per la vita e lo alzò di peso. — «Che cosa c'è?» — — «Ora vedo,» — disse l'uomo. — «Vi sono alcuni armati di bastoni, che stanno battendo la gente. Sono vestiti come gli Ebrei.» — — «Chi sono?» — — «Romani, com'è vero che esiste Dio! Romani truccati da Ebrei. I loro bastoni volano, e non rispettano nulla. Ecco un Rabbino che cade! — Vili!» — Ben Hur pose l'uomo a terra. — «Uomini della Galilea,» — egli disse, — «è un tiro di Pilato. Ora, farete ciò che vi dico: andremo contro gli uomini dai bastoni.» — I Galilei si animarono. — «Sì, sì,» — essi risposero. — «Torniamo indietro vicino agli alberi presso alla porta, e troveremo che l'idea di Erode, quantunque contraria alla legge, non è senza la sua utilità. Venite.» — Ritornarono sui loro passi più presto che fu loro possibile, e afferrando i rami con tutta forza, li staccarono dai tronchi. In breve furon armati di nodosi bastoni. Al ritorno incontrarono la folla che si slanciava verso la Porta, mentre dietro ad essa il clamore continuava, in un coro di strilli, di lamenti, di maledizioni. — «Al muro!» — gridò Ben Hur — «e lasciate passare la turba!» — Così, stando fermi, rasenti alla muraglia alla propria destra, potevano lasciar passare la folla, che, altrimenti, li avrebbe travolti nella sua pazza corsa verso la piazza. — «Uniti, ora, e seguitemi!» — Gli ordini di Ben Hur ormai erano osservati alla lettera, e mentre egli si spingeva tra la folla, i suoi compagni lo seguivano compatti. Quando i Romani, bastonando la gente e canzonandola, si trovarono di faccia ai Galilei, smaniosi di combattere, ed armati delle stesse armi, rimasero assai sorpresi. Lo schiamazzo si accrebbe. I bastoni s'incontrarono con colpi secchi e micidiali: l'odio lungamente represso dei Galilei si scatenò con tutto l'impeto della loro natura focosa. Niuno eseguì la sua parte meglio di Ben Hur la cui maestria e disciplina servirono mirabilmente in quest'occasione, perchè non solo egli sapeva colpire e parare, ma la lunghezza del suo braccio, l'azione perfetta e la forza meravigliosa, gli assicuravano la vittoria in ogni conflitto. Egli era, nel medesimo tempo, soldato e capitano. Il bastone che maneggiava era poderoso, e bastava un colpo per il medesimo avversario. Il suo sguardo vigilava tutti i particolari della lotta, e colla voce e l'esempio animava i compagni alla mischia. Se il suo grido incoraggiava quelli del suo partito sgomentava i nemici. Sorpresi in tal guisa, i Romani dapprima si ritirarono in buon ordine, poi voltarono le spalle e fuggirono verso il porticato. Gl'impetuosi Galilei avrebbero voluto inseguirli fin sui gradini, ma Ben Hur ragionevolmente li trattenne. — «Fermi!» — egli disse. — «Il centurione laggiù sta per sopraggiungere con la guardia. Essi hanno spade e scudi; noi non possiamo misurarci con loro. Abbiamo fatto tutto il possibile. Ritorniamo verso la porta.» — Essi ubbidirono, benchè a malincuore, poichè la vista dei loro compaesani, giacenti per terra là dov'erano stati abbattuti, alcuni contorcendosi e gemendo, altri chiedendo aiuto, altri muti come morti, destava continuamente la loro ira. Ma non tutti i caduti erano Ebrei. Questa era una consolazione. — «Cani d'Israele, fermatevi!» — gridò dietro loro il centurione mentre si ritiravano. Ben Hur gli rise in faccia e rispose nella sua lingua: — «Se noi siamo cani d'Israele, voi siete sciacalli di Roma. Resta qui: torneremo un'altra volta.» — I Galilei, schiamazzando e ridendo, proseguirono la loro via. Fuori della porta si agitava una moltitudine di cui Ben Hur non aveva mai veduta l'uguale, neppure nel circo di Antiochia. Le cime delle case, le strade, tutto il versante della collina, erano gremiti di gente che si lamentava e piangeva. L'aria risuonava delle loro grida ed imprecazioni. La compagnia venne lasciata passare senza ostacolo dalla guardia. Ma non appena fu uscita, il centurione, prima di guardia sotto il porticato, si presentò alla porta, e voltosi a Ben Hur: — «Olà, insolente! Sei un Romano od un Ebreo?» — Ben Hur rispose: — «Sono un figlio di Giuda, nativo di qui. Che vuoi da me?» — — «Rimani e combatti!» — — «Uno per volta?» — — «Come vuoi!» — Ben Hur rise. — «O valoroso Quirite! Degno figlio del bastardo Giove Romano! Io non ho armi.» — — «Avrai le mie,» — rispose il centurione. — «Io me le farò prestare qui dalla guardia.» — La gente, intorno udendo il colloquio, divenne silenziosa; e da essa il silenzio si propagò alle file più lontane. Ultimamente Ben Hur aveva battuto un Romano sotto gli sguardi di Antiochia e del lontano Oriente. Se ora egli avesse potuto umiliarne un altro sotto gli occhi di Gerusalemme, l'onore che gliene sarebbe venuto poteva essere di grande utilità alla causa del Nuovo Re. Egli non esitò. Andando direttamente dal centurione, disse: — «Sono pronto. Prestami la tua spada e lo scudo.» — — «E l'elmo e la corazza?» — domandò il Romano. — «Tienili. Non potrebbero calzarmi bene.» — Le armi furono consegnate, ed il centurione si mise in posizione. I soldati, schierati sotto alla porta, rimasero immobili, come semplici spettatori. Dall'altra parte stava la folla, inquieta, e con mille bocche si ripeteva la domanda: — «Chi è? Come si chiama?» — Nessuno lo sapeva. La supremazia delle armi romane consisteva in tre cose — sottomissione alla disciplina, l'ordinamento delle legioni in battaglia, e una singolare abilità nel maneggio della spada. Nella lotta essi non colpivano mai col filo della spada ma giuocavano di punta, sia avanzando che ritirandosi, e generalmente miravano al volto del nemico. Tutto ciò era noto a Ben Hur. Mentre stavano per attaccare egli disse: — «Sono un figlio di Giuda ma non ti ho detto che son stato a scuola da un _lanista_ di Roma. Difenditi!» — All'ultima parola Ben Hur fece un passo verso l'avversario. Per un istante si fissarono reciprocamente, ognuno guardando l'altro di sopra all'orlo del proprio scudo. Poi il Romano avanzò la spada e fece una finta al petto. L'Ebreo gli rise in faccia. L'altro gli tirò una stoccata al viso. Ben Hur fece un passo a sinistra, rapido come il lampo, e si spinse addosso all'avversario sollevando col proprio scudo il braccio del nemico. Fece un passo di fronte e un altro a sinistra lasciando il lato destro del Romano completamente scoperto. Il centurione, colpito dall'arma di Ben Hur, cadde pesantemente in avanti, facendo risuonare di un suono cupo il lastricato. L'Ebreo aveva vinto. Col piede sulle spalle del nemico egli alzò lo scudo sopra il proprio capo, secondo l'uso dei gladiatori, e salutò i soldati fermi presso la porta. Quando il popolo comprese che la vittoria era di Ben Hur divenne quasi pazzo dalla gioia. Di bocca in bocca fino al lontano Xysto, rapido come la folgore si sparse la novella, e dappertutto era un agitare di scialli, e di fazzoletti, un ridere e un vociare; se Ben Hur avesse consentito, i Galilei lo avrebbero portato in trionfo sulle loro spalle. Ad un ufficiale subalterno che s'avanzava dalla Porta, egli disse: — «Il tuo camerata morì da soldato. Mi tengo solo la sua spada ed il suo scudo.» — Poi si confuse fra la folla. E allorchè fu un po' più lontano parlò ai Galilei: — «Fratelli, vi siete portati assai bene. Ora separiamoci per non essere inseguiti. Venite da me questa sera al Khan di Bethania. Ho qualche cosa di grande importanza per Israele da proporvi.» — — «Chi sei?» — gli domandarono. — «Un figlio di Giuda,» — egli rispose, semplicemente. La folla, smaniosa di vederlo, attorniò la compagnia. — «Verrete a Bethania?» — egli domandò. — «Sì, verremo.» — — «Allora portate con voi questa spada e questo scudo, chè io possa riconoscervi.» — E spingendosi fra la folla che aumentava d'ogni lato, sparve. Col permesso di Pilato, la gente entrò nel cortile a portar via i morti ed i feriti, ma il loro dolore per quella vista fu rallegrato assai dalla vittoria del campione sconosciuto, che fu cercato dappertutto, e da tutti esaltato. Lo spirito avvilito della nazione si sentì sollevare dal fatto valoroso, tanto che nelle strade e perfino nel Tempio, in mezzo alle solennità della cerimonia, si ripeterono le vecchie istorie dei Maccabei, e le persone più saggie scuotevano il capo, bisbigliando sommessamente: — «Un poco di pazienza, ancora un poco di pazienza, o fratelli, e la gloria d'Israele rifiorirà. Abbiamo fiducia in Dio.» — In tale modo, Ben Hur, stabilì la sua supremazia fra i Galilei, e si preparò la via fra di essi a più grandi servigi nella causa del Re. Con quale risultato, noi vedremo in seguito. FINE DEL LIBRO SESTO. LIBRO SETTIMO Desto che fui m'apparve una sirena avvolta in una nube ed anelante al mare: essa era adorna di monili d'erba intrecciata: perle di corallo le cingevano i morbidi capelli. THOMAS BAILEY ALDRICH. CAPITOLO I. L'incontro ebbe luogo nel Khan di Bethania com'era inteso. Poi Ben Hur accompagnò i Galilei nel loro paese, dove la sua impresa sulla vecchia Piazza del mercato gli guadagnò fama ed autorità. Prima che l'inverno fosse trascorso, aveva raccolte tre legioni, organizzandole secondo il modo Romano. Ne avrebbe potuto avere il doppio, poichè lo spirito marziale di quel popolo valoroso non s'era mai assopito. Tuttavia fu prudente consiglio limitarne il numero, dati i sospetti di Roma, non solo, ma la vicinanza di Erode che avrebbe veduto una minaccia in queste esercitazioni campali. Egli addestrò gli ufficiali nel maneggio delle armi, particolarmente della spada e della lancia, e nelle manovre proprie alla formazione delle legioni, dopo di che li mandava a casa ad ammaestrare alla lor volta i compagni. In breve questi esercizi divennero un passatempo per il popolo. Come si può immaginare, il compito richiedeva pazienza e abilità, zelo, fiducia e devozione, — da parte sua, e la massima fra le doti di un capo popolo — quella di infondere in altri i sentimenti che animano noi. Egli la possedeva in sommo grado e l'adoperava con grande efficacia. Come lavorava! E con quale profonda abnegazione e sacrificio di se stesso! Pure, con tutto ciò, non sarebbe riuscito se non avesse avuto l'appoggio di Simonide, il quale lo forniva di armi e di danaro, e quello d'Ilderim che vegliava su di lui nel deserto e gli portava viveri e provviste. E anche allora i suoi sforzi sarebbero stati vani se non lo avesse aiutato l'ingegno dei Galilei. Sotto questo nome eran comprese le quattro tribù Asher, Zebulon, Ittacar e Naftali, abitanti nei distretti originariamente a loro destinati. L'Ebreo, nato nelle vicinanze del Tempio disprezzava i suoi confratelli del nord; ma contro di lui stava la testimonianza del Talmud eterno: — «Il Galileo ama l'onore e l'Ebreo il denaro.» — Animati da un odio per Roma pari soltanto all'affetto che sentivano pel proprio paese, in ogni rivolta essi erano sempre i primi ad entrare in campo e gli ultimi a lasciarlo. Cento e cinquanta mila Galilei perirono nell'ultima guerra con Roma. In occasione delle grandi Feste essi si recavano a Gerusalemme, marciando con tende e cavalli, come un esercito. Tuttavia avevano sensi liberali e tolleravano fino il paganesimo. Provavano un giusto orgoglio per le bellissime città, Romane nella loro apparenza, che Erode aveva costruite specialmente nella Seforide e nella Tiberiade, alle quali avevano validamente contribuito col lavoro delle proprie braccia. Tenevano per concittadini i popoli di tutto il mondo, e vivevano in pace con loro. Alla gloria del nome Ebreo contribuirono poeti, come l'autore del Cantico dei Cantici, profeti come Hosea. Sopra un tale popolo, così svelto, così superbo, così valoroso, dotato di tanta devozione e d'una così fervida fantasia, il racconto della venuta del nuovo Re non potè non avere una straordinaria efficacia. Il fatto solo ch'egli veniva per abbattere Roma, sarebbe stato sufficiente perchè essi si schierassero con Ben Hur; ma quando, per sovrappiù, si disse loro ch'Egli doveva impugnare lo scettro del mondo, che sarebbe stato più potente di Cesare, più saggio di Salomone, e che il suo regno doveva durare eternamente, l'appello fu irresistibile, e li avvinse alla sua causa, corpo ed anima. Domandarono a Ben Hur dietro quale autorità egli parlasse ed egli citò i profeti, e raccontò loro di Balthasar che aspettava lassù in Antiochia. Essi gli credettero ciecamente, poichè era la vecchia e sempre amata leggenda del Messia, a loro comunicata dalle parole del Signore: era il sogno da tanto tempo accarezzato, a cui finalmente si fissava una data certa e sicura. Non si prevedeva più la sola venuta del Re: Egli era già arrivato. I mesi d'inverno trascorsero veloci per Ben Hur, e quando venne la primavera con le sue continue pioggie, egli aveva lavorato a tutt'uomo e potè dire con compiacenza: — «Amici, ora venga il buon Re. Non avrà che a dirci dove vuole che sorga il suo trono; noi abbiamo le spade per difenderlo.» — E tutte le persone che ebbero da fare con lui in questo tempo, lo conobbero solo come un figlio di Giuda, e come tale lo chiamarono. Una sera, nella Traconite, Ben Hur sedeva con alcuni dei suoi Galilei sulla soglia della caverna che gli serviva di dimora, allorchè un corriere Arabo si presentò a lui, e gli consegnò una lettera. Rompendo il plico, egli lesse: «Gerusalemme, Nisan IV È comparso un individuo che gli uomini chiamano Elia. Egli visse per anni nella solitudine, ed ai nostri occhi egli è un profeta; e tale lo rivelano le sue parole, il succo delle quali è che un personaggio assai più grande di lui, deve venire a giorni, e che egli attende ora sulla sponda orientale del Giordano. Io sono stato a vederlo ed a sentirlo; colui ch'egli aspetta, è certamente il Re; vieni per giudicare tu stesso. Tutta Gerusalemme corre dal profeta, e tanta è la gente che vuol vederlo, che la spiaggia ove egli dimora, è come il Monte degli Ulivi negli ultimi giorni di Pasqua Malluch.» Il viso di Ben Hur s'illuminò di gioia. — «Con questa notizia, o amici miei» — egli disse — «con questa notizia, la nostra attesa volge al suo fine. L'araldo del Re è comparso e l'ha preannunciato.» — La lettura della lettera destò una felicità generale fra i Galilei. — «Preparatevi ora» — egli aggiunse — «e domattina dirigetevi verso casa; quando sarete arrivati, mandate ad avvertire i vostri subalterni e teneteli pronti a riunirsi a un mio comando. Per me e per voi andrò a vedere se il Re è realmente arrivato, e ve lo farò sapere. Frattanto viviamo nella gioia della promessa.» — Entrato nella caverna, egli scrisse una lettera ad Ilderim, ed un'altra a Simonide, comunicando loro le notizie ricevute, e parlando del suo intento di recarsi immediatamente a Gerusalemme. Le lettere furono spedite per mezzo di rapidi messaggieri. Quando cadde la notte e spuntarono le stelle, egli montò a cavallo, e con una guida Araba si diresse verso il Giordano, intendendo di raggiungere la via delle carovane, tra Rabbath-Ammon e Damasco. La guida era fidata e Aldebran veloce; cosicchè verso la mezzanotte i due uscirono dalla valle, che per tanti mesi era stata la loro dimora. CAPITOLO II. Lo scopo di Ben Hur era quello di fermarsi allo spuntar del giorno in un luogo sicuro, non lontano dalla via; ma avendolo l'alba sorpreso mentre ancora si trovava nel deserto, egli proseguì fidandosi delle parole della guida che gli prometteva di condurlo in breve ad una valle chiusa da grandi rupi, ove una fonte, alcuni gelsi ed un po' d'erba, offrivano foraggio e ristoro per gli uomini e pei cavalli. Mentre Ben Hur proseguiva avvolto nei pensieri dei grandi eventi che dovevan succedere e dei cambiamenti che avrebbero portato nei destini delle nazioni, la guida, sempre all'erta, richiamò la sua attenzione sopra un punto mobile all'orizzonte, alle loro spalle. Tutto all'ingiro il deserto si stendeva con monotone onde di sabbia gialla e lucida sotto i cocenti raggi del sole, senza una palma o un filo d'erba. Solo a sinistra, ma ancora molto lontano, appariva una catena di basse montagne. In quello spazio così vasto, qualunque oggetto non poteva a lungo celarsi. — «È un cammello» — disse subito la guida. — «È seguito da altri?» — chiese Ben Hur. — «È solo. No, v'è un uomo a cavallo — la guida, probabilmente.» — Poco dopo, Ben Hur stesso potè discernere che il cammello era bianco e d'una grandezza quasi fenomenale, che gli rammentava il meraviglioso animale veduto la prima volta presso alla fonte nella Grotta di Dafne, condotto da Balthasar ed Iras. Non ve n'erano due uguali. Pensando all'Egiziano, rallentò sensibilmente il passo, indugiando finchè potè chiaramente distinguere due persone sedute sotto il baldacchino del cammello. Se fossero Balthasar ed Iras! Dovrebbe egli farsi conoscere? Essi avrebbero attraversato soli il deserto. Ma mentre egli era incerto sul da farsi, il cammello col suo passo lungo e dondolante, lo raggiunse. Egli udì il tintinnio dei sonagli ed ammirò la ricca gualdrappa che aveva tanto colpito la folla alla sorgente di Castalia. Riconobbe pure l'Etiope, che accompagnava sempre l'Egiziano. Il gigantesco cammello si fermò vicino al suo cavallo, e Ben Hur alzò il capo e vide Iras! Iras in persona, che sollevando la tenda lo guardava, coi suoi occhi pieni di sorpresa e di gioia. — «Le benedizioni del vero Dio cadano su te!» — disse Balthasar con voce tremula. — «La pace del Signore sia con te e co' tuoi!» — rispose Ben Hur. — «I miei occhi sono velati per gli anni» — continuò Balthasar — «ma credo di riconoscere in te il figlio di Hur, che conobbi ultimamente, ospite nella tenda di Ilderim, il generoso.» — — «E tu sei Balthasar, il saggio Egiziano. Le tue parole a proposito di certi santi avvenimenti futuri non sono estranee a questo nostro incontro nel deserto. Che cosa cerchi in queste lande desolate?» — — «Chi è accompagnato da Dio non è mai solo — e Dio è dappertutto» — rispose Balthasar con gravità. — «A non molta distanza da noi, segue una carovana in viaggio per Alessandria, e siccome deve passare per Gerusalemme, io avevo pensato di approfittare della sua compagnia fino alla Città Santa, alla quale sono diretto. Tuttavia stamane, impaziente del suo procedere lento a causa specialmente della scorta a cavallo, formata da una coorte Romana, ci alzammo per tempo e ci mettemmo in cammino. Contro i predoni del deserto ci protegge un sigillo dello Sceicco Ilderim, e contro gli animali feroci, la protezione di Dio.» — Ben Hur chinò la testa e disse: — «Il sigillo del buon sceicco è una salvaguardia ovunque si estenda il deserto; e rapido dev'essere il leone, che voglia raggiungere questo re della sua specie.» — Così dicendo egli accarezzava il collo del cammello. — «Eppure» — disse Iras con un sorriso che non sfuggì al giovane, gli occhi del quale, bisogna confessarlo, s'erano spesso, durante il colloquio col vecchio, rivolti a lei. — «Eppure, anch'egli starebbe meglio se rompesse il suo digiuno. I Re soffrono la fame e i mal di testa. Se tu sei proprio il Ben Hur, di cui mio padre mi parlò, e ch'io ebbi il piacere di conoscere, tu sarai felice, ne sono certo, di mostrarci la via più corta alla prossima sorgente, perchè noi possiamo benedire coll'acqua il nostro pasto mattutino nel Deserto.» — Ben Hur si affrettò a rispondere. — «O