The Project Gutenberg EBook of La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, by Bertrando Spaventa This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have to check the laws of the country where you are located before using this ebook. Title: La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea Author: Bertrando Spaventa Release Date: July 21, 2019 [EBook #59958] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA FILOSOFIA ITALIANA NELLE *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by the Bibliothèque nationale de France (BnF/Gallica) at http://gallica.bnf.fr) BERTRANDO SPAVENTA LA FILOSOFIA ITALIANA NELLE SUE RELAZIONI CON LA FILOSOFIA EUROPEA NUOVA EDIZIONE CON NOTE E APPENDICE DI DOCUMENTI A CURA DI GIOVANNI GENTILE BARI GIUS. LATERZA & FIGLI TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI 1908 PROPRIETÀ LETTERARIA A NORMA DELLE VIGENTI LEGGI Stampato in Trani, coi tipi della Ditta Tipografica Editrice Vecchi e C. PREFAZIONE ALLA PRESENTE EDIZIONE Questo libro, che ora si ristampa con note e un'aggiunta di lettere dell'autore e di suo fratello Silvio, utili a illustrarne l'origine e gl'intenti, vide la luce in Napoli nel 1862 col titolo di «_Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 23 novembre — 23 dicembre 1861_»[1]. Titolo troppo generico, almeno oggi, e però mutato nella presente edizione in quello suggerito dallo stesso soggetto del libro: _La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea_. Nel '62, infatti, a Napoli, contro i filosofanti giobertiani e nazionalisti, avversarii dell'insegnamento hegeliano inaugurato quell'anno nell'Università, il titolo scelto dallo Spaventa aveva un evidente significato, che s'è andato poi via via oscurando sempre più, mentre quell'Università è diventata quel che è diventata; al punto che esso ora potrebbe forse suonare rimprovero o ironia. Pure, la situazione spirituale della cultura italiana, nella quale il libro sorse, non si può dire sostanzialmente diversa dalla presente. E però il libro, rispondendo al desiderio di molti, dopo circa mezzo secolo ritorna alla luce. I giobertiani sono tutti spariti; e non c'è più nessuno forse che abbia la fisima della filosofia nazionale. Ma tutti intanto tornano a guardare, — come mezzo secolo fa a Napoli, — con animo tra curioso e ansioso, ad Hegel; e molti, sgomenti delle difficoltà con cui questi si presenta sempre alle menti più solide e più vigorose, invocano uno Spaventa che mostri la via di pervenire all'intelligenza della parte vitale di quella dottrina, e di sperimentarne e gustarne la verità. Al luogo dei giobertiani ci saranno i positivisti, i prammatisti, i neo-spiritualisti e altri e altri sbandati della filosofia, dai quali questa deve ogni giorno difendersi, con la storia alla mano, dimostrando i proprii diritti acquisiti. In vece dei nazionalisti ci sono altri avversarii, che, come quelli pretendevano la marca nazionale, non s'acconciano a prendere sul serio e mettersi a studiare una filosofia se non ci vedono la marca _scientifica_: rappresentanti questi come quelli della pigrizia e dell'inerzia intellettuale e morale, di cui non v'ha ostacolo più grave a chi voglia rianimare con le intuizioni profonde e sincere della vita gli studi e lo spirito d'una nazione. E così, _mutatis mutandis_, la questione che importa, oggi come nello scorcio del 1861 quando lo Spaventa si riprometteva, iniziando il suo insegnamento a Napoli, di promuovere di là un profondo risveglio speculativo nel nostro paese, è la stessa: _giustificare il punto di vista della filosofia come sapere assoluto_. Oggi muterebbe il linguaggio dello Spaventa; ma egli potrebbe tornare a scrivere lo stesso libro, solo inserendovi in mezzo qualche capitolo relativo alle tendenze filosofiche apparse in Italia più tardi, e da lui criticate in altri scritti posteriori. Giacchè il problema dottrinale preso a trattare in questo libro assume una forma storica, che può parere a molti il lato più importante di esso, poichè ne riesce disegnata in iscorcio una storia — l'unica storia che finora si abbia — della filosofia italiana ne' suoi momenti principali. E realmente l'interesse storico non è qui in seconda linea. Per lo Spaventa, infatti, tutta la storia della filosofia italiana, — da lui già abbozzata un anno innanzi in una prolusione letta a Bologna[2] — si raccoglie appunto nelle dieci lezioni d'_Introduzione_ da lui fatte nel primo mese del suo insegnamento napoletano, condensandovi tutti i suoi studi precedenti su Bruno, Campanella, Vico, Galluppi, Rosmini e Gioberti. La _Prolusione_ precedente è un'introduzione a questa storia. Lo _Schizzo d'una storia della logica_ (da lui denominato nella prima edizione semplicemente: _Appendice alla Introduzione_) serve di schiarimento ai succosi cenni intorno alla filosofia tedesca più recente, che gli erano occorsi nella storia di quella italiana, rappresentata, com'era giusto, nel suo nesso storico con tutta la filosofia europea. Se non che l'interesse storico, come lo sentiva lo Spaventa, non era diverso dallo stretto interesse scientifico. Il libro pare una polemica, ed è una ricerca; pare una mera storia, ed è una fenomenologia dello spirito, cioè vera e propria filosofia. La polemica c'è; ma si riduce al colorito letterario del libro, per intendere il quale bisogna riferirsi alle condizioni della cultura italiana, e specialmente napoletana, dopo il rinnovamento di quella Università operato in quell'anno dal De Sanctis[3]. Ma, guardando alla sostanza delle cose esposte, è facile accorgersi, che quando l'autore cerca nel Risorgimento i primi germi della filosofia moderna, e ne studia i primi lineamenti nel soggettivismo di Campanella e nel naturalismo di Bruno, vedendo anticipati quasi, in Italia, Cartesio e Locke da una parte, e Spinoza dall'altra; e quando scruta in Vico gli oscuri accenni a una filosofia dello spirito, non semplicemente critica, come sarà in Kant, ma metafisica, quale sarà in Hegel, e così vede pronunziato in Italia tutto quasi il nuovo mondo del pensiero moderno, che, formatosi a sistema in Germania, è poi il mondo dei nostri Galluppi, Rosmini, Gioberti; è facile accorgersi che l'autore non pensa più che tanto ai piccoli avversarii tumultuanti nell'aula affollata delle sue lezioni, ma ha innanzi la storia del pensiero moderno europeo, che indaga con tutta serietà di spirito per ricostruirne, a sè prima che ad altri, il procedimento vero e necessario. Il libro era sorto nella mente dell'autore prima ancora della speranza d'una cattedra lì a Napoli, dove nel 1847 gli era stato chiuso dal Governo uno studio privato; era sorto in un periodo di fervore spirituale in cui egli sentì il bisogno di fare i conti con la filosofia italiana recente, già per molti anni spregiata[4]. In una lettera del 13 maggio 1857, sollevando il fratello dalla noia mortale dell'ergastolo, dove Silvio divideva da otto anni col Settembrini la fiera compagnia degli assassini, gli annunziava[5]: «Mi apparecchio a scrivere qualche cosa di meglio, o di peggio, delle cose scritte sinora». Voleva scrivere un lavoro sulla _Fenomenologia_ di Hegel, che leggeva e rileggeva, vedendoci sempre più addentro. «Una critica della filosofia italiana moderna non mi pare che possa essere veramente utile senza la soluzione, e se non nella soluzione, del problema della fenomenologia. Ciò che ti negano sempre, è il sapere assoluto. Bisogna dunque elevarsi a questo sapere, e mostrare, nel tempo stesso, che i principii delle loro filosofie sono inferiori — e perciò gradi che debbono essere negati — a quello della filosofia hegeliana... Chi sa se potrò riuscire, almeno in parte!». E il 13 luglio dello stesso anno tornava a scrivergli, chiarendo meglio il concetto del suo nuovo lavoro: «Ti ho detto... che lavoravo intorno alla _Fenomenologia_, e che il difficile non era solamente il comprendere il concetto e il metodo di essa, ma anche il trovare una radice nella nostra filosofia, un punto d'appoggio per tutta la critica. Ora ho tra le mani questi filosofi, compreso il Galluppi, e credo d'aver trovato questo punto... Cos'è la coscienza in generale, che è l'oggetto della _Fenomenologia_? In Rosmini, Galluppi, ecc. dove posso trovare la coscienza sensibile, che è il punto da cui comincia la _Fenomenologia_? L'ammettono essi, come l'ammetteva Hegel? Se l'ammettono, a me non fa nulla che da questo punto vadano a risultati diversi; la battaglia e la critica sarà appunto intorno a ciò che bisogna farne di questo punto comune per la soluzione del problema, che più o meno è lo stesso per tutti: la verità del sapere». E si mostrava assai soddisfatto della scoperta fatta dell'identità della _certezza sensibile_ hegeliana (unità di universale e di particolare: _ist da_) con la _sensazione_ del Galluppi e con la _percezione intellettiva_ del Rosmini. In una lettera successiva, dell'11 ottobre 1857, aggiungeva che la critica, che aveva in animo di scrivere dei filosofi italiani, doveva essere «un saggio da mettere nella _introduzione_» del suo lavoro sulla Fenomenologia: per «far vedere i vizii delle teoriche sulla conoscenza dei nostri filosofi; come non bastino a se stesse e vogliano un altro modo di soluzione ecc.; quindi la necessità... della fenomenologia». Ma via via che ristudiava questi filosofi, trovava sempre altro. E il 25 gennaio del '58 tornava a scrivere: «Continuo a lavorare sui filosofi nostri, e vedo o credo di vedere tante cose che sarebbe lungo dirti». Finì per addentrarsi in una lunga critica del Gioberti. A un tratto aprì una parentesi «sul problema della cognizione, e in generale dello spirito, senza distinguere l'umano e il divino. Come è possibile lo spirito? Rispondono: è possibile perchè così _l'ha fatto_ Dio. Come vedi, non è una risposta. Io domando da capo: come è possibile lo spirito (cioè Dio)? Questo è il problema nuovo della filosofia: il problema della filosofia tedesca. E mi pare che sinora la migliore soluzione è l'hegeliana... Non so se quello che ho scritto va bene interamente; in certi punti mi sono incontrato con Hegel; in certi altri non so bene ancora se sì o no» (lettera 8 marzo 1858). — Chiusa questa parentesi, che non fu mai pubblicata, ma di cui è facile rintracciare le idee nel presente volume, di nuovo a Gioberti. Ma le _Postume_ di questo filosofo, da poco venute in luce (1856-57), e allora lette dallo Spaventa, giovarono a mutare la sua disposizione spirituale verso questo filosofo e il movimento speculativo, di cui esso era quasi la conclusione; e mutò quindi il suo apprezzamento e il suo concetto di questo movimento. L'8 febbraio 1858, rileggendo il vecchio Gioberti, diceva al fratello: «È inutile che ti ripeta che non mi piace affatto, anzi mi dispiace sempre più. Di filosofico non c'è nulla, meno un _contenuto_ farraginoso, che al far de' conti si trova poi in ogni sistema, anche nella stessa rappresentazione religiosa. E infatti il suo sistema non è che una continua _rappresentazione_: è una filosofia _rappresentativa_». Il 2 settembre dello stesso anno, invece: «Mi sono un po' riconciliato con quest'uomo. Negli ultimi suoi scritti (postumi) si spoglia di molte imperfezioni, che trovavo nella prima forma del suo sistema; ed è curioso vedere questo sviluppo come una specie di critica che il suo pensiero fa di se stesso». E, a rifletterci bene, riconosceva che «già qualche germe del nuovo ci è nella prima forma, ma inviluppato e nascosto». Pure, nè anche la nuova forma del sistema del Gioberti poteva bastare. In lui manca sempre la scienza, ossia il vero e proprio sistema. Procede per aforismi. «Ma se ne può cavare gran bene, perchè il contenuto è profondamente speculativo. Bisogna esprimere il suo pensiero nella sua vera forma e mostrare che certe determinazioni estrinseche, che egli stesso ha abbandonato poi necessariamente in gran parte, sono in contradizione cogli stessi suoi principii speculativi». Questa rivelazione delle _Postume_ giobertiane venne così a modificare il disegno del lavoro, che il nostro filosofo aveva in mente. Lo studio di questo nuovo Gioberti assumeva tale proporzione e importanza, che quella critica dei filosofi italiani la quale doveva essere solo una parte polemica dell'introduzione al suo lavoro, potè diventare atta per se stessa a servire di propedeutica alla scienza, e di propedeutica appropriata all'Italia, quale avrebbe dovuto essere il lavoro sulla _Fenomenologia_, che non fu più scritto. Poichè la nuova forma del sistema di Gioberti offriva il modo di dimostrare la necessità di tutto il processo fenomenologico, che conduce la coscienza al grado della scienza assoluta, ossia al punto di vista hegeliano, — che era il fine propostosi dallo Spaventa. E raccostati i nuovi studi sulla filosofia italiana del sec. XIX a quelli, che negli anni 1854 e 55 aveva pubblicati intorno al Bruno e al Campanella, egli potè scorgere quasi intera l'immagine del nostro pensiero intrecciato col moto generale della speculazione europea: donde quella formola della _circolazione del pensiero italiano_, che designa uno dei resultati maggiori e delle più incontestabili benemerenze degli studi di lui. Il quale pervenne, adunque, a questo concetto della filosofia italiana con indagini del tutto spregiudicate e scevre d'ogni preoccupazione polemica. Tuttavia, tra le prime mosse del pensiero nel Risorgimento e l'ultima sua tappa nel sec. XIX, restava nella solitudine del decimosettimo e decimottavo secolo, — che allo Spaventa apparivano quasi il periodo dell'esilio del pensiero dal nostro paese, — restava, torreggiante, misteriosa, la _Scienza Nuova_. Ma, quando per la prolusione di Bologna, egli volle rappresentare in un quadro completo il carattere e lo sviluppo della filosofia italiana dal Risorgimento in poi, e ristudiò con nuova intensità d'attenzione il suo Vico già lungamente meditato, questi gli parve irraggiare una gran luce in quel momento critico del pensiero europeo, in cui il vecchio dommatismo (l'antica metafisica dell'essere) privo com'era del concetto di _sviluppo_, fatte le ultime prove con la monadologia, stava per dissolversi esausto nello scetticismo di Hume, per cedere quindi il campo a quel criticismo, che doveva iniziare una metafisica, non più dell'essere che è immediatamente se stesso (natura), ma dello spirito che si fa gradualmente da sè e per se stesso. Fu allora che il Vico gli apparve il precursore di questo nuovo mondo col suo concetto dello spirito come sviluppo, insieme con quello dell'unità della Provvidenza divina e dell'umana, oscura affermazione dell'esigenza moderna d'una metafisica, per cui la natura, opera di Dio, non fosse altro dalla storia, opera della mente, e unico fosse perciò lo sviluppo, e la natura grado dello spirito. — La storia della filosofia italiana fu così per lo Spaventa conchiusa: ed era una storia che confortava, con la forza d'un procedimento razionale, ineluttabile, ad abbracciare il risultato principale della filosofia tedesca moderna, come l'effetto di un'opera a cui tutte le nazioni europee avevano collaborato. Ma era questa una semplice conclusione storica? Posto che l'interpretazione che lo Spaventa faceva dei nostri filosofi fosse esatta, ne seguiva per ciò che l'ultima loro conclusione fosse vera? Può insomma la storia essere addotta ad argomento di verità d'una filosofia? O voleva la ricostruzione dello Spaventa riuscire una revisione di titoli per stabilire l'esatto albero genealogico della filosofia italiana? — Certo, la storia, come semplice fatto, non prova nulla. Ma è mai la storia un puro e semplice fatto? Ecco una vecchia questione, la quale è però tutt'altro che chiusa, e può, male intesa e mal risoluta, impedire l'esatta intelligenza dell'indole e del valore di questo libro. Intanto giova ricordare che lo Spaventa si trovava innanzi la _Fenomenologia_ hegeliana, che è anche una storia della filosofia, anzi, nel suo complesso, una filosofia della storia, o dimostrazione della razionalità dell'intero processo storico dello spirito umano (_Weltgeist_): onde tutti i sistemi, come tutti i momenti della civiltà, son presentati quasi gradi necessarii, attraverso i quali lo spirito è passato (o meglio passa eternamente) per conquistare la piena coscienza della propria assoluta attività creativa. Ma, poichè non c'è storia della filosofia che possa assumere la forma d'un registro delle opinioni succedutesi nelle teste dei pensatori (anche nei cataloghi dei vecchi dossografi c'era un disegno e una critica); la stessa legge intrinseca della storia della filosofia doveva condurre lo Spaventa a concepire la sua costruzione storica come una dimostrazione scientifica di quello che gli pareva il principio definitivo raggiunto dalla storia. La legge è che la filosofia e la storia della filosofia sono, astrazion fatta dalle accidentalità letterarie e dal peculiare interesse degli autori, la stessa cosa; così come il razionale è lo stesso reale, e viceversa. Attraverso la storia, e attraverso il divenire (la guisa del nascimento) non possiamo non veder sorgere ed affermarsi la natura dello stesso reale. E per quanta poca fede si abbia nella razionalità della storia, non si può a meno di rappresentarcela, questa storia, secondo quel tanto di razionalità che siamo disposti ad attribuirle, cioè appunto secondo la razionalità della nostra filosofia. Lo scettico, si sa, è dommatico a suo modo; e se fa la storia, ci mette dentro quel suo duro arido dommatismo, che è scetticismo, nè più nè meno del dommatico. In breve, a questa legge, poichè è una legge, nessuno può sottrarsi: e l'eccellenza dello storico, il suo vigore speculativo, la sua mente animatrice e ricostruttiva si scorgono dal grado in cui egli riesce a realizzare tal legge. Orbene: in questo libro dello Spaventa, se si cancellassero i nomi de' varii filosofi menzionati, e si considerassero le rispettive posizioni progressive come ipotetiche, si avrebbe, anche nella forma, un'opera filosofica libera d'ogni carattere storico. Soltanto del Bruno la commozione suscitata nell'animo dello scrittore dal destino dell'_eroe del pensiero_, dell'_araldo e martire della nuova e libera filosofia_, move la sua penna a sbozzarne con pochi tratti da maestro il carattere morale. Pure anche quello, più che il ritratto di una persona realmente vissuta, lo diresti l'ipotiposi dell'ideale del filosofo vagheggiato da Bertrando Spaventa nella ricchezza della sua vita morale. Si dirà perciò che questa storia, — succinta, quasi scheletrica, perchè rimasta nella forma primitiva di appunti per le lezioni; ma sicura, felice e definitiva nel disegno e nelle singole caratteristiche, — non sia propriamente una storia, anzi una costruzione ideale? — Qualche volta infatti questa storia è stata giudicata così: ma è un giudizio che si può ritenere a priori per falso, poichè muove, in fondo, dal disconoscimento della suddetta legge della storia della filosofia. Pure contiene anch'esso una parte di verità, di cui bisogna rendersi conto. Ed è questa: che di storie della filosofia ce ne ha, almeno, due: una che pare abbia ad oggetto, come questa dello Spaventa, soltanto le idee dei filosofi, anzi dello spirito filosofico, unico attraverso il tempo e lo spazio; l'altra che pare abbia ad oggetto anche i filosofi diversi con le loro rispettive biografie connesse con le cangianti condizioni della civiltà, in mezzo a cui essi si formarono. Ma ho detto «pare»; perchè nel primo caso le idee dei filosofi si sa bene che sono i filosofi, la cui vera individualità storica consiste appunto nel pensiero che son riusciti a pensare; e se la loro individualità già è connessa con tutta la civiltà concomitante, le loro idee sono in sostanza considerate quasi tutta la realtà storica dell'epoca relativa, assommata e come fusa nel loro pensiero. Nel secondo caso poi le condizioni sociali e biografiche entrano nella considerazione dello storico in quanto presupposti della disposizione spirituale, in cui a volta a volta il problema filosofico sorge: e però non mirano a chiarire nient'altro che la successione, lo scoppiar dei problemi l'un dall'altro, e cioè la pura storia delle idee. In altri termini, una storia delle idee comprende implicitamente una storia della civiltà in tutte le sue determinazioni, e si regge sul valore di questa storia che essa presuppone. Ora la storia dello Spaventa è mera storia d'idee, in cui non apparisce quasi mai quell'altra. Non già che egli avesse a sdegno l'altra; ma il suo interesse lo traeva alla prima; e, obbedendo al proprio interesse, egli esercitava un diritto proprio d'ogni storico, e inalienabile. La limitazione della sua ricerca diventerebbe illegittima se desse origine a una falsificazione delle dottrine, intese in corrispondenza a bisogni spirituali anacronistici o comunque inesistenti. Ma, se lo Spaventa non ebbe mai occasione o voglia di scrivere una storia circostanziata della filosofia, fu sempre guidato da una cognizione profonda delle condizioni spirituali de' varii periodi e da un acuto senso storico. Basti ricordare la sua critica del lavoro del D'Ancona sul Campanella. In un solo punto forse, passando dalla esposizione della logica delle idee, quale si venne realizzando nella storia, alla considerazione delle attinenze che le sorti di questa logica ebbero con lo stato generale degli spiriti in Italia, non s'appone, secondo me, alla verità: dove ritiene che la ragione del «vuoto» rimasto nella filosofia italiana tra Campanella e Vico, e poi tra Vico e Galluppi, — vuoto da riempire con la storia della filosofia europea[6], — sia da cercare nella mancanza di libertà degl'italiani, oppressi dalla chiesa cattolica che avevano in casa. «Non ci hanno lasciato fare», egli dice. Ragione inesatta o, almeno, insufficiente; perchè la condanna di Galileo non impedì che questi si lasciasse dietro anche in Italia, nella scienza naturale, una scuola fiorente lungo il sec. XVII e il seguente. E la paura della chiesa, di cui si hanno indubbie prove, non impedì d'altra parte a Descartes di iniziare quell'intrepido naturalismo, che doveva produrre Spinoza; nè le preoccupazioni religiose, sincere e profonde, valsero ad arrestare il divino intelletto di Vico sulla via di quella ispirata speculazione, che con la quasi incoscienza e sicurezza dello spirito fanciullesco uccise — per dirla con lo Spaventa — in un sol colpo, il Dio del vecchio teismo, e il naturalismo, il materialismo e l'ateismo. E Rosmini, filosofo della restaurazione, che finisce nel kantismo, e nella _Teosofia_ s'accosta all'Hegel abborrito? E Gioberti, il neoguelfo Gioberti, che comincia assoggettando la filosofia alla religione, e finisce anche lui nell'assoluto razionalismo? — La verità è che il movimento internazionale della cultura nei secoli XVII e XVIII deviò la maggior parte degli ingegni italiani dai problemi filosofici. Furono le scienze naturali, furono le matematiche, furono gli studi storici, che attrassero le maggiori intelligenze. Per la filosofia della cultura generale e dei professori e dei piccoli scrittori bastavano, ed eran d'avanzo, le celebrate novità oltremontane o le onorate tradizioni scolastiche non mai interrotte nelle nostre università lungo tutti interi quei secoli. Questo però è un punto appena accennato nel nostro libro, che s'attiene d'ordinario al solo filo logico delle idee svolgentesi da un capo all'altro della storia della filosofia europea, pur mirando sempre in modo speciale all'Italia. E riesce, in conclusione, una storia della filosofia moderna e insieme una dimostrazione del principio della filosofia dello Spaventa, ossia della soluzione data da Hegel al problema fondamentale della sua logica: e in questo senso, un'introduzione allo studio della filosofia hegeliana. Con quale spirito e con quale intendimento questa introduzione fosse scritta, non si potrebbe dir meglio dello stesso autore in una delle ultime pagine del libro[7] che giova anticipare qui come suggello a quanto s'è detto dell'indole del libro, e insieme ritratto vivo dell'atteggiamento del nostro filosofo rispetto a Hegel: «Prima di Hegel nessun filosofo ha spiegato il _conoscere_, e così risoluto il problema della logica (il sistema delle categorie). «Con ciò non voglio dire, che la logica di Hegel sia la logica perfetta, assoluta; che la sua filosofia sia l'ultima parola dello spirito speculativo; che dopo Hegel noi non dobbiamo far altro che ripetere o commentare macchinalmente le sue deduzioni come tante formole sacramentali. «Può darsi, che ci sia chi pensi così. Per me, se ci è cosa che io abborro — mi pare di averlo detto già tante volte — è appunto la riproduzione meccanica delle altrui dottrine. Nei filosofi, ne' veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto, che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita. Ripetere macchinalmente i filosofi, è soffocare questo germe, impedire che si sviluppi e diventi un nuovo e più perfetto sistema. Se Platone non avesse fatto altro che ripetere Socrate, non avremmo avuto il _mondo delle idee_. Se Aristotele avesse ripetuto Platone, non avremmo avuto il primo concetto della sostanza, della individualità. Se Spinoza non avesse fatto altro che ripetere Cartesio, non avremmo avuto il primo _concetto_ di Dio come semplice causalità, come identità che è causa. Se Fichte avesse ripetuto Kant, non avremmo avuto il _concetto_ dell'autocoscienza, della mentalità. Se Schelling avesse ripetuto Fichte, non avremmo avuto il concetto della identità [di essere e di pensiero], come mentalità, come ragione. «Quel che io voglio dire, è questo: posto Fichte, — cioè che il conoscere sia impossibile senza l'_autocoscienza_; e posto Schelling, — cioè che il conoscere non sia reale senza la identità come _autocoscienza_ o mentalità, — l'unica via di risolvere il problema del conoscere, il problema della logica, sia quello di _provare_ la identità. «Per me tutto il valore di Hegel, qui, è questo: _provare la identità_». GIOVANNI GENTILE. PREFAZIONE DELL'AUTORE. In un breve programma, pubblicato or fa pochi mesi, io ho dichiarato così la intenzione del presente lavoro: «La _Prolusione_ tratta della _Nazionalità nella filosofia_. — Sono possibili, dopo il medio evo e ne' tempi moderni, tante filosofie nazionali, quanti sono i popoli civili di Europa? O invece quelle che si dicono filosofie nazionali non sono altro che momenti particolari dello sviluppo comune della filosofia moderna nelle diverse nazioni? Si può dire, p. e., che ci sia una filosofia italiana essenzialmente diversa da una filosofia francese, inglese, tedesca, come si dice che ci è stata una filosofia greca essenzialmente diversa da una filosofia indiana? E in generale, il genio proprio originario d'una nazione, il quale si specchia e riconosce così nettamente nella lingua, nella letteratura e nell'arte in generale, e ne' costumi, deve e può discernersi anche — oggi giorno e in Europa — in quella forma e attività universale dello spirito, che si chiama filosofia? E discernersi in essa, non già come differenza e carattere naturale, letterario o artistico, ma come intuizione universale o pensiero della realtà delle cose: come problema, indirizzo, soluzione? «L'autore, compendiando gli ultimi risultati della storia della filosofia, ed esponendo la differenza essenziale della nazionalità moderna dall'antica, mostra che — se è vero che la filosofia indiana e la greca sono, più o meno, intimamente nazionali — comune, invece, ed unico è il carattere, lo sviluppo e l'indirizzo generale della filosofia ne' popoli moderni; che, se ci ha una differenza tra il genio filosofico italiano e quello delle altre nazioni, o in altre parole se esso ha o almeno ebbe un privilegio sopra gli altri popoli — questo fu solo l'aver precorso due volte i due principali periodi della filosofia moderna: cioè il cartesiano ne' filosofi del Risorgimento e specialmente in Bruno e Campanella, e il kantiano in Vico; e val quanto dire il nuovo _naturalismo_ e il nuovo _spiritualismo_; e che se noi vogliamo ancora e possiamo avere un privilegio, questo è quello di precorrere ed effettuare un nuovo e più largo indirizzo, una nuova e più ampia soluzione del problema dello spirito. Ma ciò a un patto; e questo è di non rigettare tutto quel che si è fatto da un gran pezzo fuori d'Italia o meglio che in Italia, ma studiarlo, comprenderlo, appropriarcelo; e solo così, entrati in più largo orizzonte, conosciuto meglio noi medesimi, e ritemperata la nostra vita nella perpetua corrente della vita universale, fare un gran passo innanzi non nel vuoto, ma colla piena coscienza delle nostre forze, del nostro cómpito, del cómpito comune. «E posto anche che ci sia stata o ci sia una filosofia propria italiana, distinta essenzialmente o opposta a quelle delle altre nazioni, quale è e dove si trova ella mai? Si sa, che di libertà filosofica in Italia ce n'è stata sempre poca o niente, e chi se l'ha presa, gli è costato assai caro. Dov'è dunque la filosofia italiana, ne' libri delle vittime o in quelli de' persecutori? Il problema più difficile per noi — quello senza la cui soluzione noi non possiamo fare e progredire davvero — è il riconoscere qual sia e dove sia il vero pensiero italiano. Finchè non si fa ciò — e il farlo non è cosa così agevole — il gridare nazionalità in ogni cosa servirà bene ad eccitare e intorbidare il sentimento e talvolta anche le passioni, ma non produrrà niente di serio nella scienza. «La _Introduzione_ è lo sviluppo e la dimostrazione della intenzione principale della Prolusione. L'autore espone il carattere e il progresso del pensiero italiano nei maggiori nostri filosofi dal secolo XVI sino al nostro tempo: Campanella, Bruno, Vico, Galluppi, Rosmini, Gioberti; e dimostra come questo pensiero non solo non si oppone al pensiero europeo, ma concorda schiettamente con esso; che Campanella e Bruno sono i precursori di Cartesio e Spinoza (e in parte di Locke e Leibniz); che Vico, esigendo una nuova metafisica e fondando la filosofia della storia, anticipa il nuovo _antropologismo_, quello che il Gioberti chiama _trascendente_ e identico al vero _ontologismo_; che Galluppi, Rosmini e Gioberti rappresentano in Italia questo nuovo indirizzo; e che Gioberti specialmente non è, come si crede, l'antitesi di tutta la filosofia moderna, ma differisce dall'ultimo gran filosofo europeo in tutt'altro che nel vero principio, metodo e risultato della sua filosofia». A questa dichiarazione mi rimane ad aggiungere poche parole. Questo lavoro non avrà buona accoglienza da due specie di lettori; da coloro che hanno per un errore dello spirito umano o almeno per una cosa che non interessa noi altri italiani, tutto il movimento filosofico da Cartesio sino ad Hegel, e da coloro che credono che da due secoli e mezzo non si sia più pensato in Italia. Pe' primi Hegel, Schelling, Fichte e lo stesso Kant non valgono niente, e già qualcuno di loro ha gravemente profetizzato, che da qui a un anno non se ne parlerà più; pe' secondi Galluppi, Rosmini e Gioberti sono ingegni mediocri, e lo stesso genio di Vico è una delle solite esagerazioni degli italiani. Io ho considerato sempre queste opinioni estreme come misere gare di parte; o almeno come pregiudizi egualmente nocivi al progresso della coltura filosofica in Italia. Ciò che solo può convincere e rimettere sulla retta via gli uni e gli altri — parlo di coloro che sono di buona fede — è lo studio sincero de' filosofi nostri e stranieri. Questo scritto, sebbene principalmente indirizzato a combattere il primo di questi pregiudizi, pure, per la sua stessa natura, non ha minor valore contro l'altro. Non essendomi io proposto qui di fare una storia della nostra filosofia, ma solo di determinare in modo generale e sommario il carattere e il progresso del pensiero filosofico italiano, non ho esposto in tutta la loro ampiezza i sistemi de' nostri filosofi, ma solo quanto bastava per far intendere la loro relazione ideale, cioè appunto quel carattere e quel progresso. Così di Campanella ho considerato soltanto la tendenza generale e il principio della sua filosofia; tanto più, che di questo filosofo io aveva già discorso largamente in un altro mio scritto. Di Bruno ho detto quanto era necessario per passare a Spinoza, e quindi a Vico, e di Vico quanto si richiedeva per passare a Galluppi, Rosmini e Gioberti. Del Lullismo di Bruno non ho detto niente, e niente del progresso del pensiero rosminiano dopo la polemica con Gioberti. Alle lezioni ho aggiunto un'_Appendice_, le cui ragioni sono esposte in un'avvertenza particolare. Napoli, ottobre 1862. I. DELLA NAZIONALITÀ NELLA FILOSOFIA PROLUSIONE. _Signori,_ Nella solenne inaugurazione del nuovo anno universitario fu udita una voce[8] far appello al sentimento nazionale. Plaudendo unanimemente, voi mostraste di voler tutti la stessa cosa: la manifestazione del genio italiano in tutte le forme della nostra vita. Quella voce si rivolse a tutte le Facoltà riunite, a' professori e a' giovani studenti. Agli uni suonò come un saluto amichevole, agli altri come un consiglio; quanto a me, uscita di bocca al mio predecessore su questa cattedra, ella parve un po' di tutto questo, e dirò anche di più, una benevola ammonizione. Signori, all'udir pronunziare in questa Università i nomi di Telesio, di Campanella, di Vico, di Gioberti, e forse la prima volta dopo tanti anni il nome di Giordano Bruno, l'animo mio si aperse a una vivissima gioia. Anche io ho pensato sempre, che il nostro genio nazionale deve specchiarsi nella nostra filosofia. L'ho pensato, e l'ho detto, in tutti i modi che ho potuto. Se la filosofia non è una vana esercitazione dell'intelletto, ma quella forma reale della vita umana, nella quale si compendiano e trovano il loro vero significato tutti i momenti anteriori dello spirito, è cosa naturale che un popolo libero si riconosca e abbia la vera coscienza di se stesso anche ne' suoi filosofi. Dove manca questo riconoscimento, la importazione forestiera non giova; giacchè la coscienza di sè non è una merce, che se non ci è, si acquista; ma è noi stessi, il vero noi. Ma il difficile ora, o Signori, non è avere il sentimento nazionale e la convinzione, che il nostro genio deve riflettersi in tutte le forme della nostra vita, e per conseguenza anche nella filosofia: non è dire, che bisogna amare i nostri filosofi. Essere italiani vogliamo tutti; non è più quistione di ciò. Il punto sta — specialmente per noi altri professori e studenti — nel fare che questo amore diventi conoscenza; giacchè quando si tratta di filosofi, amarli è principalmente conoscerli. Il punto sta nel comprendere questo sentimento, perchè non degeneri in vuota boria; e sopratutto nel formarsi una chiara e netta notizia di questo genio, perchè sotto un tal sacro nome non passi ciò che non è nostro, e noi possiamo rigettarlo da noi come una falsa moneta, e d'altra parte non ci accada di ripudiare ciò che è veramente nostro per la falsa apparenza che non sia; e di gridare, insomma, come si doleva il Machiavelli, _viva la nostra morte e muoia la nostra vita_. Io mi restringo a trattare il mio tema particolare. Per vedere in che possa stare la nazionalità della nostra filosofia, bisogna intendere il significato della nazionalità nella vita della filosofia in generale. E a tal fine a me non basta il dire: la filosofia è l'ultima e più chiara espressione della vita di un popolo. Oltre questa determinazione astratta, io devo mostrare come tale espressione abbia avuto un'esistenza storica. Oramai, siamo tutti, più o meno, della stessa opinione, quanto al concetto stesso della nazionalità. Questa non è più per noi, anzi non è stata mai, una semplice espressione geografica, come diceva il ministro d'Austria. È più che il semplice costume, la lingua stessa, l'arte e la letteratura, il sentimento e la intuizione. Questa nazionalità noi l'abbiamo da un pezzo: e non ce ne siamo contentati. Nazionalità è per noi unità: unità viva, libera e potente come Stato. E perchè noi vogliamo questa unità come libero Stato? Perchè noi sappiamo che solo nella unità come libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita; solo in quello noi possiamo essere e saperci veramente noi. Questa è già una implicita confessione, che in sino ad ora noi non siamo stati in tutte le forme della nostra esistenza quel che avremmo potuto davvero essere. La nazionalità non ha sempre nella storia dei popoli lo stesso significato; tra il mondo antico e il moderno vi ha una profonda differenza, e anche tra i popoli stessi dell'antico mondo. In generale nel mondo antico la vita delle nazioni si forma come in campo chiuso, e con poche modificazioni da fuori; e in quelle stesse, che, appartenendo originalmente alla medesima stirpe, portarono seco nella loro separazione un patrimonio spirituale comune, la cui scoverta è ora una delle più belle glorie della filologia comparata, in quelle stesse nazioni la nazionalità ha un fondamento proprio, naturale, esclusivo, il quale è come principio che si esplica e riconosce nettamente in tutte le manifestazioni della vita; la loro comunità primitiva è come un tesoro nascosto, di cui esse non hanno coscienza, e che aspetta solo la maturità de' tempi per mostrarsi in tutta la sua luce. Ciò che si mostra e prevale è la loro differenza, l'effetto e insieme la causa della loro separazione originaria. Questa differenza, che è come il centro proprio di ciascuna nazionalità, ha per così dire una gradazione spirituale nelle diverse nazioni: più immediata e naturale nell'India, più libera e riflessa in Grecia, più astratta ed universale in Roma, dove si accosta e prelude all'umanità. E così accade poi che nel mondo moderno, all'opposto dell'antico, la vita di ciascuna nazione si muove come all'aperto insieme con quella delle altre; ciascuna è non solo se stessa, ma anche l'altra; anzi non è veramente se stessa, che in questa relazione e intima unità colle altre. Il fondamento naturale e proprio cede, senza però sparire, a un nuovo fondamento, comune ed universale; il quale non è più qualcosa d'immediato e primitivo, come la comunità originaria anteriore alla separazione, ma è il risultato di una lunga, paziente e dolorosa elaborazione comune, che apparisce come rimescolamento e lotta di popoli e di stirpi; è una nuova origine, una seconda nascita. Così la nazionalità non ha più lo stesso significato di prima. Non apparisce più come qualcosa che è dato naturalmente e immediatamente e dirò quasi ciecamente da un inesorabile destino; ma come un prodotto assolutamente spirituale, come il posto che ciascun popolo piglia da sè, per sua propria e conscia energia, nello splendido banchetto della nuova vita. D'ora innanzi nazionalità non significa più esclusione o assorbimento delle altre nazioni, ma l'autonomia d'un popolo nella vita comune de' popoli; come la personalità dell'individuo consiste nel conservare la propria autonomia nella comunità dello Stato. L'antichità ci presenta due grandi filosofie: l'indiana e la greca. In ambedue si riflette nettamente lo spirito nazionale. È noto, che uno degli elementi più intimi e fondamentali della vita de' popoli, è la loro rappresentazione religiosa dell'universo. Naturalmente quale è l'idea di Dio, tale è l'idea dell'essenza dell'uomo e della comunità umana, e in generale di tutte le relazioni della vita. Se non che nei popoli antichi la religione è la nazionalità stessa: essi hanno, nel vero senso, religioni nazionali. Ne' popoli moderni all'opposto la relazione tra religione e nazionalità è più larga e indeterminata; l'intuizione religiosa è essenzialmente la stessa in tutti, non ostante le differenze nazionali, e spesso le specificazioni di questa identica essenza vivono insieme nella stessa nazione. Ora nell'India, non solo la religione è la nazionalità stessa, ma tutte le forme della vita, lo stesso pensiero speculativo, ha questo carattere religioso; la sua filosofia è immediatamente filosofia religiosa; e in generale la coscienza indiana non è giunta mai a sciogliersi da' legami della religione. Avvolta fin dal principio nella moltiplicità della rappresentazione naturale, ella non sa liberarsene che negando ad un tratto ogni esteriorità, ogni determinazione, ogni concretezza. Varuna, Indra, Agni, le antiche divinità de' Vedi, devono cedere il posto a Brama, che è il puro essere, vuoto, indeterminato; identità indifferente delle cose, il dio della riflessione teologica. Lo spirito indiano non ha la potenza di trasformare, come fece il greco, quelle sue divinità impersonali, generali, vaghe, in un olimpo d'individualità determinate e viventi. Non sa trovare la vera vita che nella negazione della materia stessa della vita. Ma, non reggendosi in questa vuota altezza, ricade nella trivialità della rappresentazione naturale; Brama neutro diventa Brama mascolino: una bassa personificazione. Questa _alternativa_ dalla realtà empirica all'unità assolutamente vuota e astratta, e da questa a quella, la _coesistenza_ di questi due estremi nella stessa coscienza, senza che possano compenetrarsi l'un l'altro: tale è lo spirito indiano. Sospeso così, quasi a mezz'aria, tra l'intelligibile senza determinazioni e il concreto senza l'intelligibile, egli non può fissare in volto la natura e intenderla, ma è come affascinato da essa: la sua esistenza è come un sogno, un mondo vago, senza limite e misura. Così egli non arriva mai ad una spiegazione sistematica de' fenomeni dalle loro cause naturali, nè alla libertà della vita civile e politica, nè alla civiltà umana propriamente detta. L'oggetto che egli contempla, non è il vero e reale, nel quale addentrandosi l'occhio dell'intelletto si levi poi gradatamente, come avvenne in Grecia, all'essenza intelligibile, ma è un oggetto mobile e fantastico, nel quale l'intelletto non trova il suo punto di appoggio. Così la filosofia non può aver mai una forma e un metodo rigorosamente scientifico; ma si arresta in parte a uno schematismo esterno logico e grammaticale, come nel medio evo; in parte a precetti ed osservazioni aforistiche, in parte a descrizioni fantastiche e poetiche. Con tutto ciò il gran valore dell'intelletto indiano è l'essersi elevato alla coscienza dell'altezza del pensiero: alla separazione del soprasensibile dal sensibile, dell'universale dal moltiplice empirico, naturale ed umano: alla _concentrazione_ dello spirito in se stesso, mediante la negazione di ogni esistenza finita e determinata. Questa potenza di astrazione e di negazione, questo puro concentrarsi in se stesso — questa soggettività assoluta — è come la forma universale dello spirito ariano. È la condizione assoluta d'ogni filosofia, proprietà, della stirpe comune e non della nazione. Così l'India segna quasi lo schema di questo spirito: del nostro spirito. Ma tale potenza è nel fatto poi nell'India una vera impotenza; giacchè la negazione qui non consiste nel vincere e domare la realtà senza distruggerla, nel trasfigurarla spiritualmente, nel renderla intelligibile e ideale, nel conservarla insomma ed eternarla nella vita infinita dello spirito; ma sì nel metterla da parte, nello sbarazzarsene; e perciò invece della piena e assoluta personalità, si ha solo il vuoto essere, l'essere stesso di questa vuota astrazione. Questo concentrarsi che non piglia nulla, questa coscienza che non ha coscienza di nulla, questo puro _se stesso_ senz'altro: tale è Brama. Brama è lo stesso spirito indiano. L'infinita distanza di questo vuoto essere dalla personalità piena ed assoluta, tale è l'abisso che separa questa coscienza dalla coscienza moderna. Anche in Grecia, come nell'India, la religione è l'intima sostanza dello spirito nazionale. Anche qui tutti i lati del contenuto etico della vita comune, religione, morale, diritto, non sono ancora distinti e formano come una massa sola. Ma qui vediamo la prima volta nel mondo due fatti importanti: il contenuto etico della vita è libero da ogni oppressione esterna, da ogni dispotismo, e perciò si sviluppa liberamente; e d'altra parte la filosofia non comincia che col fare astrazione da ogni intuizione religiosa, senza essere però astrazione assoluta come la coscienza indiana. Talete, il primo filosofo greco, introduce, come è stato detto, la prosa della schietta riflessione nell'olimpo poetico di Omero e di Esiodo: nel luogo di Giove padre degli uomini e degli Dei, egli pone l'acqua come principio universale delle cose. Così lo spirito greco ha quella potenza che non ha l'indiano; di trascendere cioè come speculazione il contenuto religioso. Il che non vuol dire che la filosofia greca non rappresenti più lo spirito nazionale: tutt'altro. Vuol dire solamente che la relazione tra nazionalità e filosofia è in Grecia ben diversa, un po' più larga, che nell'India; o, se mi permettete di dirlo, che la filosofia indiana è più nazionale che la greca, nel senso, beninteso, che questa si muove più liberamente nel grembo della vita schiettamente greca, si oppone a poco a poco a questa vita, va oltre di essa, ed è la leva più potente della sua distruzione. Ma d'altra parte la filosofia greca è profondamente nazionale, giacchè non è già un altro spirito, ma lo stesso spirito ellenico che consuma se stesso; si consuma come stato, come comunità, come popolo vivente, e da questa cenere sorge e s'impone, vera fenice del pensiero, alle età future. Anche in quanto trascende la vita nazionale e la distrugge, ella procede in modo veramente ellenico. Così lo spirito greco spira da per tutto nella sua filosofia. Infatti, in Grecia lo spirito è di certo ancora limitato dalla natura, ma non soggetto ad essa, come nell'India; egli si distingue dalla natura, sebbene senza lotta ed opposizione. Egli se ne serve come fondamento e materia della sua vita, ne fa organo e mezzo di sua manifestazione, come l'anima del corpo; di maniera che l'elemento spirituale non sopravanzi e quasi rompa la forma sensibile, ma si esprima in essa solo fin dove può esprimersi sensibilmente; e così questa risponda e si adegui a quello perfettamente. La vita greca non è altro che questa unità armonica di natura e spirito: tale è la individualità degli Dei, tale è lo Stato, e tale è anche la filosofia in generale, cioè libero abbandono e ingenua fede del pensiero nell'oggetto. L'oggetto da prima è l'oggetto puramente naturale (filosofia antesocratica); poi diventa oggetto ideale (filosofia socratica: Socrate, Platone, Aristotele); e quando il soggetto o lo spirito comincia a _ritirarsi_ in se stesso dall'oggetto (nello stoicismo e nell'epicureismo) ed a _dubitare_ dell'oggetto stesso (nello scetticismo), lo spirito greco conserva quella serena ingenuità sua propria; lo scettico si riposa nel suo scetticismo. Finalmente, allorchè disperando di trovare nell'oggetto e nella scienza (come contemplazione dell'oggetto) la _verità_, la cerca fuori della scienza, nelle antichissime tradizioni greche ed orientali, in rivelazioni straordinarie della divinità, anche qui egli conserva il suo carattere: muore, ma muore da greco; giacchè gli ideali neo-platonici, ne' quali finisce e si dissolve la filosofia ellenica, hanno sempre qualcosa di plastico, e sempre l'_essere_, l'oggetto, è il primo, da cui deriva come secondo il pensiero. Così tutta la filosofia greca è ontologismo: l'assoluto è sempre l'ente, non ancora lo spirito. Perciò i greci non intesero la creazione. Quanto a Roma, sanno tutti che ella non ebbe una filosofia propria. Pe' romani la pura speculazione è già qualche cosa di indifferente, e la pigliano da' greci. Così la relazione tra nazionalità e filosofia diventa ancora più larga, la stessa nazionalità romana non è così esclusiva come la greca; assorbe, non esclude; e così cessa di essere una determinazione puramente naturale: è già, come ho detto, qualcosa di umano. I romani aveano altro a fare nel mondo che teorizzare sull'universo; il loro interesse era il volere, l'attività pratica, la potenza: non contemplare l'universo naturale, ma fare l'universo umano. E ne fecero uno, ma a loro modo, cioè da un lato solo. Per fare l'universo veramente umano, ci voleva una nuova contemplazione, un nuovo oggetto, una nuova idea di Dio, una nuova religione, una nuova filosofia. Essi non compresero l'umanità che come diritto, come pura ed astratta manifestazione del volere. Il diritto romano trascende i limiti di una nazionalità determinata; come diritto privato esso è già diritto umano. Questa forza di astrazione, questo separare il diritto da tutta la sostanza etica della vita, dalla morale e dalla religione, questa potenza che non ebbero i greci, è il più gran pregio dello spirito romano. Il filosofo romano, Cicerone, era inferiore alla stessa realtà romana. La romana coscienza era arrivata a separare il diritto dalla morale: e Cicerone filosofando — cioè riflettendo sulla realtà (qui umana) — confondeva ancora, come i greci, diritto e morale. Il germe della filosofia moderna bisogna cercarlo nelle rovine della filosofia greco-romana. Il processo della filosofia greca è evidente: — La verità per l'intelletto greco è l'oggetto, l'ente, qualcosa di esterno sempre; non è lo spirito, come per noi altri moderni. E l'oggetto è prima naturale, semplicemente esterno; poi ideale, cioè l'esterno divenuto interno senza cessare di essere esterno; finalmente la esteriorità, l'oggettività, sparisce, e la verità è la pura idealità, il puro soggetto senza l'oggetto. Lo scetticismo conclude: dunque la verità non è nulla; giacchè per lo spirito greco la verità è l'oggetto, e ora l'oggetto è scomparso. E pure questo _nulla_ non è lo stesso che zero: anzi è qualcosa di più dello stesso oggetto naturale e dello stesso oggetto ideale. È zero solo per la coscienza scettica, non già in se stesso. Se fosse zero in se stesso, la filosofia sarebbe finita collo scetticismo antico; noi non avremmo avuto più filosofia, o, che è lo stesso, la nostra filosofia sarebbe stata solo una ripetizione meccanica della filosofia greca. Questo _nulla_ non è altro in sè che il negare l'oggetto, sia naturale sia ideale, come l'assoluto, e l'affermare come l'assoluto il puro e vuoto soggetto, la pura intimità. L'assoluto diventa sempre più intimo allo spirito: tale è il processo della filosofia greca da Talete allo scetticismo. Ora, questo nulla che è la soggettività vuota, diventa un esterno di nuovo, un nuovo oggetto, la nuova verità. Tale è il significato del neoplatonismo. Il neoplatonismo è l'ultimo sforzo dello spirito greco: scomparso l'oggetto, la soggettività vuota si espande e getta, direi quasi, se stessa al di fuori, a un tratto, e però si pone a sè dinnanzi come un altro esterno, un altro oggetto. È un altro esterno; perchè ha origine e radice nella intimità vuota del soggetto, e invece l'esterno di prima avea radice nell'oggetto naturale. Qui dunque abbiamo come una _conversione_ dello spirito, una — per dirla coi matematici — mutazione di segno, un nuovo indirizzo, e piuttosto il principio di una novella êra, che la fine dell'antica. Ma nel fatto non è che la fine. E in vero l'intelletto greco si leva gradatamente, come ho già notato, dall'oggetto naturale al concreto intelligibile. L'indiano, movendo dall'oggetto fantastico, erasi levato immediatamente, per subitanea astrazione, al puro essere, al vuoto intelligibile; e così dovea procedere e a ciò riuscire, appunto perchè, l'oggetto essendo fantastico, l'intelletto non avea in esso nè misura nè contenuto. Lo stesso ora avviene, sebbene in senso inverso, all'intelletto neoplatonico: il soggetto, da cui esso muove, non è il soggetto concreto come soggetto, come soggetto umano, ma è il soggetto che era stato concreto come soggetto greco, non umano, e ora non è più greco, ma vuoto e non ancora umano. E però, mancando la concretezza, da una parte l'intelletto non è processo, ma intuizione immediata, come l'indiano era stato astrazione immediata; e d'altra parte l'oggetto di questa intuizione, il nuovo oggetto, non ha nessuna determinazione in quanto nuovo oggetto, cioè come soggetto, ma è assolutamente indeterminato, e quindi _incomprensibile_. Questa contradizione, in cui si vede da una parte il carattere ellenico, l'oggettività, e dall'altra la negazione di questo carattere, cioè un oggetto non intelligibile e quindi non più oggetto: tale è il neoplatonismo. Perciò è la fine, cioè la dissoluzione della filosofia greca. Perchè dunque questa _situazione_ dello spirito fosse il principio di una nuova filosofia, bisognava che il soggetto fosse concreto come soggetto, cioè umano, siccome l'oggetto dell'intelletto greco era già concreto come oggetto, cioè come natura. Questa concretezza, cioè la formazione pratica del soggetto, questa, se così posso dire, _seconda natura_, questa prima educazione dell'uomo come uomo, e non già solo come cittadino di una data nazione, è l'opera di più secoli, e presuppone l'apparecchio romano, l'avvenimento del cristianesimo, la caduta dell'impero, la mescolanza de' popoli, il medio evo. Solo dopo quest'opera prodigiosa, dopo questo rinnovamento del _cuore_, era possibile il dire davvero, come fece Cartesio: _Cogito ergo sum, Deus cogitatur ergo est_: cioè una nuova filosofia, che ponesse per principio il soggetto e non l'oggetto, il pensiero e non l'ente, l'intelligente e non l'intelligibile, e che dalla coscienza di sè, dalla notizia intuitiva dell'_essere_ contenuto nel _pensiero_, procedesse alla vera concezione della natura e di se stesso: — nella quale concezione la natura (l'essere) fosse non più l'assoluto (come nell'India) o un limite insuperabile dello spirito (come in Grecia), ma, come dice Bruno, l'infinita genitura dell'infinito generante: la creatura dello Spirito. Così, epilogando il detto fin qui sulle due filosofie dell'antichità, si vede che il punto più alto a cui esse riescono, manifesta lo stesso schema, come ho già osservato, dello spirito ariano, e rappresenta come due grandi tentativi, ne' quali questo spirito intende a realizzare se stesso. Questo spirito è in sè il vero spirito, cioè intimità, relazione assoluta verso se stesso, e se posso dir così il _Sè stesso_. Ma la differenza tra India e Grecia è immensa, e si vede chiaro che il tentativo greco è più felice. L'India infatti riesce al _Sè stesso_ come vuoto Essere, come l'indeterminato, come quello la cui determinazione consiste nell'_astrarre_ da ogni determinazione; e, giacchè determinazione è intelligibilità, riesce al non intelligibile, al puro _Nulla_. — La Grecia invece riesce al _Sè stesso_, già assolutamente determinato come natura, come intelligibile, come ente, e però non assolutamente vuoto, ma vuoto soltanto come vero soggetto. Solo lo spirito moderno, lo dico anticipatamente, nel quale si raccolgono i popoli del gran ceppo ariano, — giacchè ora l'India stessa ci è presente, se non come attrice, almeno come monumento, — solo questo spirito poteva concepire il vero _Sè stesso_, e dire: Egli non è l'Essere, non l'Ente, ma il Creatore. Signori, il mio intento non era e non è di fare una storia della filosofia, ma solo di determinare la relazione tra la nazionalità e la filosofia, per conoscere qual significato e quindi quali limiti deve avere la esigenza, che la nostra filosofia abbia ad essere nazionale. Io mi sono dilungato nella caratteristica della filosofia antica, perchè da un lato, solo essa, l'indiana come la greca, si può dire nazionale nel vero significato della parola; e dall'altro lato, compresa la filosofia antica e quindi il suo difetto, noi abbiamo già compreso il problema e l'indirizzo principale della moderna, che nasce da quella, ed è appunto il suo compimento. Sarò, dunque, breve nel resto; e tanto più, che l'ho già esposto ampiamente in un'altra scrittura, pronunciata da un'altra cattedra, e che forma con questo discorso un sol tutto[9]. Il problema della filosofia moderna e il fondamento necessario alla sua instaurazione richiedono che essa non sia l'opera di una sola nazione, ma di tutte. Il problema è il concetto dello spirito nella pienezza della sua vita, nella sua umanità, e non già come spirito di questo o di quel popolo; il fondamento è la educazione comune già avvenuta. Laonde nel medio evo e nel nuovo tempo tutte le nazioni hanno i loro rappresentanti; ciascuna contribuisce la sua vita alla vita comune del pensiero; ciascuna pone un elemento della soluzione del problema, e non già la intera soluzione. Specialmente dopo il Risorgimento, quelle che appariscono come filosofie nazionali, il cartesianismo in Francia, il lockismo in Inghilterra, e così via via, non sono che tante stazioni per le quali passa il pensiero nel suo corso immortale. La filosofia moderna non è dunque nè inglese, nè francese, nè italiana, nè alemanna solamente, ma europea. Un popolo che si arrestasse ad una di queste stazioni o le girasse intorno senza andare avanti, non avrebbe più vita filosofica, e gli si potrebbe applicare il detto di Cristo: «lasciate i morti seppellire i loro morti». Di queste stazioni dirò solo le più cospicue. Nel medio evo, fatta già la prima educazione umana, quella che io direi umanità naturale, riapparisce l'oggetto neoplatonico, il trascendente, ma con altro carattere. Esso è già in sè spirito, soggetto e non oggetto; è immaginato come tale nella rappresentazione religiosa. Pure apparisce all'intelletto come oggetto, come un esterno, perchè quel _concreto_ spirituale o umano, che mancava al neoplatonismo, e che noi abbiamo visto essere il presupposto necessario della nuova êra filosofica, appariva anch'esso alla coscienza come un'opera straordinaria ed esterna, non come l'opera della coscienza stessa. Questa contraddizione — cioè quest'intimo, che non è più vuoto, come il soggetto neoplatonico, ma già concreto in sè, e nondimeno apparisce come esterno; un esterno, che, appunto perchè già concreto in sè come soggetto, lascia, dirò così, _trapelare_ e già quasi erompere la sua intimità, e quindi accenna a più di quel che esso apparisce, e nondimeno l'esprime solo nella propria insufficienza ad esprimerlo, cioè negativamente — questa contraddizione è l'Incomprensibile degli scolastici. Non è l'assurdo, ma il _Sovrintelligibile_. Così abbiamo due motivi nella Scolastica. — La _esteriorità_ è il motivo del formalismo, nel quale il nuovo Assoluto è trattato come ente, come oggetto, colle stesse categorie dell'Assoluto antico, le quali non gli si attagliano; e ciò confessano gli stessi scolastici, dichiarandolo superiore ad ogni categoria. La _interiorità_ è il motivo della prova _a priori_, o ontologica, che gli antichi non conoscevano nè, come ora è chiaro, potevano conoscere. La contradizione già notata, cioè l'intimo che apparisce come non intimo, si vede nella prima ed imperfetta forma di questa prova, in quella di Anselmo. Anselmo vuol dimostrare l'Assoluto, l'Essere, dal pensiero, dall'intelletto; e intanto non è l'Essere, che _si dimostra da sè_ all'intelletto, ma è l'intelletto che dimostra estrinsecamente l'Essere, cioè solo se stesso come vuoto intelletto. Riassumendo ora i tre grandi periodi già esposti, pare che, dove l'India riesce al _Sè stesso_ come assolutamente vuoto, come puro essere, e la Grecia al _Sè stesso_ concreto, ma solo come Ente (Natura) e vuoto come soggetto, il medio evo in verità non riesca ad un concetto nuovo e più profondo del _Sè stesso_, giacchè quella concretezza (l'umanità naturale) del soggetto, che la differenzia dal neoplatonismo, è un _dato_ estrafilosofico; e quindi la posizione dell'intelletto rispetto alla Verità sia la stessa che nella filosofia neoplatonica. Pare insomma che il medio evo non sia altro che la contradizione stessa del neoplatonismo, posta in più chiara luce. E pure è altro di più; e perciò fu un vero periodo della storia della filosofia. Forse m'inganno, ma a me sembra che lo spirito del medio evo sia rispetto alla _nuova_ natura quel che è lo spirito indiano rispetto alla natura immediata e dirò pure naturale; l'oggetto è fantastico nell'India, fantastico nel medio evo; nell'una e nell'altro, è dato dalla rappresentazione religiosa, e inseparabile da essa; ci si vede lo stesso schematismo, lo stesso vuoto formalismo, la stessa congerie di determinazioni, che non arriva mai a determinare l'oggetto intellettivo, e finalmente la stessa confessione della insufficienza di tutte le categorie e il loro annichilamento nell'indeterminato Assoluto. L'India e il medio evo riescono dunque ambedue al _Nulla_; ma la differenza tra loro è tanto infinita, quanto la differenza delle due nature. L'India riesce a Brama; il medio evo, all'_Actus purus_[10]. La prova _a priori_ ha in Cartesio un'altra forma: non è il pensiero che dimostra estrinsecamente l'essere e come dato fuori del pensiero: ma è l'essere che si dimostra da sè al pensiero, in quanto è contenuto originariamente e immediatamente in esso. Questa presenza immediata, questa _evidenza_, è la _esistenza_ dell'essere. L'esistenza di Dio, dice Cartesio, è la stessa sua idea in noi, cioè nel pensiero; giacchè questa idea non me la fo io, non mi viene da fuori; essa è infinita; è dunque l'_atto_ stesso di Dio in me. Così i due principii, _Cogito ergo sum, Deus cogitatur ergo est_, sono un sol principio; certezza e verità sono, la prima volta, una cosa sola. Questo è il gran pregio di Cartesio. Ora questa presenza immediata è una _nuova natura_, appunto perchè immediata; è una idea innata, cioè data in noi naturalmente. È natura _nuova_, perchè non è data solo estrinsecamente, come la greca, non nella intuizione religiosa e fantastica come l'indiana e quella del medio evo, ma è contenuta originariamente nel pensiero. È concreta, perchè in tutto il tempo del Risorgimento, caduta la teocrazia, fondata la monarchia, aperta la via dell'oceano, inventata la stampa, fatte tante altre scoperte, l'uomo avea incominciato a riaver fede in se stesso e nel suo valore, a non credersi più straniero in questo mondo, e a rivolgere gli occhi seriamente sopra di esso. Da Cartesio a Spinoza non vi ha che un passo. Quella immediatezza dell'essere nel pensiero, questa nuova natura, è appunto la _Sostanza_. _Deus = Substantia, sive natura_. Ma appunto perchè _uno immediatamente_, l'essere ed il pensiero non sono veramente uno; sono paralleli tra loro, e non si risolvono l'uno nell'altro: sono, insomma, immediati, anche essi. Quindi si ha due indirizzi nel pensiero, in quanto contiene l'essere, cioè nella nuova natura; e questi sono il pensiero come semplice pensiero, cioè astratto, _vuoto_, e il pensiero come _percezione_ sensibile, cioè _cieco_, direbbe Kant. In una parola, si ha l'_intellettualismo_ da Cartesio sino a Volfio, e l'_empirismo_ da Bacone e Locke sino ad Hume e al sensualismo francese. Quello riesce all'_Essere Supremo, alla prima e suprema cosa_; questo riesce alla _Materia_ come Dio. Ho paragonato innanzi l'intelletto scolastico coll'indiano, in quanto entrambi movevano dall'oggetto fantastico. Potrei nello stesso modo paragonare l'intelletto moderno all'intelletto greco, in quanto ambedue procedono dall'oggetto tale quale è realmente. La nuova natura cartesiana è tutta prosaica: tutta meccanismo; e Dio è solo causa efficiente: gli spettri e le essenze occulte del medio evo sono scomparse al raggio del pensiero. Ma quando si dice p. es.: Cartesio è il Socrate moderno, e Socrate è il Cartesio antico; Locke non so chi altro antico risuscitato, e questo antico Locke anticipato di più secoli, e così di Hume e altri, come fanno i francesi abilissimi in questi paragoni, e tal volta per far credere che la filosofia non sia altro che una ripetizione continua della stessa cosa; quando si dice ciò, bisogna ben guardarsi dal confondere una cosa con un'altra. Bisogna considerare che la coscienza o soggettività socratica è ben diversa dalla cartesiana; che l'oggetto della percezione lockiana, non è quel medesimo della percezione antica; che lo scetticismo di Hume è altro da quello di Sesto; e tutto ciò per l'unica ragione che nell'intelletto antico l'essere determinava e fondava il pensiero, e nel moderno avviene l'opposto[11]. Il Dio sostanza non è il vero Dio. Dio è personalità assoluta, e perciò non è un immediato, ma mediazione o relazione assoluta verso se stesso. Questa è la vera confutazione dello spinosismo. Certamente Dio è immanente o intimo al pensiero; e in ciò Cartesio e Spinoza hanno ragione. Ma se Dio è la relazione assoluta, come dice il nostro Gioberti, deve essere immanente come relazione assoluta. Il che vuol dire che il pensiero o lo spirito deve essere esso stesso questa mediazione. Non già che l'uomo sia o faccia Dio, come intendono alcuni; o che la mediazione umana sia una semplice ombra della mediazione divina, come intendono altri. In questo secondo caso, Dio sarebbe estrinseco a noi, e non si avrebbe il vero uomo; e nel primo non si avrebbe il vero Dio. La vera immanenza vuol dire, che la coscienza che noi abbiamo di Dio è la coscienza stessa che egli ha di sè in noi; di maniera che non siamo noi che facciamo Dio, ma è Dio che fa noi, e facendo noi fa se stesso in noi. Così egli è il Creatore assolutamente, cioè come dice Gioberti, di se stesso e di noi; è di noi, in quanto è di se stesso. In altri termini, se Dio non fosse uomo, l'uomo non conoscerebbe Dio, e non sarebbe uomo. Il che non vuol dire, certo, che l'uomo faccia Dio, ma piuttosto, mi pare, che Dio, in quanto uomo, fa l'uomo. Negare l'immediatezza e avviare all'assoluta mediazione, è l'opera gigantesca della critica kantiana. Kant, eccitato dallo scetticismo di Hume, apparisce come negazione a un tempo del sensualismo e dell'intellettualismo, e insieme come la loro conciliazione; egli dice di non capir niente della sostanza di Spinoza. Ora questa sostanza, l'esser supremo dell'intellettualismo, e il Dio materia del sensualismo sono l'_immediato_, solo in apparenza. La sostanza è l'essere contenuto del pensiero, e però il vero immediato è il pensiero; l'essere supremo e la materia sono il risultato del ragionamento, che procede dal pensiero e dalla percezione sensibile, e però anche qui il vero immediato è il pensiero e la percezione. Sostanza, essere supremo, materia non sono dunque altro che il pensiero in quanto contiene immediatamente l'essere, cioè in quanto è notizia immediata di se stesso, del suo proprio essere, e delle cose esteriori. Ora il pensiero come tale notizia non è altro che il _conoscere_. Adunque il vero immediato è il _conoscere_. Così il problema di Kant, il nuovo problema, è il problema del conoscere. Ora il _conoscere_ è, dirò così, una nuova natura. È un immediato; ma un immediato, che consta di due immediati, che sono il pensare ed il sentire, il concetto e l'intuizione, l'_a priori_ e l'_a posteriori_. Nel conoscere, l'immediato non è il solo concetto, come voleva Cartesio, e nè anche la sola intuizione, come voleva Locke. Col solo concetto non si conosce nulla, e però è falsa l'idea immediata o innata cartesiana; e dall'altra parte, colla semplice intuizione nè meno si conosce niente, e però è falsa la percezione o l'idea lockiana. Adunque il conoscere è un immediato _sui generis_; un immediato, che è immediatamente due immediati, una mediazione immediata: non una unità, che risulti dagli elementi di cui consta come l'effetto dalla causa, e perciò sia posteriori ad essi; ma una unità originaria, cioè che pone sè stessa e perciò pone gli stessi elementi di cui consta, e quindi è essenzialmente _triplicità_. Così il conoscere è assolutamente e originariamente attività, produttività, _atto_; il suo _essere_ è il suo _prodursi_. Esso è dunque una natura, che non è più natura. — Tale è il gran pregio di Kant: il significato del suo problema del giudizio sintetico _a priori_. — Il difetto di Kant è l'aver presupposto il conoscere, il non aver compreso come sia possibile l'atto, cioè quella unità originaria degli opposti scoperta da lui stesso, l'aver ridotto questa unità a una unità vuota ed astratta[12]. È noto il risultato della critica kantiana. Essa nega i tre grandi risultati della filosofia anteriore: la Sostanza, l'Essere supremo e la Materia. Non rimane adunque che il conoscere come vuoto, o meglio, puro _conoscere_, la nuova soggettività, il puro Io di Fichte. Quest'Io è puro, in quanto non è l'Io empirico di Cartesio o di Locke, ma quello per cui l'Io è Io, cioè posizione di se stesso e posizione del Non-io in quanto posizione di se stesso. Quest'Io assoluto, questa pura e assoluta posizione, è la Ragione di Schelling, come indifferenza assoluta del reale e dell'ideale. E la ragione come tale indifferenza è il _pensiero puro_ di Hegel. Questo pensiero, il quale appunto perchè puro è dialettica, come assoluta e reale mediazione con se stesso, è lo Spirito assoluto o il Creatore. — Questo processo è la terza e vera forma della prova ontologica. Questa prova è tutta la scienza. Tale, o Signori, è l'ultimo punto a cui è arrivata la speculazione moderna. Il pensiero è puro, non in quanto sia assolutamente vuoto, come Brama, ma in quanto è libero da tutte le opposizioni e imperfezioni de' precedenti principii, perchè gli ha già risoluti e compresi in se stesso; in quanto ha in sè trasfigurata tutta la realtà della coscienza umana, e perciò è perfettamente adequato alla realtà stessa. Questo pensiero, come _posizione storica_ dell'intelletto rispetto alla verità, è il risultato di tutta la storia della filosofia, e quindi di tutta la storia in generale; come _scienza_, cioè come cognizione di tutto il processo inconsapevole della coscienza umana nella produzione di questo risultato storico, esso è una nuova critica del conoscere, e nello stesso tempo uno schema della filosofia della storia. Come assoluta indifferenza, e non altro che assoluta indifferenza, esso è il vero immediato e originario: quello, che non presuppone nulla; e quindi è il vero cominciamento. Ma non altro che il cominciamento, non il vero e assoluto Principio, che è in sè anche Fine, e perciò Relazione assoluta. E non rimane semplice cominciamento, appunto perchè è puro; cioè trasparenza assoluta, vero pensiero, ossia vero _Sè stesso_. Come cominciamento è _essere_. Se esso non fosse altro che _essere_, non sarebbe _Sè stesso_. Deve dunque negarsi come semplice essere; deve dire: Io sono il _non essere_. Il che non vuol dire: Io sono il niente. Tutt'altro. Vuol dire: io sono più che il puro essere. Questa _negazione_, che scaturisce dalla pura affermazione, e che non è zero, ma più che la pura affermazione — è la scintilla eterna del pensiero, la _dialettica_. Essa è viva e palese, solo dove e quando il pensiero è puro, cioè vero pensiero; dove il pensiero ha, come ho già detto, trasfigurato in sè storicamente tutta la realtà, e perciò sa se stesso come _sè stesso_. L'indiano si arresta a Brama, perchè Brama non è pensiero puro, ma solo astratto. Noi moderni, all'opposto, non possiamo arrestarci al pensiero puro come assoluta indifferenza, ma dobbiamo — per la stessa sua forza, che è la dialettica — concepirlo e comprenderlo come reale mediazione verso se stesso, cioè come spirito. Così tutta la storia della filosofia corre tra due estremi, i quali si riuniscono in un circolo, e sono il _vuoto essere_ dell'astrazione indiana e lo spirito assoluto o il Creatore, della speculazione alemanna. Quello si riproduce come il cominciamento; questo come il risultato assoluto della scienza. Così la filosofia nella sua storia è, come la scienza stessa, un continuo progresso. Questo circolo è il vero Spirito, il vero _Sè stesso_. Il quale, dunque, non è l'Essere, non l'Ente o l'Intelligibile, non il Sopra-ente, non l'_Actus purus_, non la Sostanza, non l'Essere supremo, non la Materia, e così via via; non è nessuno di questi predicati semplicemente, ma è quello in cui essi tutti si risolvono e che non si risolve in altro; e per ciò è tutto se stesso, non più predicato, ma unico soggetto, cioè l'Unico o il vero Dio. Questi predicati, presi come soggetto, sono le principali stazioni della storia della filosofia. Noi abbiamo visitato queste stazioni, e visto quale di esse appartiene a ciascuna nazione. Così l'_Essere astratto_ appartiene agl'Indiani, l'_Intelligibile_ agli Elleni, il _Sovrintelligibile_ agli Alessandrini, l'_Actus purus_ agli Scolastici, che erano di tutte le nazioni, il _Pensiero astratto_ e la _Materia_ a' Francesi, la _Sostanza_ a Spinoza che nacque in Olanda, la _Percezione_ agli Inglesi, e tutto il resto all'Alemagna. Dove è dunque, direte voi, la filosofia italiana? Signori, la filosofia italiana è da per tutto; è in sè tutta la filosofia moderna. Ella non è un particolare indirizzo del pensiero, ma, direi quasi, il pensiero nella sua pienezza, la totalità di tutti gli indirizzi. Io non parlo dell'Italia antica; la sua filosofia è parte della greca. Parlo dell'Italia moderna, di quella che deve essere, come ha detto una verace parola, l'_Italia degli Italiani_. Questa universalità, in cui si raccolgono tutti gli opposti, questa unità armonica in cui si riassumono tutti i lati dell'ingegno europeo, è appunto il nostro genio nazionale. Essa ci ricorda l'universalismo dell'antica Roma, meno la sua forma astratta. Questa natura potente, varia, complicata, esige per formarsi un lungo e difficile lavoro. Essa ha a lottare non solo con gli altri popoli, ma con se stessa. Per essere davvero, essa deve superare se medesima. Così non è senza ragione, se l'Italia è venuta l'ultima ad assidersi nel convito delle nazioni, e se deve ancora lottare per essere signora di sè. Questa spontaneità complicata e universale del genio italiano e insieme questa difficoltà nel formarsi si manifestano in tutta la storia del nostro intelletto. L'Italia apre le porte della civiltà moderna con una falange di eroi del pensiero. Pomponazzi, Telesio, Bruno, Vanini, Campanella, Cesalpino, paiono figli di più nazioni. Essi preludono più o meno a tutti gli indirizzi posteriori, che costituiscono il periodo della filosofia da Cartesio a Kant. Così Bacone e Locke hanno i loro precursori in Telesio e Campanella, Cartesio nello stesso Campanella, Spinoza in Bruno, e nello stesso Bruno si trova un po' del monadismo di Leibniz, dell'avversario di Spinoza. Finalmente Vico scopre la nuova scienza; anticipa il problema del _conoscere_, esigendo una _nuova metafisica che proceda sulle umane idee_; pone il vero concetto della parola e del mito, e così fonda la filologia; intuisce l'idea dello spirito, e così crea la filosofia della storia. Vico è il vero precursore di tutta l'Alemagna. Ho detto il precursore, e avrei dovuto dire di più, giacchè Vico aspetta ancora chi lo scopra davvero. Dopo Vico, la spontaneità dell'ingegno filosofico italiano pare smarrita. I nostri filosofi ricevono l'impulso dagli altri paesi. Solo Vico non ha origine che da se stesso. Galluppi, Rosmini e Mamiani pigliano da Kant il problema del conoscere; il loro difetto è di esaurirsi in esso. Non si avvedono che il significato vero di questo problema è la necessità di una nuova filosofia: della filosofia dello Spirito in luogo di quella dell'Ente. Solo Gioberti, nel quale si può dire ritornata tutta la spontaneità dell'ingegno italiano, si accorge che la psicologia è mezzo e non fine, è mezzo di porre un nuovo principio e non già di consolidare l'antico. Questo nuovo principio è espresso,nella _formola ideale_, la quale non è altro, chi ben intende, che il nuovo concetto dello spirito, il concetto di Dio come il Creatore[13]. Così l'ultimo grado, a cui si è levata la speculazione italiana, coincide coll'ultimo risultato della speculazione alemanna. Questa coincidenza ci addita la via che dobbiamo tenere per progredire. Studiarne noi stessi, la storia del nostro pensiero, ma senza temere o spregiare il pensiero di un'altra nazione, in cui si raccoglie egualmente il patrimonio della speculazione europea. Studiando anche questo pensiero, noi studieremo meglio noi stessi; giacchè esso non è altro in sostanza che lo stesso nostro pensiero in altra forma. Così noi avremo come due coscienze in una, cioè una maggior coscienza. Noi abbiamo tanto più bisogno di specchiarci in questa seconda coscienza, in quanto che, per la malvagità degli uomini e della fortuna, la nostra non è stata sinora quel che avrebbe potuto essere. Dopo le lunghe torture di Campanella e il rogo di Bruno, si formarono in Italia come due correnti contrarie: quella de' nostri sommi pensatori e quella de' loro carnefici. Questi dicevano naturalmente, che la loro era la vera corrente della nostra vita, la vera filosofia italiana. Questa corrente non è ancora del tutto estinta; anche oggi dicono che l'Italia, che noi stiamo facendo, non è la vera, ma la vera è quella che abbiamo disfatta. Tale contradizione nel seno stesso della vita nazionale impedì lo sviluppo della filosofia del Risorgimento, e fu cagione che Vico e Gioberti poco fossero compresi, anzi, dirò francamente, non comprendessero perfettamente se stessi. Così la mancanza di libertà ci fece per lungo tempo come stranieri a noi medesimi, e il nostro vero pensiero divenne quasi un segreto per noi, prosperando in altre contrade. È tempo di ripigliarlo, che è nostro, ora che siamo liberi. NOTA ALLA PROLUSIONE INTORNO ALLA FILOSOFIA INDIANA. Il fine principale di questa mia Prolusione è stato di mostrare la insussistenza della opinione di coloro, che parlano oggigiorno di una filosofia nazionale, come gli ebrei, tanti secoli fa, parlavano del loro Dio. Perciò, se qualcuno mi rimproverasse che nelle brevi parole che ho detto sull'India, io abbia fatto d'ogni erba fascio, non distinguendo il bramanismo dal buddismo, e la filosofia del Vedanta da quella del Sankhya e dalla speculazione buddistica, e in generale i tempi più o meno _naturali_ dell'India, direbbe Vico, da' _tempi umani_, io potrei rispondere: questo rimprovero dimostra più di quel che io voleva. Io voleva provare che l'_umanità_ ci è o almeno ci ha da essere ne' tempi moderni, e il rimprovero dice che ci è stata, a suo modo, anche nei tempi antichi; cioè, che nell'India stessa la coscienza siasi elevata a tale altezza, da superare i limiti de' pregiudizii nazionali. Adunque, potrei dire: tanto meglio; e basterebbe. Contuttociò, giacchè la dimostrazione del mio tema si connette necessariamente colla _caratteristica_ della filosofia e in generale dello spirito de' tre popoli ariani antichi (India, Grecia e Roma), io devo provare che questa caratteristica non esclude, anzi contiene in sè, quel progresso dalla coscienza puramente naturale e nazionale all'umana. E in vero, ei pare che io abbia fatto di ogni erba fascio, perchè ho detto: «lo spirito indiano non arriva mai alla coltura umana propriamente detta»; e: «Brama è lo stesso spirito indiano». E simili. Tutto ciò, si osserverà, stava bene venti o trenta anni fa; ma oggi, dopo le nuove ricerche sull'India e specialmente sul buddismo, è un errore, che non si può scusare. Chi non sa oggi che il buddismo è l'_umanismo_ indiano, e tale umanismo che spesso, al paragone, noi altri popoli moderni d'Europa, che diciamo di rappresentare tutta l'umanità, abbiamo cagione di arrossire? Chi non sa oggi, insomma, che bramanismo e buddismo sono essenzialmente differenti, e che il bramanismo non è o almeno non è stato tutta l'India? — Io so bene che la ignoranza non è una scusa, nè anche quella così facile, e direi quasi così scusabile, delle cose indiane. Io non sono di quelli, che hanno l'India, anzi tutto l'Oriente in tasca, e di questo Oriente — veramente tascabile — parlano a ogni momento e occasione. Nè, d'altra parte, sono di que' pochissimi, che se cominciano a parlare dell'India tra noi, hanno il diritto di farlo, perchè o la studiano o l'hanno studiata davvero. Io non pretendo, insomma, di esser annoverato tra i dotti, ma nello stesso tempo rigetto ogni società o parentela coi ciarlatani. Quel che ho detto, l'ho detto perchè l'ho _pensato_, conoscendo — almeno in parte — le difficoltà che si sarebbero potute fare a questo modo di pensare. Queste difficoltà le ho meditate, e scrivo questa nota appunto per esporre brevemente le mie ragioni: il che non avrei potuto fare nel testo senza spezzare il filo del discorso. 