bell'Egiziana, la mia pietà ti segue. Se puoi resistere ancora un poco, noi troveremo la sorgente che tu cerchi, e ti prometto che le sue acque saranno così dolci e rinfrescanti come quelle della famosa Castalia. Se permetti, affrettiamo il passo.» — — «Ti do la benedizione dell'assetato» — ella rispose; — «e ti offro in cambio un pezzo di pane proveniente dal forno della città, spalmato con del burro fresco degli opulenti prati di Damasco.» — — «Un boccone raro! Proseguiamo.» — Ben Hur si mise alla testa della comitiva con la sua guida, poichè il celere passo del cammello impediva ogni conversazione prolungata. Dopo un po' la compagnia giunse ad una gora che rimontò tenendo la sponda destra. Il letto era molle per recenti pioggie ed abbastanza ripido. Di quando in quando si allargava; le rive si facevano rocciose e l'acqua scorreva rumorosa fra larghi macigni, o precipitava fra nubi di spuma in piccole cataratte. Finalmente, attraverso uno stretto passaggio, i viaggiatori penetrarono in una deliziosa valletta, che ai loro occhi abituati alla sterile e gialla distesa del deserto, appariva un Paradiso terrestre. Qui l'acqua del torrente si diramava in tanti canaletti, serpeggianti ed intrecciantisi fra isole di verdura e gruppi di canne. Alcuni leandri provenienti dalle profondi valli del Giordano, rallegravano coi lora fiori la piccola valle, sulla quale sembrava vegliare in regale attitudine un'unica palma altissima. Le pareti della valle erano coperte di viti. A sinistra, sorgeva una rupe sporgente sopra un boschetto di gelsi, i quali rivelavano, con la loro verzura, la presenza della fonte cercata dai viaggiatori. A questa li condusse la guida, noncurante dei cinguettii delle pernici e d'altri uccelli dai colori smaglianti, che svolazzavano spaventati dai loro nascondigli. L'acqua scaturiva da un'apertura scavata nella rupe, che una mano esperta aveva allargato in forma di arco. Scolpita su questa, in grandi lettere Ebraiche, v'era la parola: _Dio_. L'incisore doveva senza dubbio essersi lì fermato per vari giorni, e, come segno di gratitudine per l'acqua bevuta, vi aveva impresso il nome del Signore. Dall'arco il ruscello scorreva veloce sopra un grande macigno ricoperto di muschio verdissimo e si gettava quindi in uno stagno trasparente come vetro, per poi fuggire fra verdi sponde e gruppi d'alberi, e scomparire nella sabbia asciutta. Solo pochi e stretti sentieri si distinguevano sull'orlo dello stagno, e tutto il terreno all'intorno non rivelava presenza di uomini. I cavalli, pel momento, furono lasciati liberi, e l'Etiope aiutò Balthasar ed Iras a discendere; dopo di che il vecchio, voltando il suo viso verso levante, incrociò riverentemente le mani sul petto e pregò. — «Portami una tazza» — disse Iras, con impazienza dal baldacchino. Lo schiavo estrasse un bicchiere di cristallo e glielo porse; essa disse poi a Ben Hur: — «Io sarò il tuo coppiere alla fontana.» — Entrambi si avviarono allo stagno. Egli avrebbe voluto attingere l'acqua per lei, ma essa rifiutò la sua offerta, immerse la tazza, e ve la tenne sin quando fu fresca e ricolma d'acqua; quindi gli offrì il primo sorso. — «No» — egli disse, respingendo la mano graziosa, e non vedendo altro che i grand'occhi mezzo nascosti dalle inarcate ciglia — «ti prego, questo è mio dovere!» — Essa insistette. — «Nel mio paese, o figlio di Hur, v'è un proverbio che dice: — «Meglio essere coppiere d'un uomo fortunato, che essere ministro di un Re.» — — «Fortunato?» — chiese egli. La voce, gli occhi svelavano la sua sorpresa, ed essa rispose prontamente: — «Gli Dei ci si rivelano amici dandoci a testimonio un segno del loro potere. Non fosti tu vincitore al Circo?» — Egli sentì le guancie imporporarsi. — «Questo è un segno; ce n'è un'altro. Tu hai battuto un Romano in un combattimento alla spada.» — Egli si fece rosso fino alla radice dei capelli, non tanto per il trionfo in sè, quanto per l'orgoglio ch'egli provava nel pensare ch'essa aveva seguito con tanto interessamento le varie vicende della sua vita. Ma subito, alla gioia, tenne dietro una riflessione. Egli sapeva che la fama di quel combattimento si era sparsa in tutto l'oriente, ma il nome del vincitore era conosciuto solo da pochi. Ne aveva fatto parte solo a Malluch, Ilderim e Simonide. Potevano essi aver confidato il segreto ad una donna? La meraviglia ed il piacere lottavano in lui, ed osservando il suo smarrimento, essa si alzò e disse tenendo la coppa sopra lo stagno. — «O Dei d'Egitto! Io vi ringrazio per aver scoperto un eroe, vi ringrazio che la vittima del palazzo di Idernee non sia stata il mio Re degli uomini. Io libo e bevo.» — Parte del contenuto della coppa ritornò nello stagno, ed essa bevve il resto. Levandosi il cristallo dalle labbra, essa esclamò ridendo. — «O figlio di Hur, è dunque vero che gli uomini più coraggiosi si lasciano tutti abbindolare così facilmente da una donna? Prendi la tazza ora e vediamo se puoi trovarvi ispirazione ad una parola gentile per me.» — Egli prese la tazza e si chinò per riempirla. — «Un figlio d'Israele non ha Dei a cui libare» — disse, giuocherellando con l'acqua per nascondere il suo crescente imbarazzo. Che cosa altro sapeva l'Egiziana sul conto suo? L'avevano informata delle relazioni che correvano fra lui e Simonide, e intorno al trattato con Ilderim? Era essa a giorno anche di questo? Gli venne un subito sospetto; qualcheduno aveva tradito questi segreti così gravi. Egli era inoltre diretto a Gerusalemme, dove più che in ogni altra città la rivelazione dei suoi disegni al nemico sarebbe stata dannosa per lui, per i suoi alleati e per la sua causa. Ma era poi essa un nemico? Quando la tazza fu rinfrescata, la riempì, si alzò ed affettando un'indifferenza che non provava, disse: — «O bellissima, fossi Egiziano, o Greco, o Romano direi:» — così parlando, alzò la coppa al disopra della testa: «O Dei, io vi ringrazio perchè al mondo, a dispetto di tutti i suoi torti e di tutte le sue sofferenze, son rimasti ancora l'incanto della bellezza e il sollievo dell'amore, e bevo alla salute di colei che meglio li rappresenta, a Iras, la più bella delle figlie del Nilo!» — Essa appoggiò lievemente la mano sopra la sua spalla. — «Tu hai trasgredito la legge. Gli Dei ai quali tu hai bevuto sono falsi Dei. Se io ti denunciassi ai Rabbini?» — — «Oh!» — egli disse ridendo. — «Sarebbe poca cosa per una persona che sa tanti e tanti segreti di Stato!» — — «E non basta. — Anderò dalla piccola Ebrea che coltiva le rose sul terrazzo del grande negoziante in Antiochia. Ti accuserò d'impenitenza ai Rabbini, dinanzi a lei....» — — «Dinanzi a lei?» — — «Ripeterò ciò che mi hai detto sollevando la coppa, e prendendo gli Dei a testimoni.» — Egli rimase zitto come se aspettasse che l'Egiziana proseguisse. La sua fantasia gli dipinse Ester al fianco di suo padre tutta intenta ad ascoltare i dispacci ch'egli mandava, e, qualche volta, leggendoli essa medesima. Alla sua presenza, egli aveva raccontato a Simonide la storia del Palazzo di Idernee. Essa ed Iras si conoscevano; questa era astuta e mondana, quella semplice ed affettuosa, tale da esser facilmente indotta a chiacchierare. Simonide non poteva aver mancato alla promessa e Ilderim neppure giacchè a nessuno, più che ad essi, le conseguenze di una tale rivelazione potevano tornare fatali. Poteva Ester aver informato l'Egiziana? Egli non l'accusava, ma un dubbio lo invase, riempiendolo di sfiducia e di sospetto. Prima ch'egli avesse potuto rispondere all'allusione della piccola Ebrea, Balthasar giunse allo stagno. — «Noi vi siamo debitori di molto, figlio di Hur,» — disse egli con aria grave. — «Questa valle è molto bella e i suoi prati, gli alberi e l'ombra, c'invitano a fermarci e riposare; qui la primavera risplende come un diamante, e mi parla d'un Dio d'amore. Non sono sufficienti le parole per ringraziarti di ciò che ci hai dato da godere; bevi con noi ed assaggia il nostro pane.» — — «Lasciate prima ch'io vi serva.» — Così dicendo Ben Hur riempi la coppa e la porse a Balthasar che alzò gli occhi in segno di muta preghiera. Intanto lo schiavo portò i tovagliuoli, ed i tre, dopo di essersi lavate ed asciugate le mani, si sedettero secondo l'uso orientale, sotto la medesima tenda, che, molti anni prima, aveva servito per l'incontro dei tre Saggi nel deserto. CAPITOLO III. La tenda era comodamente spiegata sotto un albero, in vicinanza al ruscello; sopra di essa, le larghe foglie pendevano immobili dai loro rami; più in là sorgevano i delicati steli delle canne ritti come freccie. Di tanto in tanto, attraverso al vapore perlaceo, un'ape ritornando col suo profumato bottino, passava ronzando e spariva, ed una pernice, sbucando dalle siepi beveva, chiamava la sua compagna e volava via. La quiete della valle, la freschezza dell'aria, la bellezza del luogo, il silenzio quasi domenicale, sembrava avessero intenerito l'animo dell'Egiziano; la sua voce, i suoi gesti, ed i suoi modi, erano più dell'usato, gentili, e spesso, mentre guardava Ben Hur conversando con Iras, ebbe negli occhi un'espressione di infinita pietà. — «Quando ti raggiungemmo, o figlio di Hur,» — egli disse alla fine del pasto, — «sembrava che tu pure fossi diretto a Gerusalemme. Posso domandarti, senza offenderti, se ti rechi fin là?» — — «Io vado alla Città Santa.» — — «Per il grande bisogno che ho di risparmiare una fatica, ti domanderò ancora, se v'è una via più breve di quella di Rabbath-Ammon?» — — «Una via scabrosa, ma più corta, conduce da Gerasa a Rabbath Gileat. È quella che ho deciso di prender io.» — — «Sono impaziente,» — disse Balthasar. — «Recentemente il mio sonno fu disturbato da sogni — o piuttosto dallo stesso sogno che si ripeteva. Una voce veniva a dirmi: — «Presto, alzati! Colui che tu hai tanto aspettato, è arrivato.» — — «Intendete colui che dev'essere Re degli Ebrei?» — domandò Ben Hur, fissando l'Egiziano con meraviglia. — «Sì.» — — «Allora non avete sentito parlare di lui?» — — «Nulla, tranne le parole della voce del sogno.» — — «Io ho notizie che vi rallegreranno, come rallegrarono me.» — Dalla sua sopravveste, Ben Hur estrasse la lettera ricevuta da Malluch. La mano che l'Egiziano stese tremò. Egli lesse ad alta voce, con crescente emozione; le vene del collo gli si gonfiarono e pulsarono con violenza. Alla fine egli alzò gli occhi in atto di ringraziamento e di preghiera. Non fece alcuna domanda, perchè non aveva dubbî. — «Tu sei stato molto buono verso di me, o Dio,» — egli disse. — «Sì, sì, ti prego, che io possa rivedere il Salvatore, ed adorarlo, ed il tuo servo sarà pronto ad andarsene in pace.» — Le parole, il modo, la stranezza della semplice preghiera, fecero su Ben Hur un'impressione nuova e duratura. Iddio non gli era mai apparso così vero e così vicino; sembrava fosse lì curvato, su loro, o seduto al loro fianco — un amico, da pregarsi alla buona, — un Padre che amava tutti ugualmente i suoi figli — Padre degli Ebrei come dei Pagani — Padre universale, che non aveva bisogno di intermediarî, nè di Rabbini, nè di sacerdoti, nè di dottori. L'idea che tale Dio potesse mandare all'umanità un Salvatore invece di un Re apparve a Ben Hur con una luce non soltanto nuova, ma così vivida, ch'egli potè quasi afferrare la maggior importanza di questo dono, e insieme la più grande coerenza di esso con la natura della Divinità. Non potè a meno di domandare: — «Adesso che egli è venuto, o Balthasar, credi ancora ch'egli debba essere un Salvatore e non un Re?» — Balthasar gli lanciò uno sguardo pensoso e tenero. — «Come dovrò rispondere?» — egli disse. — «Lo Spirito che in forma di stella fu da tanto tempo la mia guida, non mi apparve più dacchè t'incontrai nella tenda del buon sceicco; credo però che la voce che mi parlò in sogno sia la medesima; ma eccettuata quella non ho altre rivelazioni.» — — «Io ti richiamerò i termini della nostra disputa» — disse Ben Hur con rispetto, — «tu eri dell'opinione ch'egli sarebbe un Re, ma non come lo è Cesare; e che la sua sovranità sarebbe spirituale, non del mondo.» — — «Oh, sì,» — rispose l'Egiziano, — «e sono ancora della stessa opinione. Vedo la divergenza nella nostra fede. Tu credevi incontrare un Re degli uomini, io un Salvatore di anime.» — Egli si fermò con l'espressione di chi tenta di raccogliere un pensiero troppo alto e troppo profondo per essere formulato a parole. — «Lascia ch'io cerchi, o figlio di Hur,» — egli disse quindi, — «di aiutarti a comprendere chiaramente ciò che credo; e se mi riescirà di dimostrare la superiorità del regno spirituale sopra qualunque manifestazione dello splendore Cesareo, tu comprenderai meglio la ragione per cui m'interesso della persona misteriosa di cui andiamo in traccia. Non posso dirvi quando l'idea dell'anima ebbe origine. È probabile che i nostri primi padri l'abbiano portata con loro dal paradiso dove dimorarono. Sappiamo però che questa idea non si è mai perduta interamente. Se in alcune epoche essa si offuscò e svanì, se in altre fu circondata di dubbî, Iddio continuò a mandarci, ad intervalli degli intelletti superiori che ci richiamavano alla fede e confermavano le nostre speranze. Perchè dovrebbe esservi un'anima in ogni uomo? O figlio di Hur, considera per un momento come è necessaria e indispensabile tale credenza: Coricarsi, morire, e non essere più! A una tale fine l'uomo si è sempre ribellato; e non vi fu mai uomo che nell'intimo del suo cuore non abbia aspirato a qualcosa di più alto e di migliore. I grandi monumenti dell'Egitto e dell'Asia sono le grida di impotenza dei popoli contro l'oblìo della morte, e lo stesso si dica delle iscrizioni e delle statue; e così pure della storia. Il più grande dei nostri Re Egiziani fece scolpire la sua effigie in una collina di solida roccia. Ogni giorno egli si recava con un esercito di cocchi per esaminare il progresso del lavoro; finalmente fu terminato; mai vi fu effigie più bella, più fedele, più duratura. Non possiamo noi immaginarlo in quel momento dire, pieno d'orgoglio! «Venga ora la Morte; io non morrò interamente?» Il suo desiderio è stato appagato. La statua dura tuttora. Ma è in questo modo che ci assicuriamo la vita futura? Vivere nella memoria degli uomini — una memoria vana come il chiaro di luna, che illumina la fronte della statua, — una storia in pietra — nulla di più! Nel frattempo che n'è divenuto del Re? Lassù nelle tombe reali giace un corpo imbalsamato che una volta era il suo, un'effigie non così bella come quella fuori nel deserto. Ma dov'è, o figlio di Hur, dov'è il Re medesimo? È forse caduto nel nulla? Duemila anni sono trascorsi dal giorno in cui egli era un uomo vivente, come tu ed io. L'ultimo suo respiro segnò la sua fine? L'affermarlo sarebbe bestemmiare Iddio. Accettiamo piuttosto la dottrina che ci promette la vera vita dopo morti — non un ricordo marmoreo, ma la vita con movimenti, sensazioni, intelligenza, vita eterna nella durata, sebbene possa essere varia nelle sue forme e nelle sue esplicazioni. Tu domandi qual'è questa dottrina? Iddio ci dona un anima alla nascita con questa semplice legge: — l'Immortalità si consegue solo pel tramite dell'anima. Puoi tu pienamente comprendere il piacere che uno prova pensando ch'egli possiede un'anima? Quest'idea spoglia la morte dai suoi terrori, riducendola a un cambiamento in meglio. — Il corpo seppellito è come il seme del quale sorgerà una nuova vita. Guarda in quale stato mi trovo io — debole, esausto, vecchio, avvizzito e accasciato; guarda il mio volto raggrinzito, pensa alla deficienza dei miei sensi, ascolta la mia voce stridula. Ah, quale gioia è per me la promessa che mi accerta che quando la tomba si aprirà per raccogliere questa mia povera spoglia logora e consumata, le porte, ora invisibili, dell'universo, che altro non è che il palazzo di Dio, si spalancheranno per ricevere me, anima immortale e libera? Io vorrei poter descrivere l'estasi di quella vita futura, ma la parola non basterebbe a dartene una adeguata idea. Ed ora, figlio di Hur, sapendo tutto ciò, dovrò io affannarmi intorno a vani dettagli? Quale sarà la sede? quale la forma dell'anima mia; se mangerà e berrà? Se ha le ali? No. Fidiamoci piuttosto in Dio, e pensiamo che Egli, l'architetto di questo bellissimo mondo materiale, il maestro della forma e del colore, non potrà dimostrarsi dammeno in ciò che riguarda il nostro soggiorno spirituale. Il suo affetto me ne sta garante.» — Il buon uomo tacque, e la mano che condusse la coppa alle labbra tremò. Tanto Iras che Ben Hur si sentivano commossi, e quest'ultimo sembrava vedere come una luce nuova e viva che rischiarasse le tenebre della sua mente; scorgeva la possibilità di un regno immateriale, maggiore e più importante di un impero terreno; e pensò che dopo tutto il Salvatore che regalasse agli uomini un tal regno era più divino che non qualunque Re. — «È una cosa dolorosa» — riprese Balthasar — «se tu ben consideri che l'idea della vita spirituale è una luce quasi spenta nel mondo. Qua e là, in vero, troverai qualche filosofo che ti parlerà di un'anima, intessendovi sopra le sue dottrine; ma siccome i filosofi non si basano sulla fede, e non credono che l'anima sia un fatto, lo scopo di essa è per loro avvolto nell'oscurità. Ogni creatura animata ha una mente, la quale si può misurare dai suoi bisogni. E non vedi tu un profondo significato nel fatto che solo all'uomo fu data la facoltà di speculare sopra il suo futuro? A questo segno io riconosco che Dio intese di farci comprendere che noi siamo creati per un'altra vita migliore, essendo questo il più grande bisogno della nostra natura. Ma ahimè! come è stato mal compreso questo supremo bisogno del nostro Io! Gli uomini non vedono che la vita terrena, e principi e sacerdoti nulla fanno per illuminarli o dirigerli ad una meta più alta. Pensa ora a quanto ci attende: per conto mio, parlando con tutta la sincerità della fede, io non darei un'ora della mia vita spirituale per mille anni di vita come uomo.» — L'Egiziano sembrò dimenticarsi dei compagni, e continuò come parlando a se stesso. — «Questa vita ha i suoi problemi, e vi sono uomini che passano tutti i loro giorni nello studiarli; ma che cosa dire dei problemi della vita futura? Un solo sguardo a Dio, e tutti i misteri che tanto ci affannano in terra splenderebbero chiari innanzi ai nostri occhi. Tutto l'universo sarebbe spalancato davanti a me. Io sarei colmo della sapienza divina, vedrei tutte le glorie, assaggerei ogni diletto. Al cospetto di tutto questo, le maggiori ambizioni di questa vita, tutte le sue gioie e le sue passioni, non sarebbero che il tinnire di vuoti sonagli.» — Balthasar si arrestò, come per riaversi dallo stato di estasi in cui era caduto, e volgendosi al giovine, con un grave inchino: — «Io ti chiedo scusa» — egli disse — «o figlio di Hur, se la visione delle gioie future mi ha fatto deviare troppo dall'argomento. Ma, se tu pensi alla perfezione della vita che ci attende dopo morte, e come le passioni e l'ignoranza umana hanno offuscato la nostra intima percezione di essa, comprenderai quanto sia necessaria la presenza di un Salvatore, infinitamente più necessaria che non