1. Ripetendo quel che è stato affermato da altri anche di recente[14], cioè che «lo spirito indiano non arriva mai alla coltura umana _propriamente detta_», io non ho avuto intenzione di confondere il buddismo col bramanismo, e negare all'India ogni senso di civiltà ed umanità, ma solo, invece, di distinguere la civiltà così detta classica e specialmente la moderna, e come esiste e come s'intende, da tutta la civiltà indiana. Conosco bene, che il bramanismo come sistema gerarchico e castale, che determina, abbraccia e incatena tutte le relazioni universali e particolari della vita e perfino le azioni più indifferenti, è tutt'altro che un'istituzione _umana_, e che al paragone, anzi senza paragone, il buddismo — almeno nella sua genuina originalità —, è l'_umanità_ stessa. Sottoscrivo a tutti i paragoni, che sono stati fatti e si possono fare per rappresentare la radicale differenza tra la coscienza bramanica e la buddistica; quella sia la coscienza del fariseo o dell'uomo del medio evo, e questa la coscienza del cristiano o dell'uomo dopo la Riforma, ecc., ecc. Se l'India buddistica non avesse altro a mostrare al mondo, che la sua etica[15], ciò basterebbe a provare la gran potenza e originale profondità dello spirito indiano, e come l'umanità — il valore dell'uomo come uomo, senza differenza di nazioni, di nascita, di classi, di ricchezza e simili, ma come semplice effetto della sua propria libera attività teoretica e pratica, del vero sapere e del puro volere — sia qualcosa di assai più antico che lo stesso cristianesimo. Io non so, se in alcuna religione — come spiegazione della vita — si trovi un concetto più serio e più profondamente umano di quello del _Carma_: un concetto, nel quale si veda espressa più energicamente la convinzione, che l'uomo sia il vero e unico artefice del suo proprio destino, e che lo spirito, come attività etica — come efficacia e processo continuo delle opere — come perennità morale — sia l'unica suprema potenza, che regge e ordina ogni cosa, la legge, a cui tutto è soggetto e da cui dipende il corso del mondo[16]. Contuttociò, vi ha umanità e umanità, e nelle parole: _umanità propriamente detta_, io ho voluto dinotare appunto questa differenza. L'umanità buddistica, per quanto sia il suo pregio, è, come è stato già osservato da uomini molto versati in tal materia, sempre _negativa_; è un'etica di pazienza e di annegazione, non di azione ed energia: una morale da cenobita, la quale, al far de' conti, stanca e dissolve ogni forza dell'animo. Invano tu cerchi in essa quel vigore efficace, quella operosità e accorgimento individuale, quella maschia virtù; che noi tanto ammiriamo nell'antichità classica. «A chi ti dà una guanciata, offri l'altra guancia». Politicamente, essa favorisce la servitù; giacchè, insegnando che si deve sopportare pazientemente ogni ingiuria e ingiustizia, e proibendo ogni resistenza contro l'usurpazione e la violenza, predica naturalmente l'ubbidienza cieca e passiva verso la potestà anche tirannica, e perciò, nonostante il suo principio dell'eguaglianza di tutti gli uomini, è stata di aiuto al dispotismo, dovunque si è introdotta. Questo suo carattere negativo nasce dalla sua _trascendenza_, e specialmente dal concetto che il buddismo ha di quel che noi diciamo comunemente l'altro mondo, e in generale del principio e fine delle cose. Per l'elleno il vero mondo è questo mondo, la terra con tutto quel che essa sostiene e alimenta; e perciò l'etica greca, sebbene apparisca da un lato meno _umana_, perchè più nazionale e più limitata della buddistica, pure dall'altro lato si accosta di più all'umanità _concreta_ de' tempi moderni, perchè in questa stessa misura essa ha un contenuto positivo e determinato. Pel buddista al contrario i grandi interessi terreni e mondani non hanno nessun valore: la nazione, lo stato, la società civile — tutto quello appunto che noi diciamo vita umana — sono qualcosa d'indifferente, o valgono soltanto come mezzi per conseguire il supremo fine, che è al di là della vita. Questo fine è il _Niente_; il Niente, da cui deriva e a cui ritorna ogni cosa. Questo è l'ideale umano; io devo pensare, volere e operare, solo per estinguermi assolutamente come individualità che pensa, vuole e opera. E però, per quanto questo fine, come assoluto e universale, come la perfetta liberazione di tutti gli esseri viventi senza differenza di nazioni e di classi, come scopo a cui devono essere indirizzate e nel quale devono risolversi tutte le potenze dell'anima, possa essere causa e motivo di una gran virtù operativa, ciò nondimeno la sua stessa vacuità si riflette nell'attività individuale, e il cuore del buddista è al far de' conti vuoto come l'ideale a cui esso aspira. Quelli che si potrebbero chiamare risultati positivi dell'etica buddistica, o sono una inconseguenza, una deviazione pratica dal suo stesso principio, ovvero di quegli effetti che sogliono essere prodotti anche da cause negative; giacchè _operare_, anche per un ultimo fine quale è quello del Niente, è sempre qualcosa di positivo. La negatività e quindi la vacuità buddistica non consiste tanto nella trascendenza, quanto nella natura del trascendente. Così l'ideale cristiano, specialmente come fu elaborato nel medio evo, è trascendente, ma non è il Niente. E sebbene il cristianesimo per lunga età, specialmente ne' primi tempi e anche dopo la Riforma, abbia avuto e conservato sempre o non mai smesso del tutto quella tendenza ascetica, che è inseparabile da ogni nuovo trascendente, e la umanità come si annunzia nel Vangelo sia principalmente astratta, indeterminata, negativa, e direi quasi livellatrice, come la buddistica; pure, appunto perchè il suo ideale non è il Niente, è avvenuto che la civiltà, come si dice cristiana o in altre parole la umanità moderna, avesse quel carattere di universalità e di concretezza insieme, di celeste e di mondano, di trascendenza e d'immanenza, che tanto la diversifica così dalla buddistica come dall'ellenica. So bene, che si attribuirà tutto questo a tante diverse cagioni, più che al principio cristiano: alla natura de' popoli che lo ricevettero, alla preesistenza e al rinascimento della civiltà classica, alle condizioni geografiche, ecc. Ma per quanta parte tutte queste cause abbiano potuto avere nella produzione della civiltà moderna, non si potrà mai negare, che se il principio cristiano non fosse stato quel che è stato, i popoli o non l'avrebbero ricevuto, o ricevendolo avrebbero tenuto un'altra via nello sviluppo della loro coltura. Per esprimere questa differenza dell'umanità negativa indiana dalla umanità europea, io ho detto nella Prolusione: «l'infinita distanza di questo vuoto essere (Brama) dalla personalità piena e assoluta, tale è l'abisso che separa questa coscienza dalla coscienza moderna». 2. Brama è per me «la (vuota) _concentrazione_ dello spirito in se stesso, mediante la negazione di ogni esistenza finita e determinata»; e perciò ho detto: « Brama è lo stesso spirito indiano». Il buddismo, infatti, — quest'ultimo grado dello sviluppo della coscienza indiana — per quanto differisca essenzialmente dal bramanismo, non si leva al di là di questa _vuota concentrazione_; di questo _vuoto Essere_, che è il _puro Nulla_. Inteso così il concetto di Brama, il buddismo apparisce come una conseguenza logica di questo concetto: più logica dello stesso bramanismo, come istituzione gerarchica e castale, e come sistema di riti, di cerimonie, di sacrifizi, di espiazione e in generale di mezzi esterni e meccanici per arrivare alla dissoluzione della personalità nel vuoto assoluto. Questa dissoluzione è lo scopo comune di tutti gl'indirizzi della coscienza indiana, religiosa e filosoflca: della pratica bramanica, della contemplazione vedantica, dell'etica buddistica, e della stessa speculazione eterodossa del Sankhya. Il Sankhya, infatti, sebbene opponga all'unità originaria dell'essere la dualità assoluta della natura e dell'anima individuale, e faccia consistere la liberazione nel conoscere se stesso e distinguersi dalla natura; pure ha per fine ultimo l'isolamento assoluto dell'anima, e quindi la estinzione della personalità e dell'Io. Il puro bramanismo, il Sankhya e il buddismo sono come i tre gradi principali, pe' quali passa la speculazione indiana, senza mai arrivare al vero concetto della personalità umana. Nel bramanismo l'anima individuale è come niente: una pura modificazione apparente e illusoria di Brama, che è l'Essere indeterminato e indifferente. Il pregio del Sankhya è il valore originale dell'anima individuale; ma questa individualità è vuota, come Brama medesimo, e senza coscienza. Il buddismo compendia in sè il bramanismo e il Sankhya, giacchè per esso ogni anima è in se stessa quel che nel puro bramanismo è Brama come Tutto; e, giacchè Brama come vuoto Essere è il Nulla, la vera essenza dell'anima è appunto l'annichilamento assoluto. 3. Paragonando l'India, la Grecia, Roma e il mondo moderno, si può dire, che nell'India l'umanità apparisce la prima volta come _religione_ (nel buddismo); nella Grecia come _filosofia_ (nel principio socratico); e in Roma come _diritto_. Solo l'umanità moderna è davvero concreta e abbraccia ed esprime tutto l'uomo; e perciò essa sola è degna di questo nome. II. CARATTERE E SVILUPPO DELLA FILOSOFIA ITALIANA DAL SECOLO XVI SINO AL NOSTRO TEMPO LEZIONI. LEZIONE PRIMA. SOMMARIO. Motivo e soggetto della introduzione — Pregiudizio della nostra coscienza nazionale — Necessità d'una storia del pensiero italiano nella sua relazione col pensiero europeo. «Sono alcuni, che, per qualche _credula pazzia temendo che per vedere non se guastino_, vogliono ostinatamente perseverare ne le tenebre di quello che hanno una volta _malamente appreso_. Altri poi sono i felici e ben nati ingegni, verso gli quali nisciuno onorato studio è perso; temerariamente non giudicano, hanno libero l'intelletto, terso il vedere, e son prodotti dal cielo, si non inventori, degni però esaminatori, scrutatori, giodici e testimoni de la verità. Di questi ha guadagnato; guadagna e guadagnarà, l'assenso e l'amore il Nolano. — Quello, al che doviamo fissar l'occhio de la considerazione, è, si noi siamo nel giorno e la luce de la verità è sopra il nostro orizonte, o vero in quello degli avversarii nostri...; si siamo noi in tenebre, o ver essi; e in conclusione, si noi, che damo principio a rinovar l'antica filosofia, siamo nella mattina per dar fine alla notte, o pur nella sera per dar fine al giorno». BRUNO, _Cena de le ceneri_, 132, 134[17]. _Signori_, La giustificazione della scienza — il vedere che ella è non solo la mattina, come dice Bruno nelle parole che ho lette, ma il pien meriggio, e che i suoi avversarii sono non solo nella sera, ma in piena notte —, questa giustificazione o piena testimonianza cha la scienza fa di sè, è la scienza stessa, _tutta_ la scienza. La scienza non si può dir davvero giustificata, se non quando è giunta al suo ultimo risultato, quando ha toccato la sua meta. Questa meta è la scienza stessa, la scienza come oggetto della scienza, la scienza che spiega se stessa. Questa proprietà della scienza — di giustificare assolutamente se stessa — forma il suo privilegio e la sua difficoltà. Da un lato, essa non deve _presupporre_ nulla che non sia la scienza, ed esiste solo a questa condizione. E dall'altro lato, ella deve spiegare non solo, come si dice, il reale, le esistenze, le cose del mondo, ma se stessa come suprema e assoluta realtà. La scienza non è, come si crede comunemente — come credono spesso gli stessi scienziati —, una semplice immagine o copia, più o meno fedele, del reale o delle cose: una fotografia, che riproduca più o meno felicemente un mondo, di cui il fotografo o la fotografia stessa non facciano parte. Il reale o il mondo senza la scienza — preso così per sè — non è il vero reale, il vero mondo. Questo è solo la scienza, giacchè scienza non vuol dir altro che la verità del mondo. Il reale senza la scienza è solo una _parte_ del reale; la quale, presa pel tutto e riprodotta semplicemente dalla scienza, è falsa, perchè solo in quella unità, che è il Tutto, essa ha il suo vero significato. Le scienze particolari, p. e., la matematica, la fisica, non hanno nè questo privilegio, nè questa difficoltà. Da una parte esse presuppongono i proprii principii, e dall'altra non giustificano se stesse come scienze. Così la materia della geometria sono le pure dimensioni dello spazio, e non già la stessa geometria; la materia della fisiologia è la vita, e non già la scienza stessa della vita. Solo la filosofia ha per ultimo oggetto se stessa; e può dir di aver spiegato il reale, solo quando ha spiegato se stessa. Perciò la filosofia non è una scienza fra le scienze, ma la Scienza; non è solo, come si dice, la prima scienza, la scienza _fondamentale_, ma la scienza, dirò così, _finale_. Non è un punto, un luogo comune, da cui partono tutte le scienze particolari, e poi viaggiano e vanno, ciascuna per sè, non si sa dove; ma è anche l'indirizzo e la meta comune del loro viaggio. Non è, insomma, per le scienze particolari una semplice rimembranza, una formola imparata nella fanciullezza, un primo battesimo, le cui tracce si disperdono nella corrente della vita; ma è lo scopo dell'uomo maturo, l'avvenire, l'ultima consacrazione. Chi dunque si fa a imparare la scienza deve avere, più che altri, una certa buona disposizione, una certa fede in chi la insegna, una certa dose di pazienza: deve aspettare, che la luce venga quando ha da venire. Tali sono _i felici e ben nati ingegni, verso i quali nessuno onorato studio è perso_. Di questi, se io non presumo troppo di me, io spero di guadagnare l'assenso e l'amore. Ma pur troppo tali ingegni non sono molti! E fossero pur molti, vi ha sempre di coloro, che hanno qualche _credula pazzia_, che temono che per vedere non si guastino, che perseverano in quel che hanno una volta male appreso. Dire a questi ultimi: «Aspettate, abbiate pazienza, la scienza si giustificherà pienamente alla fine», è tempo perso, fiato sprecato. Voi gli invitate a entrare nel tempio della Scienza, a visitarne gli altari, a penetrare nel santuario; ed essi o s'arrestano innanzi alla porta, o vi voltano le spalle. Perchè? Perchè vedono in voi, in qualche vostra prima parola, qualcosa che offende la loro _credula pazzia_, il loro _timore, quello che hanno malamente appreso_. Con costoro dunque il dire: _la giustificazione verrà_, non fa niente. Questa giustificazione fa per quelli, che sono già entrati. Come adoperare con quelli che non vogliono entrare? Io vi vedo entrati già tutti in questa sala, e parlo a coloro che sono entrati. Ma io vorrei che la vostra presenza qui fosse una vera entrata: un'entrata spirituale. Su quella soglia bisogna deporre le credule pazzie, ogni vano timore, tutte le cose malamente apprese: insomma, ogni pregiudizio. A me pare l'unica via sia questa: guardare in faccia questi pregiudizii; lottare, dirò così, con essi corpo a corpo, francamente, senza vani rispetti; far vedere, che la credula pazzia non è credula pazzia; il timore, timore; le cose mal apprese, cose mal apprese. Insomma, che il pregiudizio o la falsa coscienza, è pregiudizio o falsa coscienza. Ora uno dei più funesti pregiudizii nostri è: il falso concetto della nostra filosofia; il falso concetto della storia della filosofia in generale; il credere, insomma, che l'ultimo risultato a cui è giunta la speculazione moderna europea, sia in opposizione coll'ultimo risultato, a cui è giunta la nostra. Lo scopo della mia Prolusione è stato di vincere l'uno e l'altro pregiudizio, che sono in sostanza uno solo; cioè esporre il vero concetto — quello che io credo vero — della filosofia nostra e della europea, e far vedere come _coincidono_ e _devono_ concidere. E infatti lo spirito veramente filosofico è solo lo spirito ariano, il nostro spirito. A principio, noi altri popoli indogermanici, o se volete, indo-europei, eravamo una sola stirpe, una sola famiglia, una massa sola. Naturalmente, non ci era ancora filosofia; non c'erano ancora tante altre cose, che la filosofia presuppone. Poi, a poco a poco, l'uno dopo l'altro, ci separammo, forse senza dirci addio, e senza pensare che un giorno ci saremmo riveduti; chi andò di qua, chi di là, dispersi, come si è detto, sulla faccia della terra. Questa separazione fu un gran progresso: cominciammo a diventar nazioni, ad avere una vita propria, distinta, nazionale; a svolgere in tanti modi e forme diverse tutta la ricchezza della nostra originale natura. Qualcuno di noi giunse, prima degli altri, a tal grado di sviluppo, che potè esprimere la sua propria intuizione e celebrare il mistero della vita in quella chiara ed alta coscienza, che è solo la filosofia. Così la nostra antichità — devo dire tutta l'antichità — ebbe due grandi filosofie: l'indiana e la greca, nelle quali lo spirito ariano si specchia perfettamente come indiano e greco. Altri non si elevarono da sè a questa coscienza. Tali furono, checchè si dica in contrario, i latini. Di poi, dopo tanto tempo, tante vicende, tante lotte, dalle quali uscimmo, più o meno, con diverso volto e quasi con altra natura, noi cominciammo ad unirci di nuovo: a sentire e conoscere la nostra unità, la nostra comune natura, non solo tra noi, ma co' popoli di altre stirpi. L'espressione più chiara e genuina di questa coscienza — della coscienza della nostra _umanità_ — è la filosofia moderna. Togliete questa coscienza, e la filosofia moderna non ha più significato. Ho detto la filosofia moderna, e dovrei dire la filosofia antica: la greca, da Socrate in poi; giacchè il principio socratico — inteso in un modo più o meno ristretto, cioè come semplice oggettività ideale di Platone ed Aristotele — nella sua pura ed ampia virtualità è appunto l'_antropologismo_. Con Socrate la filosofia precorre, almeno — ripeto — virtualmente, i nuovi tempi: i _tempi umani_. Questo ora vedono anche i ciechi; ma non i nostri nuovi bramani[18]. Costoro s'hanno foggiato una storia della filosofia a loro modo, e l'hanno gerarchicamente divisa in caste, come gli antichi divisero la società indiana. Ogni nazione, essi dicono, ha la sua propria e particolare filosofia, e ciascuna filosofia è una casta. Guai, se si confondono le caste! In Europa oggi si nasce _ontologista_ o _psicologista_, puro o impuro, teista o panteista, come nella valle del Gange si nasceva e si nasce tuttavia Bramano, Kshatriya, Vaisja e Sudra. Naturalmente i bramani — la primogenitura di Brama — siamo noi italiani; e non ci è bisogno di dire chi siano i Sudri, anzi i Tschandali, gl'impuri, i reietti, gli eslegi. Se costoro avessero ragione, o tanto potere quant'hanno poca ragione, farebbero davvero dell'Italia una nuova India bramanica, e noi dormiremmo tranquilli i nostri sonni sulle rovine del nuovo buddismo! Mostrare questa coincidenza dell'indirizzo della nostra filosofia colla filosofia europea, è opera della storia della filosofia. Io non farò, nè posso fare qui questa storia come si deve. Solo mi propongo di fare una breve esposizione del nostro pensiero filosofico dal secolo XVI sino al Gioberti nella sua relazione col pensiero europeo. Questa sarà la mia introduzione alle lezioni di filosofia: la mia propedeutica. So bene, che essa non è la vera propedeutica; giacchè io non considero qui il _pregiudizio_ o la serie dei pregiudizii (tutto il falso sapere) della coscienza come tale, nè mediante la critica di questi pregiudizii la elevo all'orizzonte della scienza. Vi ha un pregiudizio più forte di quel generale della coscienza; e questo è appunto il pregiudizio nazionale, e proprio della nostra coscienza, del quale ho parlato. Questo particolare e tenace pregiudizio io devo superare. Fermato così, che la verità, come risultato del processo storico, è sopra il nostro orizzonte; che _noi siamo nella mattina per dar fine alla notte_, e non _nella sera per dar fine al giorno_, solo allora noi potremo muoverci liberamente e sicuramente in questo orizzonte e costruire il sistema della scienza. L'introduzione sarà breve; e per questa ragione — tra le altre — credo che non contenterà tutti, e in tutto. A questo difetto io cercherò di supplire con corsi speciali su' sistemi de' filosofi italiani[19]. LEZIONE SECONDA. SOMMARIO. L'antica filosofia italiana. — L'_antiquissima italorum sapientia_ di Vico. Critica di questa ipotesi. Io devo esporre, come introduzione alla filosofia, come la via più sicura per vincere uno dei nostri più tenaci pregiudizii, i principali momenti della storia del nostro pensiero dal Risorgimento sino al nostro tempo; cioè, determinare il _carattere_ e lo _sviluppo_ della nostra filosofia. Dico dal Risorgimento sino al nostro tempo, perchè ciò che si chiama filosofia italica nell'antichità (pitagorei, eleati) appartiene alla filosofia greca, e d'altra parte è appena un rudimento di questa. Rinnovare oggi il pitagorismo o l'eleatismo sarebbe lo stesso che ritornare alla infanzia della filosofia. Infatti la filosofia antesocratica o naturale, di cui sono parte quelle due filosofie, incomincia colla ricerca della _essenza_ universale dell'esistenza naturale, del mondo fenomenale, e la ripone in un ente immediato, in una sostanza immobile: determinata progressivamente come _materia_ (jonici), come _numero_ (pitagorei), come _puro essere_ (eleati). Ma queste tre soluzioni non spiegano il movimento e il divenire del mondo naturale: quindi fu necessario un nuovo sviluppo della speculazione (Eraclito, Atomisti ed Empedocle, Anassagora). In secondo luogo, ciò che chiamasi filosofia romana — e si deve dire _greco-romana_ — come romana è ben poca cosa; Cicerone è filosofo popolare, eclettico (vedi Prolusione, pag. 16); Marco Aurelio è anche popolare, e stoico, ecc. ecc.[20]. I nostri bramani, nella pia intenzione di rigettare come illegittimo e spurio tutto quel po' di progresso che ha fatto lo spirito umano e per conseguenza — disgraziatamente — anche noi altri italiani da più centinaia d'anni, non contenti dell'antichità storica de' pitagorei e degli eleati, sono ricorsi al mito d'un'_antichissima_ filosofia italica; e vi ha di certo taluni, che s'immaginano un'accademia, un peripato, una stoa ne' tempi aurei di Saturno, quando l'acqua de' ruscelli, e credo anche la filosofia, era latte e mele. A chi dubita di questa scoperta, costoro rispondono: «L'ha detto Giambattista Vico; leggete il libro: _De antiquissima Italorum sapientia_. Voi dunque ne sapete più di Vico?» Anch'io ho letto un po' questo libro di Vico; e devo dirvi qui quel che ne penso, lasciando a chi si sia eguale libertà di dire ingenuamente, che io ne so più di Vico. Vico dice: «_Dum linguae latinae origines meditarer, multorum bene sane verborum tam doctas animadverti, ut non a vulgari populi usu, sed inferiori aliqua doctrina, profecta esse videantur_»[21]. Ora questa _interior doctrina_, rintracciata da Vico e riveduta, corretta e migliorata _ad usum puerorum_ dai nostri bramani, è appunto l'_antichissima filosofia_ italiana! La ricerca di Vico, intesa in un senso generale, e come è espressa nel luogo citato, equivarrebbe ad ammettere e contrapporre l'una all'altra due origini della lingua latina e, credo, d'ogni lingua originale come quella: cioè l'uso volgare del popolo e l'interna dottrina. Ora, che nella lingua ci sia una interna dottrina, — che ci sia più o meno in ogni lingua, — non si può negare. Ma il punto sta nel vedere, se questa interna dottrina sia ciò che si chiama propriamente dottrina, cioè un sapere o coscienza riflessa, colta, filosofica, come dice il luogo di Vico, ovvero solo una dottrina, dirò così, inconsapevole, spontanea, e propria dello spirito originario di ogni popolo che parla: quella dottrina che è contenuta necessariamente nell'uso volgare e senza la quale lo stesso parlare — l'uso volgare, popolare, nazionale della parola — non sarebbe possibile. L'uomo parla, perchè è uomo, cioè pensiero, ragione, spirito. La parola non è una parte dello spirito, ma lo spirito, tutto lo spirito, come parola. L'uomo, la società, il popolo, lo spirito che parla, depone nella parola la sua rappresentazione o intuizione originaria delle cose e di se stesso, della sua esistenza, delle relazioni della sua vita; e in generale, del mondo, dell'universo. La parola è essa stessa un mondo; è l'universo in quanto rappresentato e immaginato originariamente dallo spirito. Questa immaginazione — questo mondo immaginato — è in sè pensiero, ragione, ma non sussiste ancora come pensiero, come ragione; è una interna dottrina, un organismo, un sistema, ma che non sussiste ancora come riflessione, scienza, filosofia: come vera dottrina. Perchè questa immaginazione diventi nello sviluppo della vita di un popolo vera dottrina; perchè l'intuizione originaria diventi piena e riflessa coscienza, cioè scienza, si richiede un lungo lavoro della riflessione; la filosofia è l'ultimo grado della riflessione. Tale è il concetto che Vico ha della lingua e anche della filosofia nella _Scienza Nuova_. L'origine della lingua è una; ed è lo spirito come rappresentazione o immaginazione dell'universo. Cito un solo luogo: «Gli _universali fantastici_ furono dettati naturalmente da quella innata proprietà della mente umana di dilettarsi dell'_uniforme_; lo che non potendo fare coll'_astrazione per generi_, il fecero colla _fantasia per ritratti_; ai quali _universali poetici_ riducevano tutte le particolari specie a ciascun genere appartenenti. I quali _generi fantastici_, con avvezzarsi poscia la mente umana ad _astrarre_ le forme e le proprietà de' subbietti, passarono in _generi intelligibili_; onde provennero appresso i _filosofi_»[22]. L'_universale_ o genere fantastico, poetico o mitico, di cui discorre Vico, è appunto la _parola_, cioè lo spirito o la mente come parola; è la mente, che non è più semplice senso (affezione sensibile; _corpo, tempi muti_), e non è ancora vera mente (_ragione umana tutta spiegata_, VERO _delle idee_), ma è solamente _favella_, CERTE _idee, formole di parole_[23]: universale, che non è il vero universale, e non il semplice particolare, ma universale _immaginato_, non _pensato_. In questo luogo — in questo concetto dell'_universale fantastico_ — è tutta la teorica della parola. Ora cosa vuol dire che questo genere passa in genere intelligibile, e così provengono i filosofi? Vuol dire, che quelle parole che Vico nella _Antiquissima Italorum sapientia_ dice originate da interna dottrina (da sapienza riposta, filosofica, non volgare), — tutte le determinazioni di cui consta la sua metafisica, _verum, factum, genus, forma, species, individuum, caussa_, ecc. — erano a principio, più o meno, generi fantastici, cioè sapienza volgare, e appresso passarono in intelligibili. Vico stesso nella _Scienza Nuova_ deride e non crede alla sapienza riposta delle origini. Direi quasi che il _passare_ di quelle determinazioni in nozioni intelligibili è il libro stesso di Vico; giacchè quella antichissima _metafisica_ degli italiani non pare che abbia mai esistito. Vico determina così nella _Scienza Nuova_ lo sviluppo dello spirito: dalla _religione_ (favella, mito) alle _repubbliche_ (Stato); da queste alle _leggi_, e dalle leggi alla _filosofia_. La filosofia è la corona dello sviluppo. Contuttociò io non voglio negare, che la formazione di certi vocaboli, come quelli che Vico reca nel Proemio: _ens, essentia, substantia_, etc., presupponga di necessità una coltura filosofica. È un fatto che i latini, imparando la filosofia greca, li formarono per rendere nella loro favella ὄν, οὐσία etc.[24]. Ma non si deve confondere la natura di tali vocaboli, che sono molto astratti, con quella delle voci, da cui Vico vuoi dedurre l'antichissima sapienza degli italiani. _Ens, essentia, substantia,_ etc., presuppongono non solo un alto grado di riflessione, ma le voci primitive _esse, sub, stare,_ etc.; come _generalis_ presuppone la voce _genus_, _possibilitas_ la voce _posse_, etc. Ma ciò non vuol dire, che queste voci, e in generale tutte quelle recate da Vico, presuppongano una dottrina filosofica. Chi può asserire, che per dire: _esse, sub, stare_, etc. bisognò prima esser filosofo? Adunque, la ricerca di Vico nella sua generalità, se ha un senso, vuol dire: determinare la relazione tra la lingua e il pensiero d'una nazione; cioè, data la lingua, investigare quale possa essere, più o meno e sempre dentro certi limiti, il carattere generale della speculazione nel corso del tempo. Il risultato di questa ricerca è una specie di _prognosi_; la quale, se è presa per una _realtà storica_ che preceda o accompagni la formazione e lo sviluppo primitivo della lingua, contradice alla natura dello spirito e — ciò che forse più importa a qualcuno — al concetto principale della _Scienza Nuova_. Questo sarebbe lo stesso che dire contro Vico: i generi intelligibili precedono o accompagnano i generi fantastici. Ma, anche intesa così la cosa, perchè quella prognosi nella stessa sua generalità si avveri, si richiedono certe condizioni, che non sempre hanno luogo. E la principale è, che la nazione viva come in campo chiuso, tutta a sè, nella sua solitudine, e non accada niente — non si dia verun caso o necessità più universale sotto forma di caso — che ne modifichi o muti in qualche modo l'indirizzo. E in verità pare che a questo stato di patriarcale isolamento vogliano ridurci costoro, che si danno tanta briga di risuscitare un morto, che non è stato mai vivo; o, se è stato mai vivo, il che non pare, è tutt'altra persona e di tutt'altra razza di quella che essi s'immaginano. Infatti, cos'è al far de' conti questa _antichissima_ filosofia degl'Itali? dov'è nata? chi n'è stato autore? Il senso proprio e particolare della ricerca di Vico è il seguente. Due fatti sono certi. Il primo è, che _molte voci nella lingua latina originale, sono così dotte, che non possono essere provenute dall'uso del volgo, ma piuttosto da qualche dottrina intrinseca_. Il secondo è, che gli antichi Romani, infino a' tempi di Pirro, _furono affatto sforniti di ogni scienza_ e attesero solo alla agricoltura e alle cose di guerra. Da questi due fatti insieme si deve inferire, che i Romani non abbiano creato essi medesimi quelle voci, ma le abbiano invece ricevute da altre nazioni circonvicine, e usate così pregne come erano di filosofici sentimenti, senza intenderne la forza del significato; e tali sentimenti, proprii di queste nazioni, abbiano formato il tesoro antichissimo dell'italica sapienza. Sul primo di questi fatti ho detto abbastanza, nel considerare il significato generale della ricerca. E pure, se questo fatto non è vero, la conclusione di Vico non è giusta. Se, dovunque vi ha vocaboli, che poi ci appariscono pregni d'una certa dottrina, o anche di un sentimento filosofico, si dovesse presupporre originalmente l'esistenza d'una _filosofia_, non saprei come si potrebbe principiare a filosofare, e nè anche a parlare. È dottrina o sapienza la intuizione o la rappresentazione contenuta nella parola e nel mito; e nondimeno la parola e il mito non sono ancora la filosofia. Vico risolve, quanto a' Romani, la difficoltà della esistenza di que' vocaboli, supponendo che fossero stati creati da filosofi di altre nazioni; ma la difficoltà rinasce in tutta la sua forza rispetto a queste medesime nazioni. Come si formarono tali vocaboli nel seno di queste nazioni? Per una qualche interna dottrina, cioè per opera di filosofi. E come fu possibile tale filosofia, prima di que' vocaboli; cioè, come, p. e., si potè aver prima il concetto proprio e filosofico del _genere_, della _specie_, della _causa_, etc., senza i vocaboli _genus, species, causa_, etc., e creare tai vocaboli dopo aver _pensato i concetti_? Ammettere che ci sieno stati uomini nel seno di queste nazioni, i quali abbiano prima _pensato i concetti_ e poi formato, anzi creato i vocaboli, equivale a separare assolutamente questi uomini — i filosofi (devo dire i primi filosofi) — dalla vita delle loro nazioni medesime, giacchè il primo legame comune è appunto la lingua. Una filosofia primitiva, che non presupponga la parola nazionale (cioè la parola), non è dottrina _intrinseca_, ma _estrinseca_ alla nazione; e in quanto estrinseca, presuppone altre nazioni più antiche e altri filosofi, e così via via, finchè si arrivi ad un filosofo assolutamente primo, il quale abbia prima _pensato_ senza parlare, e poi _parlato_ dopo aver pensato. Questo primo filosofo non può essere altro che il primo uomo, anzi Dio stesso; e così la vera ed antichissima filosofia, non solo propria particolarmente di noi altri italiani, ma _comune_ (contro la intenzione de' nostri _separatisti_) a tutti i popoli del mondo, sarebbe quella stessa dell'Eden: filosofia non _italica_, ma _preadamitica_. Questa ipotesi, che capovolge tutto il cammino naturale dello spirito umano, e a cui riesce necessariamente la prima asserzione di Vico, non spiega niente, nè la parola nè la filosofia. Essa fa infondere nel cervello degli uomini e delle nazioni i concetti e le parole, come il primo cibo è messo dalle madri nella bocca de' bambini: l'uomo pensa e parla, non perchè tale è la sua intima natura, ma perchè altri da fuori operando lo fa pensare e parlare; potrebbe nè pensare nè parlare, e nondimeno essere ancora uomo. Così si può dire di tutti i popoli quel che Vico dice degli antichi romani: _parlarono lingua di filosofi senza essere filosofi_[25]. Credo che non ci possa essere una dottrina più falsa e più contraria, ripeto, a tutto lo spirito della _Scienza Nuova_. Un popolo che non capisce niente di filosofia e non sente affatto il bisogno di filosofare, piglia da un altro popolo dei vocaboli filosofici, se ne serve, gl'introduce nel tesoro della sua lingua, e intanto non intende quello che dice! Ma perchè li piglia, e se ne serve? I vocaboli si pigliano a prestito, e se ne fa uso, quando si sente un certo bisogno della cosa, che que' vocaboli esprimono; e coi vocaboli si piglia la cosa. Pigliare i vocaboli senza la cosa, non mi pare possibile. Perchè i Romani dalle voci _esse, genus, substare_, etc. formarono _essentia, generalis, substantia_, etc.? Perchè aveano già _appreso i concetti_ e le voci corrispondenti da' greci; e intendevano più o meno tali concetti. Ora il caso, di cui parla Vico, è ben diverso: non si tratta di pigliare i concetti e poi formare, secondo l'indole della propria lingua e da voci della propria lingua, i vocaboli; ma si tratta di pigliare vocaboli _originali_ forestieri, così, senza i concetti e senza il bisogno di tali concetti. E quali vocaboli! _Genus, forma, anima_, etc. Agli scrittori del _Giornale de' letterati d'Italia_, i quali desideravano che egli avesse _addotto luoghi dove la voce genus significasse forma_, etc., Vico risponde: «in cotal guisa, nella quale voi richiedete da me le pruove delle origini, io avrei ritratto l'antica sapienza d'Italia da esse voci latine, non dalle origini loro, che è il mio argomento»[26]. Queste origini — almeno quelle da cui Vico ritrae l'antica sapienza nostra — non sono, dunque, per lui latine. E di qual nazione sono? Da chi le ricevettero gli antichi romani? Vico nel proemio dice: da due nazioni, cioè dagli Jonii e dagli Etruschi. «Nationes autem doctas, a quibus eas locutiones accipere possent (Romani), duas invenio, Jones et Hetruscos... In Jonibus Italica philosophorum secta, et quidem doctissima praestantissimaque floruit. Hetruscos autem eruditissimam gentem..... Ab Jonibus bonam et magnam linguae partem ad Latinos importatam ethymologica testatum faciunt. Ab Hetruscis autem religiones Deorum, et cum iis locutiones etiam sacras, et pontificia verba Romanos accersisse, constat. Quamobrem certo conjicio ab ea utraque gente doctas verborum origines Latinorum provenisse; et ea de caussa animum adjci ad antiquissimam Italorum sapientiam ex ipsius latinae linguae originibus eruendam». Nella seconda risposta al _Giornale dei Letterati_ Vico spiega meglio, anzi, dovrei dire, corregge questa sua _congettura_. «Ripeterla (l'antica nostra sapienza) fin dalla Jonia e dalla pitagorica scuola, egli non era investigare la filosofia _antichissima_ dell'Italia, ma una _più novella_ di Grecia... Io la ripeto sì da Pitagora, ma non la fo venire di Grecia, e la fo più antica di quella di Grecia..... Quando nell'Egitto fioriva quel grandissimo imperio che si distendeva per quasi tutto l'Oriente e per l'Africa..... verisimile, anzi necessaria cosa egli è, che gli Egizii, _signoreggiando tutto il mare interno_, facilmente per le sue riviere avessero dedotto colonie, e così portato in Toscana la loro filosofia. E quivi essendo poi sorto un regno ben grande..., forza è che anche fossevi diffusa la lingua, e di questa ne avessero più preso i popoli più vicini del Lazio... Ora, per tutto il ragionato, ardisco asseverantemente dire, che Pitagora non avesse da Jonia portato in Italia la sua dottrina.....; ma, menato in Italia dal desiderio di acquistare nuove conoscenze, e qui avendo apparato l'italiana filosofia, e riuscitovi dottissimo, _gli fosse piaciuto_ fermarsi nella Magna Grecia, in Crotone, ed ivi fondar la sua scuola....; talchè, se vi ha voce di sapiente significazione che abbia indi l'origine» (_ab Jonibus bonam magnamque linguae partem ad Latinos portatam ethymologica testatum faciunt_)[27], «ella s'abbia a stimare essere stata quella molto innanzi portata da Toscana in Magna Grecia, e prima che in Magna Grecia, nel Lazio»[28]. (Cioè: non più, come è detto nel Proemio, dalla Jonia, e quindi dalla Magna Grecia nel Lazio, ma piuttosto dal Lazio nella Magna Grecia, o almeno in tutti e due dall'Etruria successivamente o contemporaneamente senza che passasse dall'una all'altro)[29]. Adunque, secondo Vico, il pitagorismo — quella che tutti gli storici della filosofia riconoscono concordemente come la più antica filosofia italiana (dell'Italia greca) — non solo non ha _originalmente_ niente di greco, ma l'autore di esso non è nè meno Pitagora; non già nel senso, come vogliono taluni, che fosse nata dopo Pitagora da' pitagorei, ma invece nel senso, che esisteva già — chi sa quanto tempo! — prima dello stesso Pitagora. Pitagora, quando sbarcò in Italia, la trovò bella e fatta; l'aveano inventata gli etruschi, anzi portata per mare dall'Egitto, giacchè pare che l'opinione di Vico sugli etruschi sia, che fossero egizii; di maniera che quella che noi diciamo filosofia italiana, in origine è egiziana. E noi dobbiamo seguitare ad essere egiziani, se non vogliamo cessare di essere italiani. Ecco di che si tratta! — Cito lo stesso esempio di Vico. _Anima_ e _animus_, dicono i Letterati d'Italia, non ci è bisogno di cercarli in Egitto; guardate la voce greca ἄνεμος, e vi persuaderete che i greci la portarono in Italia. — E Vico risponde: «dalle prove ivi fatte si può dedurre facilmente(!) che quegli Egizii antichissimi che mandarono in Italia cotal voce in cotal sentimento (di aria), l'avessero parimente mandata in Grecia; e così essersene tutte e due queste nazioni servite, _senza averne alcun commercio tra esso loro_»[30]. Se i medesimi letterati avessero detto: _genus_ è lo stesso che γένος, Vico avrebbe similmente risposto: gli Egizii portarono la stessa voce in Grecia e in Italia. Non è qui il luogo di far vedere quanto questa ipotesi di Vico sia contraria alla storia e alla filologia. Mi contento di fare qui solo poche osservazioni. 1.º Il pitagorismo — quale noi lo conosciamo dalla storia della filosofia, e non quale lo congettura Vico — è una schietta creazione dello spirito greco, specialmente del dorico. 2.º Nei tempi, di cui parla Vico, gli egizii non viaggiavano ancora per mare, e perciò non potevano trasportare la _loro filosofia_ in Toscana[31]. 3.º I primi etruschi in Italia avevano così poca coltura, che non si può ragionevolmente supporre, non dico che fossero già filosofi, ma nè pure che avessero potuto venire per mare[32]. 4.º Tutte le investigazioni fatte fin qui sulla loro lingua non sono ancora riuscite a classificarla; e perciò niente si può dire di certo sulla loro origine nazionale. 5.º È certo che gli etruschi pervennero a un alto grado di coltura; ma non è meno certo che questa coltura non ebbe su' costumi o almeno sulla lingua degli _antichi romani_ quella essenziale influenza che si è voluto credere[33]. Che i romani avessero preso la religione, e perfino un'arte _di schierar battaglia sola al mondo_, etc., dagli etruschi; che, insomma, tutta la sapienza de' romani consistesse nel far buon uso de' frutti dell'altrui dottrina e mantenere l'ignoranza[34], tutto ciò è un'esagerazione, per non dir altro[35]. Quello che è degno di nota nella ricerca di Vico si è, che egli non si contenta delle origini greche. A' suoi tempi si credeva ancora, che la lingua latina derivasse dalla greca. Vico, invece, va cercando un'origine più antica: un'origine comune a' latini e a' greci, e non sa trovarla altrove che in Egitto! Se Vico avesse saputo tutto quel che si sa ora di lingua, di filologia e di storia, e anche meno, non ci avrebbe parlato di Egitto, e nè meno della necessità d'una antichissima sapienza per la creazione di quei suoi vocaboli. Egli avrebbe visto — conformemente al vero concetto della lingua nella _Scienza Nuova_ — che tutta la sapienza p. e. de' vocaboli _genus_ e _mens_ consiste nella _intuizione_ primitiva, e comune a tutti i popoli della nostra stirpe, contenuta nelle radici _gen_ (sanscrito: _gan_, greco: γιν), e _men_ (sanscr. _man_, greco μνα), etc. Che Vico, un secolo e mezzo fa, abbia sbagliato, s'intende da sè; ma che ora, dopo tanto tempo e tanti progressi in tutto, ci si venga a ripetere tali errori, questo è quello che io non so capire. O piuttosto lo capisco: si tratta di consacrare il sistema delle caste, e l'autorità di Vico deve servire a questo pio intendimento! Adunque noi, per far onore a Vico, dobbiamo essere etruschi, anzi egiziani in filosofia. Ma perchè non anche in religione? La filosofia egizia dovea avere un nesso intimo colla religione egizia; e non so perchè la religione deve essere qualcosa di più universale e di meno nazionale che la filosofia. Questo vorrei che mi spiegassero i nostri bramani. Per me non ho bisogno di dire, che io rispetto Vico; ma credo nello stesso tempo, che il maggior onore che gli si possa fare da noi, sia quello di metter da parte i suoi errori e di svolgere e ampliare con tutti i sussidii delle nuove investigazioni ciò che vi ha di vero nella _Scienza Nuova_. Facendo altrimenti, noi facciamo ridere appunto i _nostri nemici_, gli stranieri; e spero che, quando tutti questi pregiudizi! saranno passati — non rideranno meno i nostri nipoti. Ora conchiudo questa lezione già troppo lunga, e dico che nella esposizione del pensiero italiano io non posso cominciare dall'_antiquissima italorum sapientia_, per la semplicissima ragione che essa non ha mai esistito. La sapienza contenuta nel libro, di cui ho discorso, sarà la metafisica di Vico; ma tanto manca che sia quella degli etruschi e degli egizii, che non è nè pure quella de' Pitagorei. E io non comincio da' Pitagorei, perchè la loro filosofia è parte della greca. Non comincio dalla Scolastica, perchè la Scolastica appartiene a tutte le nazioni europee. Non posso dunque cominciare che dalla filosofia del Risorgimento. LEZIONE TERZA. SOMMARIO. Il Risorgimento: I. Sua differenza dalla Scolastica. — II. Determinazioni principali della nuova filosofia ne' filosofi del Risorgimento: — Il Cusano, Pletone, Valla, Agricola, Ficino, Pico, Zorzi, Reuchlin, Tomeo, Achillini, Pomponazzi, Vives, Nizolio, Melantone, Paracelso, Telesio, Patrizio, Cesalpino, Zabarella, Cremonini. I. Io devo determinare il carattere e lo sviluppo della nostra filosofia. Dico _carattere_ e _sviluppo_; perchè il semplice carattere, senz'altro, è sempre qualcosa di astratto, e la sua attualità — direi quasi la sua vita — è appunto lo _sviluppo_. Così nella filosofia greca il carattere è l'_oggettivismo_, e lo sviluppo è l'interiorità sempre più profonda dell'oggetto, infino a che l'oggetto è negato come semplice oggetto[36]. Il carattere della nostra filosofia è quello stesso di tutta la filosofia moderna, essenzialmente diverso dal carattere dell'antica: cioè la ricerca del principio di ogni cosa non nella _assoluta oggettività_, materiale o ideale, ma nella _mente assoluta_. Lo sviluppo è la esplicazione, la opposizione e finalmente la unità de' due momenti della mente assoluta, cioè la oggettività e la soggettività infinita: la realtà vivente della natura e l'autonomia della coscienza umana[37]. Dicendo _carattere_ e _sviluppo_, io non affermo che i nostri filosofi abbiano avuto _chiara coscienza_ del processo del nostro pensiero, come è avvenuto ne' giorni nostri in Alemagna, e anche in parte in Grecia nel tempo antico. Dico solo, che quando si determina l'idea propria di ciascun sistema e la loro comune tendenza, ci si vede chiaro quel carattere e quello sviluppo. La chiara coscienza e quindi il vero, ampio e libero sviluppo è mancato in Italia, appunto perchè è mancata la libertà della vita. La nostra filosofia comincia come critica o negazione (più o meno espressa e vivace) di quella del medio evo: della Scolastica. Per intendere il valore di questa negazione, bisogna intendere ciò che essa negava, cioè avere il concetto della Scolastica. Il _Reale_ che era oggetto della Scolastica, era, in generale, un reale _fantastico_, dato dalla rappresentazione religiosa, dalla quale la filosofia del medio evo non seppe mai liberarsi interamente. La filosofia, è stato detto, era ancella della teologia. Da questa posizione risultano le seguenti determinazioni: pretensione di comprendere l'Assoluto mediante l'intelletto finito e formale; e così l'Assoluto diventa qualcosa di vuoto ed astratto: una creatura dello stesso intelletto. E nel medesimo tempo: rappresentazione di Dio come fuori del mondo della natura e dello spirito, e quindi: degradazione dell'uomo e della natura; astrazione da ogni _elemento_ concreto e reale della vita; difetto di _certezza_ nella conoscenza; prevalenza della fede e intuizione mistica, in luogo della osservazione, della esperienza, del senso e della coscienza. Queste determinazioni si riducono alle due seguenti: negazione della natura: della realtà; negazione della soggettività: della certezza. La critica di questa posizione, cioè la filosofia del Risorgimento, dovea essere: separazione della filosofia dalla teologia; negazione del misticismo; critica dell'intelletto finito, e dimostrazione della impossibilità di arrivare all'Assoluto mediante le categorie (isolate le une dalle altre, e sciolte dalla loro unità razionale, che è appunto il loro vero significato): — scetticismo, dotta ignoranza; la conoscenza non altro che semplice congettura; naturalismo: cioè la necessità di conoscere e studiare la natura; perchè solo questa conoscenza è scala alla conoscenza di Dio, non essendo altro la natura che o la immagine e simiglianza di Dio, o Dio medesimo come essenza immanente nelle cose (_Natura est Deus in rebus_: Bruno); il principio della dignità dell'uomo come pensiero e come volere, come intelletto teoretico e come intelletto pratico; legittimità del piacere e dell'elemento mondano in generale come momento essenziale della virtù, e della vita dello spirito; ricerca di un principio immediato della certezza e della prova scientifica, il quale non è altro che l'Io, il pensiero (_ego cogito_): da prima come _senso_ o esperienza in generale, di poi come coscienza o pensiero razionale. Tutte queste determinazioni sono sparse, un po' confusamente, nelle opere de' filosofi _nostri_ e _stranieri_ di quel tempo. Sono semplici indizi, semi e germi, i quali si raccolgono più o meno e hanno maggior vita nella coscienza di Bruno e Campanella, e si riducono alle due seguenti: valore della natura, valore della soggettività. Bruno e Campanella chiudono l'epoca del Risorgimento in Italia. Già sin d'allora è evidente la comunità d'indirizzo tra noi e gli altri popoli. Io mi sono proposto di considerare particolarmente questo nuovo indirizzo soltanto in Campanella e Bruno[38]. II. Intanto, perchè qualcuno non dica che queste determinazioni le abbia immaginate io stesso per insinuare negli animi ingenui il sentimento di quella comunità d'indirizzo, che secondo la sentenza de' nostri bramani non ci è nè ci può essere, e vituperare così la nazionalità propria della nostra filosofia; e che in ogni caso Campanella e Bruno non siano tutta la filosofia italiana del Risorgimento, e tanto più che quegli puzza di congiura e di carcere, e questi di eresia e di rogo, io sento l'obbligo di far precedere ancora alcune notizie all'esposizione particolare del pensiero di questi due nostri filosofi. La dimostrazione di quella comunità d'indirizzo e della verità storica di quelle determinazioni è solo la storia della filosofia del Risorgimento: opera lunga, difficile e laboriosa, che è ancora un desiderio. Non potendo nè volendo io fare qui questa storia, mi contenterò di leggere, o testualmente o compendiati, e accompagnare di qualche comento alcuni luoghi de' filosofi di quel tempo, ne' quali il nuovo indirizzo e le nuove determinazioni a me paiono immediatamente evidenti. Del resto, questa lettura, che non merita nè anche il nome di semplice cronica, servirà in ogni caso, se non a formare, almeno a preparare nell'animo vostro quella convinzione, che è lo scopo di queste mie lezioni. _a_) A un tale, che nella precedente lezione quasi mi accusava di voler _distruggere la Scolastica_ (_sic_!), io risposi: — non sono io, ma la storia che si è incaricata da un pezzo di questa faccenda. — Ora potrei dire a colui: pigliatevela col _cardinale di Cusa_[39]; giacchè egli primo, il Cardinale, scosse quel giogo, che il mio accusatore si duole che voglia scuotere io. Si rassicuri pure il mio accusatore, e stia tranquillo; quel giogo è non solo scosso, ma infranto da più secoli, e, checchè si dica o faccia per rappezzarcelo sopra le spalle, non sarà altro che un innocente desiderio o piuttosto una pia commemorazione. Dal Cusano a Bruno e Campanella corrono circa 200 anni. La prima cosa, il Cusano raccomanda la tolleranza religiosa, e con tale ardimento, che farebbe paura anche in questo secolo. _Non est nisi una religio in rituum varietate.... Una est igitur religio et cultus omnium intellectu vigentium_. — Il fondamento filosofico di questa tolleranza è quella duplice tendenza, più o meno comune a tutti i filosofi del Risorgimento e opposta direttamente alla Scolastica, cioè: la convinzione, che la perfetta conoscenza della verità (di Dio) sia impossibile (scetticismo), e che la sola conoscenza possibile di Dio sia quella, che consiste nella contemplazione della natura (naturalismo). Noi non possiamo, dice il Cusano, conoscere i misteri impenetrabili di Dio; finiti e limitati come siamo, non ci è dato di saziare il nostro desiderio della verità. In questo senso siamo _ignoranti_. Pur dobbiamo, quanto è possibile, contemplare le cose dell'universo, per accostarci alla conoscenza della verità; giacchè le cose dell'universo contengono nella loro profondità una gran ricchezza, la ricchezza di Dio stesso, spiegata e sparsa per modo, che la loro considerazione può bastare ad alimentare continuamente il nostro spirito insaziabile. — Gli Scolastici, si sa, non vedevano nel mondo che povertà e miseria. — Così col Cusano comincia, o piuttosto ricomincia il problema della contemplazione della natura. Le ragioni di questa duplice tendenza nel Cusano sono ne' seguenti concetti di Dio, delle potenze del conoscere, e del mondo: 1. _Ragione dello scetticismo._ Dio è la coincidenza de' contradittorii. _Debet autem in his profundus omnis nostri humani ingenii conatus esse, ut ad illam se elevet simplicitatem, ubi contradictoria coincidunt_[40]. Perciò Dio è la negazione — la pura negazione — del finito: il _Negativo infinito_. Il mondo, al contrario, è il _Privativo infinito_. Vi ha, infatti, una connessione intima e universale di tutte le cose: il sistema delle cose, il Tutto. Ora, ogni cosa è il tutto, ma _contratto_. Se non fosse il _Tutto contratto_, sarebbe Dio. Dio solo è il Mondo stesso — il Tutto — senza contrazione: _absoluta quidditas mundi_. Noi non possiamo conoscere questa connessione (_complicatio_) o quiddità assoluta, perchè tre sono le nostre potenze conoscitive: senso, ragione, intelletto. Il senso ci fa apprendere il particolare, senza nesso; la ragione, quel nesso, _ubi contraria se compatiuntur ut oppositae differentiae in genere_; l'intelletto, quel nesso, _ubi contradictoria se compatiuntur_. Sopra questo nesso vi ha quello — il divino —, _ubi omnia absque differentia coincidunt_. Questa coincidenza noi non possiamo apprendere. Essa è la _summa praecisio intellectus_, come l'intelletto è della ragione, e la ragione è del senso. 2. _Ragione del naturalismo._ L'universo è il _Mezzo_ assoluto tra Dio e le cose. _Deus est, mediante universo, in omnibus; et pluralitas rerum, mediante universo, in Deo_. Così la mente di Dio si conosce dalle sue opere, cioè dalla sua relazione col mondo: mediante il verbo di Dio. I mistici al contrario si ritirano dal mondo nella oscura profondità dell'anima, sperando così di arrivare alla conoscenza di Dio. _b_) Tra i greci venuti in Italia, _Pletone_[41] raccomanda di non dare nessuna importanza alle opinioni ecclesiastiche nelle cose filosofiche. E sebbene dica, che la teologia è la scienza fondamentale, pure — quando si va a vedere — questa teologia non è cristiana, ma politeistica; i suoi iddii non sono altro che le forze della natura; promovendo la teologia, egli promuove la contemplazione fisica delle cose. — Pletone fu maestro del cardinale _Bessarione_[42]. _c_) Tra i filologi latini il Valla[43] — spirito irrequieto, malédico, nemico de' pregiudizii, avido di novità — nega la donazione di Costantino, mette in dubbio la tradizione sulla origine della confessione degli apostoli, mostra i difetti dell'antica traduzione della Bibbia; e — ciò che più importa qui — combatte la Scolastica, il linguaggio barbaro de' suoi dottori e le regole sillogistiche a nome della rettorica e della filologia, della natura e del senso comune. Valla considera il senso comune nell'uso della lingua. Biasima la pretensione de' filosofi che vogliono conoscer tutto, e dice che i misteri non si possono conoscere. _Naturam... in omnibus esse ducem. — Idem est Natura quod Deus, aut fere Deus._ — Vuole una morale più libera e meno astratta; il vero bene non sia la virtù, ma il piacere, cioè il fine della virtù. _Ubi sunt, qui honestum propter se dicunt expetendum? Ne Deo quidem sine spe remunerationis servire fas est._ — Qui si vede insieme scetticismo e naturalismo. Anche _Rodolfo Agricola_[44], che visse nello stesso secolo di Valla, antepone la rettorica a ogni altra disciplina e vuole in tutto la _chiarezza_. Nello stesso tempo afferma, che non si può saper tutto, e che alcuni enimmi non hanno ancora trovato il loro Edipo nè lo troveranno mai. _d_) Tra i platonici e teosofi _Marsilio Ficino_ raccomanda, come il Cusano, la tolleranza religiosa. L'unico mezzo di ricondurre alla fede i filosofi, che non credono, essere la buona filosofia, non le prediche. Esalta la dignità dell'uomo: onorando Dio noi onoriamo noi medesimi, perchè riconosciamo in noi la dignità divina. Noi conosciamo Dio mediante il _divino_ che è in noi, e non altrimenti. _Giovanni Pico_ della Mirandola[45] non vede altra via di conoscere il mistero della natura che la rivelazione: alla quale nondimeno si deve aggiungere lo studio delle tradizioni pagane, che contengono una rivelazione antichissima. Esalta, anche più che il Ficino, la dignità dell'uomo. L'uomo non è limitato da una natura particolare, ma ha una natura universale. _Definita caeteris natura_, dice Dio all'uomo, _inter praescriptas a nobis leges coërcetur. Tu nullis angustiis coërcitus, pro tuo arbitrio, in cuius manu te, posui, tibi illam, praefinies. Medium te mundi posui, ut circumspiceres inde commodius, quidquid est in mundo. Nec te coelestem, neque terrenum, neque mortalem, neque immortalem fecimus, ut fui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in quam malueris tute formam effingas. Poteris in inferiora, quae sunt bruta, degenerare. Poteris in superiora, quae sunt divina, ex tui animi sententia regenerari. — Hominis substantia..... omnium in se naturarum substantias et totius universitatis plenitudinem re ipsa complectitur..... Est autem haec diversitas inter Deum et hominem, quod Deus in se omnia continet uti omnium_ principium, _homo autem in se omnia continet uti omnium_ medium (cioè, centro di ogni cosa.). — La conoscenza umana può abbracciar tutto; in certo modo il conoscente diventa ciò che egli conosce. L'essenza di ogni ente è nel suo interno; nella conoscenza l'uomo può appropriarsi questa essenza interna: siccome insegna anche Aristotele, che l'anima è tutto, perchè conosce tutto. Senonchè la conoscenza è solo un possesso parziale delle cose. L'uomo si appropria davvero tutte le cose solo coll'amore: colla _volontà_. — Doversi investigare la natura; questo essere il vero modo di vincere la superstizione. L'esistenza materiale essere la condizione necessaria della nostra vita mondana e il cominciamento d'ogni sviluppo. _Francesco Zorzi_[46], veneziano (frate de' Minori), celebra l'armonia di ogni cosa con ogni cosa, e di tutte le cose coll'uomo (_Harmonia mundi totius_). Dio essere la suprema concordia di tutte le cose; e noi ci eleviamo alla conoscenza di Dio dalla investigazione della natura. _Giovanni Reuchlin_[47] predica anche lui la tolleranza religiosa, e difende — come fa anche _Cornelio Agrippa_[48] — gl'israeliti contro i teologi di Colonia. — Dice, che il sillogismo, il ragionamento, il discorso non basta per conoscere le cose, ma si richiede la fede. Ma la fede cristiana neanche basta: il Dio immanente si _rivela_ al nostro spirito, e questa rivelazione è più profonda della cristiana. — Il ragionamento non può comprendere l'unità degli opposti. _In_ mentis _regione aliqua sunt necessaria, quae in_ ratione _sunt impossibilia. In mente datur coincidere contraria et contradictoria, quae in ratione longissime separantur._ Non bastare l'intuito interiore di Dio senza la contemplazione della natura (misticismo); ma dalla conoscenza del mondo si procede a quella di Dio. _Omnes res inferiores sunt repraesentativae superiorum, et uti fit inferius, sic agitur superius._ Per ben morire, per godere della beatitudine, si deve anche ben vivere e cercare di godere della felicità: si abbia cura del corpo, e non solo dell'anima. — La volontà è più potente della natura. La volontà di Dio si conosce dalle sue rivelazioni nell'universo. Il platonismo non era, di certo, favorevole alla Scolastica, e se il mio oppositore fosse nato in que' tempi, non avrebbe mancato di accusarlo nelle debite forme. Questi filosofi scrivevano con una certa eleganza; allargavano i limiti della teologia, che sino allora era stata unicamente cristiana, senza veruna relazione colle altre religioni e colla natura in generale; e considerando gl'ideali platonici come tipi delle cose favorivano e promovevano lo studio della natura come rivelazione di Dio, e anche lo studio delle azioni umane. Queste novità non avrebbero potuto formare tanti capi di accusa? _e_) Tra gli aristotelici — oltre _Leonico Tomeo_[49], il quale si sforza di conciliare la dottrina aristotelica della _tabula rasa_ colla platonica della _reminiscenza delle idee_ —, _Alessandro Achillini_ (professore a Bologna[50]) non vuol riconoscere altro _universale_, che quello che come essenza delle cose è nella Natura. Il vero Universale non è separato dal particolare, nè è prima del particolare; ma è come forma nella materia. Gli universali, come forme nella materia, servono a formare l'intelletto umano, e a fargli conoscere l'Eterno. Originariamente l'intelletto è solo _possibile_, non ha in sè verun pensiero universale innato, ma solo la potenza di conoscere. Comincia dal sensibile, e nel sensibile conosce le idee universali poste da Dio nella natura. L'universale, che è nella natura, ci riunisce a Dio. Quindi la necessità d'investigare i pensieri universali di Dio nella natura. Uno studio più diligente di Aristotele, dice il Ritter, avea già fatto vedere che l'aristotelismo non era favorevole al nominalismo. Il nominalismo negando la realtà degli universali, era contrario alla investigazione di Dio nella natura, e favoriva la opposizione tra il soprannaturale e il naturale. _Pomponazzi_ (mantovano)[51] investiga i limiti dell'intelletto umano. La nostra conoscenza non apprende la verità per intuizione, ed è solamente ombra e vestigio d'_intelletto_. _Verius et ratio quam intellectus appellari dicitur. Non enim, ut ita dixerim, intellectus est, sed vestigium et umbra intellectus_[52]. L'unione dell'intelletto _possibile_ coll'_attivo_ non può essere lo scopo della attività umana; l'uomo _aliquid immaterialitatis odorat_[53], e non altro; anzi sa poco della stessa natura. — Ha più autorità il senso che la ragione, più l'esperienza che i principii razionali. I primi principii non si possono _provare_, ma solamente _credere_. E se ciò avviene nella cognizione naturale, tanto più avrà luogo nella cognizione del soprannaturale. In questa è necessaria la fede. — Non solo l'attività speculativa, ma anche l'attività pratica dell'uomo è _limitata_, sebbene meno della prima. Praticamente l'uomo può arrivare a quella perfezione, a cui non può giungere speculativamente. — Doversi ammettere la _contingenza_ della creazione, ma non potersi comprendere dalla nostra intelligenza. Nello stesso modo, la ragione naturale non può conciliare la libertà umana e la provvidenza divina; nè risolvere il problema dell'immortalità dell'anima. — Senza il corpo non è possibile nè l'intelletto teoretico, nè il pratico: quello non conosce l'universale che nel particolare, e per la rappresentazione del particolare ha bisogno del senso e della immaginazione; il senso senza il corpo, come oggetto della sua attività, non può far nulla; la volontà non opera senza strumenti corporei. Così la vita morale, nella quale consiste tutta la dignità dell'uomo, non è possibile senza il corpo. — Questa necessità del corpo, così per la speculazione come per la pratica, limita di tal maniera il nostro intelletto, che, posto anche che noi fossimo immortali, non potremmo mai conoscere davvero la verità. (Pomponazzi nega la visione intuitiva in Paradiso). In che dunque deve esercitarsi l'intelletto? Non nel cercare di conoscere degli oggetti trascendenti, ma nell'attendere a' bisogni pratici della vita. Pomponazzi espone arditamente la opposizione tra l'autorità filosofica e la religiosa, tra la conoscenza naturale e la soprannaturale, e nega perfino che questa abbia un privilegio su quella; il soprannaturale non poter essere conosciuto nè meno dopo la morte. — Questo scetticismo di Pomponazzi è temperato dalla sua filosofia pratica; la vita pratica sia appunto la destinazione dell'uomo. — Nessuno de' suoi contemporanei, dice il Ritter, ha investigato meglio di lui la connessione della scienza colla vita reale. Questa gloria non gli si può negare. _f_) Tra i nuovi filologi, _Ludovico Vives_[54] crede impossibile una dottrina della _prova scientifica_: la scienza umana essere limitata, e riuscire alla semplice verisimiglianza, non alla verità assoluta. L'elemento pratico sia da preferire allo speculativo. _Nizolio_[55] nega la realtà delle idee universali: solo le cose materiali essere conoscibili, e il vero metodo essere l'induzione. Quindi impossibile la scienza, che è appunto la cognizione degli universali; la conoscenza non poter essere altro che _opinione_: conoscenza di sensibili e di particolari. — Questo indirizzo favoriva lo studio delle cose naturali. — Nizolio distingue, come anche Vives, l'elemento _formale_ dall'elemento materiale della cognizione: quello costituisce la filologia, questo la filosofia; quello è l'_anima_, questo il _corpo_. — La stessa distinzione è fatta da _Pietro de la Ramée_ (Ramus)[56], il quale preferisce anche il lato formale al materiale. L'indirizzo de' filologi aveva questo significato: si stia alla natura, e si riconosca come legge ciò che essa c'insegna; il suo vero insegnamento è nel senso retto. — Il clero in quel tempo era separato scolasticamente dal popolo, e i filologi contribuirono a togliere questa divisione tra i letterati e il popolo, facendo valere il senso comune e la maniera ordinaria di pensare e parlare. I filologi dicevano: se gli scienziati possono formarsi delle parole tecniche, non devono però separarsi dalla vita comune del popolo, in mezzo al quale vivono. _g_) Tra i riformatori, _Melantone_[57] dice, che la verità assoluta non si può conoscere, e bisogna contentarsi della esperienza; cominciare da' sensi per elevarsi alla conoscenza delle cose spirituali. Il mondo essere una rivelazione di Dio: e come tale, oggetto della filosofia. Teologia e filosofia devono essere separate; la filosofia deve essere _popolare_, e servire alla vita. Non si deve amare la sola virtù, ma anche la vita e i beni della vita: il matrimonio, la comunità politica, i piaceri ordinati e concessi da Dio. _Paracelso_[58] espone la necessità, che l'uomo cerchi la verità non solo in se stesso, ma anche fuori di se stesso, e conosca il piccolo mondo, — il mondo interiore, — dal gran mondo, dall'esterno. L'arte umana consiste nel fare interno l'esterno, per modo che il gran mondo passi nel piccolo. Che altro è la natura, se non la filosofia? E che altro è la filosofia, se non la natura invisibile? Chi conosce, porta invisibilmente la cosa in se medesimo: è puro specchio delle cose. — Il filosofo deve fare del cielo e della terra un microcosmo, e non trovare nel cielo e nella terra, se non ciò che trova nell'uomo. — Dio si conosce mediante la natura. — L'uomo contiene in sè tutti gli elementi del mondo, ed è nato a fare che la natura si manifesti, cioè si appalesi l'intima essenza, posta da Dio nelle cose. Così nell'uomo si compie la destinazione del mondo. Ma ciò essere impossibile senza la _esperienza_: senza il _lavoro_ dell'uomo, il quale deve _separare_ e _unire_ le cose, e trasportare l'interno nell'esterno. _h_) In Italia — mentre la gerarchla, specialmente per opera de' gesuiti, si sforzava di rinnovare la Scolastica — il _naturalismo_ prendeva una forma più schietta e determinata. — _Telesio_[59] professa di voler seguire il _senso_ e la _natura_. _Qui ante nos mundi huius constructionem rerumque in eo contentarum naturam perscrutati sunt, diuturnis quidem vigiliis magnisque illam indagasse laboribus, at nequaquam_ inspexisse _videntur._ — Sensum _videlicet nos et_ naturam, _aliud praeterea nihil secuti sumus_[60]. — In questo luogo è enunciato il nuovo principio delle scienze naturali: il metodo naturale è di osservazione. Telesio precorre Bacone e Galileo. Il solo _senso_, egli dice in un altro luogo, ci fa conoscere la natura; anzi la prova derivata dal senso è migliore della matematica. _In eo certe_ naturales _(conclusiones) praestare videntur, quod a_ propriis _hae principiis et a_ propriis _manant causis, at mathematicae a_ signo _omnes_[61]. — Si sa dove si riuscì, ne' secoli posteriori, per questa unica via: al naturalismo e al materialismo. E infatti per Telesio, che vuole investigare ogni cosa col senso, tutti gli oggetti si trasformano in oggetti sensibili: le forze della natura non sono che forze sensibili. E, nell'etica stessa, ogni virtù si riduce all'istinto sensibile della _conservazione di sè stesso_; e ha un sol fondamento, cioè la riflessione ragionevole, che nasce dall'esperienza di quel che è utile o nocivo. L'interesse personale è in tutti i nostri appetiti ed affetti. Telesio separa la fisica dalla teologia, dalla morale, dalla religione, e dalla stessa metafisica. Non nega queste scienze, anzi ammette una scienza superiore alla fisica, ma vuole che quelle non abbiano veruna influenza su questa. _i_) Tra gli ultimi platonici, _Patrizio_[62] — amico a' gesuiti, ai quali raccomanda la sua filosofia, e denigratore arrabbiato di Aristotele — segue pure, più o meno, lo stesso indirizzo di Telesio. Nel suo sistema (_Nova de universis philosophia_) si propone principalmente di spiegare l'universo con ragioni fisiche, e di ricercare nella _esperienza_ i punti di unione di tutte le scienze. Ammette la metafisica, e ne fa uso frequentemente, sebbene vagamente e senza esatte definizioni de' principii; ma, al far de' conti, questa scienza — come teorica del soprannaturale — non ha per lui, come per gli altri fisici della sua stessa pasta, altro ufficio, che quello di indicare i limiti della fisica: nel fatto essa non ha più posto d'onore tra le scienze. Con tutto ciò egli non è sensualista come Telesio, e pone l'origine di ogni cognizione non solo nel senso, ma nella mente. _De incognitis nulla nobis condetur philosophia. A cognitis ergo initium sumendum. Cognitio omnis a mente primam originem, a sensibus exordium habet primum._ Ogni attività, ogni forza è sempre per Patrizio qualcosa d'incorporeo ed immateriale; il corpo, la materia, è per sè inerte; una forza puramente sensibile è una contraddizione. _Omnis enim actio incorporei. Nullum enim corpus actionem sui natura habet ullam, et si quid corpora agere videantur, per incorporeum quid, quod in ipsis est, id operantur. — Passiones namque corporum sunt actiones. Nihil enim aliud agit corpus quam patitur._ — Il merito di Patrizio sopra i suoi predecessori è di aver avuto un concetto più chiaro e rigoroso di questa dottrina. _k_) Tra gli ultimi aristotelici, _Cesalpino_[63] — autore della prima botanica sistematica e della prima mineralogia, e scopritore della circolazione del sangue prima di Harvey — concepisce l'universo come un ente vivo, e tutte le cose come parti organiche di quest'ente. Le cose non hanno significato, che in quanto sono organi dell'universo ed hanno in sè la vita del tutto. L'essere di ogni sostanza non è altro che la sua stessa attività, e la connessione di tutte le attività è la vita universale del mondo. — Fondamento eterno e universale di tutte le cose è la materia, la quale come soggetto de' corpi è ingenita e incorruttibile, ed è la _estensione pura_ (_ingenita et incorruptibilis substantia_). La materia è l'_essere intelligibile_ di Dio (pel cardinale di Cusa era la potenza); il quale, come _intelligenza_, non è che la _forma universale_ del mondo. — L'essere delle _cose intelligenti_ consiste nella conoscenza che hanno di se stesse. La moltiplicità delle intelligenze dipende dalla moltitudine delle forme materiali. Una è la intelligenza, la quale è in tutte le parti, per modo che un essere intelligente non è già un'intelligenza particolare, ma solo la intelligenza nel particolare. L'intelligenza è _uno e molti_, come la potenza sensitiva dell'anima nelle membra del corpo. Questa intelligenza è Dio. Esser vano domandare, se un essere intelligente abbia intelletto degli _altri_, giacchè in verità non sono altre intelligenze, ma una e medesima intelligenza. Essi sono diversi come il piede e la mano, l'occhio e l'orecchio. — Il _divino_ è in ogni cosa, e ogni cosa è in certo modo _uno_; altrimenti non sarebbe possibile il passare da una cosa a un'altra. La scienza deve comprendere quest'_Uno_ che è in tutte le cose, e anche in noi. Comprendendo noi stessi, noi comprendiamo Dio, del quale siamo una partecipazione; e questa eterna _intellezione_ è la _beatitudine_. — Senza la materia, almeno come _materia pura_, non essere possibile l'intelligenza; non esser possibile la moltitudine delle intelligenze. _Zabarella_[64] pone anche la materia eterna, e dice anche, che come soggetto del corpo è l'_estensione pura_. La fisica è superiore alla metafisica, anzi il fondamento di essa. Dalla conoscenza del mondo si procede a quella di Dio. Il principio pensante è inseparabile dal corpo: dalla materia. Cremonini[65] (professore a Ferrara e a Padova) raccomanda l'_induzione_ e l'_esperienza_ come la vera via de' principii delle scienze. La fisica è la scienza per eccellenza: l'esistenza di Dio non si può provare che fisicamente. — L'essenza dello spirito è il _pensiero_: l'essere intelligente non conosce che se stesso. L'essenza della materia è l'_estensione_. Da questa stessa scuola padovana provenne l'infelice Vanini[66]; del quale taccio, perchè le sue opere e la sua filosofia sono abbastanza note. Da tutte queste citazioni, prese così qua e là e quasi alla rinfusa, si vede chiaro dove debba andare a finire questo gran movimento di quasi duecento anni, il quale si fece principalmente in Italia e si compì in Bruno e Campanella. Cartesio, Bacone, Spinoza, Locke non si faranno molto aspettare. Si dirà, che tutto questo periodo, a cui la storia ha dato giustamente il nome di _Risorgimento_, non significhi altro che l'_aberrazione_ dello spirito italiano. Si dica pure. Ma ciò che non si può negare, è appunto questo: che tale aberrazione ha durato due secoli, e coincide colle più grandi scoperte dello spirito moderno: la stampa, la circumnavigazione, il nuovo mondo, il sistema copernicano, e quel solenne avvertimento, per non dir altro, che ebbe da un frate la gerarchla, e da cui essa trasse, al solito, quel profitto che tutti sanno![67] LEZIONE QUARTA. TOMMASO CAMPANELLA. SOMMARIO. Concetto della Restaurazione cattolica. — Carattere generale della filosofia del Campanella. Campanella è l'ultimo filosofo del Risorgimento. Il suo imprigionamento coincide quasi colla morte eroica di Bruno e colla nascita di Cartesio. Io non racconterò qui la sua vita; non indagherò se egli avesse davvero congiurato contro gli Spagnuoli. Il D'Ancona ed altri tentarono, di già sono parecchi anni, tutte le vie per dimostrare la falsità dell'accusa, quasi temendo che la sua verità storica fosse un'infamia pel frate di Stilo. Le ragioni del D'Ancona — allora giovanissimo, e pur colto e ingegnoso — furono da me sommariamente discusse nella introduzione a' miei studii sulla teorica della cognizione e sulla metafisica di Campanella[68]. Qui io devo considerar Campanella soltanto come filosofo. Campanella è il filosofo della _restaurazione cattolica_. Si è dato questo nome a quel tentativo, più o meno serio e sincero, di conciliazione, iniziato e promosso dal clero in generale dopo la Riforma, tra il medio evo e la tendenza del nuovo tempo, tra la Scolastica e il pensiero libero. Campanella è come due uomini e due coscienze in una: l'uomo del medio evo — il discepolo di S. Tommaso —, e l'uomo nuovo, con nuovi istinti e tendenze, il quale teme sempre di contraddire al primo e quasi diffida di se stesso. Perchè dunque sia ben compreso il significato di Campanella nella storia della nostra filosofia, io credo di dover esporre, quanto più brevemente potrò, il concetto di questa restaurazione. Si sa, che la filosofia non è mai qualcosa d'astratto e d'indifferente verso le altre forme reali della vita, ma nasce sempre o almeno viene determinata da una data _posizione_ storica della vita stessa. Ora la differenza tra il medio evo e il nuovo tempo, considerata in quelle forme principali della vita umana, che sono lo Stato, la religione e la filosofia, è la seguente: 1. Nel medio evo lo _Stato_ dipende assolutamente dalla Chiesa, come si vede chiaro dalla teorica della relazione tra le due spade: la spirituale e la temporale. Lo Stato non ha altro valore che quello di piedistallo della statua di Dio, che è la Chiesa; non è in sè niente di divino (di legittimo e razionale), ma è sacro solo come piedistallo. Per Dante stesso — il quale noi sogliamo venerare come il primo autore del concetto del nostro Stato autonomo e nazionale —, lo Stato non è altro ancora che il _Sacro romano imperio_, e l'Italia soltanto la prima gemma dell'imperiale corona. Lo Stato è uno ed universale, come una ed universale è la Chiesa; e non solo lo Stato come tale è soggetto alla Chiesa, ma lo Stato nazionale è una cosa secondaria. La _religione_ è impacciata da forme esterne troppo materiali; le quali spengono, invece di manifestare, la vitalità dell'idea religiosa. Nella Chiesa, come governo di Dio su questa terra, come papato e gerarchla, si fa una mostruosa mescolanza dell'infinito e del finito, a' quali si attribuisce egual valore; un tempio, un convento, una pietra sono _sacri_ come la stessa legge divina, e sempre superiori a tutte le leggi umane. Tale è l'origine delle immunità e d'ogni maniera di privilegi locali e personali. La scienza (e specialmente la filosofia, come ho già detto nella lezione terza) dipendeva assolutamente dalla teologia. 