l'avvento di un Re; e quando andrai incontro all'Uomo che attendi, dovrai sperare che tale Egli si riveli veramente, piuttosto che un guerriero armato di spada o scettrato monarca. Una domanda pratica ci si presenta: — A quali indizi lo riconosceremo? — Se tu continui nella tua credenza — che egli dovrà essere un Re come Erode — dovrai naturalmente cercare un uomo vestito di porpora e d'oro. D'altra parte Colui che io attendo sarà povero, umile, non diverso in apparenza dagli altri uomini; e il segno da cui lo riconoscerò sarà molto semplice: Egli dovrà mostrare a me ed a tutta l'umanità la via alla vita eterna; la pura, bellissima vita dell'anima.» — Il silenzio che seguì queste parole fu rotto di nuovo da Balthasar: — «Alziamoci ora» — egli disse — «alziamoci e riprendiamo il cammino. Ciò che dissi ha acuito l'impazienza di vedere Colui ch'è sempre nella mia mente; sia questa la scusa della mia fretta presso di te, figlio di Hur, e presso di te, figlia mia.» — Al suo segnale lo schiavo portò del vino in un'otre, ed essi versarono e bevvero, e dopo aver scosso i tovagliuoli, si alzarono. Mentre lo schiavo ripose tutto nella cassa sotto al baldacchino, e l'arabo portò i cavalli, i tre padroni si lavarono le mani nello stagno. In poco tempo essi ripassarono il canale, con l'intenzione di raggiunger la carovana che li aveva preceduti. CAPITOLO IV. La carovana, allungantesi nel deserto, presentava un aspetto molto pittoresco; il suo muoversi sembrava lo svolgersi delle spire di un serpente. A poco a poco quella tediosa lentezza divenne intollerabile a Balthasar, ch'era di solito così paziente, e, dietro suo suggerimento, la compagnia si decise di proseguire da sola. Se il lettore è giovane, o se ancora serba un ricordo del romanticismo della sua gioventù, s'immaginerà il piacere col quale Ben Hur, cavalcando vicino al cammello degli Egiziani, diede un ultimo sguardo alla lunga colonna oramai quasi scomparsa nella pianura scintillante. La presenza di Iras esercitava un grande fascino sopra il giovane Ebreo. S'ella lo guardava dall'alto, dal suo posto, egli si affrettava ad avvicinarsi a lei; s'ella gli parlava, il suo cuore palpitava violentemente. Il desiderio di compiacerla sempre divenne un impulso costante. Gli oggetti sulla via, sebbene comuni, divenivano interessanti allorchè ella vi rivolgeva la sua attenzione; una rondine librantesi nell'aria, se essa la segnava a dito, sembrava sparire in una aureola luminosa; se un pezzo di quarzo, un fiocco di mica, luccicavano nella sabbia sotto i raggi del sole, in un lampo egli volava a portarglieli e s'ella li gettava via in segno di delusione, lontana dal pensare alla fatica che gli erano costati, spiacente che fossero stati di nessun valore, egli si metteva in cerca di qualche cosa di meglio — un rubino, o forse un diamante. Così il colore purpureo dei monti lontani diveniva più intenso e più bello, s'ella lo scorgeva e vi dedicava una esclamazione di lode. E quando ogni tanto la tenda dal baldacchino si abbassava, gli sembrava che una improvvisa oscurità scendesse dal cielo. Così disposto, cullato da quella dolce influenza, come avrebbe potuto resistere a lungo alla malìa della bella Egiziana, cui la solitudine del deserto accresceva la potenza pure aumentando il pericolo? In amore, il più debole fisicamente è spesso il più forte. L'eroe diventa come la cera, nelle mani di una fanciulla. Iras era pienamente conscia del potere che esercitava sull'animo di Ben Hur. Fin dal mattino aveva estratto una reticella di monete d'oro da un ripostiglio nel baldacchino e se l'era accomodata in modo che le frange lucenti cadessero sulla fronte e sopra le guancie, confondendosi con l'ammasso dei suoi capelli neri. Dal medesimo ripostiglio aveva preso alcuni monili — anelli, orecchini, un vezzo di perle ed uno scialle ricamato con fili d'oro — completando l'effetto del tutto con una sciarpa di trina Indiana, artisticamente drappeggiata sopra le spalle. In questo abbigliamento essa attirava Ben Hur con innumerevoli civetterie, con mille lenocinî nel discorrere e nei modi; tempestandolo di sorrisi — ridendo con un tremolìo rassomigliante a quello del flauto — per tutto il tempo seguendolo con sguardi, ora tenerissimi, ora splendenti di luce. Con tali furberie Cleopatra privò Antonio della sua gloria; eppure colei che lo trascinò alla rovina, non fu più bella di questa sua compatriota. Rapidamente giunse per essi il mezzogiorno, e, quasi senza che se ne avvedessero, cadde la sera. Quando il sole tramontò dietro allo sperone del vecchio Bashan, la compagnia si fermò presso uno stagno d'acqua limpida che la pioggia aveva accumulato in un punto del deserto. Là fu piantata la tenda, allestita la cena e furono fatti i preparativi per la notte. La seconda veglia spettava a Ben Hur; ed egli stava ritto dinanzi alla tenda con la lancia in mano, alla distanza di un braccio dal sonnolento cammello, fissando ora le stelle sopra il suo capo, ora la distesa del deserto che l'oscurità della notte fasciava. Il silenzio era intenso; solo di tanto in tanto un alito caldo passava nell'aria, ma senza disturbarlo, assorto com'era nei pensieri dell'Egiziana, della quale enumerava i fascini, cercando di indovinare discutendo, talora il modo in cui ella era venuta a giorno dei suoi segreti, e talora l'uso che ne avrebbe fatto. E durante tutto il tempo della veglia lo spirito d'Iras era vicino a lui e gli sussurrava dolci tentazioni all'orecchio. Proprio nel momento in cui egli stava per cedere alla lusinga, una mano bianca, e scintillante nell'oscurità crepuscolare, si appoggiò leggermente sulla sua spalla. Egli trasalì al contatto e si voltò. Era Iras. — «Ti credevo addormentata» — egli disse dopo un momento. — «Il sonno è per la gente vecchia e pei bambini. Io venni fuori per vedere le mie amiche, le stelle nel sud — quelle che ora splendono sul Nilo. Ti confessi sorpreso?» — Egli prese la mano ch'era caduta dalla spalla e disse: — «Ebbene, sì, ma lo sono stato da un nemico?» — — «Oh no! L'essere nemici significa odiare, e l'odio è una malattia che Iside tiene lontana da me. Ella mi baciò sul cuore, devi sapere, quand'ero bambina.» — — «Il tuo discorso assomiglia poco a quello di tuo padre. Non sei tu della stessa sua fede?» — — «Forse lo sarei stata» — essa disse piano, — «forse lo sarei stata se avessi veduto ciò che vide lui. Potrò esserlo quando avrò la sua età. Non dovrebbe esistere altra religione per la gioventù, tranne la poesia e la filosofia; e nessuna poesia eccettuata quella inspirata dal vino, e dall'amore, e nessuna filosofia che non insegni a giustificare le passeggiere follìe di una stagione. Il Dio di mio padre è troppo terribile per me. Non lo trovai nella grotta di Dafne e non credo che esista negli atri di Roma. Ma io ho un desiderio, figlio di Hur.» — — «Un desiderio! Dov'è colui che potrebbe rifiutarlo?» — — «Ti metterò alla prova.» — — «Parla allora.» — — «È molto semplice. Desidero di aiutarti.» — Mentre parlava gli si fece più vicina. Egli rise, e rispose dolcemente: — «O Egitto! — stavo per dire cara Egitto! — non è essa la sfinge nativa del tuo paese?» — — «Ebbene?» — — «Tu sei uno dei suoi enigmi. Abbi compassione, e dammi la chiave che mi faccia comprenderti. In che ho io bisogno d'aiuto? E come puoi tu aiutarmi?» — Ella ritirò la sua mano, e, voltandosi verso il cammello, gli parlò amorosamente, ed accarezzò la sua testa mostruosa, come se fosse d'una rara bellezza. — «O tu, ultimo e più rapido e più grande degli animali di Giobbe! Qualche volta tu pure, inciampi, perchè la via è scabrosa ed il fardello è grave. Ma com'è che tu conosci con una parola la gentile intenzione di chi ti guida, e sempre rispondi con gratitudine, benchè l'aiuto venga offerto da una donna? Ti voglio baciare!» — ella si abbassò e toccò l'ampia fronte lanosa con le sue labbra, aggiungendo — «poichè nella tua mente non alligna ombra di sospetto!» — Ben Hur, reprimendosi, disse tranquillamente: — «Il tuo rimprovero non mancò di colpire nel segno, o Egitto. Ma quand'anche avessi detto di no, non potrebbe darsi ch'io fossi costretto da un giuramento o che dal mio silenzio dipendessero le vite e le sorti di altri?» — — «Potrebbe darsi?» — ella disse freddamente. — «Lo è!» — Egli indietreggiò di un passo, e domandò, pieno di stupore. — «Che cosa ne sai tu?» — Ella rispose ridendo: — «Perchè gli uomini negano che i sensi delle donne sono più acuti dei loro? Io ebbi il tuo viso sotto ai miei occhi tutta la giornata. Non avevo che a guardarlo per leggere il peso che vi gravava sulla mente, e per trovare il peso, cosa dovevo io fare, se non rammentarmi le discussioni tue con mio padre? Figlio di Hur!» — ella abbassò la voce con singolare destrezza, ed avvicinandosi a lui in modo che il suo alito caldo gli sfiorasse la guancia, disse: — «Figlio di Hur, colui del quale tu vai in cerca, dev'essere Re degli Ebrei, non è vero?» — Il cuore gli palpitò violentemente. — «Un Re degli Ebrei come Erode, solamente più grande,» — ella continuò. Egli vagò con lo sguardo lontano nella notte, fra le stelle; poi i suoi occhi incontrarono quelli di lei e si fermarono. L'alito profumato gli riscaldava il viso. — «Fin dal mattino,» — ella continuò — «noi abbiamo avuto delle visioni. Adesso se io ti racconto le mie, farai tu altrettanto? Che? ancora taci?» — Ella respinse la mano di lui, e fece per andarsene; ma egli l'afferrò e disse con veemenza: — «Resta! Resta e parla!» — Ella tornò indietro e gli si appoggiò colla mano sulla spalla; egli le cinse la vita e se la trasse vicina, molto vicina, avendo nelle sue carezze la promessa ch'ella domandava. — «Parla e raccontami le tue visioni, o Egitto! Nè il Tisbita nè il Legislatore avrebbero potuto rifiutare una tua domanda. Abbi compassione: sii pietosa, ti prego.» — La supplica sembrò passar inosservata, poichè, guardando verso di lui, e cercando un rifugio nelle sue braccia, ella disse lentamente: — «La visione che ebbi fu quella d'una splendida guerra combattuta per terra e per mare — con clamore di armi e cozzo di eserciti, come se Cesare e Pompeo fossero tornati in terra, e con loro Ottavio ed Antonio. Una nube di polvere e di cenere si alzò e coperse il mondo e Roma non si vide più; tutta la potenza ritornò all'Oriente; dalla nube uscì un'altra razza di eroi, che si divise la terra in satrapie più ricche di quelle di Dario e di Serse. E mentre la visione svaniva, figlio di Hur, e dopo che se ne fu andata, io continuai a chiedermi: — «E cosa non dovrà avere quegli il quale servì il Re per il primo, e meglio tutti?» — Ben Hur trasalì nuovamente. La domanda era quella stessa che l'aveva tormentato tutto il giorno. Finalmente s'immaginava di aver trovata la guida che gli mancava. — «Oh! Oh!» — egli disse — «io ti capisco ora. Per ottenere le satrapie e le corone tu mi vuoi prestare aiuto. Vedo! Vedo! E non vi fu mai una regina come saresti tu, così sagace, così bella, così regale, mai! Ma, ahimè, cara Egitto! La visione di cui parli promette solo i premi da conquistarsi con le armi, e tu non sei che una donna, benchè Iside t'abbia baciata sul cuore. Le corone son doni celesti e non scendono sul capo di una donna, a meno che tu non conosca una via più sicura di quella della spada. S'è così, o Egitto, mostramela e io la percorrerò, se non altro per amor tuo.» — Essa si svincolò da lui e disse: — «Distendi il tuo soprabito sulla sabbia, qui, affinchè io possa riposarmi appoggiando la testa al cammello. Mi siederò e ti racconterò una storia nota sulle sponde del Nilo e popolare anche in Alessandria, ove io l'appresi.» — Egli fece quanto ella disse, piantando prima la lancia per terra, a portata di mano. — «Ed ora che cosa devo fare?» — egli domandò con tristezza, allorchè ella si fu seduta. — «In Alessandria, chi ascolta usa sedersi o stare in piedi?» — Dal suo comodo posto, appoggiata al vecchio animale, ella rispose, ridendo: — «Il pubblico dei cantastorie è ostinato, e di solito fa ciò che crede.» — Senz'altre cerimonie, egli si stese sulla sabbia, vicino a lei, e le cinse il collo col braccio. — «Sono pronto,» — egli disse. — «Ecco il titolo del mio racconto,» — essa cominciò: IN CHE MODO IL BELLO DISCESE IN TERRA. — «Prima di tutto devi sapere, che Iside fu — e, per quanto io sappia, potrebbe essere ancora, la più bella delle divinità: ed Osiride, suo marito, benchè saggio e potente, era qualche volta punto da gelosia per lei, poichè soltanto nei loro amori gli Dei assomigliano ai mortali. Il palazzo della moglie divina era d'argento e coronava la più alta montagna nella luna, dalla quale essa passava spesso nel sole, la fonte dell'eterna luce dove Osiride aveva il proprio palazzo d'oro, che abbaglia col suo splendore gli uomini che lo osano guardare. Una volta — per gli Dei non esistono giorni — mentre stava con lui sul tetto del palazzo d'oro, ella guardò per caso, lontano, all'estremo limite dell'universo, e vide passare Indra con un esercito di scimmie portate sul dorso di aquile. Egli, l'amico delle cose viventi — così vien chiamato Indra — ritornava vittorioso dall'ultima guerra con l'odioso Rassaka e lo seguivano l'eroe Rama e Sita, sua sposa, la più bella delle donne dopo di Iside. E Iside si alzò, si levò la cintura di stelle, e l'agitò verso Sita; Rama rispose invece ma agitando lo scudo lucente. Tosto; tra l'esercito in marcia ed i due sul tetto d'oro, scese qualche cosa che assomigliava alla notte e impediva interamente la vista; ma non era la notte — era soltanto Osiride che corrugava la fronte. Ora avvenne che il soggetto del loro discorso in quel momento fosse appunto tale, quale soltanto gli Dei possono tenere fra sè; ed egli si alzò e disse maestosamente: — «Torna a casa, compirò da solo il lavoro. Per fare una creatura completamente felice non ho bisogno del tuo aiuto.» — Devi sapere che Iside aveva gli occhi grandi come quelli della sacra mucca, e dolci del pari. Essa li girò sorridendo in faccia al suo Signore, e alzandosi essa pure, disse: — «Ti saluto, Osiride, e ti dico arrivederci perchè io so che quanto prima mi chiamerai, poichè tu non puoi fare, senza il mio aiuto, una creatura perfettamente felice.» — — «Vedremo» — egli disse. Essa tornò al suo palazzo d'argento sui monti della luna, e, seduta sulla torre più alta, si chinò sopra il suo telaio. Grandi pensieri volgeva Osiride nella sua mente, e tale era lo sforzo della sua volontà che le stelle nella volta celeste tremarono e alcune si staccarono e caddero. Iside dalla sua torre le vide, ma non disse nulla, e tranquilla attese all'opera dell'ago. In breve un punto nero apparve contro il disco del sole, e crebbe e crebbe, finchè raggiunse dimensioni maggiori della luna, ed essa seppe che quello era un nuovo mondo, un gigantesco pianeta che gettò la sua ombra sopra il suo palazzo, mostrando quanto fosse il corruccio del Dio, suo marito. Ma essa continuò a ricamare sul suo telaio. A poco a poco dalla massa confusa del nuovo pianeta si distaccarono montagne e mari, e fiumi e torrenti. Poi vide qualche cosa a muoversi; ed essa si arrestò stupita. Il Primo Uomo era quello, che, meravigliato, volgeva lo sguardo al sole, in tacita riconoscenza della comune fonte di vita e calore. E intorno a lui fiorì la terra, e si coperse di selve, e di prati, e si riempì di animali. E l'uomo era felice e non si stancava di osservare con l'occhio pieno di meraviglia per quelle sconosciute bellezze; ed Iside udì attraverso l'atmosfera, come rombo di tuono lontano, un riso beffardo: — «Ho avuto bisogno del tuo aiuto? Guarda una creatura perfettamente felice.» — Ma Iside si chinò silenziosa sopra il telaio. Aspettava. Non durò molto che un mutamento si verificò nel Primo Uomo. Egli divenne melanconico, giaceva giornate intere sulla sponda di un fiume, noncurante e annoiato. E mentre Iside osservava con gioia questi segni, la volta celeste ebbe un altro fremito, donde Iside seppe che l'intelligenza creatrice di Osiride era nuovamente al lavoro. Ed ecco che la Terra, prima una fredda massa grigia, fiammeggiò di mille colori; le montagne divennero purpuree, verdi le piante, azzurro il mare, infinite le tinte delle nuvole. E l'uomo battè le mani per la gioia, risanato e nuovamente felice. Iside sorrise sopra la sua torre nel palazzo d'argento. Ma in breve l'uomo si stancò dei colori, e preso dalla medesima apatìa, girò sconsolatamente pel mondo, sospirando. E di nuovo si udì il rombo della volontà del Dio Creatore, e ad un tratto l'uomo fu visto tendere l'orecchio, ed ascoltare; il suo viso divenne raggiante, ed egli per la prima volta ebbe la percezione del suono. Il vento gli mormorava ignote armonìe, musica erano lo stormir delle fronde, il mormorio dei ruscelli, e i mille trilli degli uccelli nei boschi. E l'uomo era felice. Allora Iside divenne pensierosa, e pure ammirando il genio del suo sposo divino, disse fra sè: — «Colore, Movimento, Suoni, Luce, non vi è altro elemento di bellezza, e tutto è già stato dato alla Terra.» — Se ora quella creatura si fosse annoiata di nuovo, Osiride avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Rapido volava l'ago sopra la trama d'argento. E l'Uomo fu lungamente felice, più a lungo che non lo fosse mai stato prima; sembrò quasi che non avesse a stancarsi più mai. Ma Iside non era impaziente e sopportò in silenzio i sorrisi del sole. Aspettò, aspettò, e finalmente vide i segni di un mutamento nell'Uomo. I suoni divennero famigliari alle sue orecchie; l'abitudine lo rese indifferente allo stridere del grillo, come al canto dell'usignuolo, come al ruggito del mare. Egli languì e si gettò desolato lungo la sponda del fiume, e giacque senza moto. La compassione di Iside la fece parlare. — «Mio signore, la tua creatura sta morendo.» — Ma Osiride, pur comprendendo, tacque; non poteva far altro. — «Devo aiutarlo?» — essa chiese. Osiride era troppo orgoglioso per rispondere. Allora Iside diede l'ultimo punto col suo ago, raccolse la trama in un rotolo scintillante, e lo gettò nello spazio, lo gettò in modo che cadesse vicino all'Uomo. Ed egli, udendo il suono della caduta, sollevò il capo e guardò. O meraviglia! Una Donna, la Prima Donna, si chinò sopra di lui per aiutarlo. Essa gli tese la mano. Egli la prese, si alzò, e da allora in poi più non provò la noia e fu felice per sempre.» — . . . . . . . — «Tale o figlio di Hur! è la genesi del bello come la raccontano sul Nilo.» — Iras tacque. — «Una bella invenzione, e graziosa,» — egli disse subito: — «ma è imperfetta. Che cosa fece Osiride poi?» — — «Te lo dirò» — essa rispose. — «Egli richiamò la moglie divina a sè, e vissero felici d'allora in poi aiutandosi reciprocamente.» — — «E non devo io fare come il Primo Uomo?» — disse egli portando la mano di lei alle labbra. — «Amore, amore!» — Appoggiò la testa lievemente sulle ginocchia di lei. — «Tu troverai il Re» — essa disse, ponendogli la mano carezzevolmente sopra il capo. — «Tu troverai il Re; lo servirai fedelmente. Con la tua spada guadagnerai i doni più ricchi; ed il suo più valoroso soldato sarà il mio eroe.» — Egli si voltò e vide il volto di Iras chino sopra di lui. In tutto il firmamento non v'erano in quel momento due stelle più brillanti di quegli occhi che lo guardavano. Egli si rialzò, e, presala fra le sue braccia, la baciò appassionatamente, dicendo: — «O Egitto, Egitto! Se il Re avrà corone da regalare una sarà per me; io la porterò a te e la metterò qui sul posto che le mie labbra sfiorarono. Tu sarai Regina, la mia Regina. — Nessuna può esser più bella di te! Saremo felici! sempre felici!» — — «E tu mi dirai tutto, nevvero? e lascerai che io ti aiuti in tutto?» — ella disse contraccambiando il bacio. La domanda calmò il suo ardore. — «Non basta che io ti ami?» — egli chiese. — «Amore perfetto significa perfetta fiducia» — essa disse: — «Ma non importa, tu imparerai a conoscermi meglio.» — Essa ritirò la mano e si alzò. — «Sei crudele» — egli disse. Nell'allontanarsi essa si fermò presso il cammello e toccando la sua fronte con le labbra: — «Tu sei il più nobile della tua razza, perchè il tuo amore non è offuscato dal sospetto.» — Quindi sparì nella tenda. CAPITOLO V. Il terzo giorno del viaggio la compagnia si fermò sul meriggio presso il fiume Jablok dove erano accampate forse più di cento persone, la maggior parte pastori che riposavano colà con le loro bestie. Appena scesi dal cammello, un uomo si fece loro incontro con una brocca d'acqua ed un bacino, offrendo da bere; incoraggiato dalla cortesia con cui essi ricevevano tali attenzioni disse, guardando il cammello: — «Ritorno dalle rive del Giordano, dove si trovano ora molte persone, alcune provenienti dai più lontani paesi, e che viaggiano come voi, miei illustri amici, ma nessuno possiede un cammello come il vostro. Un magnifico animale. Posso domandare di che razza è?» — Balthasar rispose, e poi andò a riposarsi, ma Ben Hur, più curioso, chiese: — «Da qual parte del fiume si trovano queste persone?» — — «A Bethabara.» — — «Di solito è un guado solitario,» — disse Ben Hur. — «Non comprendo come mai ora si sia fatto così importante.» — — «Capisco» — replicò lo straniero, — «che voi pure venite da lontano e non avete udite le buone nuove.» — — «Quali nuove?» — — «Un uomo è venuto dal deserto, un vero santo; dalle sue labbra escono strane parole, che attraggono chiunque le ascolti. Egli si chiama Giovanni, il Nazareno, figlio di Zaccaria, e dice d'essere il precursore del Messia.» — Anche Iras l'ascoltava attentamente, mentre egli continuava. — «Si dice che Giovanni abbia passata la vita fin dalla fanciullezza in una caverna presso En-Gavdi, pregando e vivendo più rigorosamente degli Esseni. Una folla si reca ad udirlo ed io pure andai con gli altri.» — — «Tutti questi vostri amici vi sono stati?» — — «La maggior parte vi si reca ora, e pochi ne ritornano.» — — «Che cosa predica?» — — «Una nuova dottrina, mai fin'ora insegnata in Israele, come dicono. Egli la chiama dottrina del battesimo. I rabbini non sanno come accoglierla e noi neppure. Alcuni gli hanno domandato se egli fosse Cristo, altri se fosse Elia; ma a tutti rispose; — «Io sono la voce di uno che grida dal deserto: Appiana la via al Signore!» — A questo punto l'uomo fu chiamato dai suoi amici, e mentre egli s'allontanava Balthasar disse con voce tremante: — «Buon amico! Diteci se potremo trovare il predicatore, dove tu lo lasciasti.» — — «Sì, a Bathabara.» — — «Chi può essere questo Nazareno,» — disse Ben Hur ad Iras, — «se non l'araldo del nostro Re?» — Così facilmente egli s'era lasciato persuadere che la figlia s'interessasse più del vecchio padre al misterioso personaggio ch'egli cercava! Nondimeno il padre con un subito lampo negli occhi stanchi, s'alzò e disse: — «Facciamo presto, non sono più stanco.» — Essi si volsero per aiutare lo schiavo. Poche parole furono scambiate fra i tre, quando si accamparono per la notte sotto alcune palme all'est di Ramot-Gilead. — «Alziamoci per tempo, figlio di Hur» — disse il vecchio. — «Il Salvatore potrebbe arrivare, mentre noi non siamo ancora giunti.» — — «Il Re non può essere lontano dal suo araldo» — sussurrò Iras scendendo dal cammello. — «Domani vedremo,» — rispose Ben Hur baciandole le mani. Circa la terza ora del giorno seguente, pel sentiero che essi avevano percorso costeggiando le falde del monte Gilead, fin dalla loro partenza da Armoth la compagnia giunse all'arida steppa a settentrione del fiume sacro. Il sangue di Ben Hur scorreva rapidamente nelle vene perchè egli sapeva che il guado era vicino. — «Sii contento, buon Balthasar» — egli disse — «siamo quasi arrivati.» — Il conduttore affrettò il passo del cammello. Presto essi poterono distinguere capanne, tende ed animali pascolanti, ed una moltitudine di persone riunite presso la riva del fiume ed un'altra sulla riva occidentale. Comprendendo che l'eremita stava predicando, si affrettarono ancor più, ma mentre s'avvicinavano s'accorsero che la folla incominciava a scomporsi ed a disperdersi. Arrivavano troppo tardi! — «Restiamo qui» — disse Ben Hur a Balthasar che si torceva le mani — «il Nazareno può venir da questa parte.» — La folla era troppo preoccupata nella discussione di quanto aveva udito, per accorgersi dei nuovi venuti. Quando alcune centinaia di persone se ne furono andate, e già sembrava che l'occasione di vedere il Nazareno fosse perduta, essi videro avanzarsi verso di loro, poco lungi dalla riva del fiume, una persona dall'aspetto così strano, che dimenticarono tutto il resto. L'apparenza dell'uomo era rozza e bizzarra, quasi selvaggia. Il volto era magro, smunto, del colore della pergamena. Sulle spalle e giù per la vita, cadeva a guisa di treccie un ammasso di capelli bruciati dal sole. I suoi occhi erano ardenti; tutto il fianco destro della persona era scoperto, bianco come il suo viso, ed altrettanto scarno; una camicia di pelle di cammello, ruvida come la tela delle tende Beduine, rivestiva il resto della persona sino alle ginocchia, fermata alla vita da una larga cintura pure di pelle non conciata. I suoi piedi erano nudi. Una bisaccia gli pendeva dalla cintola. — Aveva un bastone in mano, quantunque i suoi movimenti fossero svelti, decisi, e stranamente vigili; ogni tanto scacciava dagli occhi i capelli arruffati e si guardava attorno, quasi cercando qualcheduno. La bella Egiziana osservò il figlio del deserto con sorpresa, per non dire con ribrezzo. Poi, alzando le cortine del baldacchino, essa disse a Ben Hur, che le cavalcava dappresso. — «È quello l'araldo precursore del tuo Re?» — — «È il Nazareno» — egli rispose, senza alzare gli occhi. In verità, egli stesso ne fu più che disgustato. A dispetto della sua famigliarità, con gli asceti di Engaddi — i loro vestiti, la loro indifferenza a tutte le opinioni, la loro costanza nei voti che li costringevano a sopportare i più terribili dolori; la loro vita solitaria e refrattaria agli allettamenti dei loro simili, quasichè essi non appartenessero alla medesima razza, quantunque egli fosse stato avvertito di cercare un Nazareno, che descriveva sè stesso come una Voce proveniente dal Deserto — pure il sogno di Ben Hur riguardo al Re che doveva essere così grande, aveva talmente colorito i suoi pensieri, che egli non dubitava di trovare nel precursore qualche indizio dello splendore di colui che annunziava. Contemplando quella figura selvaggia si ricordò dei lunghi seguiti di cortigiani ch'egli era abituato a vedere nelle terme e nei corridoi imperiali di Roma, e nella sua mente accrebbe il ribrezzo e la vergogna. Sbalordito non potè che rispondere; — «È un Nazareno.» — Balthasar non si scoraggiava così. Egli sapeva che le vie di Dio non sono sempre quali gli uomini le desiderano. Egli aveva veduto il Salvatore quando era ancora bambino in una greppia: la sua fede lo aveva preparato alla rozza semplicità, che doveva circondare la Divina riapparizione. Attese in posizione riverente, le mani incrociate sul petto e le labbra mormoranti una preghiera. Non aspettava un Re. In questo momento di tale interesse pei nuovi venuti, e nel quale ognuno si trovava in preda ad una emozione diversa, un altro uomo sedeva, non lontano, sopra una pietra sulla riva del fiume, pensando forse alla predica che aveva udito. Ad un tratto si alzò e camminò lentamente lungo la spiaggia in modo da portarsi sulla via che stava percorrendo il Nazareno e da incontrarlo presso il cammello. I due, il predicatore e lo straniero, continuarono a camminare finchè quasi si raggiunsero. Alla distanza di dieci passi il predicatore si fermò, si allontanò dagli occhi i capelli che gl'ingombravano il viso, guardò fissamente lo straniero e alzò le mani, come per dare un segnale a tutti coloro che potessero vederlo. Ciascuno si fermò in atto di ascolto. In quel profondo silenzio il bastone che il Nazareno teneva nella mano destra si alzò lentamente indicando lo straniero. Tutti quelli che dapprima ascoltavano fissarono i loro sguardi con attenzione sul nuovo venuto. Così fecero Balthasar e Ben Hur. L'uomo si moveva lentamente verso di loro; era di statura poco superiore alla media, magro, quasi sparuto. I suoi movimenti erano tranquilli e studiati come quelli degli uomini che sogliono meditare a lungo sopra gravi argomenti e si adattavano bene al suo costume, consistente in un abito con larghe maniche, che gli arrivava fino alle caviglie del piede, ed una sopravveste chiamata _tallith_. Nella mano sinistra teneva il solito copricapo dal fiocco rosso. Il colore della sua veste era giallo per la polvere e imbrattato di fango. Facevano eccezione i fiocchi della sua cintura, azzurri e bianchi, quale la legge prescriveva ai Rabbini. I suoi sandali erano semplici. Non aveva nè borsa, nè cintura, nè bastone. Questi dettagli furono appena osservati dai tre, attratti unicamente dalla testa e in ispecial modo dal viso dello sconosciuto, dal quale scaturiva un ineffabile fascino. Egli stava a capo scoperto sotto il cielo sereno; i suoi capelli di un color bruno dorato, tendenti leggermente al rosso là dove erano illuminati dal sole, si partivano in mezzo al capo e scendevano in lunghe anella sopra le spalle. Sotto una fronte larga e bassa, ombreggiati da sopracciglie inarcate e brune, brillavano due grandi occhi azzurri, raddolciti da lunghissime ciglia, quali si vedono talvolta nei fanciulli, ma ben raramente, o quasi mai, negli uomini. Era difficile determinare se le altre sue fattezze fossero piuttosto Greche che Ebraiche. La delicatezza delle nari e della bocca apparteneva piuttosto al tipo Greco; e insieme alla dolcezza dei suoi occhi, al pallore del volto, alla finezza dei capelli e della morbida barba, che scendeva ondulata sul collo, sul petto, e formava un complesso di tanta soavità e bellezza, che un soldato avrebbe riso incontrandolo, una donna si sarebbe sentita istintivamente attratta a confidare in lui, un bambino gli avrebbe tesa la piccola mano e gli avrebbe concessa tutta la fiducia della giovine anima. L'espressione dominante i suoi lineamenti, sarebbe stata attribuita da vari osservatori nello stesso tempo, e con egual correttezza, all'intelligenza, all'amore, alla pietà o al dolore. Per dir il vero, era una compenetrazione di tutte queste qualità. Il suo sguardo rivelava un'anima immacolata, costretta a vedere e comprendere la corruzione di quelli fra i quali passava. Ciò non ostante nessuno avrebbe nel suo volto scorta una traccia di debolezza. In ogni modo, così non avrebbero pensato coloro i quali sanno che l'amore, il dolore e la pietà sono il risultato di una forza morale capace di sopportare qualunque sofferenza, più che non lo siano le forze fisiche. Questa è stata la potenza che ha sostenuto i martiri ed i santi. Lentamente egli si avvicinò ai tre. Ora Ben Hur, con la lancia in mano, era degno di attirare lo sguardo d'un Re, pure gli occhi di colui che si avvicinava non guardavano nè lui nè la meravigliosa bellezza di Iras, ma erano fissi sul vecchio e cadente Balthasar. Il silenzio era profondo. Il Nazareno, tendendo il bastone verso di lui, gridò a voce alta. — «Guardate l'agnello di Dio, che redimerà il mondo!» — Gli astanti, meravigliati dal gesto e dalla frase stavano ad ascoltare ciò che potesse seguire a queste strane parole che oltrepassavano la loro intelligenza. Su Balthasar esse ebbero un effetto irresistibile. Egli era venuto per vedere un'altra volta il Salvatore. La fede che gli aveva meritato tali privilegi in gioventù s'era andata confermando con gli anni, concedendo al suo sguardo una penetrazione superiore a quella dei suoi compagni, — una forza che gli permetteva di riconoscere alla sola apparenza colui ch'egli cercava. Piuttosto di chiamare questa forza un miracolo, possiamo considerarla come facoltà di un'anima che conservava ancora qualche traccia delle sue relazioni con la divinità, alla presenza della quale altre volte era stata ammessa, oppure come la giusta ricompensa di una vita di santità senza esempio in quell'epoca — una vita per sè stessa un miracolo. L'ideale della sua fede gli stava dinanzi, perfetto nel viso, nelle fattezze, nel vestito, nei movimenti, nell'età. Il suo volto spirava riconoscenza! Oh, se ora succedesse qualche cosa per svelare l'identità dello straniero! Ciò avvenne in quel momento. Quasi per assicurare l'Egiziano che tremava, l'eremita ripetè il grido: — «Guardate l'agnello di Dio, che viene a redimere il mondo!» — Balthasar cadde in ginocchio. Per lui non v'era bisogno di spiegazioni; e, come se l'eremita lo sapesse, si rivolse a quelli che lo fissavano in atto di meraviglia e continuò: — «Questi è Colui del quale dissi! Io non lo conoscevo, ma affinchè egli divenga manifesto ad Israele, sono venuto a battezzarlo con l'acqua. Io vidi lo Spirito discendere dal cielo sopra di lui, come una colomba. Ed io non lo conoscevo; ma colui che mi mandò a battezzare con l'acqua mi disse: — «Colui sopra il capo del quale vedrai scendere lo Spirito, è Colui che cerchi» — ed io — «vidi ed attesto...» — Egli si fermò; e, continuando ad indicare col bastone teso, lo straniero dai bianchi vestiti: — «ed io attesto che _questi è il figlio di Dio_!» — — «È lui, è lui!» — gridò Balthasar con gli occhi pieni di lagrime. E cadde a terra svenuto. Durante tutto questo tempo Ben Hur stava studiando la fisonomia dello straniero, ma con un interessamento affatto diverso dagli altri. Lo rallegravano la perfezione delle sue fattezze, la nobiltà, la tenerezza, l'umiltà e la santità della sua persona. Ma nella sua mente uno era il pensiero: — «Chi è quest'uomo? Messia o Re?» — Mai vi fu apparizione meno principesca; al solo guardare quell'aspetto calmo e benigno, l'idea della guerra e della conquista, e il desiderio del dominio gli sembravano una profanazione. — «Balthasar deve aver ragione» — mormorò fra sè — «e Simonide torto. Quest'uomo non è venuto per ripristinare il trono di Salomone; non ha nè il carattere, nè il genio di Erode, Re potrà essere, ma non di un regno più grande di Roma.» — Dobbiamo però notare che tutto ciò non era una conclusione assoluta per Ben Hur, ma una semplice impressione; e mentre questa stava formandosi, contemplando il meraviglioso aspetto dello straniero, la sua memoria si sforzava febbrilmente come a richiamare un ricordo passato. — «Certamente,» — egli disse fra sè — «io ho già veduto quell'uomo, ma dove e quando?» — Egli era certo che quello sguardo, così calmo, così pietoso, così dolce, si era una volta rivolto a lui, come ora raggiava sopra Balthasar. Improvvisamente, come illuminata da un subito raggio di sole, gli apparve la scena presso il pozzo di Nazareth, quando le guardie Romane lo trascinavano alla galera. A quel ricordo tutto il suo essere tremò. Quelle mani l'avevano aiutato quand'egli soffriva. Quel viso gli era, d'allora in poi, rimasto scolpito nella mente. Nell'emozione che lo agitava, le parole del predicatore andarono perdute. Egli non udì che le ultime parole così meravigliose che ancora il mondo ne risuona: = — «Questo è il figlio di Dio!» — = Ben Hur balzò da cavallo per rendere omaggio al suo benefattore; ma Iras gli gridò: — «Aiuto, figlio di Hur, aiuto, che mio padre muore!» — Egli si fermò, si voltò indietro, e si affrettò a sorreggere il vecchio. Ella gli diede una tazza, e Ben Hur, ordinando allo schiavo di far inginocchiare il cammello, corse al fiume ad attingere acqua. Quando ritornò lo straniero era sparito. Finalmente Balthasar riprese i sensi e stendendo le braccia, domandò debolmente: — «Dov'è?» — — «Chi?» — chiese Iras. Un raggio di ineffabile beatitudine brillò sul viso del buon uomo, come se un suo ultimo desiderio fosse stato appagato e rispose: — «Lui — il Redentore — il Figlio di Dio, che mi fu concesso di rivedere un'altra volta!» — — «Credi tu che fosse il figlio di Dio?» — domandò Iras a Ben Hur a bassa voce. — «Sono pieno di stupore; aspettiamo,» — fu tutto quanto questi rispose. Il giorno seguente, mentre i tre stavano ad ascoltare, l'eremita che predicava egli si interruppe a metà discorso, e disse: — «Ecco l'Agnello di Dio!» — Seguendo la direzione della sua mano, essi videro nuovamente lo straniero. Mentre Ben Hur esaminava la figura esile e l'aspetto augusto e santo, così pieno di tristezza, una nuova idea lo invase. — «Balthasar ha ragione, ed anche Simonide. Non può il Redentore essere anche un Re??» — E domandò ad un suo vicino: — «Chi è quell'uomo che cammina laggiù?» — L'altro, con un riso beffardo, rispose: — «È il figlio di un falegname di Nazareth.» — FINE DEL LIBRO SETTIMO. LIBRO OTTAVO Chi poteva resistere? Nel mondo Quale nata a fallir creatura umana? L'ambrosia che fluìa dalle sue labbra, Gli sguardi dolci, gli amorosi detti M'avean reso come un bambinello Cullato fra le rose. La mia vita Essa mutò. Davanti a quell'altera Bellezza sensüale io m'inchinai Come a regina un suo fedel vassallo. KEATS — _Ëndimione_. — Io sono la resurrezione e la vita. CAPITOLO I. — «Ester, Ester! Chiama il servo, e fa ch'egli mi dia una coppa d'acqua.» — — «Non vorreste invece del vino, padre?» — — «Digli di portare l'una e l'altro.» Siamo nel padiglione sulla terrazza dell'antico palazzo degli Hur a Gerusalemme. Dal parapetto prospettante il cortile Ester chiamò un servitore nel momento istesso in cui un'altro domestico s'avvicinava, inchinandosi rispettosamente. — «Un plico pel padrone» — diss'egli, porgendo una lettera avvolta in un rotolo di tela, legato e sigillato. Convien qui spiegare al lettore, che si era al ventunesimo giorno di Marzo, cioè quasi tre anni dopo l'Annunziazione di Cristo a Bethabara. — In quel periodo di tempo, Ben Hur, il quale non poteva soffrire l'abbandono e lo stato rovinoso del palazzo di suo padre, aveva per mezzo di Malluch comperata la casa da Ponzio Pilato, e con opportune riparazioni, le porte, i cortili, le scale, i terrazzi, le pareti, il tetto, erano stati ripristinati al punto, che non solo non rimaneva più traccia delle tragiche vicende di cui era stata vittima la famiglia, ma tutto si trovava improntato ad una ricchezza e ad uno splendore maggiore. Ad ogni angolo il visitatore incontrava prove del buon gusto che il giovane proprietario aveva portato dal suo lungo soggiorno nella villa di Miseno e nella capitale Romana. Non si deve da ciò concludere che Ben Hur si fosse pubblicamente