2. Nel nuovo tempo, al contrario, lo _Stato_ intende di separarsi dalla Chiesa, acquistare la propria autonomia, e dire: _io sono_, e sono qualcosa di divino e ho una missione divina sopra la terra. A questo indirizzo corrisponde la formazione delle nazionalità e della monarchia. La _religione_ intende di liberarsi dalle forme esterne troppo materiali e raccogliersi nella purezza ed interiorità del sentimento: e pregiare non le sole opere senza la fede (e neppure la sola fede senza le opere), ma le opere prodotte e vivificate dalla fede. La _scienza_, finalmente, intende di emanciparsi dalla teologia; cerca nel pensiero (nella natura e nella coscienza) la base della certezza, e già dice: penso, dunque sono. In generale: nel medio evo, il divino è solo l'elemento religioso, e l'uomo effettua il divino, solo nella religione. Nel nuovo tempo, invece, la religione è solo una delle forme del divino nell'uomo, e le altre sono appunto lo Stato, la scienza, l'arte; e l'uomo può elevarsi a Dio ed effettuare il divino anche nella pratica della vita civile, nell'arte, nel sapere. Ora ecco come i restauratori cattolici si misero a conciliare questa opposizione. Quanto allo Stato, fecero questa gran concessione: Chiesa e Stato stanno tra loro come _anima_ e _corpo_ (non più come statua e piedistallo); sono due sostanze, due nature (dottrina tomistica: San Tommaso trascende in parte il medio evo). Il corpo, come ente per sè, ha una certa indipendenza: vegeta, vive, mangia, digerisce, etc., etc. Ma nelle cose che interessano l'anima, o deve lasciar fare all'anima o deve dipendere dall'anima (nelle così dette funzioni _miste_). Egualmente lo Stato. Il quale apre strade, dissecca paludi, riscuote tasse, produce e consuma, etc., etc. Ma non può definire quel che è buono e giusto — non può far leggi veramente degne di questo nome —, senza consultare e obbedire l'oracolo supremo, che è la Chiesa. Non ci è bisogno di dire, che questa dipendenza dello Stato si estende anche alle azioni miste. — Questa relazione tra la Chiesa e lo Stato è da' moderni gesuiti rappresentata più grossolanamente così: la Chiesa è il medico che fa la ricetta, e lo Stato è lo speziale che la spedisce. Ovvero meglio: la Chiesa è l'architetto, e lo Stato è il muratore[69]. I primi gesuiti erano più larghi e liberali; e concependo le due potestà, la spirituale e la temporale, come _immediate a Deo_ tutte e due, facevano conferire la prima a S. Pietro e successori, e la seconda al popolo solo, alla moltitudine, alla massa; la quale poi la trasferisce _sub conditione_ o per contratto nel Principe. Perciò la potestà del Principe non è di _origine divina_, come quella del Papa; il diritto divino è solo nella massa. Così i gesuiti d'allora per combattere la prima forma dell'autonomia dello Stato (la monarchia assoluta), mettevano innanzi la sovranità popolare e negavano il diritto divino de' principi; e i gesuiti d'oggi giorno, per combattere la vera forma dell'autonomia dello Stato, fondata nella volontà nazionale, mettono innanzi il vecchio diritto divino delle famiglie principesche. Il fine è lo stesso; solo i mezzi sono differenti. Quanto alla religione in generale, la conciliazione fu l'opera, si sa, del Concilio tridentino. Nella filosofia finalmente essa ebbe la sua forma più schietta, e direi quasi disinteressata, appunto nel sistema di Campanella. In generale, questa restaurazione, come tutte le restaurazioni fatte da coloro che hanno perso e vogliono rifarsi, non fu una vera conciliazione. Pure fu in qualche modo un progresso. E il maggior bene fu questo: che si riconobbe che ci era qualcosa da fare e qualche opposizione da conciliare. Gli stessi restauratori ammettevano, almeno implicitamente, che il mondo non andava più come era andato nel medio evo. Questa convinzione era così profonda in Campanella, che tra lui e la schiera comune de' restauratori ci è da fare una gran differenza. Costoro, più che a fondare il nuovo, miravano a conservare o riedificare il vecchio mondo; Campanella al contrario si sentiva come tirato dal nuovo, e il vecchio faceva su lui, dirò così, l'effetto d'un contrappeso. Gli altri guardavano indietro, e avrebbero volentieri voltato per sempre le spalle a ogni avvenire; Campanella guardava innanzi, e si volgeva indietro come il fanciullo verso la madre che l'ha allevato. Infatti fin da giovinetto, come ho già notato in una mia scrittura[70], Campanella difende la fisica di Telesio, cioè la nuova scienza, la scienza della natura opposta alle credenze ecclesiastiche; ma nel tempo stesso con pietà religiosa indaga la relazione della vita naturale colla soprannaturale. Vuol riformare la filosofia (cioè, non si contenta nè della Scolastica, nè davvero del medio evo) e la società (_Città del sole_); ma conservando, anzi promovendo sempre il rispetto della Chiesa cattolica. Ammette il _progresso_; ma indirizzato ad una monarchia universale, capo il Papa, alla estirpazione dell'eresia, alla comunità de' beni e delle donne. Riconosce che lo Stato e le relazioni mondane non sono il puro nulla, sebbene non abbiano in sè il divino, ma lo ricevano solo per partecipazione, in quanto servono a' fini della Chiesa; il vero Stato è l'ecclesiastico-laicale. È divino solo l'elemento religioso. Afferma il valore del senso e della esperienza: anzi nella esperienza fonda tutta la scienza delle cose umane e naturali, e pone come principio la _coscienza di sè_ e l'_attività spontanea_ dello spirito (precorre l'empirismo ed il razionalismo). Ma con tutto ciò la scienza naturale non è cosa divina, e ha radice principalmente nell'anima materiale, più che nella immateriale (che è l'organo della religione). — Dualismo tra il naturale e il soprannaturale, come tra le due anime. Insiste sulla necessità di studiare la natura, gran libro o codice di Dio: questo studio è tutta la filosofia. Ma il mondo in generale è solo la _statua_ di Dio, non un lato della vita di Dio. Dio nella sua verità è assolutamente fuori del mondo, e ce lo fa conoscere solo la religione, non la filosofia; la quale così è di certo regina delle scienze naturali, ma sempre ancella della teologia. Ma se la filosofia e le scienze naturali non ci fanno conoscere la verità, che è Dio stesso, a che servono? Come giustificare la necessità della loro esistenza? In generale, perchè questa vita terrena, finita, mutabile? Non se ne sa niente; è pericoloso anche il congetturare su ciò, dice Campanella. Campanella non comprende la necessità del finito in generale: la _mondanità_ e _umanità_ di Dio. Quindi i due caratteri della sua filosofia: teologismo e scetticismo. Questo è la convinzione che il sapere umano non basta a tutto, perchè sempre imperfetto; quello è la convinzione della necessità di sussidii straordinarii per soccorrere la ragione[71]. Il suo teologismo si fonda dunque nel suo scetticismo. All'opposto, il teologismo scolastico era puramente dommatico. Questo scetticismo — diverso dall'antico, e prodotto dalla contemplazione della natura — è un elemento nuovo nella filosofia. (Anche oggi i naturalisti in generale non fanno consistere la scienza umana che nell'osservazione e nella esperienza; nel resto sono scettici, e, o ricorrono alla rivelazione, o non ci credono affatto. A certi problemi — i quali interessano, più che essi non credono, lo spirito umano, perchè concernono l'uomo stesso, non come minerale, pianta o semplice animale, ma appunto come _uomo_ — i naturalisti non sanno rispondere altrimenti che o negando i problemi medesimi o facendone una girata al curato e al confessore). — Abbiamo visto le diverse forme di questo scetticismo nel Risorgimento (Cusano, Valla, Pomponazzi, etc.). Adunque, epilogando, possiamo dire, che nella nostra filosofia Campanella ha questo significato: — è filosofo libero, che confida nel _senso_, nella _esperienza_ e nella _coscienza di se stesso_; ma non è libero, non dico come Bruno, ma nè meno come Pomponazzi, Achillini, Cesalpino; non è scolastico, e più che Bruno, in quanto cerca di fondare la filosofia nella _coscienza di sè_; ma ne' risultati si accorda, più che non si potrebbe credere, colla dottrina gerarchica del medio evo. Rompe sì i ceppi alla scienza, ma sol perchè questa se li rifaccia da sè; e si sottometta liberamente, quasi per _esperienza_, alla fede. È insomma, come ho già detto, il filosofo della restaurazione cattolica. Il concetto della restaurazione si riassume nel seguente concetto della vita umana. L'uomo, dice Campanella, è imperfetto; il suo stato non corrisponde alla sua natura; egli è in lotta con se stesso. Causa di ciò è il _peccato_. Quindi la necessità dell'aiuto divino. Giovano anche le leggi positive (quindi il valore dello Stato); ma non bastano. Ci bisogna altro: la _rivelazione_. A questa però si accompagna la _religione interna_, nella quale solamente noi partecipiamo alla vera _libertà_. Qui ci è del vecchio e del nuovo, e tale è Campanella stesso: l'_uomo restaurato_. Il principio nuovo che si associa all'antico, all'autorità e al sillogismo (che esplica e vuol comprendere i dati dell'autorità), è la _religione interna_; ciò, che egli chiama anche _tactum intrinsecum_. «A deo errantes per flagella reducti sumus ad viam salutis et cognitionem divinorum, non per _syllogismum_, qui est quasi sagitta, qua scopum attingimus a longe absque gusta, neque modo per _auctoritatem_, quod est tangere quasi per manum alienam, sed per _tactum intrinsecum_ in magna suavitate». Cioè _in magna libertate_. Il vero principio di questa ristaurazione non è nè l'autorità nè il sillogismo, ma il _tactus intrinsecus_. Cos'è questo _tactus_? In generale nient'altro che il _sentire_, la _coscienza di sè_, la presenza dello spirito a sè medesimo, l'Io, il pensare, la certezza. E tale è il principio della filosofia di Campanella. Questo è l'elemento nuovo in lui[72]. LEZIONE QUINTA. GIORDANO BRUNO. SOMMARIO. _A_) Carattere e destino di Bruno; — Differenza della sua filosofia da quella di Campanella. — _B_) Spinoza. — _C_) Bruno precursore di Spinoza: — Dio come Sostanza Causa. _A_) Bruno è il vero eroe del pensiero: l'araldo e martire della nuova e libera filosofia. Se libertà non vuol dire un facile dimenarsi nel vuoto, ma il lottare contro gli enimmi dell'universo e contro i vecchi pregiudizi, i vecchi sistemi e tutta la potenza del vecchio mondo, non vi ha filosofo più libero di Bruno. Prometeo, rapitore della immortale scintilla, fu confitto alla rupe, ma non domo. Socrate, che portò la prima luce nella oscura intimità della coscienza, bevve tranquillo il veleno, che gli porsero i suoi concittadini. Bruno è degno di avere un posto accanto a Prometeo e Socrate. — Voi, diceva a suoi giudici l'annunziatore de' _mondi innumerabili_, dell'_infinito universo e mondi_, della _vita infinita di Dio nell'universo e nell'animo umano_[73], voi profferite questa sentenza contro di me con maggior timore che io non la riceva. — La mitica leggenda ci racconta la liberazione di Prometeo. Gli ateniesi si pentirono di aver fatto morire Socrate. Bruno aspetta ancora in Italia chi onori la sua memoria, chi lo vendichi dall'anatema che pronunziarono contro di lui la superstizione e l'ignoranza. Uno storico d'Italia[74] lo chiama pazzo; questa parola è l'unica giustificazione. Invece del rogo, il manicomio. Siamo sinceri. Bruno è stato vendicato da un pezzo; e quest'opera, non solo pietosa ma giusta, questa riparazione, che ha cancellato una vergogna nella storia umana, e però è stata una riparazione dell'umanità stessa, noi la dobbiamo agli stranieri, se vi ha stranieri nella patria del libero pensiero[75]. Gli stranieri sono verso i nostri filosofi più giusti e generosi che noi non siamo verso i loro. La libertà è il carattere stesso di Bruno; è tutto Bruno. «Qua molti, che per sua bontà e dottrina non possono vendersi per dotti e buoni, facilmente potranno farsi innanzi, mostrando quanto noi siamo ignoranti e viziosi. Ma sa Dio, conosce la verità infallibile, che, come tal sorte d'uomini son stolti, perversi e scellerati, così io in miei pensieri, parole e gesti non so, non ho, non pretendo altro, che sincerità, simplicità, verità. Talmente sarà giudicato, dove le opre ed effetti eroici non saran creduti frutti de nessun valore, e vani; dove non è giudicata somma sapienza il credere senza discrezione; dove si distinguono le imposture degli uomini dagli consegli divini; dove non è giudicato atto di religione e pietà sopraumana il pervertere la legge naturale; dove la studiosa contemplazione non è pazzia; dove nell'avara possessione non consiste l'onore, in atti di gola la splendidezza, nella moltitudine de' servi, qualunque sieno, la riputazione, nel meglio vestire la dignità, nel più avere la grandezza, nelle maraviglie la verità, nella malizia la prudenza, nel tradimento l'accortezza, nel fengere il saper vivere, nel furore la fortezza, nella forza la legge, nella tirannia la giustizia, nella violenza il giudicio, e cossi si va discorrendo per tutto. Qua Giordano parla per volgare, nomina liberamente, dona il proprio nome a chi la natura dona il proprio essere; non dice vergognoso quel che fa degno la natura; non cuopre quel ch'ella mostra aperto; chiama il pane pane, il vino vino, il capo capo, il piede piede, ed altre parti di proprio nome; dice il mangiare mangiare, il dormire dormire, il bere bere, e così gli altri atti naturali significa con proprio titolo. Ha gli miracoli per miracoli, le prodezze e maraviglie per prodezze e maravigile, la verità per verità, la dottrina per dottrina, la bontà e virtù per bontà e virtù, le imposture per imposture, _etc._ Stima gli filosofi per filosofi, gli pedanti per pedanti, gli monachi per monachi —, le sanguisughe per sanguisughe, gli disutili, montaimbanco, ciarlatani, bagattellieri, barattoni, istrioni, papagalli, per quel che si dicono, mostrano e sono, _etc._ Orsù, orsù, questo, come cittadino e domestico del mondo, figlio del padre Sole e de la Terra madre, perchè ama troppo il mondo veggiamo come debba essere odiato, biasimato, perseguitato e spinto[76] da quello»[77]. Domenicano, come Campanella, Bruno abbandona giovinetto il chiostro, getta gli abiti monacali, va vagando per tutta Europa; visita Francia, Inghilterra, Alemagna, predicando in ogni luogo le sue libere dottrine, cercando pace da per tutto, e non la trovando mai, scontento sempre di tutto e di tutti, fuorchè d'una cosa sola, la verità. E grida: «l'Universitade che mi dispiace, il volgo ch'odio, la moltitudine che non mi contenta, una che mi innammora; quella per cui sono libero in soggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade, e vivo ne la morte». Solo «per amore di essa io mi affatico, mi crucio, mi tormento»[78]. Finalmente, come spinto dal suo fato, ritorna in Italia; è imprigionato dalla inquisizione di Venezia, consegnato a quella di Roma, esaminato, torturato e arso. — Si suol dire che il maggior tormento e insieme la maggior consolazione de' filosofi sia la verità. Se ciò è vero, io credo che a nessun uomo la verità abbia fruttato più gran tormento e più grande consolazione che al povero Bruno[79]. E chi mi impenna e chi mi scalda il core? Chi non mi fa temer fortuna o morte? Chi le catene ruppe?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Quindi l'ali sicure a l'aria porgo Nè temo intoppo di cristallo o vetro, Ma fendo i cieli e a l'infinito m'ergo. E mentre dal mio globo agli altri sorgo, E per l'eterio campo oltre penetro, Quel che altri lungi vede, lascio al tergo. Poi che spiegate ho l'ali al bel desio, Quanto più sotto il piè l'aria mi scorgo, Più le veloci penne al vento io porgo, E spreggio il mondo, e verso il ciel m'invio. Nè del figliuol di Dedalo il fin rio Fa che giù pieghi, anzi via più risorgo. Ch'i' cadrò morto a terra, ben mi accorgo; Ma qual vita pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l'aria sento: — Ove mi porti, temerario? China, Chè raro è senza duol troppo ardimento. — Non temer, rispondo io, l'alta ruina. Fendi sicur le nubi e muor contento, Se il ciel sì illustre morte ne destina![80] Bruno era presago del suo destino! Onde tanto entusiasmo, e quello spirito irrequieto che si mostra tranquillo e sereno solo innanzi alla morte? «In Bruno», scrive uno storico della filosofia[81], «vi ha l'esaltazione di una grande anima, che sente in se stessa la immanenza dello spirito, e sa che nella unità del suo essere e di tutti gli esseri consiste tutta la vita del pensiero. Nella profondità di questa coscienza vi ha qualche cosa che rassomiglia al sacro furore di una baccante; essa trabocca, per divenire oggetto a se stessa ed esprimere tanta ricchezza». È qui, ho detto io in una mia breve scrittura sulla filosofia italiana[82], tutta la differenza tra Bruno e Campanella. Per Campanella l'universo non è certo una cosa morta; tutte le cose vivono, anzi sentono, e l'anima universale le muove e alimenta. Ma questa vita è solo ombra della vita vera: la fonte di ogni vita è fuori di essa. A questa fonte non si perviene coll'intelletto, il quale è sempre condannato a cibarsi d'acqua e di fango: noi ne gustiamo appena qualche analogia mediante la fede. Anche Bruno lascia sussistere questo incomprensibile, o almeno non lo nega assolutamente; ma affermandolo lo riduce a un punto oscuro piccolissimo, il quale non reca alcun tormento all'animo umano, perchè tutti i tesori che esso può nascondere egli li contempla vivi, reali ed esplicati nella natura, nell'universo, nel mondo, cioè, al dir di Bruno, in quella celeste Anfitrite che è la infinita genitura, perfetta somiglianza e imagine dell'infinito generante. Così l'universo per Bruno non è solo la _statua_ di Dio, ma la sua infinita rivelazione; non la tomba della divinità morta, ma la sede della divinità vivente; anzi la vera e unica vita di Dio; perchè vivere è rivelarsi, e si rivela chi genera e si contempla e specchia nella sua genitura. Senza l'universo Dio sarebbe infinità astratta, non reale. Bruno concede la prima all'attività de' teologi, e la seconda assegna ai filosofi come il loro unico e vero Dio. _B_) È stato detto che Bruno è il precursore di Spinoza, anzi lo Spinoza italiano. Ciò è in grandissima parte vero. Ma non sempre è stato inteso il vero concetto dello spinozismo, e però quel che si voleva significare con un tal paragone[83]. Spinoza, si è detto, è il filosofo della _Sostanza_; per lui Dio è la identità e la indifferenza assoluta del pensiero e dell'estensione, de' due universi, del corporeo e dello spirituale, e come tale indifferenza è un essere immobile e senza vita: il carattere della Sostanza è l'immobilità assoluta. Or tale non è il Dio di Bruno. Il Dio di Bruno è la vita stessa, infinita attività, infinita rivelazione di se stesso. Come dunque si può dire, che Bruno precorra Spinoza? È vero che il Dio di Spinoza è la Sostanza, cioè assoluta indifferenza; ma non è solo questo. Il pregio di Spinoza nella storia della filosofia non è solo di aver concepito Dio come Sostanza; o piuttosto, la Sostanza di Spinoza non è quella che comunemente s'intende sotto un tal nome. Quella identità, che è la Sostanza, non è semplice Essere, pura immobilità, ma _Causa sui. Causa sui_, — questo concetto che il nostro Mamiani dice contradittorio, assurdo, perchè lo stesso ente non può essere a un tempo causa ed effetto di se medesimo, — questo è quello che ha di nuovo e di proprio la Sostanza di Spinoza. Essa è di certo assoluta indifferenza dei due opposti (pensiero ed estensione): ma, come tale indifferenza, è _assoluta attività, causalità infinita_. Essa non è semplice _immanenza_ (Sostanza), ma _attività_ immanente (Sostanza causa). Il _concetto_ di Dio come causalità immanente: tale è la novità dello spinozismo. Come indifferenza assoluta degli opposti, Dio è la _Sostanza_; e come assoluta attività, essenza, _actuositas_, è l'_Attributo_; come infinito effetto, o esistenza, è il _Modo infinito_. Sostanza, Attributo e Modo sono i tre concetti fondamentali dello spinozismo. Ora il modo come tale, la _res particularis_, non si può comprendere senza il _Modo infinito_. Modo infinito è il finito infinito, l'effetto infinito, l'universo come universo, come sistema o eterno ordine delle cose, come _infinita genitura_. Così Dio è _causa sui_; l'universo è Dio stesso come effetto di se stesso. In altri termini: Dio è _Natura_: come semplice _Natura_, è identità assoluta, Sostanza. Come _Natura naturante_, è Causa; come _Natura naturata_, è Effetto. Qui il vero Dio è la _causa sui_; la _Natura che natura se stessa_. L'essenza di questo Dio è il _naturare_ (causare)[84]. Quindi lo schema dello spinozismo è il seguente: 1. _Substantia = Deus = Natura_; 2. _Natura naturans_ (attributi). _Potentia infinita_. a) _Infinita cogitandi potentia_. b) Infinita agendi _potentia seu Quantitas infinita_. 3. _Natura naturata = Facies totius universi: quae, quamvis infinitis modis variet, manet tamen semper eadem_: Modo infinito, a) _Intellectus assolute infinitus_. b) _Motus et Quies_. 4. _Res particulares_. a) _Ideae_. b) _Corpora_ (_res_). Il modo, come puro modo, è la _res_ così per sè; non è niente di reale, ma puro _auxilium imaginationis_. Il pregio dello spinozismo è il concetto del _Modo infinito_: della Natura naturata (_fatto ideale_ del Gioberti); cioè della _differenza_ nella stessa indifferenza assoluta. Il difetto è aver concepito Dio, solo come _Causa_ (efficiente). In Bruno vi ha lo stesso schema: cioè _Sostanza_; _Attributo_ (Sostanza come Causa); _Modo infinito_ (Universo); _Modi_ (cose dell'Universo)[85]. — La differenza tra Bruno e Spinoza è questa, che in Bruno vi ha una certa perplessità nel concetto di Dio: Dio ora è principio soprannaturale e soprasostanziale, ora è la stessa Natura e Sostanza. Quello è, come ho già detto, il Dio de' teologi, questo de' filosofi; — io lascio stare questa perplessità, e considero in Bruno solo l'elemento nuovo, che riceve la sua vera forma in Spinoza. Se non che, a scansare ogni equivoco, devo notare che quando si parla del _panteismo_ di Bruno — e in Italia già ricominciano le vecchie accuse — come di un fatto incontroverso, si offende un po' — almeno così pare a me — la verità storica. Appunto perchè in Bruno ci è questa perplessità, non credo si possa dire ch'ei sia quel panteista tutto di un pezzo, che si ammira o si teme nello Spinoza. In Bruno ci è ancora l'ente estramondano o soprannaturale del vecchio mondo, sebbene ridotto a minime proporzioni; e in Spinoza non ci è più[86]. — D'altra parte, si casca in un errore opposto e non meno grave, quando di questo _caput mortuum_ della vecchia teologia, come è rimasto in Bruno, si vuol fare come un'anticipazione dello spirito assoluto della filosofia moderna, e così ammirare nel nostro filosofo anche il precursore di Hegel. In una storia della filosofia non vi ha cosa peggiore di questi guazzabugli. _C_) Bruno è il precursore di Spinoza, ma come poteva essere prima di Cartesio. 1. Per Bruno l'Assoluto è l'identità o indifferenza assoluta del pensiero e dell'estensione (la Sostanza); ma concepita alla maniera aristotelica (alla maniera antica), come unità della _forma_ e della _materia_ (_potenza attiva_ di tutto e _potenza passiva_ di tutto; _potestà di fare_ e _potestà di esser fatto_). Senonchè Bruno critica Aristotele di non aver posta davvero questa _unità_ (e infatti è così; il Dio aristotelico è pura _forma_). «Aristotele non conobbe l'_ente_ come _uno_. Fu molto poco avveduto nella verità, per non profondare alla cognizione di questa _unità_ e _indifferenza_ della costante natura ed essere». Questa indifferenza è la _Sostanza_. «Principio materiale costante ed eterno; Principio formale similmente costante ed eterno. I quali si riducono ad _uno essere_ ed _una radice_. «Questa _unità e indifferenza è complicatamente e totalmente_ infinita; è in tutto il mondo e in ciascuna parte del mondo infinitamente e totalmente. (All'opposto l'universo è _esplicatamente_ infinito e non totalmente; la sua infinità è totalmente in tutto e non nelle parti). Quella unità è uno individuo infinito _semplicissimo_. (All'opposto il mondo è uno _amplissimo dimensionale_ infinito). Dio è l'infinito implicato nel semplicissimo primo principio (L'universo è l'infinito esplicato infinitamente)». 2. Dio (Unità, Indifferenza, Sostanza) è _essenzialmente Causa_: la sua _essenza_ è _causare_. Ed è perciò causalità _infinita_. «In Dio il _potere_ e il _fare_ è tutt'uno. — Egli non può _essere_ altro che quello che è; non può essere _tale_, quale non è; non può _potere_ altro che quello che può; non può _volere_ altro che quello che vuole; e necessariamente non può _fare_ altro che quello che fa. — L'azione sua è _necessaria_, perchè procede da tale _volontà_, che è la stessa _necessità_. In lui libertà, volontà, necessità sono affatto medesima cosa, e il fare col potere, volere ed essere ». Il gran pregio di Bruno è aver detto: _Essere è fare_; Essere è _causare_. Non faccia scandalo quello che dico, cioè che Dio per Bruno è _necessariamente_ causa. Come causa, esso è _causa sui_, e perciò è causa del mondo. Dio non _causa_ il mondo, che in quanto _causa_ se stesso. Similmente Gioberti dice: Dio crea se stesso; l'_essere_ è in lui il _creare_. E crea il mondo, in quanto crea se stesso. Il che non vuol dire, che Dio sia l'effetto del mondo, ma l'opposto. Dove Gioberti dice _crea_, Bruno ha detto _causa_. Gioberti: _Essere è creare_; Bruno: _Essere è causare_. Il difetto di Bruno è aver concepito il _fare_ divino (l'Essere divino) come _causare_ semplicemente. 3. L'universo — notate bene, non le cose dell'universo (e Bruno, come si vedrà, distingue quello da queste) — è Dio stesso come EFFETTO _infinito_ di se stesso. _Infinita genitura dell'infinito generante_. — _Potenza, operazione, effetto_ sono in Dio una medesima cosa. L'universo — l'operazione o _effetto infinito_, medesimo in Dio colla _potenza_ — non è altro che le _cose_, in quanto _sono_ in Dio (_Natura naturata_), non le cose per sè. L'universo come _effetto infinito_ è identico e differente da Dio. È identico, in quanto infinito; differente, in quanto effetto; identico differente, perchè _Infinito_ come _effetto_. Non è il vero infinito, ma l'infinito, come _effetto, fatto, causato_. Come _identico differente_, l'universo è una _differenza_ o _distinzione_ in Dio; in Dio, e non _fuori_, appunto perchè è _infinito_; se fosse finito, sarebbe semplice _effetto_, cioè fuori della sua causa. Quest'idea dell'universo in Dio come una _differenza_ in Dio, è tanto contrastata, perchè non si ha un concetto giusto di ciò che vuol dire _Universo_. Vuol dire _sistema, ordine, nesso, relazione universale_. E ciò non solo è in Dio, ma non può non essere in Dio; non può essere che in Dio. _Identico:_ «È uno, immobile; non si genera (perchè ha tutto l'essere); non si corrompe; non può nè sminuire nè crescere, perchè infinito; non è alterabile, non è mutabile, non è misurabile.....; è uno e medesimo; non è altro e altro; non ha essere e essere; non ha parte e parte.....; è il tutto _indifferentemente_, e perciò è uno; _è tutto quello che può essere, e in lui non è differente l'atto dalla potenza_». Queste determinazioni sono le stesse determinazioni di Dio: Dio è per Bruno _il tutto indifferentemente,_ e in lui non è _differente l'atto dalla potenza_. Ma pure l'universo è _Differente:_ «Dico Dio termine interminato di cosa interminata, perchè così Dio come l'universo è tutto infinito; ma Dio _complicatamente e totalmente_, l'universo _esplicatamente_ e non _totalmente_. L'universo è tutto infinito; perchè non ha margine, nè termine, nè superficie; non è totalmente infinito, perchè ciascuna parte, che in quello possiamo prendere, è finita, e de' mondi innumerabili che contiene, ciascuno è finito. Dio è tutto infinito, perchè da sè esclude ogni termine, ed ogni suo attributo è uno ed infinito; è poi totalmente infinito, perchè _tutto lui è in tutto il mondo e in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente_, al contrario della infinità dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti. E però Dio ha ragione di termine, l'altro di terminato, non _per differenze di finito ed infinito_, ma perchè _l'uno è infinito, e l'altro infinito e finiente_». Adunque, ripeto, vi ha in Dio una _differenza_; e questa differenza — ciò è anche da notare — è essa stessa _indifferenza_: il tutto _indifferentemente_. Dio, dunque, è indifferenza, che si differenzia indifferentemente. Come causa è indifferenza; come causato è indifferenza. La differenza è dunque pura _forma_. Questo è il difetto di Bruno (e anche di Spinoza). Ma, anche come semplice forma, è già un gran passo innanzi. Come _Infinito finiente_ Dio è già più che Sostanza causa. Ma Bruno non sviluppa questo concetto del _fine_. Questo concetto si riproduce — con più chiara coscienza — nel Gioberti; secondo il quale la vera infinità di Dio è appunto la _preoccupazione_ o _presunzione_ infinita del mondo. In Bruno non ci è vero _fine_: non ci può essere, perchè Dio è semplice _causa_. 4. Distinzione delle cose dell'Universo dall'_Universo_: le cose sono semplici modi dell'una e assoluta Sostanza. «L'universo comprende tutto l'essere e tutti i modi di essere; delle cose ciascuna ha tutto l'essere (tutta la sostanza: identità), ma non tutti i modi di essere.... Uno è l'_ente_, la _sostanza_ e la _essenza_.... In essa si trova la moltitudine, il numero, ma come _modo_ e _moltiformità_ dell'ente; laonde non è più che uno, ma moltimodo, moltiforme e moltifigurato.... Tutto ciò che fa differenza e numero è _puro accidente, pura figura, pura complessione_.... (La sostanza rimane sempre la stessa; è una, ente divino, immortale).... _diverso volto di medesima sostanza_; volto labile, mobile, corruttibile, d'un'immobile, perseverante ed eterno essere.... Ciò che fa la moltitudine non è l'ente, non è la cosa, ma quello che _appare_, che _si rappresenta al senso ed è nella superficie della cosa_»[87] (_auxilium imaginationis_, diceva Spinoza). Da questa sommaria comparazione io credo di poter conchiudere, che lo schema metafisico di Bruno e Spinoza è lo stesso, o almeno, che l'uno è precursore dell'altro. LEZIONE SESTA. GIAMBATTISTA VICO. SOMMARIO. _A_) Difetto della dottrina di Bruno — Passaggio da Bruno e Campanella a Vico. — _B_) Il nuovo concetto della _unità dello Spirito_ — Di nuovo Bruno, Spinoza e Vico. — _C_) Il concetto dello _Sviluppo_ — Schema logico: La Psiche individuale; la Psiche nazionale; l'umanità. — Pregio e difetto di Vico. — _D_) Oscurità di Vico. _A_) Da Bruno e Campanella a Vico corre un periodo di circa cento anni. In tutto questo tempo non vi ha un filosofo veramente originale in Italia; all'Italia non appartiene nessuna idea nuova. Cartesio, Spinoza, Locke, Leibniz non sono italiani. O piuttosto, i nuovi germi, nati in Italia, si formarono liberamente a sistemi fuori del nostro paese. Bruno diventa Spinoza; Campanella, Cartesio e (in quanto telesiano) Locke; la monade di Bruno, trasfigurata nell'_Esse cognoscere_ di Campanella, diventa la monade di Leibniz (rappresentazione assoluta del moltiplice nella unità del pensiero). Da Bruno e Campanella a Vico vi ha dunque come un _vuoto_ nella storia del nostro pensiero. Perchè Vico possa esser ben compreso, bisogna riempire questo vuoto colla storia della filosofia europea. Posti Bruno e Campanella, si vede, ora, la necessità di Vico; ma perchè Vico _nascesse_, la _necessità_ della sua nascita dovea manifestarsi e divenire una _realtà storica_: un _fatto_ nella vita del pensiero umano. E ciò è dire, che doveano mostrarsi in tutta la loro realtà i difetti della _posizione_ di Campanella e di Bruno; anzi dovea prima compiersi questa posizione. La posizione era questa: Dio è solamente _causa_ (causa efficiente), e perciò l'Universo è solamente _effetto_. Questa posizione annulla ogni distinzione essenziale tra i due universi, il naturale e lo spirituale, e assegna loro un'identica legge: la causalità, o la semplice relazione causale. Questa posizione è in generale il nuovo _naturalismo_ — di cui abbiamo visto le prime tracce, dopo la Scolastica, nel Cusano — applicato indifferentemente alla considerazione della natura e dell'uomo; e la cui unica legge è la legge matematica o meccanica, e il metodo il processo dal principio alla conseguenza o dalla conseguenza al principio. Ora l'uomo, il mondo umano, vuol dire _libertà_; e la libertà non è la semplice _causalità_. Nella dottrina di Bruno non vi ha davvero _libertà umana_ (nè divina). In altri termini (così in Bruno, come in Spinoza) è inesplicabile il _concetto_ della Sostanza. Come il _Modo_ può conoscere la _Sostanza_, la quale non conosce se stessa, e così essere superiore alla Sostanza stessa? Come l'uomo può _elevarsi_ a Dio, se è semplice _effetto_? Come l'effetto _ritorna_ alla causa? E pure Bruno e Spinoza finiscono egualmente con questa contradizione: — Bruno negli _Eroici Furori_, che sono appunto la liberazione dell'anima e la sua elevazione e unione con Dio; Spinoza nella parte quinta dell'_Etica_, che tratta della _potentia intellectus_, cioè _de libertate humana_, la quale per Spinoza è la stessa beatitudine (_amor Dei intellectualis_). Una semplicemente non può essere la _legge_ della natura e dell'uomo. L'_essere naturale_ è immediatamente quel che è e può essere; è posto come quel che deve essere, e tutto il suo mondo è la sua nascita, che non è opera sua. L'uomo, all'opposto, fa se stesso, il suo mondo; e questo suo mondo è lui stesso: _Carne della sua carne_, etc. Come uomo, come spirito, come mondo umano, egli è creatore di se stesso. — Con ciò non voglio dire, già s'intende, che egli crei se stesso come immediato uomo, come uomo animale o naturale. In altri termini: è vero che tutte le cose _sono_ in Dio. Sono in Dio, perchè hanno la loro _entità_ in Dio. Così, Dio è sostanza prima (Gioberti); l'esser le cose in Dio è la loro entità vera. Ma la differenza tra l'_entità_ delle cose naturali e l'entità umana è questa: le cose _sono_ in Dio immediatamente; sono poste come semplici _enti_, e non altro, in Dio; l'uomo, invece, _è_ in Dio, in quanto si eleva per se stesso e si unisce a Dio; in quanto si fa lui stesso, quanto può, Dio (quell'_essere_, che è Dio); di maniera, che il suo _essere_ è la sua stessa libera _attività_: la libera produzione di se stesso. Se Dio è causa o attività assoluta, e perciò in lui essere e fare sono lo stesso; se insomma, essere davvero è _farsi_, egli è evidente, che essere davvero in Dio, non è semplicemente _esser fatto_, ma _farsi_ Dio e in Dio. Ciò vuol dire: il vero uomo non è semplicemente effetto, ma causa. Ora l'effetto, che è causa, è appunto il _fine_. Così Dio, come insieme causa o principio e fine o effetto assoluto è una duplice attività in una: creativa e ricreativa, direbbe Gioberti; e solo così, come tale unica attività, è la vera attività, e quindi il vero Essere; lo Spirito o il Creatore. La prima attività è semplicemente divina (naturale); la seconda è divina e umana insieme (cioè veramente divina). — I due cicli di Gioberti, che sono un unico ciclo. Ora Vico rappresenta appunto questa _distinzione reale_ de' due universi; e quindi fonda il mondo umano, il mondo dello spirito. Rappresenta la _differenza reale_ di quella _assoluta indifferenza_; e questa differenza è espressa nel concetto delle due _Provvidenze_. Il suo mondo naturale, fatto solo da Dio (come provvidenza naturale), e il suo mondo umano, fatto dall'uomo e da Dio insieme, consistono nelle due attività creative, che sono i due cicli di Gioberti. In Vico il concetto della _formola ideale_ è già dato: non della formola monca, _l'Ente crea l'esistente_, ma della vera formola, _l'Ente crea l'esistente e l'esistente ritorna all'Ente_[88]. Tale è, in brevi parole, il passaggio ideale e, direi quasi, logico da Bruno a Vico. Perchè questo passaggio fosse storico, era necessario che il naturalismo (di Bruno) prendesse la sua forma schietta e rigorosa nello spinozismo (e Spinoza richiede Cartesio, precorso da Campanella); che il principio della semplice _efficienza_ si mostrasse in tutta la sua luce, come cartesianismo e come lockismo; che Leibniz ponesse il concetto — sebbene imperfetto, cioè come identità immediata — dello spirito nella monade, e così protestasse contro il puro naturalismo (la monade in sè è più che _causa efficiente_); che, insomma, si vedessero e s'intendessero le conseguenze della prima posizione. _B_) Ho detto che Vico pone la _differenza_, la _differenza reale_, nella assoluta indifferenza di Bruno e Spinoza; quella differenza, che nè questi nè gli altri filosofi posteriori aveano saputo porre. Ponendo la reale differenza, Vico pone la reale unità: cioè, non più la Sostanza causa, ma lo Spirito. Tale è lo Spirito: non vuota identità, ma reale differenza, e _contuttociò_, anzi appunto perciò, reale unità. Ho esposto altrove[89] la intenzione di Vico, quasi colle stesse sue parole, così: «Finora i filosofi hanno contemplato Dio solo per l'ordine delle cose naturali; io, più su innalzandomi, contemplo in Dio il mondo delle menti umane, che è il _mondo metafisico_, per dimostrare la Provvidenza nel mondo degli animi umani, che è il mondo civile, ossia il mondo delle nazioni. Contemplando Dio solo per l'ordine naturale, cioè in quanto ha dato _naturalmente_ l'_essere_ alle cose e agli uomini, e _naturalmente_ lo conserva, i filosofi hanno dimostrato solo _una parte_ o _attributo_ della sua provvidenza; io lo contemplerò per la _parte_ che è _più propria degli uomini_, la natura de' quali ha questa principale proprietà, di essere _socievoli_, cioè come provvedente nelle cose _morali politiche_, ossia ne' _costumi_ civili, coi quali sono provenute al mondo e si conservano le nazioni. E questa nuova e più alta contemplazione è possibile, perchè questo _mondo civile è certamente stato fatto dagli uomini_; onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritrovare _i principii dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana_. E dee recar meraviglia, come tutti i filosofi si studiarono di conseguire la scienza di _questo mondo naturale_, del quale, perchè Iddio egli il fece, esso solo _ne ha la scienza_, e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, del quale, perchè _l'aveano fatto gli uomini_, ne potevano conseguire la _scienza gli uomini_. Questo stravagante effetto è provenuto dalla miseria della mente umana; la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo, e dee usar troppo sforzo e fatica per _intendere se medesima_. E pure l'uomo in tanto si approssima a Dio, e questa scienza è d'una specie veramente divina, in quanto il mondo, che egli vuole con essa contemplare, lo ha fatto egli stesso; perchè in Dio il _conoscere_ e il _fare_ è una medesima cosa, e solo l'uomo partecipa di questa divina natura. La differenza tra l'uomo e Dio è, che l'uomo ha fatto a principio questo suo proprio mondo senza sapere ciò che si faceva, anzi credendo di fare tutto il contrario. E questa è come una benevola astuzia della Provvidenza; la quale, senza _forza di leggi_, ma facendo uso degli _stessi costumi_ degli uomini, — dei quali le _costumanze_ sono tanto _libere di ogni forza_, quanto lo è agli uomini _celebrare la loro natura_, — come una mente _diversa_, alle volte _contraria_ e sempre _superiore a' fini particolari e ristretti_ che gli uomini si propongono, ne fa _mezzi per servire_ a fini _più ampii_, e gli adopera sempre per conservare l'umana generazione. Così vogliono gli uomini usar la _libidine bestiale_ e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de' matrimonii, onde sorgono le famiglie; vogliono i _padri_ esercitare _smoderatamente gli imperi paterni_ sopra i clienti, e surgono le città; vogliono i nobili abusare la libertà signorile sopra i plebei, e vanno in _servitù delle leggi_, che fanno la _libertà popolare_; e simili. Questo, che fece tutto, fu pur _Mente_; perchè il fecero gli uomini con _intelligenza_; non fu _Fato_, perchè il fecero con _elezione_; non _Caso_, perchè con perpetuità, sempre così facendo, escono nelle medesime cose. Questa Mente o Provvidenza è l'_unità dello spirito che informa_ e dà vita a _questo mondo di nazioni_». Io devo considerare qui solamente questa _unità dello spirito_, la quale è il nuovo Dio della filosofia, che sbalza di soglio l'antico (il Dio semplicemente Causa), e la vera negazione e il vero compimento della _unità_ di Bruno e Spinoza: questa unità, il cui concetto è la base e il principio, in cui consistono e a cui ritornano tutti i concetti nuovi della _Scienza nuova_, e che è solo la _possibilità reale_ di questa scienza, cioè della filosofia della storia: questa unità, che esige una _nuova metafisica_, la _metafisica della mente umana, che proceda sulla storia delle umane idee_: quella metafisica, di cui Cartesio pose la base, quando disse: _Pensare è essere_ (il vero essere); ma poi non ne fe' niente, appunto perchè non si avvide di tutto il