fatto riconoscere proprietario. Secondo lui non ne era ancora venuto il momento, e per la stessa ragione non aveva neppure ripreso il suo vero nome. Accudendo al lavoro di preparazione in Galilea, seguiva pazientemente l'opera del Nazareno: un personaggio che gli appariva più misterioso che mai, e i cui prodigi, spesso compiuti in sua presenza, lo riempivano d'angosciosi dubbï sulla sua personalità e sulla sua missione. Di tempo in tempo veniva alla città santa ad alloggiare nella casa paterna, ma sempre di nascosto e come ospite. È bene notare però, che queste periodiche visite di Ben Hur non erano unicamente dovute al bisogno di un po' di riposo. Balthasar ed Iras alloggiavano nel palazzo, ed egli non era insensibile al fascino della fanciulla, mentre il padre, quantunque indebolito di corpo, possedeva ancora tanta forza intellettuale da interessare vivamente il giovane coi suoi sorprendenti discorsi intorno alla divinità del ramingo taumaturgo, di cui tutti erano in attesa. In quanto a Simonide e ad Ester, essi erano arrivati da Antiochia solo pochi giorni prima, dopo un viaggio faticoso per il vecchio, portato in un palanchino sospeso fra due cammelli, che non sempre camminavano allo stesso passo. Ma una volta arrivato, non pareva al pover'uomo di vedere abbastanza del suo paese natìo. Il suo diletto era di passare il tempo sul tetto, rannicchiato su di una seggiola, precisa all'altra lasciata ad Antiochia. All'ombra del padiglione egli respirava con gioia l'aria dei vicini colli; vedeva sorgere il sole, ne seguiva il percorso sino al suo cadere, e pensava al passato. Colla sua Ester vicina, gli era più facile, là, in vista del cielo, il rievocare l'imagine di quell'altra fanciulla da lui amata in gioventù, di colei che fu sua moglie e che col passar degli anni gli era sempre divenuta più cara. Malgrado ciò, non trascurava gli affari. Ogni giorno un messaggero gli portava il rapporto di Samballat, cui era stata affidata la direzione degli affari, ed ogni giorno ripartiva un messaggero latore d'indicazioni così particolareggiate da non lasciar posto ad alcuna iniziativa che non fosse la propria, nè ad alcuna eventualità salvo, beninteso, quelle che per volontà di Dio sfuggono alla previsione del più chiaroveggente degli uomini. Mentre Ester faceva ritorno al padiglione, il sole che illuminava il terrazzo della casa, ravvolse in un'onda di luce, che fece vieppiù risaltare la grazia della sua persona, la perfetta regolarità del suo volto, la sua rosea carnagione spirante gioventù e salute, e il suo sguardo intelligente, abbellito da un'espressione d'infinita bontà. In una parola appariva una donna da amarsi con tutto l'animo, ed il cui amore era da ambirsi come il colmo della felicità. Essa guardò il plico, si fermò, lo guardò una seconda volta più attentamente, ed arrosì riconoscendo il sigillo di Ben Hur. Accelerò il passo e lo porse al padre. Simonide attese un momento, e anch'egli esaminò il sigillo. Aperto il plico ne estrasse il rotolo, che porse alla fanciulla. — «Leggi,» — le disse. Gli occhi del padre erano fissi su di lei mentre parlava, e un'espressione di tristezza gli si dipinse sul volto. — «Vedo che sai da chi esso viene. Ester.» — — «Sì, dal... nostro... padrone.» — Quantunque le parole uscissero a stento, nessun turbamento appariva nello sguardo che le accompagnò. Lentamente il vecchio lasciò cadere il capo sul petto. — «Tu l'ami, Ester,» — disse con voce calma. — «Sì,» — rispose la fanciulla. — «Hai ben riflettuto a quello che fai?» — — «Mi sono provata a non pensare a lui, padre, e solo a ricordarmi, com'è mio dovere, ch'egli è il nostro padrone. Ma lo sforzo è tornato vano.» — — «Sei una buona figliuola, sì, una buona figliuola, come lo era tua madre» — mormorò il vecchio, facendosi pensoso; dopo qualche istante continuò: — «Che Iddio mi perdoni, ma son d'avviso che l'amor tuo non sarebbe vano, s'io avessi conservato tutto quanto era in mio possesso, com'era pure in mia facoltà di fare. Grande è la potenza del danaro!» — — «Sarebbe stato peggio per me se tu l'avessi fatto, poichè allora sarei indegna d'un suo sguardo e non potrei essere orgogliosa di te. Non vuoi ora che legga?» — — «Un momento» — esclamò, — «lascia che a fin di bene, figliuola mia, ti faccia conoscere il male in tutta la sua estensione. Valutandolo meco, può darsi che ti sembri meno terribile. Il suo cuore, Ester, è impegnato.» — «Lo so,» — fece ella tranquillamente. — «L'Egiziana lo ha colto nella sua rete,» — continuò Simonide, — «essa ha tutta l'astuzia della sua razza aggiunta alla bellezza che affascina. Molta bellezza e molta astuzia, ma, come le altre sue pari, poco cuore. La figlia che disprezza il proprio padre non può fare la felicità del marito.» — — «Merita essa quest'accusa?» — — «Balthasar,» — proseguì Simonide, — «è uomo saggio, singolarmente dotato per un Gentile, e la sua fede lo nobilita: eppure sua figlia lo deride. La udii io stesso ieri, parlando di lui, uscire in queste parole: — «Le follìe della gioventù sono perdonabili, ma nulla è ammirabile nei vecchi all'infuori della saggezza, e quando questa se n'è andata, il meglio ch'essi possano fare è di morire.» — Parole crudeli, degne d'un Romano. Io, vedi, le applicai a me stesso, ben sapendo come non sia da me lontana quella debolezza ch'ella rinfaccia al padre suo. Ma tu, Ester, tu non dirai mai di me, nevvero, mai che sarebbe meglio ch'io fossi morto? No, mai, perchè tua madre era una figlia di Giuda.» — Con gli occhi gonfi di lagrime, essa lo baciò, mormorando — «Son figlia di mia madre.» — — «Sì, e mia figlia, la figlia mia, la quale è per me ciò che il Tempio era per Salomone.» — Dopo una lunga pausa, egli appoggiò la mano sulla spalla della figlia e continuò: — «Quando egli avrà preso in moglie l'Egiziana, o mia Ester, il suo pensiero correrà a te con pentimento. Il suo spirito sarà turbato, perchè allora si accorgerà d'essere unicamente l'istrumento della malsana ambizione di quella donna. Roma è la mèta dei suoi sogni. Per lei egli è il figlio del duumviro Arrio, e non di Hur, principe di Gerusalemme.» — Ester non si provò neppure a celare l'effetto di queste parole. — «Salvalo, padre! Sei ancora in tempo!» — essa implorò. Rispose il vecchio scuotendo il capo. — «Si può salvare un uomo che annega, non già un uomo innamorato.» — — «Ma tu hai molt'influenza sopra di lui; egli è solo al mondo; additagli il pericolo; aprigli gli occhi sul carattere di quella donna.» — — «Ciò potrebbe salvarlo da lei, ma non lo darebbe a te. No,» — e qui aggrottò le ciglia, — «io sono un servo come lo furono i miei padri, di generazione in generazione; pertanto come potrei io dirgli: — Guarda padrone, io ho una figlia che è assai più bella di quell'Egiziana e che meglio ti ama? — Non per nulla vissi libero e potente per tanti anni; — quelle parole mi abbrucierebbero la lingua, — le stesse pietre di quelle vecchie colline laggiù arrossirebbero di vergogna per me. No, per tutti i Patriarchi, Ester, anzichè profferirle, vorrei scendere con te nel sepolcro della povera mia moglie.» — Il volto di Ester si fece di bragia. — «Non intesi mai che tu avessi a parlargli così, padre. Io pensava solo a lui, alla sua felicità, non alla mia. Se ho osato amarlo, per questo appunto saprò mantenermi degna della sua stima: solo così potrò scusare ai mie occhi la mia follìa. Ora lasciami leggere la sua lettera.» — — «Sì, leggila.» — Essa lesse rapidamente come per por termine ad un argomento increscioso. — «_Nisan, 8 giorno, sulla via da Galilea a Gerusalemme._» — Il Nazareno è pure in cammino. Con lui, ma a sua insaputa io conduco tutta una legione dei miei. Una seconda legione ci segue. La Pasqua serve di pretesto all'agglomeramento. Egli disse alla partenza — «Andremo a Gerusalemme e tutte le cose che furono scritte di me dai profeti avverranno.» — — «La nostra attesa è presso al suo termine.» — — «In tutta fretta.» — — «La pace sia con te, Simonide.» — — «BEN HUR.» — Ester restituì la lettera al padre, soffocando a stento un singhiozzo. Non v'era una sola parola per lei, neppure un saluto! Eppure non sarebbe stata gran cosa l'aggiungere — «La pace sia anche coi tuoi.» — Per la prima volta in vita sua provò il morso della gelosia. — «L'ottavo giorno» — ripetè Simonide, — «l'ottavo giorno; e questo, Ester, è....» — — «Il nono» — rispose la figlia. — «Allora potrebbe essere già a Bethania.» — — «E forse potremo vederlo questa stessa sera,» — soggiunse essa, dimenticando per un'istante il proprio disinganno nella gioia di quella prospettiva. — «Può darsi, può darsi! Domani è la festa del pane azzimo e probabilmente vorrà assistervi; vedremo fors'anche il Nazareno; sì, forse li vedremo entrambi, Ester.» — In quel punto comparve il servo col vino e l'acqua. Ester servì il padre, e, mentre era così occupata, Iras si presentò sul terrazzo. Agli occhi dell'Ebrea, l'Egiziana non era mai parsa così bella come in questo momento. Le sue vesti leggiere come veli le svolazzavano intorno, e l'avviluppavano come in una nuvoletta di nebbia; la fronte, il collo e le braccia scintillavano per i grossi gioielli tanto in uso presso il suo popolo. Ilare il volto, esultante in ogni movimento della persona, compresa della propria bellezza, ma senza affettazione, tale era Iras. Ester al vederla si sentì una stretta al cuore e si fece più vicina al padre. — «Pace a voi, Simonide, e pace alla vezzosa Ester,» — incominciò la giovane Egiziana. — «Voi mi rammentate, messere, sia detto senz'offendervi, quei preti di Persia che al declinar del giorno salgono in cima al Tempio per rivolgere le loro preghiere al sole che tramonta. Se non ne conoscete il rito lasciatemi chiamar mio padre, egli è versato nella magìa.» — — «Bella Egiziana» — replicò il negoziante, chinando il capo con gravità cortese, vostro padre è tal uomo da non ritenersi offeso s'egli mi udisse dire che la sua scienza persiana è la parte minima della sua saggezza.» — Iras sorrise ironicamente. — «Parlando da filosofo, come me ne date l'esempio,» — rispose, — «una parte minima suppone necessariamente una parte maggiore. Ora ditemi di grazia quale stimate voi essere la parte maggiore di quella rara qualità che vi piace attribuirgli?» — Simonide le lanciò uno sguardo severo. — «La pura saggezza si rivolge sempre a Dio; la più pura saggezza è la conoscenza di Dio, e io non conosco nessuno che la possegga in grado più elevato, o che meglio la manifesti nella parola o negli atti, del buon Balthasar.» — E per troncare il discorso alzò la coppa e sorseggiò. L'Egiziana, un po' stizzita, si volse ad Ester. — «Un uomo che ha dei milioni in serbo e possiede flotte di navi, non può comprendere in quali cose noi povere donne troviamo diletto. Lasciamolo. Là presso al muricciolo potremo conversare.» — Si avvicinarono al parapetto e si fermarono proprio al punto ove, anni prima, Ben Hur aveva smosso quel coccio di tegola, che era caduto sulla testa di Grato. — «Non sei mai stata a Roma?» — chiese Iras trastullandosi negligentemente con uno dei braccialetti che si era tolto dal braccio. — «No» — rispose timidamente Ester. — «Non hai mai desiderato di andarvi?» — — «Neppure.» — — «Ah, come è stata banale la tua vita!» — Il sospiro che accompagnò quelle parole non avrebbe potuto essere più eloquente, se l'Egiziana avesse voluto con esso commiserare il proprio destino. Un istante appresso proruppe in uno scroscio di risa ed esclamò: — «Oh mia povera ingenua, gli uccelletti che ancor non hanno lasciato il nido sanno poco meno di te.» — Ma vedendo l'imbarazzo d'Ester, di nuovo cambiò tattica e proseguì in tono di confidenza: — «Via, non offenderti, io scherzava. Lascia che baci la ferita e che ti dica ciò che a nessun'altra persona direi» — e con un nuovo scroscio di risa che abilmente mascherò il lampo che le guizzò negli occhi, disse: — «Viene il Re!» — Ester la guardò sorpresa. — «Il Nazareno» — continuò Iras — «Colui di cui tanto parlarono i nostri genitori e pel quale ha tanto lavorato Ben Hur» — qui la sua voce s'abbassò. — «Il Nazareno arriverà domani, e Ben Hur sarà qui questa sera.» — Ester fece uno sforzo per dissimulare la propria agitazione, ma non vi riuscì, abbassò gli occhi, si fece rossa in viso, e non vide il sorriso trionfante sul volto dell'Egiziana. — «Guarda. Eccone la prova» — e si tolse dalla cintura un rotolo. — «Rallegrati meco, amica mia! Egli sarà qui questa sera! Sul Tevere egli possiede un palazzo principesco che m'ha promesso in dono; esserne la padrona vuol dire essere....» — Qui il rumore di passi accelerati nella sottostante via la interruppe, e sporgendo il capo dal parapetto, tosto ne lo ritrasse esclamando con gioia: — «Benedetto sia Iside; è lui, è Ben Hur; strano ch'egli arrivi mentre stavamo parlando di lui. Se questo non è di buon augurio vuol dire che non vi sono più Dei. Abbracciami, Ester.» — L'Ebrea la guardò con volto acceso e cogli occhi esprimenti, forse per la prima volta in sua vita, un sentimento non lontano dall'ira. Quasi non bastasse che a lei fosse proibito di pensare, salvo in sogno, all'uomo da lei amato, doveva anche la fortunata rivale confidarle tutta trionfante i proprii successi e le brillanti sue speranze nell'avvenire. A lei, serva d'un servo, non una parola, neppure un cenno, mentre costei poteva far pompa di una lettera di cui era facile indovinare il contenuto. Era troppo! Essa non si potè trattenere dal chiedere: — «L'ami tanto, dunque, oppure ami Roma di più?» — L'Egiziana indietreggiò di un passo, chinò l'altiera sua testa fin quasi a toccare quella dell'Ebrea, e chiese a sua volta: — «Che importa a te, o figlia di Simonide?» — Ester, tuttora in preda alla sua agitazione, incominciò; — «Egli è...» — ma un pensiero fulmineo le arrestò sulle labbra la parola che stava per pronunciare; essa si fece confusa, trepidante, indi ricuperata un po' di calma potè proferire: — «Egli è l'amico di mio padre.» — Per nulla al mondo avrebbe in quel momento potuto confessare la propria condizione servile. Iras rise leggermente. — «Non altro che questo?» — chiese in tono beffardo. — «Ah, per gli Dei d'amore dell'Egitto, tienti pure i tuoi baci, tu stessa m'hai testè appreso che ve ne sono altri di ben maggior valore che mi attendono qui in Giudea e... vado a prendermeli; la pace sia con te!» — Ester seguì collo sguardo la rivale finchè, scendendo lentamente gli scalini, essa scomparve; allora si nascose il volto nelle mani e proruppe in lagrime, lagrime di vergogna e di dolore, mentre, ad accrescere lo stato d'orgasmo in cui si trovava, le si affacciarono alla mente, con un nuovo e scottante significato, le parole del padre: — «L'amor tuo non sarebbe vano s'io avessi conservato tutto quanto io possedeva, com'era in mia facoltà di fare.» — Quando la povera fanciulla ebbe ricuperata la sua calma, le stelle luccicavano già per la volta del cielo, illuminando debolmente la città e la catena di monti che la circondavano. Ester ritornò nel padiglione e riprese il suo solito posto presso il padre. Evidentemente il destino voleva che quello, e solo quello, fosse il compito cui doveva dedicare, se non la vita, la sua gioventù; e, sia detto a sua lode, ora, che era passato il primo impeto d'amarezza, l'idea di quel dovere destò in lei un senso di sollievo. CAPITOLO II. Un'ora dopo la scena del terrazzo, Balthasar e Simonide, quest'ultimo accompagnato da Ester, si ritrovarono nella sala grande del palazzo, e, mentre discorrevano fra loro, comparvero Ben Hur ed Iras. Il giovane Ebreo, precedendo la sua compagna, si avvicinò dapprima a Balthasar, scambiando i saluti d'uso, indi si volse verso Simonide, ed alla vista d'Ester trasalì. Avviene qualche volta che il nostro cuore si mostra capace d'accogliere due passioni dominanti ad una volta. L'ardore dell'una non esclude la coesistenza dell'altra, a condizione però che questa rimanga in uno stato poco più che latente. Le speranze ed i sogni nutriti da Ben Hur, l'influenza esercitata su di lui dalle condizioni del paese, insieme al fascino dalla bella Egiziana, avevano fatto del giovane, nel più largo significato mondano della parola, un uomo ambizioso; e di mano in mano che questa sua passione si accresceva, le risoluzioni e gl'impulsi d'altri tempi andavano impercettibilmente, ma sicuramente affievolendosi, fin quasi a perdersi nell'oblìo. Non giudichiamolo troppo severamente, caro lettore. Il dimenticare è un facile peccato in gioventù, e poi nel caso particolare di Ben Hur, era ben naturale che le sue sventure ed il mistero in cui era avvolto il destino della sua famiglia, sempre meno lo preoccupassero quanto più vicina facevasi la meta delle sue nuove aspirazioni. Come dicemmo, egli rimase sorpreso al vedere il cambiamento che il tempo aveva operato nell'aspetto della bellissima Ester, e nell'istante in cui si arrestò a contemplarla una voce interna corse a rammentargli i voti dimenticati ed i negletti doveri. Per un momento ne fu turbato, poscia, ritornando padrone di sè, esclamò: — «Pace a te, dolce Ester, e a te, Simonide, che all'orfana facesti da padre. Che la benedizione del Signore ti protegga!» — Ester lo ascoltò cogli occhi fissi a terra. Simonide rispose: — «Faccio eco al saluto che ti diede il buon Balthasar! — Figlio di Hur, che tu sia il benvenuto nella casa di tuo padre! Siedi e narraci dei tuoi viaggi, di ciò che tu hai fatto e del meraviglioso Nazareno. Siedi fra noi due, onde non ci sfugga una parola.» — Ester con premurosa sollecitudine gli avvicinò una sedia. — «Grazie,» — le disse Ben Hur, con riconoscenza. Sedutosi e scambiate alcune parole di poco momento, prese a dire: — «Ho a parlarvi del Nazareno.» — I due vecchi lo guardarono subito con vivo interessamento. — «Per molti giorni io l'ho seguito, tenendolo d'occhio con febbrile ansietà. Lo vidi in tutte le possibili circostanze in cui è dato di vegliare e di giudicare un uomo ed ora vi dico che mentre ho la certezza ch'egli sia un uomo come lo sono io stesso, non sono meno certo ch'egli ha qualcosa di più.» — — «Di più, in che modo?» — chiese Simonide. — «Ecco, ve lo dirò....» — Una persona entrò in quel momento e l'interruppe. Ben Hur si volse, mandò un grido di gioia, e, alzatosi, le corse frettolosamente incontro. — «Amrah!» — «esclamò — «mia buona e vecchia Amrah!» — Essa venne lentamente a lui, e gli astanti che videro la gioia dipinta sul volto dell'affettuosa vecchia non si accorsero neppure che quel volto era ingiallito come un'antica pergamena e solcato di rughe. Essa si prostrò ai piedi del padrone, ne abbracciò le ginocchia e gli baciò ripetutamente le mani, ma quando questi, abbracciatala, le chiese — «Buona Amrah, e tu non sai nulla di loro, — non una parola, non un cenno?» — la poveretta scoppiò in singhiozzi più eloquenti d'ogni parola. Per qualche tempo nessuno parlò; finalmente Ben Hur, a stento trattenendo le lagrime, di cui come uomo si vergognava in presenza di terzi, disse solennemente: — «Che la volontà di Dio sia fatta!» — indi, riuscendo a vincere la propria emozione, proseguì. — «Vieni, Amrah, siedi vicino a me. No? non vuoi? ebbene sta pure ai miei piedi mentre io narro a questi miei buoni amici la storia di un uomo meraviglioso che è venuto al mondo.» — Essa si scostò ed accovaciatasi per terra, colle spalle appoggiate alla parete e le mani incrociate sulle ginocchia, diede a vedere agli altri che l'unico suo desiderio era quello di contemplare il padrone. Ben Hur, facendo un inchino ai due vecchi, riprese: — «Non vorrei rispondere alla domanda fattami circa al Nazareno prima di narrarvi le cose che ho veduto fare, e tanto più ch'egli stesso sarà qui domani per recarsi al Tempio, ch'egli suol chiamare la casa di suo Padre, ed ove si proclamerà. Per cui sapremo domani chi di voi, Balthasar o Simonide abbia ragione.» — Balthasar si fregò le mani tremanti, e domandò: — «Dove dovrò andare per poterlo vedere?» — — «La ressa della folla sarà enorme; sarà meglio pertanto che voi andiate sui terazzi dei chiostri, del Tempio, sul tetto del portico di Salmone.» — — «Potrai tu venire con noi?» — — «No» — rispose Ben Hur — «I miei amici avranno forse bisogno di me nella processione.» — — «Processione?» — chiese stupito Simonide — «Viaggia egli pomposamente con seguito?» — Ben Hur s'affrettò a rispondere: — «Egli ha seco dodici uomini, pescatori, coltivatori della terra, e un oste, tutti di bassa condizione; viaggiano tutti a piedi, senza badare al vento, al freddo, alla pioggia ed al sole. Al vederli sostare di sera a mangiare un tozzo di pane prima di coricarsi sulla nuda terra nella pubblica via, mi parve di contemplare una banda di pastori reduci dal mercato col loro gregge. Solo quando il Nazareno solleva il fazzoletto per guardare qualcuno o per scuotere la polvere dal capo, mi vien dato di riconoscere ch'Egli non è solo loro compagno, ma anche loro Maestro, e non meno loro superiore che amico.» — — «Voi» — continuò Ben Hur, dopo una breve pausa — «siete uomini accorti. Sapete benissimo come noi siamo schiavi di certi motivi impellenti, e come sia poco meno di una legge della nostra natura lo spendere la vita nel cercare di raggiungere il benessere e felicità; ora, ricordando questa legge, la quale ci permette di conoscere noi stessi, che direste voi d'un uomo, il quale potrebbe esser ricco per la facoltà da lui posseduta di convertire in oro le pietre ch'egli calpesta, e che ciò non ostante preferisce rimaner povero?» — — «I Greci lo chiamerebbero filosofo» — osservò Iras. — «No, figliuola» — fece Balthasar — «i filosofi non hanno mai posseduto una tale facoltà.» — — «Come sai tu che quell'uomo la possiede?» — Ben Hur rispose senza esitare. — «Lo vidi cambiar l'acqua in vino.» — — «Strano, stranissimo» — mormorò Simonide — ma quello che a me sembra più meraviglioso ancora, si è ch'egli preferisca rimaner povero, mentre potrebbe essere ricco. È egli poi tanto povero?» — — «Non possiede nulla e non invidia i beni di alcuno, anzi, compiange i ricchi, — Ma andiamo avanti. Che direste voi, se vedeste un uomo moltiplicare sette pani e due pesci in tale quantità da satollare cinquemila persone e avanzargli ancor piene le ceste?» — — «L'hai tu veduto far questo?» — chiese Simonide. — «Sicuro, e mangiai io stesso di quei pani e di quei pesci. Ma c'è del più meraviglioso ancora:» proseguì il narratore — «Che direste voi d'un uomo, dotato della virtù di guarire gli ammalati, al punto, che col solo toccar loro un lembo della veste, e anche semplicemente col volger loro la parola da lontano, ottiene la loro guarigione? Anche questo io vidi, non una volta, ma ripetutamente. All'uscire della città di Gerico due ciechi lungo la via chiamarono il Nazareno; egli toccò loro gli occhi ed essi videro. Gli fu portato un paralitico incapace di muoversi; egli pronunciò semplicemente le parole: — Vanne alla tua casa — e l'uomo se n'andò guarito. Che dite di queste cose?» — Il negoziante non sapeva che cosa rispondere. — «Credete voi, come ho udito dire, ch'egli altro non sia che un abilissimo cerretano? A questo rispondo col narrarvi cose maggiori ch'io lo vidi compiere. Voi conoscete bene quella maledizione di Dio, detta la lebbra, cui solo sollievo è la morte?» — A queste parole Amrah sussultò, e fece per alzarsi, poi s'arrestò porgendo attento orecchio. — «Che cosa direste» — continuò sempre più infervorandosi Ben Hur — «se aveste veduto ciò ch'io sto per raccontarvi? Un lebbroso venne al Nazareno, mentre io mi trovava con lui in Galilea, e gli gridò — Signore, se tu vuoi, puoi liberarmi da questo male. — Egli toccò il lebbroso con una mano, dicendogli: — Che tu sia purificato — ed istantaneamente quell'uomo ridivenne sano come ogn'uno di noi spettatori, che in gran numero fummo presenti alla meravigliosa guarigione.» — Amrah ascoltava agitata e febbricitante; le indebolite sue facoltà mentali a mala pena le consentirono di seguire e comprendere le parole del padrone. — «Poscia» — continuò Ben Hur — «dieci lebbrosi vennero in una sol volta a lui, e cadendogli ai piedi, gridarono: — «Maestro, Maestro, abbi pietà di noi!» — egli rispose loro: — Andate a mostrarvi al sacerdote, com'è prescritto dalla legge, e prima ancora d'arrivare da lui sarete guariti.» — — «E lo furono?» — — «Strada facendo la loro infermità scomparve e nulla rimase a rammentarli della malattia fuorchè le luride vesti.» — — «Di simili fatti non si ebbe mai contezza finora in Israele» — mormorò Simonide, e, mentre gli sfuggivano queste parole, Amrah si alzò ed uscì senza che alcuno se n'accorgesse. — «Vi lascio immaginare quali pensieri suscitassero in me atti simili, compiuti sotto i miei propri occhi» — proseguì Ben Hur — «Eppure i miei dubbi, i miei sospetti, il mio stupore dovevano ricevere nuovo alimento. — Non ignorate come sia impetuoso ed irrequieto il popolo di Galilea; dopo anni d'attesa nulla poteva più frenarlo. — «Egli esita a proclamarsi» — dicevano tutti — «Ebbene obblighiamolo a farlo.» — Io stesso, lo confesso, era impaziente. S'egli doveva essere Re, perchè aspettare? Le legioni erano pronte, e così avvenne che un bel giorno, mentr'egli insegnava in riva al mare, volemmo a tutta forza incoronarlo, ma egli ad un tratto scomparve, per ricomparire in seguito su di un legno che s'allontanava dalla costa. — Buon Simonide, i desiderii pei quali sogliono impazzire gli altri uomini sono sconosciuti a costui; le ricchezze, il potere, persino una regal corona offerta dall'amore d'un gran popolo, non hanno attrattiva per lui: che ne dite?» — Il negoziante col capo abbassato sul petto, era tutto assorto in una profonda meditazione. Rialzando finalmente il capo e disse con fermezza: — «Il Signore vive, e le parole dei profeti non possono mentire. Il tempo non è ancora maturo; la giornata di domani risponderà.» — — «Sia pur così» — soggiunse Balthasar con un sorriso, ed anche Ben Hur disse — «Sia pur così» — Poi continuò: — «Non ho ancora finito. — Da questi atti così stupefacenti da non essere al disopra d'ogni sospetto per parte di chi non fu, come me, presente egli stesso, passiamo ad altri ben più meravigliosi e quelli dalla creazione del mondo in poi, vennero sempre ritenuti come trascendenti la potenza umana. Ditemi se vi fu mai alcuno che abbia strappato alla morte la sua preda, che abbia restituita la vita a chi l'aveva perduta, chi se non...» — — «Dio» — interruppe Balthasar in tono riverente. — «Oh, saggio Egiziano. Io non voleva pronunciare quel nome che voi stesso mi ponete sulle labbra. Che cosa diresti tu, ed anche tu Simonide, se aveste visto come vidi io, un uomo il quale, con poche parole, senza cerimonie e senza maggior sforzo di quello che faccia una madre per isvegliare un suo bimbo addormentato, disfa l'opera della morte? Ciò accadde a Nain. Stavamo per entrare in città, quando ne uscì un corteo recando un morto al cimitero; seguiva il convoglio una donna che piangeva dirottamente. Mosso a pietà il Nazareno le parlò, poi, toccata la bara gridò a colui che giaceva — «Alzati» — subito il morto s'alzò e parlò. — «Dio solo può far ciò» — esclamò Balthasar rivolto a Simonide. — «Badate bene» — continuò il narratore, — «ch'io vi racconto solo le cose da me vedute alla presenza di una quantità d'altre persone. Sulla strada per venire qui fui testimonio d'un fatto ancor più incredibile. — In Bethania eravi un'uomo di nome Lazzaro, che morì e fu sepolto. Egli vi giaceva da quattro giorni, quando il Nazareno vi si fece condurre. Levata la pietra che chiudeva la tomba scorgemmo il cadavere fasciato ed in decomposizione. Molti erano i presenti e tutti udimmo distintamente le parole del Nazareno pronunciate ad alta voce. — «Lazzaro vieni fuori» — e non potrei descrivervi che cosa io provassi al vedere quell'uomo alzarsi e venire a noi avvolto nel sudario — «Toglietegli le lenzuola di dosso» — ordinò il Nazareno, e lasciatelo andare.» — Ed allorquando le lenzuola gli furon levate, dal volto del risuscitato vedemmo il sangue scorrere di nuovo nel corpo emaciato e l'uomo ritornare quale era prima d'ammalarsi. Egli vive tuttora e chiunque può vederlo; — voi stessi potete recarvi da lui domani. Ed ora non occorre aggiunger altro, ma a voi domando quello che Simonide ebbe a domandarmi e cioè — «Non è egli più d'un uomo?» — La domanda, fatta in tono solenne, venne dapprima accolta in silenzio, ma diede luogo in seguito ad una lunga discussione che durò fin oltre la mezzanotte. Simonide non poteva risolversi a rinunciare alla propria interpretazione dei profeti, e Ben Hur sosteneva ch'entrambi i vecchi avevano ragione, poichè, secondo lui, il Nazareno era il Redentore come voleva Balthasar, ed anche il Re predestinato, come riteneva Simonide. Finalmente s'alzò e disse; — «Domani vedremo. Sia pace a voi tutti» — e con questo saluto si ritirò per ritornare a Bethania. CAPITOLO III. All'indomani, appena fu aperta la porta detta della Pecora, la prima persona a uscire dalla città fu Amrah, con una cesta al braccio. Nessuna domanda le fu rivolta dai custodi perchè, abituati a vederla regolarmente ogni mattina, avevano concluso che essa era la serva fedele di qualcuno, e questo loro bastava. Uscita dalla città, la vecchia s'avviò in direzione della vallata orientale. Il versante dell'Oliveto, d'un verde cupo, era tempestato di tende bianche recentemente piantatevi dal popolo in attesa delle feste. L'ora era però troppo mattutina perchè vi potesse essere concorso di gente, ma quand'anche vi fosse stato movimento, nessuno avrebbe molestata la decrepita viandante. Passò Getsemane, lasciò da parte le tombe al crocicchio delle vie di Bethania, ed oltrepassò il villaggio sepolcrale di Siloam. Di tempo in tempo quel povero corpo stanco vacillava, ed una volta fu forza alla poveretta di sedere per riprender fiato; alzatasi a gran fatica, proseguì con fretta crescente. Se le maestose roccie ergentisi sui due lati della strada avessero avute orecchie, l'avrebbero udita mormorare fra sè, e se esse fossero state fornite d'occhi, l'avrebbero veduta guardare di frequente la vetta del monte, come per rimproverare l'alba della sua lentezza. Se poi fosse loro stato possibile di parlare, si sarebbero dette — «l'amica nostra ha oggi gran fretta; le bocche ch'essa va a saziare devono essere ben affamate.» — Quando finalmente raggiunse il giardino del Re, rallentò il passo, poichè era in vista dell'orrida città dei lebbrosi, estendentesi per lungo tratto attorno alla trincerata collina meridionale di Hinnom. Come il lettore avrà già compreso, Amrah recavasi dalla sua padrona, la cui tomba dominava il pozzo di En-rogel. L'infelice donna era già alzata e stava davanti alla porta, mentre nell'interno Tirzah dormiva ancora. La malattia aveva pur troppo fatto rapidi progressi in quei tre anni. Pienamente cosciente dell'orrore del proprio aspetto, la vedova principessa si teneva sempre gelosamente coperta dalla testa ai piedi, e, salvo qualche rara volta, non si mostrava neppure a Tirzah. Quella mattina essa pigliava un po' d'aria a capo scoperto, confortata dalla certezza di non essere veduta da alcuno. Vi era già abbastanza luce per lasciar scorgere la strage che la lebbra aveva fatta della sua persona. — I capelli bianchi, d'una ruvidezza ribelle a qualunque trattamento, le scendevano sulle spalle come fili di ferro inargentato; le palpebre, le labbra, le narici, la parte carnosa delle guancie erano, o del tutto scomparse, o ridotte a un fetido marciume. Il collo era una massa di croste color cenere. Una mano le pendeva fuori dalle pieghe della veste, rigida come quella d'uno scheletro; le unghie erano corrose; le articolazioni delle dita in parte scoperte sino all'osso, oppure raggruppate in nodi pieni di secrezione rossiccia. La testa, il collo e la mano indicavano in modo orribile quale, pur troppo, doveva essere lo stato di tutto il corpo. Vista così non arrecava meraviglia che la vedova del principe Hur fosse riuscita a mantenere l'incognito per tanti anni. L'infelice pensava che fra poco, quando il sole avrebbe dorata la vetta dell'Oliveto, Amrah sarebbe venuta, ch'essa si sarebbe fermata prima al pozzo, poi portandosi fino ad una pietra a mezza strada fra il pozzo ed il piede del monte, vi avrebbe collocato il contenuto della sua cesta e riempita l'anfora di acqua fresca. — Dell'antica felicità questa breve visita era ormai tutto quanto rimaneva alla povera martire. Poteva così avere notizie dell'amato figlio, e confortarsi al pensiero ch'egli almeno era sano e prosperoso. Per quanto scarse fossero quelle notizie, costituivano pur sempre un balsamo pel suo cuore esulcerato. Quando sapeva che egli era di ritorno alla casa paterna, essa usciva all'alba dalla sua cella sepolcrale e rimaneva assisa fino a mezzogiorno e da mezzogiorno fino al cader del sole, immobile come una statua nella sua veste bianca, collo sguardo sempre rivolto laggiù, al di là del Tempio, ov'era la casa sua, così ricca di care memorie, ora più cara che mai, perchè abitata dal figlio. No, più nulla le rimaneva. Tirzah andava annoverata fra i morti, ed essa stessa trascinava una vita che altro non era che un martirio lento di cui le era forza attendere la fine. Misera era la natura presso quella collina, nè alcun punto ridente si offriva allo sguardo onde rompere la monotonia all'occhio dello spettatore. Gli animali fuggivano quel luogo come se ne conoscessero la storia e l'uso cui era destinato; ogni verde pianticella vi periva nella sua prima età; il vento vi sradicava gli ischeletriti arbusti e soffiava spietatamente nell'erica inaridita. La desolazione generale veniva inoltre accentuata dai numerosi emblemi di mortalità, — sepolcri e null'altro che sepolcri, — tutti di fresco imbiancati per norma dei pellegrini; la stessa volta azzurra del cielo, pel penoso contrasto fra lo splendore lontano e la miseria colla quale la povera lebbrosa era in immediato contatto, rendeva più insopportabile quel soggiorno maledetto. Qual sollievo poteva arrecarle la luce del sole, che non fosse amareggiato dal pensiero che senza quella luce essa e sua figlia non sarebbero oggetti d'orrore a se stesse ed agli altri! E se mi chiedete perchè essa medesima non poneva fine a quel martirio, rispondo: _Perchè la legge lo proibiva!_ Un Gentile potrà sorridere di questa risposta, ma non mai un figlio d'Israele. Mentre l'infelice stava mestamente ripensando ai casi suoi, una donna comparve ansante e vacillante come oppressa da fatica. La vedova balzò in piedi, si coprì rapidamente il capo e gridò con una voce di singolare asprezza: — «sono infetta, sono infetta!» — L'istante appresso, senza menomamente badare all'avvertimento, Amrah si era precipitata ai suoi piedi. Tutto l'amore da tanti anni accumulatosi e compresso nel cuore di quella buona creatura proruppe d'un tratto; — con lagrime e protestazioni appassionate essa baciò e ribaciò le vesti della padrona, la quale si era dapprima provata a strapparsi da lei, ma, non riuscendovi, dovette attendere che l'agitazione della fedele ancella si fosse calmata. — «Che hai mai fatto, Amrah?» — esclamò. — «È con tale disubbedienza che tu provi il tuo affetto per noi? Sciagurata! Tu sei perduta, e... il tuo padrone... tu non potrai mai più ritornare a lui!» — Amrah, sempre ai piedi della vedova, singhiozzava nella polvere. — «Il bando della legge ora colpisce anche te. Non puoi più ritornare a Gerusalemme. Che diverrà di noi? Chi ci darà pane? Oh, disgraziata, noi siamo perdute.» — — «Pietà, pietà,» — singhiozzava Amrah prostrata al suolo. — «Toccava a te aver pietà di te stessa e di noi. Ove potremo fuggire? Non v'è speranza alcuna d'aiuto. Serva infedele! non pesava già abbastanza su di noi la collera del Signore?» — Qui Tirzah, svegliata dal rumore, comparve sulla soglia del sepolcro. La penna si rifiuta a descrivere minutamente l'aspetto di quella sventurata. Mezza nuda, coperta di croste e di lividi cicatrici, quasi cieca, colle gambe e le estremità gonfie fino a raggiungere dimensioni grottesche, tale era Tirzah, che noi conoscemmo vaga creatura, seducente e piena di grazia infantile. — «È Amrah, madre?» — La serva fece per trascinarsi a lei. — «Fermati Amrah!» — gridò imperiosamente la vedova, — «ti proibisco di toccarla. Alzati e parti prima che qualcuno ti veda. Ma no.... dimenticava.... è troppo tardi! Tu devi ormai restar qui a dividere la nostra sorte. Alzati, ti dico.» — Amrah si pose ginocchioni e lottando coll'emozione che tuttora l'agitava, a stento potè profferire: — «Oh, mia buona padrona! Non sono un'infedele, un'ingrata — ti porto buone notizie.» — — «Di Giuda?» — e nel rivolgerle avidamente quella domanda la vedova si scoperse in parte il capo. — «V'è un'uomo meraviglioso» — continuò Amrah con voce fioca — «il quale ha il potere di guarirvi. Egli pronuncia una parola, e, subito.... gli ammalati.... diventano sani.... e i morti ritornano a vivere.... Sono venuta.... per condurvi da lui!» — — «Povera Amrah!» — mormorò Tirzah in tono di compassione. — «No» — gridò la vecchia con calore, comprendendo il significato di quell'esclamazione, — «no, per il Signore vivente, per il Signore d'Israele, pel Dio vostro e mio, vi giuro ch'io dico la verità. Venite con me, ve ne prego, e non perdiamo tempo. Stamane egli sarà in cammino per la città. — Guardate, già s'avanza il giorno. Presto, mangiate qualche cosa e partiamo.» — La madre era stata tutt'orecchi. Forse la fama dell'uomo misterioso era già giunta sino a lei. — «Chi è costui?» — chiese. — «Un Nazareno.» — — «Chi ti parlò di lui?» — — «Giuda.» — — «Giuda te ne parlò? Come? È egli a casa?» — — «Arrivò ieri sera.» — La povera lebbrosa sforzandosi a comprimere i violenti battiti del cuore, stette un momento silenziosa. — «Fu Giuda che ti mandò a dirmi questo?» — — «No, egli vi crede morte.» — — «Vi fu una volta un profeta che curò un lebbroso» — disse pensierosa la madre, rivolgendosi a Tirzah, — «ma egli teneva il suo potere da Dio» — indi guardò di nuovo Amrah. — «Come sa mio figlio che quell'uomo ha una tale facoltà?» — — «Giuda viaggiò con lui, udì i lebbrosi chiamarlo e li vide allontanarsi guariti, — prima uno solo, poi dieci, e poi tutti guarirono.» — Di nuovo la vedova tacque, ma l'ischeletrita sua mano tremava visibilmente. Forse essa si sforzava di dare al racconto la sanzione della fede, la quale è sempre