tesoro che avea in mano, concependo in modo ristretto il pensare e perciò stesso il vero essere: quella metafisica, che non è il puro _ontologismo_ — la vecchia metafisica fondata sull'essere, — ma che appunto, perchè fondata nel _pensare_, è psicologismo, e appunto perchè fondata nel pensare vero, cioè puro e non empirico, è _psicologismo trascendente_, cioè il _vero ontologismo_: insomma, la _metafisica della Mente_, della _Mente Umana_, e non dell'_Ente_. Gioberti — che meglio intende e spiega se stesso — è in ciò di accordo con Vico[90]. Che cosa è dunque,questa nuova e vera unità, questa _Unità dello Spirito_? Bisogna ripigliare, da questo punto di vista, la considerazione di Bruno e Spinoza. «Chi vuol sapere i massimi secreti di natura, riguardi e contempli circa gli minimi e massimi degli contrarii ed oppositi. Profonda magia è _trar il contrario_, dopo aver trovato il _punto dell'unione_». «A questo tendeva con il pensiero... Aristotele, ponendo la _privazione_, a cui è congionta, certa disposizione, come progenitrice, parente e madre della _forma_; ma non vi potè aggiungere. Non ha possuto arrivarvi, perchè, fermando il piè nel _geno dell'opposizione_, rimase inceppato di maniera, che, non _descendendo alla specie de la contrarietà_, non giunse nè fissò gli occhi al scopo: dal quale errò a tutta passata, dicendo, i contrarii non poter attualmente convenire in soggetto medesimo»[91]. Adunque, secondo Bruno, vi ha due cose a fare, che in verità sono una medesima: dati i contrarii, trovare il punto della unione; e trovato il punto della unione, trarre il contrario. Sono una medesima cosa; giacchè il _punto della unione_, che si dice trovato, non è veramente trovato — non è veramente unità de' contrarii, — se da esso non si trae il contrario, cioè non si fa vedere che questo punto stesso si _differenzia_. Se non si trae da esso il contrario, ma si pone così _estrinsecamente_, questo punto non è il punto della unione. Aristotele riceve i contrarii platonici: l'idea e il fenomeno (l'idea è fuori del fenomeno: dualismo), e fa di quella la _forma_, di questo la _materia_; questa è _complicatamente e possibilmente_ QUELLO STESSO, che quella è _esplicatamente e attualmente_; l'una è l'essere meramente _possibile_, l'altro l'essere _attuale_. Così la relazione tra i contrarii non è più _negativa_ come in Platone, nel quale l'uno è l'essere, e l'altro il non essere. Ma è _positiva_: l'uno è l'essere attuale, l'altro l'essere possibile. Questa relazione _positiva_, questo _uno essere_, sotto i due aspetti della possibilità e dell'attualità, è il _punto della unione aristotelico_. Aristotele dunque, procedendo da' contrarii, trova il _punto della unione_. Ma lo trova davvero? Bruno ha detto già, che non lo ha trovato; che «non conosce l'Ente come _Uno_, per non aver profondato alla cognizione di questa» (la sua) «_unità e indifferenza_ della costante natura ed essere». Ora dice, che non ha saputo _trarre il contrario_; che, al più, si è arrestato al genere dell'opposizione, ma non è disceso sino alla specie della contrarietà. La seconda critica è il compimento della prima. Aristotele non ha concepito l'Ente come Uno, perchè non l'ha concepita come _assoluta indifferenza_; e non l'ha concepito come assoluta indifferenza, perchè non l'ha concepito come _coincidenza dei contrarii_. Bruno, seguendo il Cusano, dice di concepirlo così: questo essere il suo vantaggio sopra Aristotele. In realtà, questa _indifferenza_ non è che la conseguenza _esplicita_ della posizione aristotelica; giacchè quella _relazione positiva_, quell'_uno stesso essere_ sotto due aspetti, non è che l'_essere indifferente_. Ma non basta, — ecco la seconda critica, — dire: l'essere indifferente. Perchè questo sia un vero concetto, e non già un semplice presupposto; perchè sia veramente l'essere indifferente, bisogna trarre da esso il contrario, non presupporlo; cioè, nel caso di Aristotele, non presupporre, ma _derivare_ i due principii, _forma_ e _materia_. Finchè non si fa questo, il dualismo dei principii non è superato; cioè, non si ha veramente l'_uno essere_, l'assoluta indifferenza. Ora Aristotele non deriva i due principii, ma li presuppone. Bruno dice: _assoluta indifferenza_, e oltre a ciò esige la derivazione del contrario. Ciò è molto. Ma poi, non solo non trae il contrario, ma con tutto che dica _indifferenza_, non afferma quella _posizione_, che è la possibilità del _punto_ della unione. Mi spiego: Aristotele dice: _uno stesso essere_ sotto due aspetti. Ma, poi, pone come il vero essere l'uno di questi due aspetti, per sè, senza l'altro, e così distrugge da sè la posizione dell'_uno stesso essere_. Così l'altro rimane sempre qualcosa d'estrinseco al primo, e non è derivato dal primo; e sebbene non sia superiore al primo, pure è sempre un limite insuperabile del primo. E ciò val quanto dire: il primo — la forma, il pensiero — non è veramente il Primo; in realtà ci sono due Primi. Bruno dice: _Indifferenza_, e sta fermo a questa posizione, in quanto la forma non è mai estrinseca alla materia e l'intelletto artefice muove e opera da dentro; il Dio aristotelico, pura forma, è scomparso. Ma, d'altra parte, quella _indifferenza_ è un punto assolutamente oscuro, una base presupposta, non _pensata_ affatto; i due contrarii sono in realtà ancora assolutamente _irreducibili_; la loro indifferenza o unità è piuttosto _essere insieme_, semplice _coincidenza_, non altro. Spinoza, mediante Cartesio, fa chiaro quel punto oscuro; e questo punto chiaro — _immediatamente_ chiaro (evidenza, intuito cartesiano) — è il pensiero in quanto contiene il suo contrario, l'essere. Questa unità, che non è più semplice coincidenza, ma _contenenza, insidenza_, — unità che si differenzia immediatamente come indifferenza, — è la nuova indifferenza, la _Sostanza_ di Spinoza. Spinoza è la _chiarezza_ di Bruno; quel che in Bruno è oscuro, in Spinoza è chiaro (sebbene non assolutamente chiaro, ma solo immediatamente). In Bruno è oscura la indifferenza, e in Spinoza si fa chiara, in quanto il punto della unione è il _pensiero_, e il pensiero non è tale che in quanto contiene o pone immediatamente o intuitivamente il suo contrario, l'essere. Il pensiero è quel punto (_punctum mobile_), che è insieme _unire_ e _trarre il contrario_; il punto della unione è il punto stesso della differenza. Punto _attivo_, non _morto_; che _unisce_ in quanto _differenzia_, e differenzia in quanto unisce. Similmente, l'indifferenza come _causa_ è oscura in Bruno, e si fa chiara in Spinoza. La Sostanza è causa, attività, in quanto è il pensiero che contiene o pone immediatamente l'essere: l'essere è l'_effetto_ del pensiero, e questo effetto è lo stesso essere del pensiero: il pensiero è _causa sui_. Infinità del pensiero, infinità dell'essere; causa infinita, effetto infinito; Dio infinito, universo infinito. E la Sostanza è semplice causa, cioè _sostanza_, non _soggetto_, appunto perchè è una posizione immediata dell'essere nel pensiero. Adunque, quello che è come implicito in Bruno (Sostanza causa, cioè Indifferenza che si differenzia indifferentemente, ossia immediatamente), è chiaro in Spinoza. Questa chiarezza è il pensiero cartesiano. Il pensiero, che contiene in sè e pone immediatamente l'essere, è la _causa_. Causare: tale è la prima e la immediata risposta all'esigenza di Bruno: _trarre il contrario_. _Causare è trarre il contrario_, ma in una forma immediata. _Causare_ è pensare, ma pensare immediatamente. Causare senza pensare è impossibile. L'_effetto_ è contenuto nella causa; e questa contenenza, che è _produzione_ in sè, non è altro che _pensiero_, non già semplice essere. (Così la _Sostanza_ è il _Pensiero_ come immediata unità di se stesso e dell'essere: è l'Idea, ma non l'Idea platonica). Questa _immediatezza_ è la Natura spinoziana, la _nuova_ natura. Quindi il nuovo _naturalismo_. Essere e pensare, immediatamente _uno_ e immediatamente _differenti_: tale è il _punto della unione_ e la _derivazione_ spinoziana del contrario. Ora, appunto perchè immediatamente _uno_, essere e pensare non sono veramente _uno_; e appunto perchè immediatamente differenti, non sono veramente differenti. Nè la _unità_, nè la _differenza_ è reale: nè il _punto della unione_, nè la derivazione del contrario. Quindi si ha insieme: _parallelismo_, e, come unica legge de' due mondi, la _relazione causale_. Queste due determinazioni, che sono la stessa determinazione, è il _naturalismo_. È la indifferenza differenziata indifferentemente: la causa come effetto, come semplice effetto. Così non si ha il vero Universo; il vero Universo è fuori di questo Universo puramente _formale_. Ma in Spinoza stesso ci è il principio della correzione di Spinoza: il principio del _pensiero_, il principio cartesiano: solo bisogna intenderlo meglio (psicologismo trascendente). I due mondi paralleli, e che hanno una _medesima legge_ (la causalità) non sono in sè davvero paralleli; giacchè l'uno è l'_esse obiective_ e l'altro l'_esse formaliter_; quello è, dunque, più che questo e lo contiene. Il pensiero contiene in sè l'essere, è l'essere _oggettivo_, e perciò non può esser parallelo all'essere, non può avere la stessa legge dell'essere; l'essere non dev'essere eguale, ma sottoposto al pensiero, deve essere il _fenomeno_ del pensiero. Ecco Leibniz: la vera realtà è la _monade_, e l'_estensione_ non è che il _fenomeno_ delle monadi. Ma la monade è anch'essa qualcosa d'_immediato_, e perciò di _naturale_. Ora Vico vede la vera _differenza_: nega davvero il _parallelismo_, distinguendo le due provvidenze, i due attributi, di maniera che uno di essi sia scala all'altro, e concepisce il _pensiero_, il _punto di unione_ e la _derivazione del contrario_, come _sviluppo_ (_spiegamento_); la natura è il fenomeno e la _base propria_ dello spirito, il presupposto che lo spirito fa a se stesso, per essere veramente spirito, vera unità. La vera Unità, il vero Uno, l'_Unico_ è sviluppo; sviluppo di se stesso: da se stesso, per se stesso, a se stesso: cioè veramente e totalmente _Se stesso_. Questo è il _nuovo_ concetto, che, più o meno espressamente, consapevolmente e inconsapevolmente, è l'anima di tutta la _Scienza nuova_: è il _gran valore_ di Vico. _C_) _Sviluppo_ non vuol dire emanazione, semplice venir fuori, semplice eduzione; e non vuol dire semplice _causazione_, semplice posizione di un effetto. Sviluppo è moto, ma moto che è insieme riposo; non è andare da uno a un altro, ma da sè a sè, andare che è riandare; è produzione, ma produzione di se stesso; e non di se stesso come _ens diminutum_, come meno di sè, e però come non se stesso, come un altro (tale è l'effetto infinito della causalità infinita di Bruno e Spinoza: pura esplicazione di quel che è complicato), ma di sè come vero se stesso; è produzione, che è riduzione. _Sviluppo è autogenesi._ Chi dice _sviluppo_, dice _gradi, stazioni, funzioni, forme_ diverse di attività. Ora quel che si sviluppa è il _principio stesso universale_ della esplicazione, de' varii gradi o funzioni. Questo principio — Psiche, Anima, Mente, Ragione, Pensiero, Spirito — dà a se stesso, appunto in queste funzioni o forme, una realtà determinata; e allora ha finito la sua esplicazione, quando è arrivato o meglio ritornato a se stesso, cioè quando si è attuato in una forma adeguata alla sua universalità o idealità. Così tutte le altre funzioni della psiche sono que' gradi di esplicazione della psiche stessa, nei quali la sua universalità o idealità, che è il vero principio, ha raggiunto solo una realtà particolare, non perfetta e universale. Perciò la psiche — il pensiero, la mente — ha colle sue altre funzioni la seguente doppia relazione: da un lato ella è il loro principio, e così esse sono i suoi gradi di esplicazione; e dall'altro lato ella è il supremo e assoluto grado di esplicazione, ed esse sono gradi solamente relativi (principio e fine). Così, quando si dice: «lo Spirito è _senso, rappresentazione_ (immaginazione), _pensiero_», ciascuna forma è tutto lo spirito (il _pensiero_) in un suo grado di esplicazione; e il _pensiero_ è il supremo grado, il vero Spirito. Questo schema dello _sviluppo_ si può dire lo schema astratto della _Scienza nuova_: l'ultimo grado è per Vico la _Ragione umana tutta spiegata_. Così tutta la vita dello Spirito non è che _spiegamento_ di sè: quello che io dico sviluppo. Ci è questo schema in Vico: 1. Come schema astrattissimo e, direi quasi, logico: _Uno, Molti, Uno_. È l'uno che si pone — si spiega — come Uno immediato, come Molti, e come Uno vero e concreto: _Uno tutto spiegato_. «Sopra quest'ordine di cose umane civili corpulento e composto vi conviene l'ordine de' numeri, che sono cose astratte e purissime. Incominciarono i governi dall'_Uno_ colle monarchie famigliari, indi passarono a' _Pochi_ nelle aristocrazie eroiche; s'inoltrarono ai _Molti_ e _Tutti_ nelle repubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte fanno la ragion pubblica; finalmente _ritornarono_ all'_Uno_ nelle monarchie civili. I _pochi, molti e tutti_ ritengono ciascheduno nella sua specie la ragione dell'_Uno_. Così l'_umanità_ si contiene tutta tra le monarchie famigliari» (l'Uno come principio), «e le civili» (l'Uno come fine)[92]. — È evidente, che questo movimento dell'Uno non è semplicemente deduzione, ma insieme riduzione (induzione); l'Uno, spiegandosi, non si disperde, ma cresce e insieme si raccoglie in se stesso: ἐπίδοσις ἐφ’ ἑαυτό, direbbe Aristotele. 2. Come schema dell'animo umano o psiche individuale: _Corpo_ (senso), _Favella_ (immaginazione, fantasia) e _Mente_. «Non essendo altro l'uomo propriamente che _mente, corpo e favella_; e la favella essendo come posta in mezzo alla mente e al corpo; il _certo_ intorno al giusto cominciò ne' _tempi muti_ dal corpo; di poi, ritrovate le favelle, che si dicono articolate, passò alle _certe_ idee, ovvero _formole di parole_; finalmente, essendosi _spiegata_ tutta la nostra _umana_ ragione, andò a terminare nel vero delle idee d'intorno al giusto, determinate con la ragione dalle ultime circostanze de' fatti; che è una _formola informe di ogni forma particolare_; ecc.»[93]. — Al _corpo_ (senso) corrispondono i _tempi muti_, perchè il senso è la percezione del semplice _particolare_, e finchè l'uomo sente solamente e percepisce sensibilmente, non parla; la parola presuppone una certa universalità della rappresentazione. Questo _universale_ è quel che Vico chiama _fantastico_ o _poetico_. Quindi _formola di parole_. Alla mente corrisponde il puro _intelligibile_. — Senso, favella e mente non sono tre essenze o sostanze separate, ma la stessa essenza o sostanza — la _ragione umana_ — in tre forme. 3. Come schema della psiche concreta e vivente, della psiche de' popoli o nazioni. È questo il vero trovato di Vico. Senza questa psiche, specialmente come comunità morale e politica, come Stato, non ci è popolo davvero, e la stessa psiche individuale non è altro che una vuota astrazione. Essa è concreta e organica, perchè è l'unità di tutte le forme della vita popolare: _religione, lingua, terra, nozze, nomi, case, armi_, ecc. È _psiche_, perchè non è nè _caso_ nè _fato_ o pura _necessità_, ma attività _libera_, che realizza se stessa come vero Stato (_vera repubblica_), apparecchiandosi (presupponendosi) nelle forme anteriori imperfette della sua esistenza altrettante _materie_ della sua vera forma. «Nè il caso li divertì, nè il fato gli strascinò (gli uomini) fuori di quest'_ordine naturale_ (del primo stato): nel punto, nel quale esse _repubbliche_ (il vero Stato umano) _doveano nascere_, già si erano innanzi _apparecchiate_ ed erano tutte _preste le materie_ a ricever la forma; e ne uscì il _formato_ delle repubbliche, composto di _mente_ e di _corpo_. Le _materie apparecchiate_ furono _proprie_ religioni, _proprie_ lingue, _proprie_ terre, _proprie_ nozze, _proprii_ nomi _ovvero genti_ o sieno _case_, _proprie_ armi, e quindi _proprii_ imperii, _proprii_ maestrati, e per ultimo _proprie_ leggi; e perchè PROPRII, perciò dell'intutto LIBERI, e perchè dell'intutto liberi, perciò _costitutivi di vere repubbliche_. — In cotal guisa il _diritto natural delle genti_, che ora tra i popoli e le nazioni vien celebrato, sul nascere delle repubbliche nacque _proprio_ delle _civili sovrane Potestà_; talchè popolo o nazione, che non ha _dentro_ una Potestà sovrana civile fornita di tutte le anzidetto _proprietà_, egli propriamente _popolo o nazione non è_; nè può esercitar fuori contro altri popoli o nazioni il diritto natural delle genti; ma, come la _ragione_, così l'_esercizio_, ne avrà _altro_ popolo o nazione _superiore_»[94]. Di questa psiche, che muove e dà vita a tutti gl'individui che compongono una nazione, e che come la _ragione_ e la _personalità_ della nazione medesima si _attua_ e _spiega_ nella comunità politica — gli individui non hanno coscienza che nel corso del tempo, e specialmente come _filosofi_; la coscienza procede insieme coll'attuazione. Essa è la stessa _provvidenza_, considerata per rispetto a un popolo _particolare_, e pur sempre per rispetto al _fine universale_ del _mondo umano_. Così lo spiegamento della _ragione umana_ è lo spiegamento stesso della _ragione eterna_. Di questa ragione e del suo fine, gli uomini a principio non _sanno_ nulla; credono di fare soltanto il lor proprio interesse particolare e immediato e conseguire solo i loro proprii fini, e non fanno che servire di mezzi, come ho già notato, a fini più alti ed eterni. La vita degli uomini, così considerata, sarebbe qualcosa di comico, se questa astuzia della provvidenza non fosse la _umanità_ stessa che si fa strada e si produce mediante l'attività particolare degli individui e de' popoli. L'_umanità_ è appunto questa _eterna catena di cause ed effetti_, che non è nella intenzione immediata del soggetto operante, e nondimeno è contenuta virtualmente nell'azione, e nasce da essa come quel che vi ha in essa di vero e sostanziale. L'azione, come tale virtualità infinita, sorpassa il fine e la stessa esistenza finita dell'operante. Intanto, l'uomo, che opera così, è _libero_, e perchè ha il suo proprio interesse immediato nell'azione, e perchè il grande effetto, che non era il fine proprio di quella, non realizza una natura estranea all'uomo, ma la stessa natura umana. «_Jura a Diis posita_ sono state dette le ordinazioni del _dritto natural delle genti_. Ma, succeduto poi il diritto naturale delle genti _umane_......, sopra il quale i _filosofi_ e i morali teologi si alzarono a intendere il dritto naturale della _ragione eterna tutta spiegata_: tal motto passò acconciamente a significare il diritto naturale delle genti ordinato dal vero Dio»[95] (Dio umano). — «Si rifletta... alla _semplicità_ e _naturalezza_, con che la Provvidenza _ordinò_ queste cose degli uomini, che per _falsi sensi_ gli uomini dicevano con verità che _tutte facessero gli Dei_»[96]. La vita della psiche nazionale ha tre gradi, o, come dice Vico, _tre età_; le quali, in generale, corrispondono al senso, alla rappresentazione e all'intelletto, che si potrebbero chiamare le tre età della psiche individuale. Quindi i _tre costumi_, i _tre diritti naturali_, i _tre governi_, le _tre lingue_, i _tre caratteri_, etc., etc.[97]. L'ultimo grado è sempre il più perfetto: quello, come ho già fatto osservare, della _ragione umana tutta spiegata_. Lo schema di questi tre gradi è il seguente: L'uomo, la nazione, il genere umano è a principio unito immediatamente alla natura, al mondo esterno e visibile; è dominato e come affascinato da essa. Questo legame e dipendenza è la prima religione; ma religione sotto una forma falsa. La natura è Dio, e ogni cosa naturale è divina. L'uomo non ha ancora coscienza di sè come distinto e opposto alla natura; la natura è tutto, l'uomo è niente; tutto quel che fa l'uomo è opera della natura, e perciò divino. È un falso divino, appunto perchè è tutto naturale, e non umano. Poi l'uomo comincia a distinguersi dalla natura, senza però romperla con essa. È una distinzione ancora naturale; la natura rimane come fondamento; l'uomo non è ancora davvero uomo. L'uomo si distingue dalla natura; ma questa distinzione è fatta nella natura stessa, e perciò nell'uomo. Prima il naturale era tutto divino; ora vi ha una doppia natura, alta e bassa, divina e bestiale, e perciò una doppia classe di uomini: uomini affatto naturali, bestiali, e uomini mezzo divini, non naturali, ma _figli_ della natura (buona, degli Dei). Il _buono_ non è più un immediato, anzi l'immediato è il _male_: i cattivi sono gli uomini che non si sono ancora distinti dalla natura. Il _buono_, dunque, come qualcosa di derivato e mediato, è un'opera mezzo umana; e i buoni, gli _ottimi_, sono coloro che hanno fatta quella distinzione, senza però troncare ogni legame colla natura: la _nobiltà naturale_. La nobiltà è nella nascita; ma non ogni nascita fa nobile: ci vuole una _certa_ nascita. E ciò vuol dire: non ogni natura è _divina_, ma solo una _certa_ natura. Questo _certo_ è un'opera _umana_: una distinzione fatta dall'uomo stesso, sebbene non in sè, nella sua umanità, ma nel seno stesso della natura. Così la divinità, che prima per l'uomo era solo la natura, comincia ad essere qualcosa d'umano, ma non è ancora davvero _umana_. Finalmente l'uomo si pone come uomo; il divino è l'_umanità_ stessa dell'uomo. Quindi non più distinzioni o classi naturali; ma tutti gli uomini hanno lo stesso diritto. La nascita non fa differenza. Rimangono le distinzioni; ma sono puramente _spirituali, umane_: opera dell'attività stessa dell'uomo libero. Questo schema della psiche, che io ho detto _nazionale_, è la stessa psiche _universale_, e comune a tutte le nazioni. E qui si vede la imperfezione del gran concetto di Vico. Infatti, Vico conosce la umanità solo come nazione, e perciò non conosce davvero nè l'umanità concreta, nè la nazione o, meglio, le nazioni concrete. Il suo schema si applica a tutte le nazioni, e perciò è lo schema dell'_umanità_. Ma, giacchè ei non ha uno schema _proprio_ di ciascuna nazione, e in realtà lo schema vero e concreto dell'umanità ha per contenuto gli schemi _proprii_ delle nazioni, così lo schema vichiano della umanità è ancora _astratto_. Vico non vede chiaro che non solo la nazione, ma la stessa umanità ha età diverse, e le ha appunto mediante le nazioni. Le _nazioni_ sono le età dell'umanità. — Se non che in questo stesso errore di Vico ci è qualcosa di vero, che apparisce come una protesta anticipata contro la esagerazione di questo metodo della filosofia della storia. L'esagerazione consiste nel considerare le nazioni troppo _letteralmente_ come età o gradi dello sviluppo della psiche universale. Si dice: «la psiche come psiche ha questi e questi gradi: senso, immaginazione, etc. Dunque questa nazione rappresenta questo grado, quest'altra quest'altro, etc. Il primo grado appartiene solo alla prima nazione, e l'ultimo solo all'ultima o alla comunità vivente delle nazioni». Vico, invece, vede tutti i gradi — tutto lo spirito — in ciascuna nazione. Egli non ammette una nazione solo _senso_, un'altra solo _immaginazione_, ecc; ma riconosce la pienezza de' tempi — i _tempi umani_ — in ogni nazione; di maniera che da una parte lo sviluppo di ciascuna nazione ha come sua finale tendenza il trascendere i limiti della sua nazionalità naturale ed entrare appunto ne' _tempi umani_ (che fanno tanta paura a' nostri bramani); e d'altra parte lo sviluppo dello spirito universale a traverso le nazioni non è solo _correre_, ma _ricorrere_, non è solo _andare_, ma _riandare_. Coloro che parlano con tanta leggerezza del ricorso vichiano, come di un'anticaglia, e si rappresentano il progresso umano come una linea retta indefinita, — senza capo nè coda, — dovrebbero pensare almeno, che l'India ebbe i suoi _tempi umani_ nella nuova _religione_ (in Budda), la Grecia nella nuova _filosofia_ (Socrate), e Roma nel nuovo _diritto_. Pare, che Vico ammetta questa unità dello spirito — l'unità come _sviluppo_ — solo nel mondo umano, e tra questo e il naturale (tra le due provvidenze) non veda altro che la _differenza_, e così non arrivi al nuovo concetto (alla nuova unità) del Tutto. Infatti, egli dice del mondo naturale: «perchè Dio egli il fece, esso solo ne ha la scienza». Chiosando questo luogo si potrebbe dire: «in Vico non solo è espressa una differenza _essenziale_ tra i due mondi, ma manca quella unità universale, che Bruno e Spinoza _concepirono_, se non altro, come _Sostanza_; anzi, invece della nuova unità spirituale e del nuovo significato della natura come momento dello spirito, Vico afferma la superiorità di quella su questo, appunto perchè la provvidenza naturale è tutta divina e saputa solo da Dio, e la umana è divina e umana insieme, e saputa così dagli uomini come da Dio. In tal modo, la tanto vantata differenza posta da Vico tra' due mondi, non solo non è un passo innanzi, ma è davvero un passo indietro: perchè riduce a niente il gran pregio del Naturalismo, che era appunto la unità, sebbene in una forma falsa, dell'universo corporeo e dello spirituale». Certamente in Vico non è _espresso_ il nuovo concetto come unità del Tutto; ma questa unità è implicita nel suo concetto dello spirito, ed è una conseguenza necessaria di tal concetto; appunto perchè l'unità dello spirito è _sviluppo_, tale deve essere anche l'unità del Tutto. Questa unità è la _Provvidenza_; e se la provvidenza _umana_ è _sviluppo_, non si sa intendere perchè tale non debba essere la provvidenza in sè stessa come unità delle due provvidenze. E già Vico, annunziando la sua nuova _contemplazione_ e mettendola _più su_ dell'antica (della _naturale_), considera la seconda provvidenza (Dio, in quanto _mondo delle menti umane_) come superiore alla prima (Dio, in quanto _ordine delle cose naturali_). E d'altra parte l'uomo è in sè le due provvidenze (la loro unità); e non già nel senso, che all'uomo come essere _naturale_ si aggiunga _esteriormente_ l'uomo come _mente_, ma nel senso, che la _mente_ (la provvidenza _umana_) contenga in sè come _momento_ e sorpassi l'_essere naturale_, e solo così sia quello che è. L'uomo a principio fa il suo proprio _mondo_, e non ne sa niente, o sa tutt'altro di quel che fa davvero; di maniera che anche di questo mondo si può dire quel che Vico dice del mondo naturale: _Dio solo ne ha la scienza_. Poi, l'uomo sa quello che fa; ed ha del suo mondo, come Dio, la sua scienza anche lui, e questa scienza è il vero mondo umano. Si vede, che quella _unità_ che è l'uomo o il mondo umano, — e che pare l'unico scopo della contemplazione di Vico, — in sè o quanto alla sua essenza è quella stessa che è il Tutto, e Dio medesimo come _punto d'unione_ de' due _infiniti attributi_. Lo schema, dunque, di Vico è non solo lo schema del pensiero astratto e della psiche umana individuale, nazionale e universale, ma anche della totalità del reale e di Dio stesso. Vico rappresenta la prima negazione del parallelismo; la differenza reale de' due attributi; e in luogo della _Sostanza_, lo _Spirito_. _D_) Tale è l'_unità dello spirito_ di Vico. È un intuito profondo, una divinazione, una profezia, nata dalla seria e intima contemplazione del reale _umano_, della realtà dello spirito. Vico è la realtà umana, il _positivo_ umano, che parla a sè stesso: che s'_intende_. Prima di Vico non l'aveano inteso. Avevano considerato l'uomo come psiche astratta, non concreta. Vico è il primo autore d'una _psicologia de' popoli_. Aveano intesa la realtà umana, la vita dello spirito, naturalmente, non spiritualmente. Vico è una vera cometa tra i _naturalisti_ e i _matematici_ del secolo decimottavo. Ma Vico è oscuro: oscuro come Bruno, assai più che Bruno. Bruno è la vita della natura che parla a se stessa: entusiasmo, fantasia, furore eroico. A. Vico manca il concetto _espresso_, speculativo, metafisico della _nuova unità_. Gli manca quel che mancava a Bruno. A Bruno mancava Cartesio, — la nuova metafisica, — per avere Spinoza. Oltre a ciò, al naturalismo di quel tempo mancava ancora l'_inspicere_, già richiesto da Telesio. A Vico manca, — oltre la grande esperienza de' proprii prodotti dello spirito, — il nuovo _cogito ergo sum;_ il nuovo pensiero, che non è la posizione immediata, ma la mediazione assoluta, e perciò perfetta trasparenza dell'essere. Vico stesso confessa in certo modo il _punto oscuro_ della _Scienza nuova_, esigendo una nuova metafisica: quella della Mente. L'ha fatta egli? No. Non si contenta di Cartesio, ed ha ragione; il dommatismo cartesiano non può comprendere il processo storico (critico) dello spirito. Ma ha egli compreso, metafisicamente, meglio il pensiero? Ha risposto alla sua stessa esigenza? Coloro che mettono innanzi l'_Antiquissima italorum sapientia_, e vedono in essa la chiave metafisica della _Scienza nuova_, rassomigliano un po' a que' letterati, che vogliono comprendere un dramma di Shakespeare coll'arte poetica di Orazio alla mano. LEZIONE SETTIMA. PASQUALE GALLUPPI. SOMMARIO. _A_) Vico e Kant — Il problema del conoscere nella filosofia antekantiana — Il problema del conoscere in Kant. — _B_) Kantismo del Galluppi. _A_) Da Vico a Galluppi, Rosmini e Gioberti corre quasi un secolo. E vi ha di mezzo, oltre i filosofi prima di Kant, Kant e quasi tutti i filosofi tedeschi. Quale è l'anello che congiunge Galluppi, Rosmini e Gioberti a Vico? Ripigliamo il filo della nostra esposizione. La unità, il vero _punto di unione_, — quello che è insieme _unire_ e _trarre_ il contrario, — era per Bruno la _Causa_. Ma questo punto era _oscuro_ in Bruno, e si fa chiaro solo in Spinoza mediante Cartesio. Appariva come _coincidenza_, e non già come _contenenza_ o _insidenza_. Il _pensiero_ cartesiano, che contiene in sè e pone immediatamente l'_essere_, è la chiarezza di Bruno. Questo pensiero è la _Causa_: la unità come _Causa_. Per Vico il vero punto di unione, — che unisce e trae il contrario, — è _Sviluppo_. _Sviluppo_ è più che _Causa_. Non è procedere da sè a un altro, da sè a sè come _diminutum_, — e perciò _non procedere_; ma è da sè, per sè, a sè: al vero Sè. In Vico manca la _chiarezza_ dello _Sviluppo_. Questa _chiarezza_ è il _nuovo_ pensiero, il nuovo _cogito ergo sum_, il nuovo Cartesio, e quindi il nuovo Spinoza. È il _conoscere_ di Kant, l'_Io_ di Fichte, la _Ragione_ di Schelling, lo _Spirito assoluto_ di Hegel: la _sensibilità_ di Galluppi, come percezione immediata del _me_ e del _fuor di me_, la _percezione intellettiva_ di Rosmini, la _formola_ di Gioberti. Vico esige una _nuova_ metafisica, la _metafisica della mente_. E intanto la sua metafisica è la _vecchia_: quella dell'ente. Questa contradizione, — _nuova_ unità e _vecchia_ metafisica, — è la oscurità di Vico. Questa _esigenza_ d'una nuova metafisica è la esigenza stessa che fa la filosofia europea nel secolo di Vico. Questa esigenza, fatta dalla filosofia europea, vuol dire: dissoluzione della filosofia che ha il suo principio in Cartesio (e Locke), e necessità di una nuova filosofia. Questa _nuova esigenza_ è Kant. Kant è la dissoluzione di tutta la filosofia europea dopo Cartesio, e la nascita della nuova filosofia. Kant è filosofo _europeo_: risultato del movimento della filosofia europea: risultato _chiaro, evidente, cosciente_: una conseguenza logica, che si mostra conseguenza e realtà _storica_. In Vico all'opposto questa stessa _esigenza_, nella sua relazione colla filosofia europea del suo tempo, è _oscura_: è una _anticipazione_, come è un'anticipazione il concetto dello _Sviluppo_. Ecco perchè è oscura. Vico concepisce lo _Sviluppo_ ed esige la nuova metafisica, prima che la vecchia filosofia, — quella di Cartesio e Locke, — sia esaurita; prima che la corruzione sia venuta a tal punto che sia generazione; prima di Wolf e Hume. In questo senso Vico è precursore dell'avvenire: cioè quegli che pone qualcosa che è vero e ha da essere, perchè è il risultato necessario di quel che è attualmente, — il nuovo mondo, contenuto nel vecchio, e di cui, come si dice, il vecchio è gravido; ma lo pone prima che sia venuta la _pienezza_ dei tempi; quasi un parto precoce: un parto _estemporaneo_. Questo parto non è un falso parto. Quel che talvolta si dice parto, è semplice eduzione. Quel che si educe, è già _formato_, è già vivo, è già generato, già partorito. Allora il parto — il venir fuori — è, direi quasi, più una faccenda meccanica, che altro; il concepimento è tutto; questo è il difficile. Questo _concepimento_ è Vico. È la nuova vita — l'infante — posta, intuita, prima che si stacchi da sè dalla vecchia vita, dalla vita della madre. In questo senso, — quando si considera che Bruno è in sè Spinoza, e Campanella Cartesio, e Telesio Bacone e Locke — quando si considera quel che è Vico, — si può dire che l'ingegno _italiano_ sia ingegno precursore. È stato tale: e questa è la sua eccellenza, e insieme la sua imperfezione. Adunque la chiarezza della _esigenza_ di Vico è la filosofia del suo tempo e dopo del suo tempo sino a Kant; è tutto il secolo decimottavo. La chiarezza dello _Sviluppo_ è Kant e tutta la filosofia dopo Kant. In generale la _chiarezza_ di Vico è il decimottavo e il decimonono secolo. È noto come Kant risulta dalle due direzioni del pensiero moderno dopo Cartesio. Cartesio dice: _Pensare è essere_. Questa unità è immediata; e perciò pensare e essere non sono veramente uno. Quindi: il pensare come pensare, come astratto pensare, e il pensare come essere: cioè, il cartesianismo e il lockismo (percezione lockiana). Il primo riesce al formalismo volfiano, alla pura _cosa_; il secondo alla _materia_: due metafisiche. Hume è la _negazione_ del lockismo; Wolf la _pietrificazione_ del cartesianismo (puro intellettualismo). Kant è la _negazione_ vera di tutti e due, e perciò la _nuova unità_: il _nuovo_ Cartesio. Quella doppia direzione vuol dire: _distinzione_ e _opposizione_ de' due contrarii, posti come immediatamente _uno_ da Cartesio. È la loro divergenza: l'_apparizione_ della loro _differenza_. Ma nella loro divergenza, nella loro _ultima_ divergenza, già manifestano la loro unità, la loro _nuova_ unità: non più quella di prima, la cartesiana. Nella loro ultima divergenza quelle due direzioni sono il _Conoscere_: il conoscere come _concetto_, come semplice intelletto, e il conoscere come _percezione_ (intuizione), come semplice senso. La loro unità — la nuova unità — è dunque il _conoscere_, o meglio il _puro_ conoscere. Ho detto: il _puro conoscere_; puro, cioè non empirico, ma trascendentale. Quindi il psicologismo kantiano è in sè trascendentale. In questo concetto è il gran significato del kantismo. Il conoscere — questa è la scoperta di Kant — è un immediato (un originario), che consta di due immediati (di due originarii; almeno appaiono così), che sono il pensare ed il sentire, il concetto e l'intuizione, l'universale ed il particolare, il così detto _a priori_ e l'_a posteriori_. Nel conoscere, l'immediato non è il solo concetto, come voleva il Cartesianismo, nè la sola intuizione come voleva il Lockismo. Col solo concetto non si _conosce_ nulla (il concetto è _vuoto_) e però è falsa l'idea immediata o innata cartesiana; e d'altra parte, colla semplice intuizione nè meno si conosce nulla (l'intuizione è cieca), e però è falsa la percezione o l'idea lockiana. Adunque il conoscere è un immediato _sui generis_: un immediato che è immediatamente due immediati, una _mediazione_ immediata (originaria); una _unità_, che non risulta dagli elementi di cui consta come l'effetto dalla causa, e perciò non è _posteriore_ ad essi; e che nè meno produce essa i suoi elementi, come la causa produce l'effetto, e perciò non è _anteriore_ ad essi. _Posteriore_: i due elementi, presi per sè, non sono niente senza la loro unità — il conoscere, e perciò non possono produrla. _Anteriore_: il conoscere non è niente senza i due elementi, e perciò non può produrli. Il conoscere, adunque, non può essere nè semplicemente effetto o risultato, nè semplicemente causa o principio. Da una parte, il conoscere non può essere senza i due elementi; dunque, il conoscere è _risultato_. E d'altra parte, gli elementi non possono essere senza il conoscere; dunque, il conoscere è principio. Adunque, il conoscere — non essendo nè semplice risultato nè semplice causa — è insieme _risultato e causa_. Ma di che? Di _se stesso_. Esso è il risultato dei suoi elementi; e gli elementi sono l'effetto del conoscere. Adunque, il conoscere è l'effetto del suo effetto, cioè la causa di se stesso: _causa sui_[98]. Eccoci, come pare, ritornati a Cartesio e Spinoza. E pure non è vero, Cartesio dice: _Pensare è essere_. Qui l'essere è contenuto nel pensare, è l'_effetto_ del pensare; non è tutto il pensare, tutta la realtà del pensare, l'adequatezza del pensare, ma meno di quel che è il pensare; è, insomma, il pensare come _ens diminutum_. È un semplice _giudizio_, un giudizio immediato. — Il pensiero è, dunque, qui causa di un altro, più che di se stesso, cioè di se stesso come altro, e non come se stesso. Kant, al contrario, vuol dire: _Pensare_ (conoscere) _è essere_ (senso, intuizione); _essere è pensare_ (concetto); adunque, _pensare è pensare_. Pensare è essere Essere è pensare Pensare è pensare. _Conoscere è conoscere._ Qui non abbiamo più un giudizio, ma un sillogismo. Questo è il nuovo _Cogito ergo sum_, la _nuova unità_. Non è una unità _vuota_, A = A, _pensare è pensare_, come pare considerando solo l'ultimo giudizio. È una unità _piena, concreta_, perchè è il risultato di due mediazioni; il pensare (il _risultato_) a cui si ritorna, è l'attualità assoluta del pensare da cui si comincia. Questa unità non è, dunque, una semplice e monotona ripetizione di sè (A = A); non è l'Uno che produce l'Altro, e si degrada, si perde; ma è l'Unità che produce se stessa come Unità, come vera Unità. L'Unità qui è il prodursi come Unità; e perciò è produrre se stessa, _producendo i suoi opposti elementi e unendoli_. Questo è il vero _punto della unione_: il vero _unire e trarre il contrario_ INSIEME. Produrre se stesso, _producendo e riducendo_ i suoi proprii elementi opposti, è _svilupparsi_ (_spiegarsi_). L'unità kantiana — il _conoscere_ — il nuovo _Cogito_, è dunque l'_unità dello spirito_ di Vico, l'unità come _Sviluppo_ o _Spiegamento_: come _Processo_. Questa unità è ciò che Kant chiama _unità sintetica a priori, originaria_, della coscienza. In essa è la possibilità e il _vero_ significato del _giudizio sintetico a priori_. Kant vuol spiegare la conoscenza empirica, reale, concreta: la _esperienza_. Ora la spiegazione della conoscenza empirica non può essere la stessa conoscenza empirica; ciò non sarebbe una spiegazione. La spiegazione del conoscere empirico è il _puro_ conoscere: il conoscere, come dice Kant, _trascendentale_. Conoscere puro o trascendentale è il conoscere, che è la possibilità del conoscere; che è in fondo a ogni conoscere; il _concetto_ del conoscere, senza il quale il conoscere non sarebbe tale. Il _giudizio sintetico a priori_ è la possibilità di ogni giudizio, il giudizio come giudizio, il giudizio puro, trascendentale. Il giudizio puro, sintetico a priori, non è un dato giudizio, un giudizio empirico. Esso si fonda nella unità sintetica originaria; è (nel vero senso) questa stessa Unità, e come questa non consta di elementi empirici. Esso non è, come si crede, l'unità di due _concetti_, de' quali l'uno non è contenuto nell'altro. È l'unità della _intuizione_ e del _concetto_, del senso e dell'intelletto. Ed è l'unità, non di una _data_ intuizione e di un _dato_ concetto, ma della intuizione come intuizione e del concetto come concetto. Se il conoscere è la unità — quella tale unità già spiegata innanzi — del senso e dell'intelletto, spiegare il conoscere è spiegare questa unità: è far vedere come senso e intelletto fanno uno, cioè il conoscere: il senso come senso, come puro senso, e l'intelletto come intelletto, come puro intelletto: cioè intuizione pura, concetto puro. (Prima di Kant non si pensava alla intuizione _pura_, e nè meno al concetto _puro_ nel vero senso. — Gran merito di Kant è la scoperta del _puro_, specialmente della intuizione pura[99]). Ora la _intuizione pura_ è il _tempo_, e quindi lo _spazio_; il _concetto puro_ è la _categoria_. Quindi _Estetica_ e _Logica trascendentali, pure_. Adunque il problema è: Come è possibile l'unità del tempo e della _categoria_ (della intuizione pura e del concetto puro)? Tale è il significato della quistione: Come è possibile il giudizio sintetico a priori? È lo stesso che domandare: come è possibile il _conoscere_? Cioè: come è possibile quella _unità sintetica originaria_? L'Unità come _Sviluppo_? Infatti, non è già che _senso_ ed _intelletto_ siano dati così come opposti, come l'uno la negazione dell'altro, e si tratti di _unificarli_; nè che sia data la _Unità_, e si tratti semplicemente di _trarre gli opposti_. Si tratta invece della Unità che pone se stessa, ponendo e unendo gli opposti: della Unità come _Sviluppo_. Sviluppo; quindi in altri termini: come l'unità (il conoscere) si pone da prima come _senso_, per porsi poi come _intelletto_, cioè come vero conoscere? Intelletto (conoscere) è senso Senso è intelletto (conoscere). Intelletto (conoscere) è intelletto (conoscere). Questo è il problema: come l'intelligibile si fa sensibile, e il sensibile intelligibile, e perciò l'intelligibile, vero intelligibile? — Come l'intelligente si fa senziente, e il senziente intelligente, e perciò l'intelligente vero intelligente? — Come la pura idea si fa natura, e la natura spirito, e perciò lo spirito vero spirito? È il problema della creazione: il nuovo problema. È il problema dello spirito, che in Kant si presenta come problema del _conoscere_. La Critica di Kant è dunque _psicologismo_; ma psicologismo _trascendentale_. Il suo difetto, come si vedrà poi[100], è di non essere veramente trascendentale, di essere poco trascendentale. _B_) Il problema del _conoscere_ è il problema de' due nostri filosofi Galluppi e Rosmini. Tutti e due pigliano questo problema da Kant; e senza saperlo, forse, essi rispondono alla _esigenza_ di Vico. Come rispondono? Galluppi scrive una _Critica della conoscenza_[101], nella quale mostra grandissima erudizione e molto acume. Conosce assai bene la storia della filosofia da Cartesio a Kant: non così i greci e i tedeschi. Manca della conoscenza del fondamento e della corona dell'edifizio della storia della filosofia. Quindi non conosce _bene_ quel che conosce. Pare pretto empirista, un nuovo Locke, puro psicologista. Procede empiricamente, colla semplice osservazione; nega il _giudizio sintetico a priori_, e non intende il senso di questo problema, come l'ha bene inteso il Rosmini; pare insomma di tutt'altro _infetto_, che di kantismo. E con tuttociò è kantista; è kantista quasi senza saperlo, quasi suo malgrado, per una forza superiore alla sua volontà[102]. Egli dice: _sensibilità interna_ (la coscienza) e _sensibilità esterna_; e su questa doppia base che, come sensibilità, è una sola, edifica tutto l'edifizio del sapere, mediante l'intelletto _vuoto_, senza _forma_, e il volere. La sensibilità dà i materiali; l'intelletto e il volere fanno il resto. Così Galluppi dalla percezione sensibile si eleva gradatamente sino a Dio. E di Dio sa solo _che è_, ma non sa _cos'è_: l'Essere _supremo_. Così Galluppi pare lockiano: anche Locke comincia dal _senso_, che dà il materiale, lavora questo coll'_intelletto_ e col _volere_, che sono vuoti, senza _forma essenziale_, e riesce all'_astratto_ Essere supremo. Ma già, in primo luogo, il _volere_ di Galluppi non è perfettamente vuoto. Come volere _etico_, esso ha una _forma_, una _originalità_: quindi i così detti _giudizii sintetici a priori pratici_. Questi gli ammette. Essi scaturiscono dalla _potenza produttiva_ della ragione; dall'_unità sintetica_ dello spirito. In secondo luogo, è vero che noi ci eleviamo dalla percezione a Dio. Ma noi non potremmo elevarci a Dio e nè meno al concetto dell'_universo_ come tale, come _cosmo, ordine, sistema_, se lo spirito non creasse dal suo _proprio fondo_ alcune idee, cioè non fosse una _unità sintetica originaria_. Così, oltre alcune _idee semplici, identità, diversità_, etc., la stessa idea di _unità_ deriva, secondo Galluppi, dall'_unità sintetica_ dello spirito. In terzo luogo, egli chiama la coscienza in generale dell'Io e del Non-io (_me e fuor di me_), _sensibilità_; la quale afferra la sostanzialità dell'Io e del Non-io immediatamente, direttamente; e perciò è _senso_, non _giudizio_ (non intelletto); _ricettività_, non _spontaneità_. Galluppi non s'accorge che la sua _sensibilità_ è tale solo di nome, e che quella _sostanzialità_ dell'Io e del Non-io è tutt'altro che percezione sensibile, e non è altro che il contenuto _necessario e originario_ della coscienza di sè (Kant e Fichte), cioè il puro conoscere: quel conoscere, che Galluppi vuol appunto combattere col suo realismo fondato nella _percezione_. Infatti, Galluppi distingue tre cose: la _sensazione_, la _percezione della sensazione_ o la _coscienza_, e l'_oggetto della sensazione_. Egli dice: «la coscienza di qualunque sensazione è inseparabile dalla coscienza del me». Ciò è vero, ma questa coscienza, e in generale la coscienza, non è _senso interno_, e Galluppi stesso la distingue dalla sensazione come tale: essa è intelletto, o senso divenuto intelletto. Come va, dunque, che Galluppi chiama la _coscienza_ anche _sensibilità interna_? Ammesso che la _coscienza_ della sensazione sia inseparabile dalla _autocoscienza_, ne segue forse che la stessa sensazione come tale sia quest'autocoscienza? La sensazione come tale non è coscienza; cioè la coscienza non è _sensibilità_. Qui dunque Galluppi sbaglia, e si contradice. Si contradice, perchè, se la coscienza è la stessa sensibilità interna, coscienza e sensazione devono essere la stessa cosa. Se la sensazione è distinta dalla coscienza della sensazione, e la coscienza è sensibilità, cioè sensazione, dobbiamo avere una sensazione della sensazione. Ma la così detta sensazione della sensazione non è sensazione (è intelletto), e Galluppi sbaglia tenendola per tale. Ciò vuol dire, che il puro senso, la pura sensazione, non è l'Io; l'Io è essenzialmente un _a priori_; non è posto da altro, ma pone se stesso. Galluppi potrebbe derivare dalla sensazione come tale quello che egli chiama il sentimento della sensazione, cioè la coscienza? Oltre a ciò, Galluppi dice: «la sensazione è di sua natura _oggettiva_; è la percezione _immediata_ dell'oggetto, etc.». Ma quale sensazione? La sensazione come tale, ovvero la sensazione in quanto percepita, cioè la coscienza stessa della sensazione? Galluppi scambia la seconda colla prima e attribuisce alla prima ciò che è proprio solo della seconda, cioè non più della sensazione, ma della coscienza, dell'intelletto. Non è la sensazione come tale che percepisce l'oggetto (Rosmini ha ragione: la sensazione non ha oggetto, ma termine soltanto), ma sì la coscienza della sensazione: cioè la sensazione come _oggetto della coscienza_ (Galluppi stesso dice: l'oggetto della coscienza è la sensazione) diventa essa stessa l'_oggetto_ (l'oggetto reale). In altre parole, l'_oggettività_ non appartiene alla sensazione, ma all'_autocoscienza_. Se Galluppi avesse ben posto mente alla sua distinzione di sensazione e coscienza della sensazione, sarebbe entrato nella buona via; avrebbe attribuito l'oggettività non alla sensazione come tale, ma alla sensazione in quanto _intesa_. E il fatto curioso è, che l'oggettività ch'egli vuol vendicare alla sensazione non è altro che l'oggettività in generale, quella appunto che consiste nell'autocoscienza; ciò ch'egli chiama il _fuor di me_ non è altro che il Non-io in generale, non è l'_esteso_, non è il _corpo_, etc. Ma se si tratta di ciò, perchè combattere quelli che parlano di oggettività _reale_ e la provano col ragionamento? Galluppi dicendo: la sensazione è la _percezione immediata dell'oggetto_, — ha ragione se per sensazione si intende la coscienza, e per oggetto l'oggettività in generale, il _Non-io_ come tale; giacchè nell'autocoscienza l'Io e il Non-io sono posti immediatamente; il ragionamento fondato nel principio di _causa_, di _ragione sufficiente_, etc., non ci entra. Quelli che Galluppi vuol confutare, perchè non attribuiscono alla sensazione l'oggettività, parlano di oggettività _reale_, ed hanno ragione; giacchè, se è vero, che senza la sensazione non si ha l'_oggetto reale_, senza l'intelletto non solo non si ha l'_oggetto_, ma senza l'intelletto stesso come ragionamento dalla _causa_, ecc., non si ha l'oggetto _reale_, un Non-io _reale_. Gioberti critica così Galluppi: «Il concetto di corpo inchiude due elementi, la sostanza intima o forza, e le proprietà o modificazioni. La _sensazione_ del Galluppi ci porge il secondo elemento, che consiste nei sensibili, ma non il primo, che è schiettamente intelligibile»[103]. Questa critica vale contro la sensazione in generale, ma non contro la sensazione del Galluppi; giacchè quella che il Galluppi chiama impropriamente _sensazione_ ci porge il semplice _fuor di me_ (il non-Io in generale), cioè un elemento intellettivo, e non già un elemento sensibile[104]. Adunque Galluppi pone, o meglio presuppone l'_unità sintetica originaria_, la _nuova unità_. Questa è il suo _Deus ex machina_, a cui egli ricorre ne' casi difficili. Ma non se ne avvede; non la comprende. È kantista suo malgrado, ripeto, e quasi senza saperlo. Ei pone la _unità nuova_ nella forma immediata, cioè come _sensibilità_. E non è Locke; non è l'antico empirista, ma il nuovo. Questo empirismo, che contiene in sè la nuova unità, è la negazione dell'empirismo astratto. Rosmini è kantista con maggior coscienza. Anzi crede di esser più kantista di Kant. A udirlo, il giudizio sintetico _a priori_ l'ha scoperto lui, non Kant; quel di Kant è un giudizio posticcio. Ciò si vedrà nella lezione seguente. LEZIONE OTTAVA. ANTONIO ROSMINI. SOMMARIO. _A_) Difetto di Kant, e sviluppo del kantismo in Alemagna — _B_) Galluppi e Rosmini; L'Ente; il puro conoscere; unità sintetica originaria; passaggio a Gioberti. Rosmini, e, come abbiamo visto, lo stesso Galluppi, non s'intende bene senza Kant. Kant compendia in sè tutto il pensiero europeo anteriore; il nuovo pensiero comincia da lui. Vediamo come questo pensiero si sia esplicato in Alemagna; poi come sia stato compreso in Italia. La prima posizione dà lume alla seconda. _A_) Il nuovo problema della filosofia è il problema del _conoscere_. Il conoscere nella sua realtà, il conoscere reale, è la notizia del mondo oggettivo; in generale, la _esperienza_. Quel problema è, dunque, lo stesso che questo: come è possibile l'esperienza? La esperienza[105], il conoscere reale, è un _fatto_ che consta di due elementi: l'intuizione e il concetto, il senso e l'intelletto. Essa non è nè il semplice senso senza l'intelletto, nè il semplice intelletto senza il senso. Semplice senso e semplice intelletto non sono il _fatto_, il conoscere reale, ma due _astratti_: non il conoscere reale, ma le semplici potenze del _conoscere_. Spiegare l'esperienza, il conoscere reale, è adunque spiegare la _unità_ della intuizione e del concetto, del senso e dell'intelletto: la unità come _fatto_, il fatto della unità. Questa spiegazione non può essere essa stessa un fatto, una esperienza, un conoscere reale, empirico: se fosse un _fatto_, una esperienza, avrebbe bisogno di essere spiegata, e perciò non sarebbe una spiegazione. La spiegazione del conoscere, non potendo essere il _fatto_ stesso del conoscere, deve essere l'_idea_ (essenza, possibilità reale) del conoscere: il _puro_ conoscere, il conoscere _trascendentale_. Sino a Kant i filosofi non aveano compreso il problema del conoscere; non l'aveano posto, come dovea esser posto. Aveano preso per il conoscere un elemento del conoscere, non il _fatto_ del conoscere; e questo elemento, preso per il fatto del conoscere, per tutto il conoscere, questo fatto falso, cioè monco, valeva per la stessa spiegazione del conoscere. L'_intellettualismo_ piglia per conoscere il semplice pensare (il concetto), e questo fatto, questo _dato_ immediato, è per esso la spiegazione del fatto. L'_empirismo_ piglia per il conoscere il semplice _percepire_, e questo fatto è per esso la spiegazione del fatto. _Pensare, percepire, conoscere_ non sono la semplice _realtà_, ma la realtà _cosciente_, la realtà come _psiche_: la _Psiche_. Così tutta la filosofia moderna da Cartesio sino a Kant, in quanto le sue stazioni e quindi i suoi problemi sono il pensare, il percepire, il conoscere, — in quanto il suo universale problema è la Psiche, — si può dire _psicologismo_. Ma l'intellettualismo e l'empirismo sono psicologismo immediato, imperfetto, falso; e ciò per due ragioni: 1.º perchè pigliano per la psiche (per la _realtà cosciente_) un fatto monco, e quindi falso; 2.º perchè pigliano questo fatto stesso come spiegazione del fatto, di tutto il fatto. Kant, all'opposto, studia il _fatto_ (la psiche) nella sua integrità, come conoscere; e cerca la spiegazione del _fatto_ non in un fatto, ma in ciò che _trascende_ il fatto, e che per ciò è la spiegazione del fatto. La spiegazione del conoscere è il _puro_ conoscere. Con Kant comincia dunque il vero e nuovo psicologismo, il _psicologismo trascendentale_. Confondere i due psicologismi, e chiamare Kant psicologista come i cartesiani e i wolfiani, è non conoscere la profonda differenza che corre tra quello e questi. Il _puro_ conoscere e quella _nuova unità_ (il nuovo pensiero, il _nuovo Cogito_[106]) che è il puro conoscere, non è il conoscere e la unità come fatto, come esperienza, ma il conoscere e l'unità come _fare, farsi, fare se stesso_. Il _fare o farsi trascende il fatto_: è la ragione, l'idea, la spiegazione del fatto. Il _fatto_, preso così per sè, senza il _fare_, è come il corpo senz'anima. Ora il _conoscere_ (la realtà _cosciente_, la Psiche) è tal fatto, che il _fare_ o _farsi_ non può essere semplice _fare_ o _causare_, ma _fare_ che è _Sviluppo_. Aver visto ciò — sebbene non _chiaramente_, come mostrerò più innanzi —, tale è il gran merito di Kant. Cartesio e Locke non aveano ben compreso il _fare_, che è la Psiche. Cartesio l'avea compreso come semplice _causare_, come attività immediata, come qualcosa d'_innato_ (di naturale); Locke come il _fare_ di _altro_, e perciò come semplice _effetto_ (risultato della impressione degli oggetti). Kant, invece, concepisce la Psiche — il conoscere — nè come _fare_ che è semplice _causa_, nè come fare che è fare di _altro_ o semplice effetto: ma come _causa e effetto_ insieme di altro, e perciò causa vera di se stessa: come _Sviluppo_. Cartesio avea detto semplicemente: _pensare è essere_; Locke: essere è pensare. Kant dice: Pensare (intuizione, immaginazione, concetto) è Pensare[107]. La Psiche, la realtà _cosciente_, il _Cogito ergo sum_, non più come giudizio, ma come _sillogismo_: tale è il significato dell'_unità sintetica a priori_; di quella unità che è il puro conoscere, e perciò la spiegazione del conoscere. Questa unità sintetica originaria, che è in sè Sviluppo, è il _fatto_ del conoscere come fare. Ma Kant non comprese bene questo fare che è _Sviluppo_, cioè la sua stessa _unità sintetica originaria_, e perciò non comprese bene la Psiche, la _realtà cosciente_. La chiara intelligenza di questa Unità e perciò la soluzione del problema della Psiche, è il cómpito de' filosofi posteriori. Questi filosofi sono il _vero_ Kant. Kant comprese questa unità — che in sè non è nè semplice intelletto nè semplice senso, nè il loro semplice risultato, ma sempre tutta se stessa, cioè spirito, intelletto, pensiero, che si fa senso, e come senso si fa intelletto, e perciò vero e reale intelletto (_coscienza_, cioè coscienza di sè, che si fa coscienza di altro, e come coscienza di altro si fa coscienza di sè, e perciò vera coscienza di sè); — Kant comprese questa _Unità_ come uno de' suoi opposti, come semplice _Io penso_, come semplice intelletto, come semplice _categoria_; o, meglio, separò di nuovo l'intelletto e il senso, la categoria e l'intuizione, e fece consistere l'_unità_, il conoscere, nell'applicazione — direi quasi esterna — della categoria all'intuizione. Così comprese la unità — il conoscere — come semplice _risultato_: come risultato di questa applicazione. Ovvero, se la comprese come _principio_, la identificò come principio colla semplice categoria, quale attività _unificatrice_ del vario della intuizione dato fuori della unità stessa e non prodotto da essa. L'unità kantiana non era, dunque, ciò che esigeva il suo stesso concetto, cioè _assolutamente fare_ (Sviluppo); ma _parzialmente fare_, cioè ancora un _fatto_. Era _fare_, in quanto l'_Io penso_, la categoria, come attività _unificatrice_, movendo da sè, cioè spontaneamente, _apprendeva_ il molteplice della intuizione e lo riduceva a se stesso: se lo assimilava, lo faceva suo, cioè _uno_, e così era movimento da sè a sè, relazione verso se stesso. Era _fatto_, in quanto l'_Io penso_, la categoria come attività unificatrice, non era la unità sintetica originaria che produce se stessa, ma solo un elemento di questa attività, come un _dato_, e quindi un _presupposto_; e il molteplice della intuizione similmente non era il prodotto della unità originaria sintetica, ma anche un _dato_, fuori dell'unità unificatrice, cioè dell'intelletto, e quindi anche un presupposto. Così senso e intelletto, intuizione e concetto sono nel kantismo di nuovo separati, e accade qui quello stesso che abbiamo osservato della Unità cartesiana: _pensare è essere_. Pensare ed essere, appunto perchè immediatamente _uno_, non erano veramente _uno_; si separavano, e si avea il pensare come pensare, e il pensare come essere (il concetto e la percezione). Ma la categoria e la intuizione kantiana non sono più il concetto e la percezione, quali risultano dal principio di Cartesio; sono altro di più, appunto perchè l'unità kantiana è altro, in sè, più che la cartesiana. Quel concetto e quella percezione conservavano in sè la loro unità originaria, cioè il pensare come unità _immediata_ del pensare e dell'essere, e perciò si distinguevano dal concetto e dalla percezione _antica_; erano due modi del pensare come semplice _immediatezza_. All'opposto la categoria e la intuizione kantiana, appunto perchè conservano l'unità loro originaria, manifestano, così come possono nella loro separazione, questa unità: giacchè la categoria non è pura _immediatezza_, ma unità che funziona come unità, cioè _unifica_, e così è relazione verso se stessa; e la intuizione come tale, la pura intuizione, è anche a suo modo tale unità, cioè relazione, in quanto è tempo e spazio. Categoria e intuizione sono _due attività_ sintetiche originarie a priori, come l'unità sintetica originaria, da cui devono rampollare. Ora questo difetto di Kant è notato e posto in chiaro da Fichte. Kant avea detto: senza il _puro_ conoscere, il conoscere è impossibile, e gli elementi del puro conoscere sono la categoria o il concetto puro e la pura intuizione; questi elementi _formano_ ogni conoscenza. Fichte, rinnovando e comprendendo meglio il concetto della Unità sintetica originaria della coscienza, dice: «Senza questa unità come produzione di se stessa non si ha il conoscere, e quindi nè meno gli elementi del conoscere. Questa unità, come _posizione di se stessa_, è l'_Io_, la coscienza di sè, l'_autocoscienza_. Adunque, così la categoria come la intuizione sono impossibili senza un'_autocoscienza_ che le produca (producendo se stessa). Ora non è possibile un'autocoscienza — un'autocoscienza produttiva — siffattamente produttiva — se non è assoluta»[108]. Così per Fichte l'Autocoscienza è _assolutamente fare_ (_Thathandlung_); la Psiche kantiana è semplice _coscienza_. Ma, continua Schelling, questa _assolutezza_ dell'autocoscienza è impossibile, se lo _spirito_ e la _natura_ non sono identici. Questa _identità_ — la Ragione — conclude finalmente Hegel, non può esser _saputa_, se l'universale e assoluto Principio non è la _Ragione conscia di sè_, cioè lo spirito. Tale è il processo necessario del pensiero da Kant ad Hegel. L'Unità kantiana, — posta come semplice _coscienza_, poi come _Autocoscienza_, poi come _Ragione_, — diventa finalmente _assoluto Sapere_. _B_) Questo processo, sebbene non nella sua integrità, ma con una certa fretta e a salti, si ripete nella filosofia italiana: almeno il risultato, se ben si considera, è, quanto all'essenza, lo stesso. Abbiamo visto che Galluppi è kantista suo malgrado, e sino a qual punto. Egli nega il puro conoscere, il conoscere trascendentale, la categoria e la pura intuizione, il giudizio sintetico a priori: e nondimeno ammette una certa spontaneità dello spirito, la sua _unità sintetica_, la quale produce per sè appunto le categorie. Pare che faccia consistere il conoscere, come notizia così dell'Io come del Non-io, come coscienza, come prima esperienza o primo sapere, in un lato solo del conoscere, nella _sensibilità_, senza l'_intelletto_; e che per lui questo sia una attività puramente analitica e combinatrice (_analisi e sintesi_ del Galluppi: sintesi come _ricomposizione_ di ciò che l'analisi ha separato, e non già come sintesi originaria). E pure la sua sensibilità nella duplice forma di interna ed esterna come _coscienza della sensazione_ e come _oggetto della sensazione_, come percezione immediata del _me_ e del _fuor di me_, non è altro che la forma stessa della coscienza: «l'Io si sa in quanto si distingue dal Non-io, e sa il Non-io in quanto lo distingue dall'Io ». _Pura forma_: puro Io, puro Non-io. Essa non è sensibilità come un lato del conoscere senza l'intelletto; ma è il _conoscere_ come primo conoscere, come conoscere o _certezza sensibile_, come primo o immediato _giudizio_, come _prima coscienza_. _Coscienza_ è essenzialmente _giudizio_. — Il difetto di Galluppi è di confondere la _conoscenza sensibile_ colla semplice _sensibilità_; il non accorgersi che la sua sensibilità non è semplice sensibilità, ma _coscienza_ (intelletto) sensibile. In Galluppi, dunque, vi ha un equivoco. Questo equivoco cessa in Rosmini. Galluppi è Kant non inteso bene, inteso a metà; è, dirò così, Kant visto coll'occhio di Locke. Rosmini è, generalmente, Kant inteso bene: non il _vero_ Kant, il Kant quale si compie ne' filosofi posteriori, ma il Kant come ha inteso o franteso se stesso. Dico generalmente: perchè, come si vedrà, vi ha qualcosa in Rosmini, che è da meno di Kant, dello stesso Kant imperfetto. La percezione immediata, — la _sensibilità_ del Galluppi, — si manifesta nel Rosmini quel che veramente è, cioè non sensibilità, semplice percezione sensibile o un lato solo del conoscere, ma _percezione intellettiva_, cioè _giudizio_. Rosmini dice come Kant, e citando Kant: Pensare, intendere, conoscere, coscienza è _giudicare_; senza giudizio non si ha _conoscenza_. Spiegare il conoscere è dunque vedere come sia possibile il giudicare. Ora la considerazione del giudizio ci presenta questa grave difficoltà: da una parte il giudicare è impossibile senza un _concetto_, un'_idea generale_ (l'intelletto), e d'altra parte il concetto non è possibile senza il giudizio, giacchè non può essere in generale che il risultato del giudizio. Come si risolve questa difficoltà? Non si può risolvere altrimenti che coll'ammettere un concetto, il primo concetto, che non sia il risultato di nessun giudizio, ma sia, invece, anteriore a ogni giudizio, e quindi la possibilità di ogni giudizio. Questo concetto è l'Ente, l'idea dell'Ente, dell'Ente come semplice Ente, cioè come puramente possibile, comunissimo, indeterminato. Esso non è il risultato del giudizio, ma anteriore ad ogni giudizio, perchè ogni giudizio lo presuppone. Come anteriore ad ogni giudizio e perciò ad ogni conoscere, esso non è conoscere, non è _fatto_, non _esperienza_, ma qualche cosa che _trascende il fatto_, l'esperienza, il reale conoscere; cioè, come dice Rosmini, un'_idea innata_, l'_unica_ idea innata. Così esso è la _forma_ dell'intelletto, quel che fa Intelletto l'intelletto, la _possibilità_ dell'intelletto e quindi del conoscere. Si vede che Rosmini ammette come Kant il _puro_ conoscere, il conoscere trascendentale; giacchè la sua _idea dell'Ente_, il suo _oggetto ideale_, il suo _conoscere intuitivo_ così, senz'Io, senza coscienza, non è altro che il _puro_ conoscere. È noto, che con questa _unica idea_, che è tutto l'_intelletto_, e presupposto il senso come _compagno_ indivisibile dell'intelletto, il Rosmini si fa a spiegare o a fabbricare la conoscenza. Egli conserva la distinzione kantiana di _forma_ e _materia_ del conoscere, e ammette che il conoscere reale sia l'_unità_ di questi due elementi. Ma, dove Kant distingue anche una _pura materia_ del conoscere (tempo e spazio), la _intuizione pura_, e mostra che il _puro conoscere_, la _possibilità del conoscere_, è — e non può non essere — l'unità del _puro concetto_ e della _pura intuizione_, della pura forma e della pura materia; il Rosmini, invece, fa consistere il puro conoscere unicamente nella sua _unica forma intellettiva_, nella pura idea dell'Ente, negando ogni intuizione pura, ogni _forma_ nel senso. Così egli annulla — o almeno pare così a prima vista — quella _unità_ del conoscere, che è _unità sintetica originaria_, e la riduce a una semplice _unità analitica_, a un semplice elemento del conoscere. E dove Kant, concependo l'unità del conoscere come unità sintetica originaria, considera i concetti o le categorie come _diverse funzioni_ di questa Unità (e per essere _conseguente_, dovrebbe considerare come _prodotti_ di questa stessa Unità così le categorie come anche le forme della pura intuizione: Fichte); il Rosmini, invece, ammettendo solo quella unica prima categoria dell'Ente, vuotando (almeno così pare) l'Unità sintetica originaria kantiana e riducendola a un quasi nulla, trasporta nel _senso_ tutta la ricchezza dello intelletto, tutte le categorie, e fa derivare questa ricchezza dalla combinazione di quella unica idea colla materia del senso stesso. Kant avrebbe dovuto derivare le categorie, e in generale la _forma_ del conoscere, il puro conoscere, dalla unità sintetica originaria (dall'autocoscienza: Fichte); e invece _falsa_ quella unità, la pone come unità analitica, come _Io penso_, e nel tempo stesso presuppone come sue funzioni, come suoi strumenti, le categorie. Rosmini comprende, come Fichte, la necessità di dedurre le categorie dalla Unità intellettiva; ma poi intende questo problema alla maniera di Locke, ricade nell'empirismo anteriore a Kant, piglia da una parte la sua vuota unità, l'intelletto, e dall'altra il senso; porta in giro quella — la sua unica forma — e l'applica a tutta la materia, a tutta la ricchezza che ha trasportato nell'affezione sensibile; e questa applicazione chiama _origine delle idee_, cioè delle categorie e delle stesse forme dell'intuizione. Non si avvede, che così facendo egli non deriva le categorie nè dalla sua _unità vuota_, nè dalla _materia_ del senso, ma le trova in questa mediante quella, perchè ce le ha già presupposte. Così il psicologismo del Rosmini, che è trascendentale in quanto ammette il puro conoscere come Ente possibile, come puro essere, torna ad essere psicologismo volgare, in quanto tutta la ricchezza del puro conoscere, tutte le categorie sono trasportate nel senso. Esso sarebbe psicologismo assolutamente e pienamente trascendentale, se avesse saputo derivare da quella idea del puro essere tutte le categorie. Ma Rosmini stesso dice, come ho già osservato in un mio scritto[109], e come si vedrà più chiaro in un altro mio lavoro[110], che questa derivazione, possibile in sè, è impossibile rispetto a noi, intelligenze finite. Quella applicazione dell'idea dell'Ente alla materia del senso è in generale il _giudizio sintetico a priori_ rosminiano. Questo giudizio è l'unità del concetto originario, puro, e della intuizione sensibile. Il Rosmini critica Kant di aver fatto consistere un tal giudizio nella unità di due concetti: e non si avvede che egli dice quello stesso che dice Kant, cioè unità di concetto e intuizione, e che Kant avea detto molto tempo prima di lui. Così Rosmini è kantista. Egli si crede più kantista di Kant, il vero Kant, perchè ha dinanzi agli occhi un _falso_ Kant. Paragonando se stesso con questo sconcio simulacro, ha ragione di credersi la persona viva, Kant in persona. E il Rosmini è Kant non solo ne' pregi, ma anche ne' difetti; ed ha più difetti di Kant. Infatti quell'applicazione del concetto puro all'intuizione è nel Rosmini, come in Kant, una faccenda tutta _meccanica_: qua il senso o l'intuizione, là l'intelletto o la categoria: adatta questa a quella, ed ecco il _giudizio sintetico a priori_. Ora come va questa applicazione? Questo è il difficile. In Kant, se non altro, il concetto puro si applica alla intuizione, in quanto già predetermina la intuizione come pura intuizione. Nel Rosmini, all'opposto, tolta di mezzo la pura intuizione, ogni applicazione è impossibile: tra il concetto puro, e la intuizione sensibile manca, come si suol dire, il ponte di passo[111]. Questo _ponte_, il vero ponte, è la stessa _unità sintetica originaria_. Intesa bene, essa non è semplice _passare_ dall'intelletto al senso, senso ed intelletto essendo già dati. Ma è l'Unità che pone gli opposti, e ponendo gli opposti gli unifica e così pone se stessa. È l'Uno che si dualizza, e dualizzandosi si unizza. Kant chiama quel _passare_, quella predeterminazione del senso mediante l'intelletto, _immaginazione trascendentale_. Nel Rosmini vi è anche qualcosa di simile. «Nel nostro _fondamental sentimento_ esistono tutte queste potenze avanti la loro espressione, cioè la sensitività e l'intelletto. Questo sentimento _intimo_ e perfettamente _uno_ unisce la sensitività e l'intelletto. Egli ha altresì un'attività, quasi direi una _vista spirituale_, colla quale ne vede il _rapporto_; questa attività è ciò che costituisce la _sintesi primitiva_. Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dalla _unità intima del sentimento fondamentale_, in quanto cioè l'Io è atto a vedere i rapporti in generale, ella è la _ragione_. E se la riguardiamo sotto il rispetto della unione che ella fa d'un predicato con un soggetto, ella prende il nome di _facoltà di giudicare_. La _sintesi primitiva_ è quel giudizio col quale la ragione acquista la _percezione intellettiva_»[112]. La possibilità dell'applicazione dell'intelletto al senso è, dunque, questa _unità sintetica originaria, fondamentale_. Questa è la stessa unità sintetica originaria kantiana. Ma, come Kant non fa vero conto della sua unità e riduce il conoscere a una semplice applicazione estrinseca d'una cosa a un'altra, così fa Rosmini della sua. Insomma, così in Kant come nel Rosmini ci è il concetto della _Unità dello spirito_ (Unità sintetica originaria, Sviluppo); ma questo concetto è ancora _oscuro_, incompreso. La chiarezza del concetto di Kant è la filosofia alemanna posteriore a Kant; è una genesi chiara, graduale, conseguente. La chiarezza, in Italia, del concetto rosminiano è, dirò così, un'apparizione subitanea, una _esplosione_. E perciò non è vera chiarezza. Kant avea ridotto il _puro_ conoscere all'_Io penso_, alla Unità come semplice unità analitica. Quindi il conoscere o il giudizio volea dire: semplice _unione_ di due opposti, e non già unità che si _giudica_, cioè si pone come due opposti, si dualizza. Rosmini riduce il puro conoscere, il conoscere _intuitivo_, la possibilità del conoscere, al puro concetto dell'Ente, all'Ente possibile, immobile, morto, indeterminato. E il conoscere è anche _unione_ di due opposti già dati, e non la unità che _si giudica_ da sè. Gioberti dice: il puro conoscere, la possibilità del conoscere, il conoscere intuitivo, originario, l'_intuito_ insomma, non è la pura categoria, il puro Ente possibile, indeterminato, la idea vuota, il _minimum_ dell'idea; ma è la totalità perfetta ed unica di tutte quante le categorie, l'Ente reale e determinatissimo, l'idea nella sua assoluta pienezza, il _maximum_ dell'Idea, cioè l'Idea come atto creativo. Gioberti compie Rosmini, come Fichte, Schelling ed Hegel compiono Kant. L'oscurità di Gioberti, la meraviglia e lo stupore che destò la sua apparizione nel mondo del nostro pensiero, nasce da questo: che egli è tutto insieme, — e perciò un po' confusamente, senza il processo graduale necessario, e, se devo dire quel che sento, con un po'di abborracciatura, — Fichte, Schelling ed Hegel. Quando egli dice _mentalità_, cioè _coscienza di sè_, egli è Fichte. Quando dice _idea_ o _ragione_, egli è Schelling. Quando dice: _idea o ragione conscia di se stessa_ come principio assoluto universale, egli è Hegel. Gioberti rappresenta dunque la vera _Unità dello spirito_, il vero concetto dello Sviluppo, la vera ed assoluta Psiche: una attività che come due attività è _una_ attività, un Ciclo che come due cicli è un unico ciclo. Tale è il vero ed assoluto Spirito: il Creatore. Così, e solo così, il psicologismo di Gioberti è psicologismo assolutamente trascendentale, cioè il vero ontologismo[113], e, direi io, il vero spiritualismo. La spiegazione della Psiche è la Psiche assoluta. LEZIONE NONA. VINCENZO GIOBERTI. SOMMARIO. Coincidenza di Hegel e Gioberti — Critica della filosofia di Gioberti. — _Parte prima_: Teorica del conoscere. — A) Elementi del conoscere. — B) Il conoscere assoluto. — _Parte seconda_: Il sistema. La soluzione del problema del conoscere — della realtà cosciente, della Psiche — consiste nel _puro_ conoscere. La differenza tra il conoscere — il _fatto_ del conoscere — e il _puro_ conoscere è stata esposta nella lezione antecedente. I _momenti storici_ del puro conoscere sono in Alemagna la Coscienza, l'Autocoscienza, la Ragione e lo Spirito, cioè Kant, Fichte, Schelling ed Hegel[114]. In Italia sono la Sensibilità di Galluppi, l'Ente possibile di Rosmini, e l'Ente assolutamente reale o creatore di Gioberti. Gioberti compendia in sè i momenti anteriori, cioè Galluppi e Rosmini, come Hegel compendia Kant, Fichte e Schelling; anzi — giacchè i momenti anteriori al puro conoscere, il cartesianismo e il lochismo, la chiarezza di Bruno, e ora posso dire di tutti i filosofi nostri del Risorgimento, di Campanella, di Telesio, di Cesalpino, di Cremonini, di Zabarella, non si erano spiegati originalmente in Italia, — Gioberti li compendia o meglio riproduce, confusamente e spesso come soltanto coesistenti coi nuovi momenti, coi momenti del puro conoscere. Così l'_intuito_ è in sè il puro conoscere, il conoscere assolutamente puro, la possibilità assoluta del conoscere; non è un _fatto_, ma fare assolutamente. E pure Gioberti (e più di lui i giobertiani) lo pigliano spesso per _fatto_, per il fatto stesso del conoscere, come una vera intuizione innata originaria dell'Ente creante, come una _conoscenza_ immediata naturale, come idea innata; nello stesso modo che Cartesio pigliava il suo _pensiero_. Così Gioberti è cartesiano, vecchio cartesiano, quando meno sel crede. Quindi accade, che l'Ente, in quanto afferrato _effettivamente_ dall'intuito immediato, è determinato a modo di Spinoza — e non può essere diversamente — come semplice _Sostanza-causa_; e quindi l'accusa di spinozismo contro Gioberti da coloro che non vedono che un lato solo del suo pensiero. Si è paragonato Gioberti a Schelling. Il paragone è giusto, se l'intuito non si considera come _innato_, ma come una subitanea elevazione della coscienza volgare al cielo della scienza. L'intuito o il conoscere puro giobertiano — come intuito dell'Ente creante — è in sè tutto il conoscibile; giacchè fuori dell'Ente creante non vi ha nulla, e l'Ente creante vuol dire tutto il conoscibile. Perciò l'intuito è in sè assoluto conoscere o sapere, cioè quel sapere in cui tutto è chiaro; in cui tutta la realtà è sapere, tutta sapere: trasparenza o _specchialità assoluta_, come dice lo stesso Gioberti. Tali non sono i semplici _momenti_ del puro conoscere. La _sensibilità_ del Galluppi è il conoscere solo come esperienza, come semplice coscienza: l'universo, l'anima, Dio sono una regione perfettamente oscura. E semplice coscienza è il conoscere kantiano e rosminiano. Il conoscere fichtiano è semplice mentalità o soggettività; e la natura o il non-io è oscuro. Il conoscere schellinghiano è semplice ragione o idealità oggettiva, e non già idealità oggettiva come mente o coscienza di sè. Solo il conoscere hegeliano e giobertiano — come la ragione o la idealità oggettiva conscia di se stessa, come spirito — è trasparenza o chiarezza assoluta. Il risultato di tutte queste lezioni — di questa breve storia del pensiero italiano e insieme del pensiero europeo — è, adunque, questo punto comune: il conoscere come assoluta chiarezza. Tale è il pensare puro di Hegel; tale è l'intuito di Gioberti. Pensare puro e intuito vuol dire: la realtà assolutamente chiara, assolutamente trasparente; cioè assolutamente conosciuta. Pensare puro e intuito è dunque l'orizzonte o il cielo della Verità: il vero cielo della Scienza. A questo cielo noi ci siamo elevati mediante la storia; il puro conoscere non è altro qui per noi che il risultato del processo storico. E perciò, al far de' conti, non è un risultato _scientifico_, ma un semplice _fatto_, che nasce necessariamente da altri fatti; e il primo fatto è la _posizione_ cartesiana. Si sa, che la coscienza storica in generale non è ancora la coscienza scientifica; il mondo de' semplici fatti non è il cielo della scienza, il cielo della verità. Perchè dunque il puro conoscere sia quel che ha da essere, cioè _scienza_ e non semplice fatto, bisogna che apparisca come risultato del processo della coscienza stessa e in se stessa, e non già del semplice processo storico. Il conoscere assolutamente puro deve essere dimostrato — nella coscienza stessa — come la _possibilità_ assoluta della coscienza: come la stessa possibilità del conoscere. Questa dimostrazione del conoscere è la vera _Teorica del conoscere_. Ma questo puro conoscere, come risultato della teorica del conoscere, appunto perchè è semplice intuito o pura possibilità assoluta del conoscere, non è ancora _attuale_ puro conoscere; è la potenzialità della scienza, e non già la scienza, ossia tutta la scienza: è _intuito_, non _riflessione in se stesso_: semplice _orizzonte_ o _prospetto_, non ancora _mondo_ o _sistema_ della Verità. Esso è scienza solo come potenzialità del puro conoscere, come risultato del movimento dialettico della coscienza. Il puro conoscere deve, dunque, diventare puro attuale conoscere: _attuale_, senza cessare di esser _puro_. Non deve ridiventare quella _realtà_ del conoscere, che esso ha già superata; quel _reale_ conoscere, dal quale la coscienza si è già elevata al puro conoscere; un qualche grado del conoscere come coscienza, o autocoscienza, o ragione, ma una _nuova_ realtà del conoscere, la _realtà vera_ del puro conoscere. In altri termini, il puro conoscere deve di nuovo diventare un _fatto_: non il fatto di prima, ma il fatto che è l'_atto stesso cosciente_ del puro conoscere. Questo fatto, che è assolutamente atto cosciente puro, è la Scienza come Sistema. Adunque, il punto, a cui siamo giunti, esige due cose: 1. Teorica del conoscere. 