assolutista delle sue esigenze, e di persuadersi che il suo caso non era diverso da quello degli altri infelici che Cristo aveva miracolosamente guarito. Non già ch'ella dubitasse dell'esattezza del fatto, poichè suo figlio ne attestava l'autenticità, ma essa cercava di comprendere la facoltà mercè la quale un uomo poteva compiere cose così miracolose. Sta bene investigare il fatto, ma per comprendere la facoltà da cui il fatto procede è indispensabile comprendere Dio; e colui che attende finchè ha compreso quel mistero è destinato a morire nell'attesa. Nella vedova la perplessità fu di brevissima durata; voltasi a Tirzah esclamò: — «Costui non può essere che il Messia!» — e non pronunciò quelle parole colla freddezza di chi razionalmente risolve un dubbio, ma da donna d'Israele versata nelle promesse di Dio alla sua razza, da donna giudiziosa e pronta a rallegrarsi del più piccolo sintomo che accenna al compimento di quelle promesse. Poscia proseguì, con crescente animazione: — «Mi ricordo di un tempo in cui a Gerusalemme e in tutta la Giudea correva la notizia della sua nascita, sì me lo ricordo. A quest'ora egli deve essersi fatto uomo; dev'essere così, sì sì, è lui! Amrah, noi verremo teco. Portaci l'anfora d'acqua che troverai nel sepolcro e prepara il cibo; mangeremo e poi partiremo.» — La refezione, anche perchè l'agitazione aveva tolto alle donne l'appetito, fu brevissima, e presto furono in cammino. Un sol dubbio le tormentava. L'uomo veniva da Bethania: ora da quella città tre strade conducevano a Gerusalemme, una sul primo altipiano dell'Oliveto, la seconda al piede dello stesso monte, la terza passava fra il secondo altipiano ed il monte denominato dell'Offesa. Non distavano molto l'una dall'altra, ma pure abbastanza per impedire a quelle sventurate di vedere il Nazareno caso mai non seguissero la strada da lui percorsa. Poche parole bastarono a convincere la madre che Amrah non conosceva affatto il paese oltre la valle di Cedron, e ch'essa ignorava del pari le intenzioni dell'uomo atteso. Incombendo pertanto a lei il dirigere la spedizione, non si perde' in vane congetture. — «Andremo prima a Bethfage» — esclamò. — «Giunte colà, se il Signore vorrà aiutarci, apprenderemo ciò che ci converrà di fare.» — Scesero la collina fino a Tophet, presso il giardino del Re, e sostarono sul sentiero segnato nel corso dei secoli dai passi di innumerevoli viandanti. — «Non credo che prenderà questa strada,» — osservò la vedova — «sarà meglio scegliere la campagna fra le roccie e gli alberi. Oggi è giorno di festa e vedo su quel versante indizii di folla che attende; valicando qui il monte dell'Offesa potremo schivar la gente.» — Tirzah, che aveva finora camminato con difficoltà, all'udire quella proposta si sentì mancare. — «Il monte è ripido, madre, non potrò mai salirlo.» — — «Ricordati che andiamo a ricevere salute e vita. Guarda, figliuola mia, come già splende il giorno, e se quelle donne laggiù, che vengono al pozzo qui vicino, ci scorgono, ci scaglieranno contro delle pietre. Andiamo, sii forte per questa volta.» — Così la povera madre, quantunque essa stessa soffrisse atroci torture, si provò ad infondere coraggio nella sua creatura. Amrah venne in suo soccorso. Finora quest'ultima non aveva toccato le persone delle due lebbrose, ma ora, a dispetto delle conseguenze, nonchè degli ordini della padrona, quella donna sublime per abnegazione, s'appressò a Tirzah, le prese amorosamente un braccio che si pose attorno al collo sussurrando: — «Appoggiati a me, sono forte, sai, quantunque vecchia, la strada è breve. Andiamo, coraggio!» — Il versante della collina ch'esse s'accingevano a salire, era spesso interrotto da fossati e da ruderi d'antiche costruzioni, ma quando finalmente si fermarono sulla vetta per riprendere lena e si trovarono di fronte allo splendido panorama limitato dal Tempio coi suoi nobili terrazzi, dal monte Sion, e dalle bianche sue torri confondentisi colle nubi, la madre attinse nuova forza dal desiderio di vivere. — «Guarda, Tirzah» — esclamò — «come le lastre d'oro della Porta Magnifica riflettono i raggi del sole quasi volessero rendere lo splendore che ricevono! Non ti ricordi del tempo quando solevamo andarvi insieme? Oh come sarà dolce il farvi ritorno! Pensa, cara, che la nostra casa non è lontana! mi pare di vederla al di là del tetto del Tempio santissimo! e Giuda che sarà là a riceverci!» — Dal versante dell'altipiano di mezzo, ornato di mirti e d'olivi, videro sorgere sottili colonne di fumo annuncianti l'attività mattutina dei pellegrini ed avvertenti le donne della necessità di far presto. Ma per quanto la buona Amrah s'affaticasse ad agevolare la discesa alla fanciulla, questa mandava un gemito di dolore ad ogni passo, e quando a stento fu raggiunta la strada fra il Monte dell'Offesa ed il secondo altipiano dell'Oliveto, essa cadde a terra spossata. — «Va tu avanti con Amrah, madre, e lasciami qui,» — mormorò con un fil di voce. — «No, no, Tirzah! A che mi gioverebbe la salute, se io sola guarissi? Allorchè Giuda mi domanderà di te, che gli risponderò io, se ora ti abbandono?» — — «Digli che l'ho amato.» — La madre, che s'era chinata sull'affranta figliuola, s'alzò, e volse lo sguardo attorno disperata. La gioia che la speranza d'una guarigione aveva accesa in lei, era più per la figlia che per se stessa. Tirzah era giovine ed avrebbe avuto tutto il tempo per dimenticare gli anni terribili. Nell'istante in cui quella donna eroica stava per rinunciare ad ogni ulteriore tentativo, abbandonandosi alla volontà di Dio, vide un uomo a piedi avanzarsi a passi rapidi sulla strada da oriente. — «Coraggio, Tirzah! confortati!» — disse, sentendosi rinascere in seno la speranza, — «vedo qualcuno, che, ne sono certa, ci darà notizia del Nazareno.» — Amrah aiutò la fanciulla a sedere, e la sostenne in attesa dell'uomo che continuava ad avvicinarsi. — «Nella tua bontà, madre, dimentichi che cosa noi siamo. Quello straniero ci fuggirà dopo aver imprecato contro di noi, se pur non ci prenderà a sassate.» — — «Vedremo.» — Era tutto quanto essa poteva rispondere, ben sapendo la povera madre quale trattamento veniva riservato dai suoi concittadini ai poveri lebbrosi. Come già dicemmo, la strada sul ciglio della quale stavano aggruppate le tre donne, non era che un sentiero formatosi naturalmente dal passaggio dei viandanti, e serpeggiante fra cumuli di pietra calcarea. Se quello sconosciuto seguiva il sentiero, non poteva mancare di trovarsi faccia a faccia colle tre infelici. Così avvenne infatti. Egli continuò sul sentiero finchè fu a portata d'udire il grido che la legge obbligava i lebbrosi ad emettere. La vedova s'era scoperta il capo e gridava: — «Siamo infette, siamo infette!» — Con sua infinita sorpresa, lo sconosciuto non si fermò, ma venne tranquillamente a loro. — «Che volete?» — chiese egli quando si trovò a soli quattro passi di distanza da loro. — «Tu vedi il nostro stato. Sta in guardia» — disse la vedova. — «Donna, io sono messaggero di colui il quale non ha che a parlare una volta a gente come te per guarirla. Non ho paura.» — — «Il Nazareno?» — — «Il Messia» — rispose. — «È vero ch'egli verrà oggi alla città?» — — «Egli è in questo momento a Bethfage.» — — «E per qual via verrà?» — — «Per questa.» — La donna giunse le mani ed alzò gli occhi al cielo. — «Chi credi tu ch'egli sia?» — chiese lo sconosciuto, in tono di commiserazione. — «Il Figlio di Dio» — rispose con convinzione l'interrogata. — «Attendilo qui allora, e poichè egli è accompagnato da una grande moltitudine, appoggiati a quella roccia bianca, sotto l'albero; quand'egli passerà non devi esitare a chiamarlo; chiamalo e non abbi timore. Se la tua fede è pari alla tua convinzione egli ti udrà quand'anche tuonasse il cielo in tempesta. Io vado ad annunciare il suo arrivo ad Israele raccolto dentro le mura e fuori della città. Pace, o donna, a te ed ai tuoi» — ed il messo proseguì la sua strada. — «Hai udito Tirzah? Hai udito! Il Nazareno è in cammino, qui, per questa strada, e ci ascolterà. Vieni, figliuola; là, sino a quella roccia, — coraggio, non è che un passo.» — Tirzah fece uno sforzo, e aiutata da Amrah si alzò, ma mentre si movevano, Amrah disse: — «Un momento! Quell'uomo ritorna» — e si fermarono ad aspettarlo. — «Perdono, buona donna» — fece il messo allorchè le ebbe di nuovo raggiunte — «ma ho pensato che il sole sarà cocente prima dell'arrivo del Nazareno e che alla vicina città io potrò facilmente trovar ristoro se ne avessi bisogno, per cui quest'acqua ti sarà più necessaria che a me. Prendila e buon pro' ti faccia. Non mancare di chiamarlo quando passa.» — Così dicendo, le porse una zucca piena d'acqua, ed invece di porla a terra, gliela mise in mano. — «Sei tu Ebreo?» — chiese essa con sorpresa. — «Sono Ebreo, e meglio d'un Ebreo, sono un discepolo di Cristo, il quale giornalmente insegna colla parola e coll'esempio ciò che io in questo momento faccio per te. Da lungo tempo il mondo conosce la parola _Carità_ senza mai averla compresa. Di nuovo dico pace a te ed ai tuoi.» — Egli se ne andò, e le tre donne si trascinarono alla roccia loro additata, distante circa trenta passi dalla strada. Vi si accovacciarono all'ombra di un albero i cui rami sporgevano sopra la roccia, e assaggiarono l'acqua della zucca, che fu loro di gran sollievo. In breve Tirzah s'addormentò. Le altre tacquero, perchè essa potesse dormire tranquilla. CAPITOLO IV. Durante la terza ora la strada in faccia al luogo ove riposavano le lebbrose incominciò ad animarsi pel crescente concorso di gente incamminata verso Bethfage e Bethania, ma al principio dell'ora quarta una folla straordinaria comparve sulla vetta dell'Oliveto, e le due donne veglianti videro con meraviglia che tutta quella gente portava in mano rami di palme tagliati di fresco. Mentre cercavano di indovinarne il significato, il rumore d'un altra moltitudine, proveniente da oriente, attirò in quella direzione i loro sguardi. Fu allora che la madre stimò bene di svegliare Tirzah. — «Che vuol dire tutto ciò?» — chiese quella. — «Egli viene» — rispose la madre. — «Costoro che noi vediamo escono dalla città e gli vanno incontro; quegli altri di cui udiamo il rumore sono gli amici che l'accompagnano, per cui è probabile che l'incontro abbia luogo proprio qui in faccia a noi.» — — «Se è così, temo assai ch'egli ci possa udire.» — Lo stesso timore aveva assalito la vedova. — «Amrah,» — domandò, — «allorchè Giuda parlò della guarigione dei dieci, con quali parole disse egli che i lebbrosi chiamarono il Nazareno?» — Essi dissero — «Signore abbi pietà di noi,» — oppure — «Maestro abbi pietà.» — — «Null'altro?» — — «Giuda non riferì altre parole.» — — «Infatti non ne occorrono altre» — mormorò fra di sè la vedova. Lentamente intanto, s'avanzava la moltitudine che proveniva da oriente; quando finalmente arrivò a una distanza relativamente vicina, gli occhi dei lebbrosi si fissarono sopra un'individuo a cavallo di un asino attorno al quale la turba ballava e cantava come delirante. Egli aveva il capo scoperto ed era vestito di bianco; olivastro era il colore del viso incorniciato dai lunghi capelli castani. Non guardava nè a destra nè a sinistra, e pareva incurante del tumulto che lo circondava, mentre l'espressione di profonda malinconia nello sguardo attestava la sua indifferenza alla popolare dimostrazione di cui era fatto segno. Dietro a lui veniva la folla in interminabile processione, con immenso clamore di grida e di canti. Invero non occorreva che alcuno dicesse alle lebbrose: — «Ecco il Nazareno!» — — «È qui, Tirzah,» — disse la madre — «Vieni figliuola,» — e così dicendo si pose innanzi al bianco macigno e cadde ginocchioni, mentre la figlia e la servente si collocarono ai fianchi. Al comparire della turba col Nazareno, quelli della città sostarono e si posero ad agitare le verdi palme intuonando ad una sol voce un canto, le cui parole erano: — «Benedetto sia il Re d'Israele, il quale viene nel nome del Signore!» — A quel canto risposero le migliaja di voci dell'altra folla con un grido che scosse l'aria come un improvviso e violento muggito di vento. In quello strepito la voce delle povere donne si perdeva, ed in verità sarebbe stato un miracolo se si fosse udita. Il momento era giunto e se non ne approfittavano subito, l'occasione era perduta per sempre. — «Facciamoci più vicini, figliuola; egli non può udirci» — fece la madre. Si alzò e s'avanzò barcollando. Stese in alto le sue luride mani e mandò il solito grido, con voce orribilmente stridula. Il popolo la vide, vide quel volto spaventevole e ad un tratto ammutolì. Tirzah, debole e sbigottita cadde a terra. — «I lebbrosi! i lebbrosi!» — — «Lapidateli!» — — «I maledetti da Dio! Uccideteli!» — Queste ed altre imprecazioni vennero a confondersi con gli osanna di altri gruppi della folla, troppo lontani per comprendere il motivo dell'interruzione. Eranvi però alcuni i quali, avendo più lungamente seguito il Maestro, non erano rimasti insensibili al suo esempio, uomini in cui lo spirito di carità era in parte penetrato. Questi se ne stettero silenziosi e guardarono il Nazareno, il quale si fermò innanzi alle donne. La vedova alzò gli occhi e li fissò trepidanti in quel volto calmo, bellissimo, pieno di tenerezza e pietà. — «Oh, Maestro, Maestro! tu vedi a che siamo ridotte, tu puoi guarirci, — abbi pietà di noi — pietà!» — — «Credi tu ch'io lo possa?» — chiese il Nazareno. — «Tu sei Colui di cui parlano i profeti, — tu sei il Messia,» — rispose la donna. A queste parole gli occhi di lui divennero raggianti. — «Donna,» — esclamò — «Grande è la tua fede; sia di te come tu vuoi!» — Si fermò un'istante come assorto in sè, e dimentico degli astanti, poi, senza aggiunger parola, si rimise in cammino, mentre la donna riconoscente esclamava — «Gloria a Dio l'Altissimo! Benedetto, tre volte benedetto il Figlio ch'egli ci ha dato!» — e la turba esultante, cantando osanna ed agitando le palme, seguì il Nazareno. Si coprì il capo la vedova, ed abbracciando Tirzah esclamò, fuori di sè dalla gioia — «Alza gli occhi, figliuola! Ho la sua promessa; egli è invero il Messia, e noi siamo salve — salve!» — ed entrambe ricaddero ginocchioni e vi rimasero finchè la processione fu in vista. La coda di questa era appena scomparsa dalla vetta del monte e l'eco dello strepito era ancora nell'aria, che già incominciava a manifestarsi il miracolo. Il primo sintomo si verificò nelle regioni cardiache delle lebbrose, ove più viva si fece la circolazione del sangue; questa andò accelerandosi in tutto il corpo, comunicando a quelle povere membra un senso d'ineffabile benessere. Ognuna delle donne si sentiva rinascere e ritornare quale era in un tempo di cui quasi avevan smarrito il ricordo. Contemporaneamente, come a completare la loro purificazione, un novello vigore invase lo spirito esaltandolo in un vero fervore d'estasi, e la coscienza del cambiamento che andava operandosi in loro generò un'inesprimibile sentimento di celeste beatitudine di cui dovevano serbare le traccie per tutta la vita. A questa miracolosa trasformazione assisteva, oltre ad Amrah, un altro testimonio. Il lettore ricorderà la costanza colla quale Ben Hur seguiva il Nazareno in tutte le sue peregrinazioni e, s'egli ha presente la conversazione della sera precedente, non sarà sorpreso d'apprendere che il giovane Ebreo era stato presente all'incontro delle due lebbrose: ch'egli aveva udito l'appello della madre, che ne aveva veduto il volto ributtante, che non gli era sfuggita la sua risposta. Il suo interesse pel Nazareno era più vivo che mai, come era vivo in lui il desiderio di risolvere una buona volta ogni dubbio sulla missione di quell'uomo meraviglioso; anzi questo suo desiderio si era fatto più intenso per la convinzione che in quel giorno stesso, prima del cader del sole, sarebbe stata proclamata la verità. Egli s'era pertanto scostato dalla processione e, sedutosi su un macigno, ne aveva attesa la partenza, scambiando segni d'intelligenza con molti individui confusi nella folla che gli sfilava davanti. Erano Galilei, assoldati da lui, e portanti corte spade nascoste sotto le vesti. Dopo qualche tempo passò un'arabo, dal volto abbronzato, conducendo per mano due cavalli. Ben Hur gli fece segno d'avvicinarsi e quando tutta la turba fu lontana, gli disse: — «Fermati qui; desidero esser presto in città e Aldebran mi sarà utile» — e dopo aver accarezzata la fronte spaziosa del bellissimo cavallo, andò verso le donne. Non bisogna dimenticare ch'esse gli erano affatto sconosciute e che solo l'interessavano come soggetti d'un esperimento sopranaturale, il cui risultato l'avrebbe forse potuto aiutare a risolvere il mistero che da tanto tempo lo preoccupava. Cammin facendo, gettò per caso uno sguardo sopra la vecchierella presso la roccia bianca, che si nascondeva il viso con le mani. — «Per il Signore vivente, ma quella è Amrah!» — disse fra sè. Accelerò il passo e si avanzò verso di lei senza badare alle lebbrose. — «Amrah!» — le gridò, — «che fai tu qui?» — Essa si precipitò ai suoi piedi, acciecata dalle lagrime che le strappava il conflitto fra la gioia ed il timore, ed incapace pel momento di profferire una parola; finalmente potè esclamare: — «Oh, padrone, padrone! Com'è buono il Signore!» — La cognizione che acquistiamo in forza della simpatia che c'ispirano altri in momenti di dure prove, è un fenomeno poco compreso e vago; è singolare che quella simpatia ci permetta, fra le altre cose, di fondere la nostra identità con gli altri in tal misura che spesso i dolori di quelli e le loro gioie diventano sensazioni nostre. Così la povera Amrah, tenutasi in disparte e nascondendo la faccia, sapeva della trasformazione operantesi nelle lebbrose, senza che le si fosse detta una parola, e sapendolo, divideva pienamente i sentimenti che provavano le due donne. — Il suo aspetto, le sue parole, il suo contegno la tradivano, e con rapido presentimento Ben Hur corse col pensiero alle lebbrose; sentì in sè la certezza che Amrah era li per loro, e si volse nell'atto stesso ch'esse si alzavano da terra. — Il cuore cessò di battergli in petto, — rimase un'istante come pietrificato — muto — atterrito. La donna ch'egli aveva veduto in faccia al Nazareno era lì colle mani congiunte e cogli occhi bagnati di lagrime, guardando il cielo. La trasformazione avrebbe bastato in se stessa a giustificare la sua sorpresa, ma questa non era che in piccolissima parte la causa della profonda commozione da cui si sentiva invaso. Poteva egli credere ai proprii occhi? Sognava egli o era desto? Chi era costei che tanto assomigliava a sua madre? A sua madre com'ella era nel giorno in cui gli fu a forza strappata dal Romano, salvo che i capelli erano ora brizzolati? E chi le stava allato se non Tirzah? Fattasi più bella e più matura, ma sotto ogni altro riguardo la Tirzah di prima, quale egli se la ricordava quel mattino fatale della loro separazione. Ben Hur le aveva credute morte e coll'andar del tempo s'era rassegnato a quella convinzione; non già ch'egli avesse cessato di rimpiangerle, ma coll'estinguersi d'ogni speranza s'erano dileguate le loro immagini, nel senso ch'esse non figuravano più nei suoi piani d'azione, nei suoi sogni d'avvenire. — Ora che se le vedeva davanti, dubitando dei proprii occhi, stese una mano sul capo della servente e tremante balbettò: — «Amrah, Amrah! — mia madre! Tirzah! dimmi se è vero — se non m'inganno!» — — «Padrone, parla ad esse, parla,» — rispose quella. Non attese altro Ben Hur, ma, aprendo le braccia, si precipitò verso le donne gridando — «Madre! Madre! Tirzah! Sono io!» — All'esclamazione del figlio rispose quella della madre e della sorella, e con non minor impeto le due donne gli si slanciarono incontro; ma ad un tratto la madre s'arrestò, balzò indietro spaventata e mandò il grido d'allarme — «Sono infetta, sono infetta! Fermati Giuda, non avvicinarti!» — Non era per effetto d'abitudine che la povera donna emise quel grido, era l'amor materno che, superiore a qualunque altro impulso ed a qualunque considerazione, si affermava. Rapido come un lampo s'era affacciato il dubbio che, quantunque guarite, sussistesse il pericolo di trasmettere il morbo all'amato figliuolo, pel contatto delle vesti. Ma un tal timore nulla poteva su di lui, o meglio ei non vi pensò affatto. Un istante appresso, i tre, così a lungo divisi, versavano lagrime di gioia, stretti in un solo abbraccio. Quando, passata la prima estasi, si ristabilì la calma, le prime parole della madre furono: — «Nella nostra felicità figliuoli miei, non dimentichiamo la gratitudine. Inauguriamo la nostra nuova vita coll'innalzare una preghiera a Colui cui tutto dobbiamo;» — e caduti ginocchioni, la vedova recitò ad alta voce la preghiera di ringraziamento. Tirzah, ne ripetè ad una ad una le parole, e così pure Ben Hur, ma era evidente che la sua fede non eguagliava quella della sorella, poichè, alzati che furono, domandò: — «In Nazareth sua patria, si dice che quell'uomo sia figlio d'un falegname. Chi sarà egli mai?» — Con lo stesso sguardo di tenerezza dei tempi passati, la madre rispose come già aveva risposto al Nazareno: — «Egli è il Messia.» — — «E da dove gli viene il suo potere?» — — «Possiamo desumerlo dall'uso ch'egli ne fa. Puoi tu dirmi s'egli ha mai fatto del male?» — — «No, mai.» — — «Se è così, io ti dico ch'egli tiene il suo potere da Dio.» — Non è cosa facile l'emanciparsi di colpo da abitudini di pensiero cresciute in noi con l'andar degli anni, e quando Ben Hur si domandava quale allettamento potesse mai offrire ad un tal uomo la vanità di questo mondo, la propria ambizione non gli concedeva di riconoscersi in errore, persistendo egli come pur troppo facciamo noi, a misurare Cristo alla stregua di sè stesso. In verità, assai meglio faremmo, se valutassimo noi stessi alla stregua di Cristo. Naturalmente fu la madre che per la prima si ricordò delle pratiche necessità della vita. — «Che faremo noi ora, figlio mio? ove andremo?» — Ben Hur, richiamato alla realtà delle cose, non potè a meno di constatare come ogni traccia del flagello fosse scomparsa e come ognuna delle donne avesse ricuperata tutta l'avvenenza della persona. Egli si levò il mantello e lo buttò sulle spalle di Tirzah, dicendole con un sorriso di fraterno orgoglio: — «Lo sguardo del viandante ti avrebbe prima schivato ed ora egli non deve offendere il tuo pudore.» — Quell'atto mise in vista la spada ond'era cinto. — «È tempo di guerra?» — chiese la madre con curiosità. — «No.» — — «Perchè allora sei tu armato?» — — «Potrebbe essere necessario per difendere il Nazareno» — rispose Ben Hur, celando in parte la verità. — «Ha egli nemici? e chi son dessi?» — — «Ahimè! madre, essi non son tutti Romani.» — — «Non è egli figlio di Israele e pertanto un uomo di pace?» — — «Nessun altro amò mai la pace più di lui, ma agli occhi dei rabbini e dei dottori egli è colpevole d'un gran delitto.» — — «Qual delitto?» — — «Ai suoi occhi il Gentile non circonciso è meritevole della grazia divina non meno d'un Ebreo dei più rigidi costumi. Egli predica una nuova legge.» — Tacque la madre, e la comitiva si raggruppò all'ombra dell'albero i cui rami sovrastavano alla roccia. Frenando l'impazienza d'accogliere nella casa paterna i suoi cari e di udirvi il racconto della loro vita, Ben Hur spiegò loro la necessità assoluta di conformarsi alle disposizioni di legge regolanti il loro caso, e concluse col chiamare l'arabo per ordinargli di precederlo coi cavalli fin presso la Porta di Bethesda: poi tutti assieme si avviarono al Monte dell'Offesa. Si comprende come in ben diverse condizioni si compisse il ritorno. Camminando rapidamente, con passo leggiero e la letizia in cuore, arrivarono in breve ad un sepolcro eretto in vicinanza a quello d'Assalonne e dominante la vallata di Cedron. Constatato ch'esso non era occupato da alcuno, le donne ne presero possesso, e Ben Hur le lasciò per prendere sollecitamente le disposizioni richieste dalla loro nuova condizione. CAPITOLO V. Ben Hur piantò due tende nella valle superiore di Cedron a pochi passi dalla tomba dei Re, le ammobigliò in fretta e furia e vi condusse la madre e la sorella perchè vi soggiornassero in attesa del certificato di libera circolazione che darebbe loro il sacerdote ispettore. Nel cedere all'impulso del proprio cuore, e nel compiere il proprio dovere di figlio, il giovane si era messo nell'impossibilità di partecipare alle cerimonie della grande festa imminente, o anche solamente di por piede in una delle corti del Tempio, restrizione che gli tornò assai gradita poichè gli permise di dedicarsi intieramente all'adorata famiglia. Racconti di vicende come le loro, di tristi esperienze attraverso il corso di diversi anni, di patimenti fisici e di più acuti dolori morali, sogliono necessariamente occupare molto tempo, anche perchè gli incidenti di rado si seguono in ben ordinata connessione. — Ben Hur ascoltò la narrazione delle due donne dissimulando sotto la calma apparente i sentimenti che essa gli suscitava nel petto, — sentimenti d'ira e di vendetta, che aumentavano d'intensità di mano in mano che s'accumulavano le raccapriccianti rivelazioni. Pazze idee gli attraversavano il cervello, ed ancor più pazzi proponimenti si svolgevano in lui, come per esempio quello di far insorgere la Galilea, e già la contemplazione d'un eccidio generale degli aborriti oppressori lo riempiva di gioia selvaggia; buon per lui che la ragione, frenando quegli impeti passionali, non tardò a riprendere il sopravvento ed a fargli presente l'inanità d'ogni tentativo che non fosse il risultato d'un'azione concorde di tutto Israele; dopo di che i suoi pensieri e le sue speranze fecero ritorno al punto di partenza cioè al Nazareno ed ai suoi propositi. — Vi fu un momento in cui la sua riscaldata fantasia lo spinse ad improvvisare la seguente invocazione in bocca dell'uomo misterioso: — «Ascoltami o Israele! io son colui, promesso dal Signore, nato Re dei Giudei, che viene a iniziare l'impero di cui parlavano i profeti. Sorgi ora, e conquista il mondo!» — Ah, se il Nazareno pronunciasse quelle parole, che tumulto scoppierebbe! quante bocche le ripeterebbero esultando in ogni paese, facendo sorgere sterminati eserciti! Ma le avrebbe egli pronunciate? Nelle sua impazienza d'incominciar l'opera, Ben Hur attinse la risposta a moventi mondani, perdendo di vista la duplice natura dell'uomo, e pertanto anche l'ipotesi che il divino in lui superasse l'umano. Nel miracolo di cui Tirzah e sua madre erano stato gli oggetti, egli scorgeva solo una facoltà ampiamente sufficiente a piantare la corona Ebraica sulle rovine d'Italia; più che sufficiente a ricostituire la società ed a riunire l'umanità in una grande famiglia purificata e felice: e quando quell'opera fosse compiuta, chi potrebbe asserire che la pace, solo allora possibile, non fosse degna missione d'un figliuolo di Dio? Chi potrebbe allora negare la redenzione dovuta a Cristo? E facendo pure astrazione d'ogni considerazione d'ordine politico, qual messe di gloria non raccoglierebbe egli come uomo? No, nessun mortale avrebbe la forza di rinunciare ad un simile avvenire. Intanto giù nella valle di Cedron e verso Bezetha, particolarmente lungo la strada che conduceva alla Porta di Damasco, andavano sorgendo tende, capanne e baracche d'ogni genere per uso dei pellegrini accorsi a celebrare la Pasqua. Ben Hur s'intrattenne con molti di quegli stranieri, ed ogni qualvolta ritornava alle loro tende si meravigliava del loro numero straordinario, sempre crescente. Quando poi scoperse che ogni parte del mondo, dall'India al settentrione dell'Europa, era fra loro rappresentata, e quando constatò che, sebbene tutta quella gente non conoscesse una sillaba d'Ebraico, era colà convenuta con lo stesso scopo, cioè per la celebrazione della festa, un'idea quasi superstiziosa lo penetrò. Non potrebbe egli dopotutto aver frainteso il Nazareno? Non potrebbe darsi che colui coll'attendere pazientemente avesse abilmente dissimulato una tacita preparazione al compimento della grand'opera? — Ed infatti com'era di gran lunga più propizia quest'occasione, che non quella in cui i Galilei presso Gennezaret avevano voluto a viva forza incoronarlo! Colà il suffragio si limitava a poche migliaja, qui al suo appello risponderebbero milioni di voci. Continuando in quest'ordine di idee e passando da induzione ad induzione, Ben Hur esultò, pensando alla gloriosa prospettiva che si schiudeva ai suoi occhi, nel tempo istesso che s'accrebbe in lui la ammirazione per quell'uomo saturnino, che, sotto il manto d'infinita dolcezza e di meravigliosa abnegazione nascondeva l'accortezza d'un uomo di stato ed il genio d'un capitano. Di tempo in tempo, uomini dal volto abbronzato ed ombreggiato da folta barba, venivano in cerca di lui, e lo trattenevano in secreti colloquii; alle domande della madre, egli rispondeva semplicemente: — «Sono amici miei di Galilea.» — Per loro mezzo egli era tenuto a giorno delle mosse del Nazareno e delle insidie dei suoi nemici Rabbini e Romani. Sapeva che la vita di quell'uomo straordinario correva pericolo, ma si rifiutava di credere che ci fosse alcuno abbastanza temerario per assalirlo proprio nel momento della sua massima popolarità, e si confortava pensando alla sicurezza che presentava il numero enorme dei suoi ammiratori. In cuor suo Ben Hur faceva sopratutto assegnamento sul potere miracoloso di Cristo, mentre non gli passò neppure pel capo l'idea che chi esercitava un tal potere pel bene altrui non l'avrebbe forse voluto esercitare in propria difesa. Giova tener presente che questi incidenti avevano luogo fra il ventesimo giorno di Marzo, secondo il nostro calendario, ed il giorno venticinquesimo. Alla sera di quest'ultimo giorno, Ben Hur, non potendo più oltre frenare la propria impazienza, montò a cavallo e partì per la città promettendo di ritornare la stessa notte. Il cavallo galoppò di buona lena. Le strade, i ridenti vigneti che le fiancheggiavano erano silenziosi, le case deserte, e spenti i fuochi presso le tende; perchè alla vigilia di Pasqua tutti si recavano in città, affollando le corti del Tempio, ove si sgozzavano gli agnelli. Il cavaliere entrò dalla porta settentrionale e penetrò in Gerusalemme, festosamente illuminata in onore del Signore. CAPITOLO VI. Ben Hur scese alla porta del Khan, o albergo, dal quale, più di trent'anni prima, erano partiti i tre saggi per recarsi a Betlemme. Lasciò il cavallo in consegna ai suoi servi arabi, ed in breve arrivò alla casa paterna, ove si diresse al gran salotto. Chiamò Malluch, ma questi era assente; mandò allora un saluto ai suoi amici, il negoziante e l'Egiziano, ma anche questi si erano fatti trasportar fuori per assistere alla celebrazione; l'Egiziano, gli fu detto, era in uno stato di grande debolezza e sembrava molto accasciato. Il messo ch'egli aveva incaricato di chiedere notizie di Balthasar, s'era rivolto alla figlia, la quale veniva così informata dell'arrivo del padrone, ciò che probabilmente Ben Hur aveva voluto. Essa non tardò a comparire, leggiera come una silfide nei bianchi veli che le svolazzavano attorno avvolgendo nelle loro pieghe la sua bella persona di Dea. Se dobbiamo dire la verità, durante l'agitazione suscitata dai recenti avvenimenti, Ben Hur non aveva pensato che di sfuggita all'Egiziana, ma ora, al suo apparire, in tutto lo splendore della sua bellezza, irresistibilmente affascinato, fece per precipitarsi verso di lei colle braccia amorosamente tese; senonchè, fatto appena un passo, s'arrestò come se uno spettro gli si fosse rizzato sul cammino e guardò attonito la ragazza. Fino a quel giorno, costei aveva messo in opera tutte le arti della più raffinata civetteria per ammaliarlo: — ogni suo sguardo era stato una confessione d'amore, confermato da ogni suo atto. Le sue parole blandivano dolcemente le orecchie del giovane, e gli risuonavano continuamente nel cuore durante le lunghe ore d'assenza. Per lui la seducente creatura pudicamente abbassava gli occhi come per celarne le fiamme, per lui erano i versi d'amore ch'essa aveva imparato dai menestrelli d'Alessandria e che sapeva recitare con irresistibile grazia; per lui le esclamazioni affettuose, i sorrisi, le suggestive strette di mano, i baci, le canzoni del Nilo, e gli studiati lenocinii dell'abbigliamento. L'idea, antica come i più antichi popoli, che la bellezza è il guiderdone degli eroi, non vestì mai forme così regali come quelle che si erano a lui rivelate. Tale era stata l'Egiziana per Ben Hur dopo la notte della gita in battello sul lago presso l'Orto delle Palme. Ed ora? Abbiamo già in altra parte di questo volume accennato alla duplice natura umana in rapporto ad un argomento sacro; qui è il caso di parlarne ancora, ma in senso ben diverso. Vi sono poche persone la cui indole non presenti due faccie, una natura genuina, spontanea, l'altra artificiale e finta, il risultato dell'educazione e delle circostanze, un intonaco di orpello che spesso finisce col diventare parte integrale dell'individuo, non meno della prima. Lasciando ai pensatori la cura d'approfondire questo tema, diremo che in questo momento la vera natura dell'Egiziana si manifestò nel modo più schietto e più completo. Le sarebbe stato impossibile di ricevere una persona estranea con più marcata ripugnanza. Eccezione fatta d'una leggiera inclinazione della sua testolina, di una insolita tensione delle nari e d'una maggiore incurvatura del sensuale labbro superiore, essa presentava l'impassibilità di una statua. Dopo una breve pausa incominciò freddamente: — «La tua venuta è opportuna, figlio di Hur. Desidero ringraziarti della tua ospitalità, poichè dopo la giornata di domani non avrò forse più occasione di approfittarne.» — Ben Hur si chinò leggermente, senza rimuovere lo sguardo da lei. Essa continuò; — «Mi sovviene d'un costume in voga presso i giuocatori di dadi; quando il giuoco è finito, essi consultano le loro tavolette e tirano le somme; poi libano in onore degli Dei, e pongono una corona sul capo del fortunato vincitore. Anche noi abbiamo giuocata la nostra partita che ha durato diversi giorni e diverse notti: ora ch'essa è finita dobbiamo vedere a chi spetta la corona?» — Sempre cogli occhi fissi su di lei, Ben Hur rispose in tono d'indifferenza — «Un uomo non può combattere contro una donna risoluta a fare la propria volontà.» — — «Dimmi,» — proseguì essa inclinando maggiormente il capo e sogghignando, — «dimmi o principe di Gerusalemme, ov'è quel figlio d'un falegname di Nazareth e non meno figliuolo di Dio, del quale tante grandi cose erano attese in questi ultimi tempi?» — Egli fece un gesto impaziente, e rispose: — «Sono forse il suo custode?» — La bella testa si chinò ancor più. — «Ha egli distrutto Roma?» — Ben Hur stizzito ripetè lo stesso gesto della mano. — «Ove ha egli stabilita la sede della sua capitale?» — continuò la donna, — «È permesso vedere il suo trono e i suoi leoni di bronzo? ov'è il suo palazzo? Diamine! chi può far sorgere i morti deve poter costruire palazzi dorati!» — Non era più ammissibile ch'essa volesse scherzare; le sue domande erano irritanti ed il suo contegno aggressivo. Ben Hur fu posto subito sull'avviso e disse con apparente bonarietà: — «Oh, Egitto, aspettiamo un giorno ancora, anche una settimana, e vedremo lui, i leoni ed il palazzo!» — Essa proseguì senza badare al significato di quelle parole: — «E perchè presentasi vestito così? Non son quelle le vesti dei governatori o dei vicerè delle Indie o d'altri paesi. Mi ricordo d'aver veduto una volta il satrapo di Teheran, con un turbante di seta, un mantello di tessuto d'oro, con una spada dall'impugnatura e dalla guaina talmente tempestate di pietre preziose, che n'ebbi un capogiro. Credetti proprio che Osiride gli avesse prestato un raggio del suo sole. — Stupisco assai che tu non sia ancora entrato in possesso del tuo regno, di quel regno ch'io doveva dividere teco.» — — «La figlia del saggio mio ospite è, senza volerlo, ben gentile con me, poichè m'insegna ch'Iside può baciare un cuore senza renderlo migliore.» — Ben Hur pronunciò queste parole con fredda cortesia. Iras, trastullandosi con un brillante che le pendeva dalla collana, tacque un'istante, poi riprese. — «Per un Ebreo, il figlio di Hur non manca di spirito. Ho assistito all'entrata in Gerusalemme del tuo Cesare sognatore, di colui che, a tuo dire, doveva proclamarsi Re dei Giudei sopra i gradini del Tempio. Vidi la processione che l'accompagnava e ne udii i canti; che bell'effetto facevano quelle palme agitate! Vi cercai invano una figura dall'aspetto regale, un cavaliere porporato, un cocchio d'abbagliante metallo, un maestoso guerriero dietro allo scintillante scudo, gareggiante in altezza colla propria lancia. Sarebbe stato pur bello vedervi un principe di Gerusalemme con una coorte delle legioni di Galilea!» — Accompagnò le parole con un provocante sguardo di disprezzo, poi diede in uno scroscio di risa come se l'immagine da lei evocata fosse ancor più ridicola che spregevole. — «Anzichè un Sesostri ritornante in trionfo o un Cesare incoronato, e con la spada al fianco, ah, ah, ah, vidi un'uomo dal volto muliebre e lagrimoso, montato su di un somaro! Il Re! il Figlio di Dio! il Redentore del mondo! ah, ah, ah!» — Suo malgrado Ben Hur sussultò. — «Non lasciai il mio posto, no, oh principe di Gerusalemme,» — proseguì essa, senza dargli il tempo d'interromperla, — «no, non risi, ma dissi a me stessa: Aspettiamo: nel Tempio egli si abbiglierà come s'addice ad un eroe sul punto di prendere possesso del Mondo. Lo vidi oltrepassare la Porta di Shushan e la Corte delle Donne. Lo vidi arrestarsi davanti la Porta Magnifica. Il popolo assiepava il porticato e i cortili; si affollava nei chiostri e sui gradini dei tre lati del Tempio, e tutti trattenevano il respiro in attesa della proclamazione. Qual silenzio solenne! ah, ah, ah, nella mia fantasia mi pareva già di udire lo scricchiolìo del crollante edificio Romano; ah, ah, ah! O principe, il tuo Re del mondo si avvolse nella sua veste e se n'andò per la porta più lontana, senza neppure profferire una parola e... l'impero Romano è ancora in piedi!» — In pietoso omaggio ad una speranz