2. Sistema della Scienza. Io considererò Gioberti da questi due lati. PARTE PRIMA — TEORIA DEL CONOSCERE. A) _Elementi del conoscere_. I momenti di questa teorica del conoscere sono l'_intuito_, la _riflessione_ (psicologica e ontologica), la _parola_, la _sovrintelligenza_. L'_intuito_ è l'apprensione immediata, originaria, immanente dell'Idea, e perciò il fondamento d'ogni sapere; senza di esso non sarebbe possibile la cognizione. Ma l'Idea è immensa, universale, infinita; non vi ha nessuna proporzione tra lo spirito finito e l'oggetto ideale. Quindi nell'intuito primo la conoscenza è vaga, indeterminata, confusa; lo spirito non può fermarla, appropriarsela veramente e averne distinta coscienza. La distinzione, e quindi la coscienza, così di se stesso, come dell'oggetto, comincia solo colla _riflessione_; la quale, se è semplice ripiegamento dello spirito sopra se stesso, è meramente _psicologica_; se è anche ripiegamento sopra l'oggetto, è _ontologica_. Alle due specie di riflessione corrispondono due metodi: il _psicologismo_ e l'_ontologismo_. Solo quest'ultimo è il vero metodo filosofico, perchè riproduce nella sua integrità l'organismo ideale. Ma lo spirito, come riflessione ontologica, non può ripiegarsi sopra l'Idea, se questa non è espressa sensibilmente, cioè circoscritta, limitata, e accomodata alla capacità finita di esso spirito. Questa espressione sensibile dell'Idea è la parola. Senza la parola, lo spirito non sarebbe altro che _intuire_, cioè apprendere confusamente l'Idea; vedrebbe tutto e non vedrebbe niente, e al più potrebbe ripensare l'intuito stesso come atto meramente soggettivo; ma non _saprebbe_ veramente mai nulla nè di Dio, nè della sua propria essenza, nè di quella delle cose. Ora la essenza di Dio e delle cose, appresa immediatamente e perciò confusamente dall'intuito e conosciuta distintamente col sussidio della parola, e mediante il discorso della riflessione, non è la Verità assoluta, cioè la vera essenza. L'Idea, che è l'oggetto immanente ed eterno della conoscenza, ha due lati; l'uno chiaro e l'altro oscuro. Diciamo due lati per rispetto all'intelletto umano, e non per rispetto all'Idea stessa, la quale come una e semplicissima è indivisibile, e non ammette distinzione d'intelligibile e di non intelligibile. Ella è l'intelligibilità stessa. La distinzione nasce dalla incapacità dell'intelletto umano di afferrare una parte dell'Idea, la parte più riposta ed intima; la quale si può chiamare essenza reale per non confonderla con quella che viene appresa dall'intelletto, e può avere il nome di _razionale_. Così abbiamo nella nostra facoltà di conoscere una doppia imperfezione: l'una intensiva e l'altra estensiva; la prima è come un panno sottilissimo che adombra tutta la pupilla, ma per la sua trasparenza non toglie interamente il beneficio della visione; la seconda è come una piccola maglia che vela solo una parte della pupilla, ma produce su tal punto un'oscurità assoluta; è un'ecclissi mentale, in cui il corpo frapposto tra l'occhio e il sole è nell'occhio stesso. Questa oscurità assoluta è il _sovrintelligibile_, e la facoltà che ce ne suggerisce l'esistenza è la _sovrintelligenza_. Ora la parola, che serve ad emendare la prima imperfezione, ci aiuta a scemare in certo modo anche la seconda. Con ciò non si vuol dire che essa possa esprimere adequatamente il lato oscuro dell'Idea; ma può bene rappresentarcelo più o meno efficacemente mediante certe analogie. In generale, come espressione del lato intelligibile dell'Idea e come manifestazione del lato sovrintelligibile, la parola è la stessa _rivelazione_, sebbene per rivelazione s'intenda più propriamente la rappresentazione analogica delle verità sovrarazionali[115]. La determinazione di questi _momenti_ in Gioberti non è sempre la stessa. Infatti: 1. l'intuito _a_) ora è semplice _potenzialità_ del conoscere; ora è adoperato come _organo attuale_ della scienza (cartesianismo, spinozismo). _b_) Ora è semplice apprensione dell'oggetto, e punto del soggetto, nè meno _confusa_, e perciò non è in niun modo riflessione; ora, in quanto visione dell'atto col quale l'infinito pone il finito e quindi anche il soggetto — è apprensione anche del soggetto, e perciò in sè _riflessione_. Anzi Gioberti giunge sino a dire, che l'intuito è essenzialmente _compenetrazione_ di sè, e che lo spirito non apprenderebbe l'Ente nel pensiero immanente, se non apprendesse prima se stesso. Quindi ora accusa Rosmini di non aver escluso dall'intuito la _coscienza di sè_; ora di non averla inclusa in esso. 2. La _riflessione_ ora è meno dell'intuito, ed attesta la imperfezione dello spirito; ora è più, ed attesta la infinità dello spirito. L'uomo solo riflette: la bestia no. E d'altra parte, la riflessione psicologica ora precede l'ontologica (come pura apprensione dell'oggetto), ora segue. 3. La _riflessione ontologica_ ora è semplice intuito dell'Idea, circoscritta (_rannicchiata_) nella parola per opera della Idea stessa e in niun modo dello spirito; e perciò _non è punto riflessione_, ed esclude l'apprensione del soggetto. Ora è l'_intuito dell'Ente intuíto_, abbraccia insieme soggetto ed oggetto, e li apprende con un _atto unico_. Quindi ci ha un punto (di contatto) semplicissimo, in cui oggetto e soggetto, sostanzialmente distinti, si toccano e formano l'unità della sintesi conoscitiva. E perciò la riflessione ontologica non è nè semplice apprensione dell'oggetto (e tale era prima), nè semplice apprensione del soggetto. Questo _punto di contatto_ è la _relazione_ dei due termini. Ma la _relazione_ non è più reale de' suoi termini, secondo lo stesso Gioberti?[116] Dunque, la riflessione ontologica è il _vero_ intuito. 4. La _parola_ ora è la veste arbitraria (_dono esterno_) dell'Idea: ora è produzione dell'intima attività dello spirito. Quindi ora la parola ci è, come la riflessione, perchè siamo _imperfetti_: ora ci è, perchè lo spirito è in sè la stessa _perfezione_; perchè l'Idea stessa (e quindi lo spirito) è in sè _parola_. 5. Il _sovrintelligibile_ ora è un termine fisso, assolutamente insuperabile, dello spirito; ora no, ma diminuisce continuamente; e perciò in sè non è niente. E così il _soprannaturale_. E nello stesso modo la _rivelazione_ ora pone qualcosa di esterno allo spirito, ora è l'intimità stessa dello spirito. Ora, insomma, l'intuito è _potenzialità limitata_, che non si attua mai perfettamente: quindi doppia imperfezione, di potenza e d'atto. Ora è _potenzialità infinita_, e l'oscuro, il sovrintelligibile, non è altro che il conoscere _non ancora attuato_. Quindi _in tutto_ due indirizzi: cioè, ora eteronomia assoluta dello spirito, ora autonomia assoluta[117]. Gioberti adunque, si dirà, si contradice? Così pare; ma in verità quel che apparisce come una contradizione è solo un concetto poco chiaro del proprio principio. Il principio è: l'Ente come attività _creativa_ e _ricreativa_; questa duplice attività è un'attività una ed indivisibile. Quindi — come conseguenza necessaria — l'autonomia dello spirito; l'intuito (il puro conoscere) come _compenetrazione di sè_, come essenzialmente riflessione; la parola, il sovrannaturale, la rivelazione, come atto della intimità dello spirito; il sovrintelligibile, evanescente; e la palingenesia, come progresso eterno immanente. Il principio, compreso poco chiaramente, vuol dire invece: _intuito_ (cognizione) _immediato_, e solo dell'oggetto, senza il soggetto, senza la coscienza di sè. Quindi non libertà, non intimità, non autonomia dello spirito. Ci è ora da maravigliarsi che Gioberti non sia stato bene inteso, se non sempre egli medesimo ha compreso nettamente se stesso? Taluni lo dissero un _oscurantista_, un _retrivo_, un semplice teologo (_l'abbé Gioberti_[118]); altri non videro in lui, che un pensatore senza religione, un panteista, e fors'anche un ateo. Vecchie accuse, fabbricate dagli astuti, e ripetute dagl'ignoranti. I filosofi vogliono essere studiati non nelle semplici parole e frasi, ma nelle idee. Di frasi ce ne ha molte in Gioberti; ma ci ha anche le idee. E la idea essenziale e fondamentale è appunto il contenuto e il ritmo della formola. Nella formola è tutto il sistema. Il peggior male è, come spesso è accaduto, ridurre le idee a semplici frasi. Se il principio giobertiano non è una semplice frase, vuol dire: autonomia e libertà assoluta dello spirito. Così Gioberti dice enfaticamente nella _Riforma Cattolica_: «La _libertà_ cattolica è somma, perchè è assoluta. Perchè tutta l'_autorità_ ne dipende. La autorità cattolica si fonda tutta quanta nella libertà dell'individuo. L'atto libero concreativo dell'individuo fonda con un _fiat_ la fede e con essa il suo oggetto. È un fichtismo applicato alla rivelazione. L'uomo _a rigore_ crea a se stesso la sua Chiesa, il suo Dio, il suo culto, il suo dogma. E ciò fa in tutti i casi, anche quando si sforza di fare il contrario; perchè è metafisicamente impossibile che un atto di volontà non sia radicalmente autonomo. La _mentalità è autonoma di sua natura_; autonomia creata, che dipende solo dall'atto creativo[119] e copia, imitazione, partecipazione di tal atto.... La moralità stessa è libertà verso Dio: il che Moisè espresse mostrandoci Dio che fa e itera cogli uomini un vero _contratto_ sociale. E la libertà è elezione di Dio; e quasi creazione di Dio, o dirò meglio concreazione di Dio; perchè, Dio creando sè stesso (mentalità assoluta, Trinità), in quanto l'uomo si _accompagna_ all'atto creativo di Dio viene a creare esso Dio. Dunque, l'uomo _in tutto rende a Dio la pariglia: Dio crea l'uomo e l'uomo ricrea Dio_; e in tal senso il fichtismo è vero... Io sono cattolico liberamente: credo al Papa, perchè ci _voglio_ credere; e credendo al Papa, lo giudico, lo inauguro, lo installo; poichè dico liberamente: egli è il Papa. Se non volessi dirlo, tutte le forze del mondo non potrebbonmi costringere. _Io sono libero come Dio stesso quando crea il mondo. La mentalità è un'autonomia e libertà suprema_»[120]. Dirò or più particolarmente del _sovrintelligibile_, per mostrare in Gioberti il puro assoluto conoscere. B) _Il conoscere assoluto._ Il puro assoluto conoscere è la possibilità assoluta del conoscere: tale è per me la vera teorica del conoscere. Questa teorica deve dimostrare, che senza la potenza assoluta e infinita di conoscere sarebbe impossibile l'atto stesso del conoscere; che questo atto è tale di sua natura, da presupporre infinità di potenza; che niente si conoscerebbe, se la potenza di conoscere non fosse infinita. Ciò vuol dire che, quanto alla potenza del conoscere, non vi ha _sovrintelligibile_; la potenza del conoscere è in sè tutto il conoscibile. Il conoscere o non è niente o è in sè trasparenza (_specchialità_) assoluta. In generale, alla domanda: possiamo noi _tutto_ conoscere (la potenza di conoscere è assoluta), ovvero conosciamo noi solo qualcosa (la potenza di conoscere è finita)? — non si può rispondere, se non facendo vedere la relazione necessaria che corre tra l'atto del conoscere e la potenza del conoscere. Che noi conosciamo — conosciamo qualcosa — è un _fatto_; la stessa conoscenza di conoscere solo qualcosa o anche la conoscenza di non conoscer nulla, è una conoscenza; noi conosciamo, che il conoscere — la _realtà cosciente_ — o è una realtà limitata, in quanto conosce solo qualcosa, o è niente, — come realtà cosciente, — in quanto non conosce niente. Il quale ultimo caso è aperta contradizione, perchè, negando, afferma il conoscere; dire, infatti, di non conoscere niente è già conoscere, cioè affermare la realtà cosciente, il conoscere. Adunque, il conoscere (conoscere semplicemente, conoscere di conoscere solo qualcosa, conoscere di non conoscer niente) è possibile, se la potenza del conoscere è finita? ovvero, bisogna che la potenza sia infinita? Tale è la quistione: il conoscere in sè — la realtà _cosciente_ — vuol dire _infinito_ o _finito_? È possibile che _realtà cosciente_ voglia dire _finito_? Per risolvere la quistione, si deve dunque rifare e riandare il conoscere dalla sua propria potenza o possibilità. Questo ritorno, che è una critica del conoscere, è in generale la teorica del conoscere. Se la potenza si mostra limitata, il sovrintelligibile è certo; la realtà, la semplice realtà, è più della _realtà cosciente_, perchè vi ha una realtà che non si conosce. Se la potenza è infinita, la realtà è assolutamente conoscibile; e perciò la realtà cosciente è davvero più della semplice realtà. Dire che vi ha un reale che non si conosce, è dire che lo spirito è meno della natura; l'essere e sapere, meno dell'essere e non sapere. Il risultato della breve storia che abbiamo fatta è questo: la possibilità del conoscere è la potenza assoluta di conoscere: la realtà assolutamente conoscibile, trasparente: cioè la _Ragione_ (idealità oggettiva) _conscia di sè_. Questa storia è in sè il ritorno del conoscere (del fatto del conoscere) alla possibilità del conoscere: è, direi quasi, la teorica del conoscere, come storia delle teoriche del conoscere. La teorica del conoscere è in sè d'accordo colla storia? Non è qui il luogo di risolvere questa quistione. Io ritorno a Gioberti. Gioberti dicendo: «Senza l'_intuito originario_ ogni conoscere (ogni atto conoscitivo) è impossibile; l'intuito è la _potenza del conoscere_, e il conoscibile, cioè l'oggetto in sè dell'intuito, è tutto il conoscibile, l'assolutamente conoscibile, l'Idea, l'Ente creante; cioè, la realtà assoluta, non come semplice realtà, ma come _compenetrazione assoluta di se stessa_, come realtà cosciente assoluta, come Spirito assoluto »; dicendo ciò, Gioberti viene a dire: la nostra potenza del conoscere è infinita; è in sè tutta la realtà come compenetrazione di se stessa, come perfetta trasparenza; e se la potenza non fosse infinita, l'atto — qualunque atto — del conoscere non sarebbe possibile. Ciò vuol dire, che se noi non avessimo la _potenza_ di conoscer tutto, non conosceremmo di fatto niente. In altri termini: senza la conoscenza di Dio, non si conosce niente. Il che significa che solo allora noi possiamo dire di conoscere davvero tutto quel che diciamo di conoscere, quando conosciamo Dio. Gioberti, dunque, sin dal principio — perfino nella _Introduzione_, — dichiarando l'intuito come la potenzialità del conoscere e l'Idea come il contenuto dell'intuito, — afferma implicitamente la infinità del conoscere: la infinità del conoscere come possibilità, del conoscere. Quando egli scrive più tardi, la prima volta, credo, ne' _Prolegomeni_[121] e poi ripete sempre nelle _Postume_: _l'uomo è l'infinito in potenza, è un Dio incoato_, non si contradice; giacchè questo stesso l'ha già detto, chi ben l'intende, nel capitolo terzo dell'_Introduzione_. La contradizione — se tale si può chiamare una poco chiara coscienza di se stesso, cioè del proprio principio — è già cominciata nella stessa pagina di questo stesso capitolo. L'intuito, dice Gioberti, è semplice _potenza_ del conoscere; e qui stesso egli comincia a confonderlo coll'_atto_ del conoscere; lo piglia per una conoscenza diretta, immediata. Il contenuto assoluto dell'intuito — cioè tutto il conoscibile, l'assoluto intelligibile, la stessa potenza infinita del conoscere diventa un oggetto immediato dell'intuito stesso, come conoscenza anch'essa immediata. L'intuito, appunto perchè conoscenza immediata, vede il suo oggetto a principio confusamente; come quando, io mi fo alla finestra e guardo così a un tratto una prateria; vedo tutto e non discerno niente. E oltre a ciò esso vede dell'oggetto solo la superficie e il davanti, non già il didentro e il didietro; la superficie la vede confusa, e il didentro non lo vede affatto, cioè solo come oscurità perfetta. Questa è la duplice imperfezione dell'intuito come _cognizione immediata_ dell'Idea. La prima si toglie colla riflessione; la seconda è insuperabile[122]. Ora, se s'intende da capo l'intuito — già preso così per cognizione immediata e qualificato nel modo che abbiamo visto — se s'intende come semplice _potenza del conoscere_, la conseguenza necessaria di tal baratto sarà la _limitazione assoluta_ della potenza come potenza. Quindi il sovrintelligibile come un limite insuperabile, come un campo assolutamente chiuso. E dove prima la possibilità del conoscere era la potenza infinita del conoscere, e perciò si ammetteva che niente poteva esser chiaro senza l'assoluta chiarezza; ora, all'opposto, la possibilità del conoscere è la finità stessa della potenza conoscitiva, e niente può esser chiaro senza l'assolutamente oscuro, senza il mistero. Prima la chiarezza assoluta era la condizione d'ogni chiarezza; ora l'oscurità assoluta. Certo il mistero è la condizione del chiaro; è ciò che fa chiaro ogni cosa: ma non già più come mistero, ma come aperto e visto assolutamente. Così vi ha in Gioberti come due dottrine opposte del conoscere: l'una suppone la infinità come possibilità del conoscere, l'altra la finità. Il pregio di Gioberti è di aver pensato o al più tentato di fare questa teorica, come si deve fare, cioè esponendo la relazione dell'atto del conoscere colla potenza del conoscere. Ma l'ha semplicemente tentato. O piuttosto l'ha detto, e non l'ha nè meno tentato. Egli vuol provare il sovrintelligibile come limite insuperabile, cioè la finità della potenza del conoscere; e osserva che non basta allegare in genere, come fanno i razionalisti, la _ragione imperfetta e finita_; ma _verificare_ — al che, ei dice, nessuno si è applicato prima di lui — _psicologicamente la nozione_ stessa di mistero (del sovrintelligibile). _Verificare psicologicamente_ vuol dire: provare la finità del conoscere e quindi il mistero, col ridurre l'atto del conoscere alla sua possibilità, alla potenza del conoscere. A che riesce Gioberti in questa verificazione? O a niente, cioè a non verificare quel che vuole (e non può, anche per forza del suo stesso principio), o all'opposto, cioè alla infinità del conoscere. Egli paragona — nella _Teorica del Sovrannaturale_ — senso ed intelletto, dopo averli separati come due facoltà _sostanzialmente_ ed _essenzialmente_ differenti; e trova che si _limitano reciprocamente_, giacchè nè il sensibile può divenire intelligibile, nè questo quello. Quindi l'idea dell'_incomprensibile_ (relativo); cioè, il sensibile non apprensibile intellettualmente, e viceversa. Il difetto di questo modo di considerare, fu corretto poi dallo stesso Gioberti. Infatti nelle _Postume_ — e, chi ben vede, nella stessa _Introduzione_ — non parla più di questo _limite reciproco_; il senso, invece, si _risolve_ nell'intelletto, il sensibile diventa intelligibile; il senso è l'intelletto _implicato_, e l'intelletto è lo stesso senso _esplicato_, ecc. ecc. E ciò vuol dire: in quanto intelletto, io so di essere limitato come senso, e supero questo limite; sapere il limite e superarlo, è una cosa medesima. Nello stesso modo, l'intelletto dovrebbe risolversi nella sovrintelligenza; e anche qui sapere di essere limitato come intelletto e superare il limite, dovrebbe esser lo stesso. Ma Gioberti non fa così. Pone immediate la sovrintelligenza, senza nessuna relazione colle altre facoltà: cioè come una _facoltà speciale_ (e ciò sta bene contro i rosminiani), ma vuota, senza oggetto:sapere di esser limitato come intelletto, non è qui superare il limite. Quindi non ci è quella _verificazione psicologica_ che avea promessa. Dice solo, che ci ha da essere quella facoltà, perchè ci è il mistero; e ci è il mistero, perchè ci è quella facoltà[123]. Nella _Introduzione_ altro concetto della sovrintelligenza. Noi, dice Gioberti, abbiamo il sentimento di _tutta la potenza_ del conoscere; il sovrintelligibile corrisponde alla potenza _non attuata_. Qui la sovrintelligenza non è in sè facoltà vuota, senza oggetto; il conoscere è infinito; è in sè tutto il conoscibile. Così l'intelligibile è l'_esplicato_, il sovrintelligibile è l'_implicato_; il quale, esplicato, diventa intelligibile. Questo concetto è un po' vago, e nel fatto annulla la _differenza_ tra intelligibile e sovrintelligibile. E questa differenza ci è; e Gioberti stesso la pone. Questa dottrina ha, nello stesso Gioberti, una relazione intima con quella delle due vite; la terrena e la beata. La dottrina ha diverso senso secondo il senso della vita beata (la palingenesia). Se per vita beata s'intende un semplice _avvenire_, un tempo dopo il tempo, la infinità consiste nella semplice _esplicazione_ indefinita. Se s'intende anche _coeva_ alla vita presente, la infinità è l'unità originaria che si esplica, di certo, ma si ripiglia e raccoglie sempre nella sua esplicazione. Questa è la vera infinità: quella esplicazione, che è _Sviluppo_[124]. Il primo senso prevale nella _Introduzione_, il secondo nelle _Postume_. Il Sovrintelligibile (Essenza reale) è la _unità delle determinazioni intelligibili_. Questa unità nella sua assolutezza è la relazione o unità assoluta di tre relazioni o unità assolute: cioè, _pura relazione verso sè, relazione verso l'altro, relazione verso sè mediante l'altro_. Questa Relazione, Mediazione o Processo assoluto è Dio medesimo[125]. Secondo Gioberti, noi non possiamo conoscere questa _Unità_ assoluta. Ma perchè? È ciò vero? Se non la conosciamo, quel che conosciamo non è Dio, ma la _creatura_; giacchè Dio è appunto la Unità di quelle tre Unità (Logo, Natura, Spirito). Da quel che ho detto fin qui si vede, che in Gioberti vi ha tre concetti del Sovrintelligibile, e perciò della potenza del conoscere (della essenza dello spirito). 1. Sovrintelligibile = limite insuperabile; finità assoluta dello spirito. 2. Sovrintelligibile = _essenza implicata_, che si esplica di continuo; lo spirito infinito, ma non _actu_ infinito: solo esplicazione infinita, non vero _sviluppo_: solo _essenza e fenomeno, forza e manifestazione_; _Sostanza_, non _Soggetto_. Si annulla la differenza tra intelligibile e sovrintelligibile. 3. Sovrintelligibile = Unità delle determinazioni intelligibili; Unità come Processo o genesi di se stessa: non semplice esplicazione, ma eterno ritorno a se stessa: relazione assoluta verso se stessa. Negando la cognizione di questa Unità, Gioberti si contradice: nega la vera infinità o unità dello Spirito, ammessa nella potenzialità dell'intuito. Infatti, cos'è questa _Unità_? Come nè pura unità immobile, nè unità che si esplica semplicemente, ma come _autogenesi_, essa è la stessa attività creativa, presa assolutamente. Unità qui è _Creare_; è lo Spirito: _Ciclo_ assoluto, non _Essere_. Ora l'intuito come intuito del Creare, del vero creare — (esplicazione e ritorno) — è in sè questa unità, la conoscenza di questa unità. In ciò consiste la sua _infinità_ vera, come potenza del conoscere. E tale, — così infinito, cioè conoscenza di tale unità, — deve essere il conoscere, l'atto vero del conoscere, la Scienza. Adunque, la conoscibilità dell'_essenza reale_, — di questa assoluta autogenesi, — è contenuta sin da principio nella dottrina giobertiana dell'intuito. O questa essenza è conoscibile, e non vi ha punto il sovrintelligibile come un limite insuperabile dello spirito; o l'intuito (dell'atto creativo) è una parola vuota di senso. E tale pare che diventi per la più parte dei giobertiani; i quali parlano con tanta enfasi della _visione ideale_, ne raccontano _mirabilia_, la spacciano come l'unica infallibile ricetta per guarire dal sensismo (_sic_) aristotelico, cartesiano, spinoziano, kantiano, hegeliano e che so io; e poi, interrogati da noi altri poveri ciechi: cosa vedete voi lassù? non sanno rispondere altro che: oscurità perfetta. E in verità quel che essi dicono di vedere, e a cui danno il nome di Ente creante e nell'atto di creare, non è Dio, non è il Sole, ma un pezzo di carta dipinto, cioè loro medesimi, in fondo al cannocchiale. PARTE SECONDA — IL SISTEMA. 1. Il principio della filosofia di Gioberti è l'Idea; e la scienza è la riproduzione fedele dell'_organismo ideale_. L'Idea è quel che vi ha d'immutabile, d'eterno, di vero nelle cose. In questo senso ogni filosofia ha per principio o oggetto l'Idea; e perciò è idealismo. La differenza è in quel che s'intende per Idea. La storia della filosofia mostra che s'intende sempre _diversamente_ in modo che questa storia sia come la posizione de' diversi momenti dell'Idea[126]. L'Idea giobertiana non è l'antica, la platonica, o altro, ma è tutta moderna; non è semplice _oggettività ideale_, ma idealità oggettiva o assoluta. E, come tale, è o la Sostanza assoluta, o la Mentalità assoluta, secondo che l'intuito è preso per una cognizione immediata, o per la semplice potenza del conoscere. 2. E, appunto perchè in Gioberti ci è tutti e due insieme questi modi d'intendere l'idealità oggettiva, il suo sistema ha un doppio contenuto e una doppia forma: un doppio principio, e un doppio metodo. _a_) Il contenuto è l'Idea come _Sostanza_ e _Causa_, e perciò la forma non ha niente di dialettico. Tutto quel, che si dice _provato_, è già _presupposto_; e la così detta prova (la Scienza) non è altro che la esplicazione formale di ciò che si è ammesso già prima nell'_intuito_. Domandate a Gioberti, e specialmente a' giobertiani: perchè dopo _questa_ determinazione ponete _quest_'altra? Perchè dopo l'Ente dite: l'Esistente? Perchè l'Ente è _questa_ totalità di determinazioni? ecc., ecc. — L'unica risposta è questa: perchè _vedo_ così. Anzi a chi fa istanza, che non basti dire: _io vedo_, ma si debba provare e far vedere anche agli altri — cioè a tutti coloro che pensano — quel che uno dice di vedere lui, si risponde: la prova è impossibile, perchè vuol dire _necessità_; e la necessità è la negazione della _libertà_ dell'Idea. Adunque, il vero sapere è il sapere immediato, arbitrario, senza nesso, o senz'altro nesso che il semplice _prima_ e _dopo_. Questa strana combinazione di spinozismo e di profetico sentimentalismo, di necessità immediata e di libertà immediata, di necessità senza libertà e di libertà senza necessità, questo destino che è il caso: tale è la prima forma del sistema. Questa stessa combinazione, — questo nesso delle determinazioni ideali, che è la negazione d'ogni nesso ideale; questa logica, che non è logica, ossia _atto del pensiero_, — è ciò che i giobertiani chiamano _intelligibilità_. Il vero nesso ci è, ma è come se non ci fosse per noi altri _esseri pensanti_: è il _sovrintelligibile_. _b_) Il contenuto è l'Idea in quanto _atto creativo_: e non già come semplice efficienza o arbitraria posizione d'un altro, ma come _atto_ intimo, libero e assoluto dell'Ente: l'Ente medesimo (lo Spirito) come posizione o produzione assoluta di se stesso. E perciò la forma è processo dialettico: non la semplice narrazione o immaginazione degli elementi sciolti e sconnessi dell'intelligibile, ma la _riproduzione fedele del vivo organismo ideale_: riproduzione, che, come atto del pensiero o della _stessa ragione_, è originale produzione. Di questi due modi il primo prevale nelle prime opere di Gioberti; il secondo è la tendenza delle _Postume_, ma non è mai un fatto compiuto. In generale, l'Idea giobertiana manca della sua vera _forma_. Le sue parti o elementi sono disposti, se si vuole, organicamente o dialetticamente; ma quest'organismo è più esterno che interno, più apparente che reale. Il tutto rassomiglia più a un corpo morto di fresco, che a un corpo vivente. Tu vedi ancora in esso le vestigia della vita, ma non la vita. E la vita — l'atto vitale — del gran corpo della filosofia è quella piena _unità del pensiero_, che penetra e insieme abbraccia, e perciò _anima_, tutta la sua propria materia; che non s'interrompe, nè si perde mai, ma nel suo perpetuo discorso si ripiega sempre e concentra in se stessa. Questa unità concreta, che nel primo grado dell'organismo si dice comunemente _anima_, nella filosofia è ciò che si dice _sistema_. Vi ha nella _Protologia_ un luogo, che, contro la dottrina più volte ripetuta del privilegio dell'intuito sulla riflessione, dice così: «L'intuito apprende l'infinito, ma finitamente. Non è dialettico. La dialettica la crea la riflessione, in quanto si unisce coll'azione creatrice, principio del dialettismo reale. L'atto riflessivo è concreativo, e quindi dialettico. L'intuito _vede_ l'atto creativo, e non vi partecipa»[127]. Il che vuol dire,che non lo _vede_, perchè se lo vedesse, vi parteciperebbe. Ora, quando si considera che per Gioberti _atto creativo, dialettica, organismo ideale, scienza o sistema_ sono una cosa medesima, si può epilogare il difetto della sua maniera di filosofare così: l'intelletto giobertiano è più _intuito_ che _riflessione_, cioè: apprensione dell'Idea in una forma finita, meramente soggettiva, e quindi falsa. La vera oggettività o infinità dell'Idea è il processo dialettico della riflessione. Questo luogo ed altri simili delle _Postume_ contengono come il punto di conversione o una nuova piega della mente di Gioberti; sono un'ingenua confessione della insufficienza della sua prima maniera di filosofare, e una condanna perentoria di quel che il maestro con tanta enfasi e i discepoli con tanto fracasso hanno chiamato il _puro ontologismo_. Se Gioberti non fosse morto così presto, e avesse avuto il tempo e l'agio di raccogliersi in se stesso e ordinare in una forma scientifica tutto quel gran caos delle _Postume_, sarebbe stato uno spettacolo davvero curioso il vedere l'accoglienza, che tutta la gran folla raccolta sotto la _bandiera dell'Ente_ avrebbe fatto al Sistema del _psicologismo trascendente_. Quante innocenti illusioni sarebbero cadute! Quanti castelli in aria, quante gran riputazioni non sarebbero ora altro che _pulvis et umbra_! 3. La scienza, in quanto ha per oggetto l'Idea, si dice _ideale_. Ora l'Idea ha due lati: l'intelligibile e il sovrintelligibile. Dunque la scienza ideale ha due parti: la filosofia e la teologia; l'una è la scienza dell'intelligibile, e l'altra del sovrintelligibile. E, giacchè il sovrintelligibile è superiore all'intelligibile, la teologia è superiore alla filosofia. Questa superiorità consiste in ciò, che la _rivelazione_ o la _parola_ (quindi la teologia) è superiore alla _ragione_ (filosofia), e la ragione non è ragione, non è riflessione, senza la parola. Questa relazione si converte poi in un'assoluta dipendenza della filosofia dall'_autorità esteriore_. Infatti, dice Gioberti, «la rivelazione è _definita e determinata_ dalla Chiesa, e il capo visibile della Chiesa — il principio organico da cui dipende l'unità futura del mondo» (se non dell'Italia!) «è il Papa; tolto il _magisterio autorevole_ e le _formole ecclesiastiche_, la filosofia non saprebbe dove pigliare gli elementi integrali dell'Idea». «Quindi il dovere di conservare questi elementi, quali le vengono suppeditati da quelle formole; perchè la scienza (cattolica; e si dee chiamare così, essendo vano il cercarla fuori della società divina, privilegiata di questo nome) vuol essere _ordinata_, e l'ordine importa _regola ed autorità_. La regola risulta dai _principii_ e dal _metodo_; e la Chiesa» (e quindi il Papa) «mantiene i _veri_ principii e il _vero_ metodo, conservando inalterabile il deposito affidatole delle _verità razionali_, e mettendolo in sicuro co' suoi _oracoli_». Credo che nel medio evo non si sia parlato così chiaro ed aperto! Contuttociò, continua a dire Gioberti, non si deve giudicare, che la filosofia non sia _libera_, e che il vero razionale, che è il suo oggetto, dipenda dall'autorità. Imperocchè, in primo luogo, «senz'_ordine_ non vi ha _libertà_ verace. La libertà richiede che si lasci allo spirito umano l'esercizio _legittimo_ delle sue potenze» (manco male!). «Quindi la scienza (cattolica) è anco libera, perchè il campo della speculazione è amplissimo fra tutti, e _salvo i capi fermati dal magistero legittimo_, l'ingegno umano può spaziarvi a piacimento: _limitazione_ tanto _propria_ alla _libertà_ quanto avversa alla _licenza_; giacchè la scienza non può esser libera, se non è ben _sicura_ della propria esistenza, e se vien piantata in base _incerta e vacillante_. Oltre a ciò, l'uomo è destinato più ad operare che a speculare, e la speculazione vuol essere indirizzata all'azione. Ora, se la scienza avesse il _diritto di porre in dubbio o rigettare la verità_, in cui si fonda ogni vivere pubblico e privato, l'operare diverrebbe impossibile e _crollerebbe tutto il mondo civile_; ecc. ecc. In secondo luogo, la filosofia riceve sì la sua _materia_ dalla parola; ma ricevutala, l'apprende immediatamente per la sua intrinseca luce; l'uomo ammette gl'intelligibili, non già solo in virtù di essa parola autorevole, ma per l'_evidenza lor propria_ (nell'intuito), di cui la parola è l'occasione eccitatrice e non la cagione nè la dimostrazione. L'Idea è veduta immediatamente in se stessa. E in ciò consiste la differenza essenziale tra la filosofia e la teologia; giacchè le verità soprannaturali, che sono oggetto di quest'ultima, dipendono dalla parola rivelata; non la provano, ma ne vengono provate; non s'_intuiscono_, ma si _credono_». Questo temperamento è una contradizione, e non mitiga punto l'orrore, che ogni libero filosofo deve avere per una simile dottrina. E difatti qui sono da notare due punti principali: l'_evidenza intrinseca_ del vero razionale, e l'_autorità estrinseca_, alla quale spetta il _principio_ e il _metodo_ della filosofia. Come si accordano essi? In filosofia o tutto (e quindi anche, anzi specialmente, il principio e il metodo) deve essere _intrinsecamente evidente_, o la filosofia non è filosofia. Il principio e il metodo sono la filosofia stessa; e ammettere l'evidenza in tutt'altro, fuorchè nel principio e nel metodo, equivale a non ammetterla di nessuna maniera. Questa dottrina — rigettata poi dallo stesso Gioberti[128], e contraria al vero concetto del conoscere[129] — è _illogica_, e _pericolosa_. _Illogica_: perchè la scienza per esser libera, deve provare da sè la propria base ed esistenza. _Pericolosa_: perchè si confonde l'attività _scientifica_ colla _politica_. Io, di certo, non posso negare la legge mediante l'_azione_; ma posso indagare se essa sia razionalmente giusta. La filosofia è _investigazione_, non azione politica, e l'unica autorità che essa deve ammettere è quella, che è riconosciuta tale per intrinseca evidenza. E già a questo s'incammina anche lo Stato; e perciò legge autorevole è solo quella, che è consentita liberamente dal suffragio de' cittadini, che devono eseguirla. È questo il vero Gioberti? Lo domando a voi. Lascio stare, che con questa dottrina dell'_ordine_ applicata alla filosofia sarebbe giustificato perfino il rogo di Bruno in pieno secolo decimonono. Quel che voglio far osservare, si è che Gioberti qui sottomette la filosofia alla teologia _positiva_, come si suol dire: alla teologia del Padre Perrone[130], e simili organi del _magistero autorevole_ e delle _formole ecclesiastiche_. Ora nel vero Gioberti la teologia, la vera teologia, — non la _volgare_, come dice egli stesso, cioè appunto la _positiva_, — non è altro che filosofia: la _filosofia della rivelazione_. Certamente la filosofia, come l'ultima e suprema attività dello spirito, presuppone e quindi dipende da tutto: _parola, società, Stato, religione_, ecc.: ma contuttociò, anzi appunto perciò, trae la sua luce, la sua autorità, solo da se stessa, cioè, dal libero pensiero, dalla libera riflessione. A coloro, i quali fanno consistere tutto il progresso nelle conversioni politiche, e che quasi in tutto il resto e principalmente nella filosofia non vanno al di qua nè al di là del medio evo, e in quest'opera, ch'essi chiamano di _conciliazione_, e che è una flagrante contradizione tra la teorica e la pratica, tra la scienza e la politica, si fanno scudo dell'autorità di Gioberti, vorrei raccomandar la lettura di tutti que' luoghi delle _Postume_, ne' quali il nostro filosofo discorre liberamente, senza diplomazia e quasi in veste da camera, della falsità della teologia positiva e della vera relazione tra la fede e la scienza, la religione e la filosofia. Io noto qui solamente, che quel che nel luogo sopra citato è detto _domma, base certa e sicura, autorità_, e simili, ne' nuovi luoghi apparisce appena come _germe, potenza_, o, in quanto determinazione o definizione (positiva), come semplice _opinione_. Quel che è germe o potenza non diventa _base certa e sicura_, se non è _spiegato e determinato_ dal libero pensiero. La fede è quasi senso; la scienza intelletto. Etc., etc.[131] — Questo è il vero Gioberti. 4. La scienza ideale si _divide_ nel modo seguente: La formola consta di tre elementi: soggetto, copula e predicato, cioè Ente, creazione ed esistenza. Nella scienza dell'intelligibile in generale (puro e misto, Ente ed esistente), cioè nella filosofia, 1. al soggetto corrisponde la filosofia pura (ontologia), la quale espone le determinazioni dell'Ente. 2. Alla copula, come processo discensivo dall'Ente all'esistente, corrisponde la filosofia della matematica, che ha per oggetto il tempo e lo spazio[132]; e come processo ascensivo dall'esistente all'Ente, la logica e la morale: delle quali l'una ha per oggetto la scienza o il vero, e l'altra la virtù o il bene. 3. Al predicato corrisponde la filosofia dell'esistente come tale in generale (della natura, dell'universo, del mondo sensato delle esistenze, de' sensibili, esterni o interni, materiali o spirituali), e si suddivide in psicologia, cosmologia, estetica (!) e politica; le quali hanno per oggetto l'animo umano come essere meramente individuale, la natura come tutto, il bello e lo stato. Tutta la filosofia, in quanto consta di queste tre parti, si può anche dire teologia razionale; giacchè, se la prima espone gli _attributi_ più essenziali della Divinità (le determinazioni dell'Ente), e perciò è teologia razionale _pura_, le due altre sono una teologia razionale _mista_, in quanto distinguono e amplificano il concetto delle perfezioni divine, lo avvalorano ed accrescono di precisione e di luce; quella è la cognizione _naturale_ della divinità in se _stessa_, e questa la cognizione naturale della divinità _nelle sue opere_. Similmente nella scienza del sovrintelligibile, cioè nella teologia rivelata. Al soggetto corrisponde la teologia rivelata pura, che espone le determinazioni dell'Essenza; alla copula e al predicato la teologia rivelata mista, cioè a quella la logica della rivelazione (apologetica e critica cattolica) e la morale rivelata (virtù teologali), e a questo l'antropologia e la cosmologia rivelata. E giacchè la doppia teologia razionale (la filosofia) s'immedesima _oggettivamente_ colla teologia rivelata (perchè ciò che si distingue come intelligibile e sovrintelligibile, a rispetto nostro, si compenetra nella unità della natura divina), e questa teologia abbraccia altresì i due ultimi membri della formola, da questa unione nasce una _teologia universale_, che è la scienza compita e perfetta della Divinità conosciuta naturalmente e sovrannaturalmente, così in se stessa, come nelle sue opere; alla qual teologia universale le altre specie menzionate si riferiscono, come le parti al tutto. La teologia universale è l'_ultimo corollario_ e la somma, o vogliam dire la _quintessenza_ dell'enciclopedia, come la teologia schiettamente razionale ne è il principio. Per tal modo, la notizia di Dio è la base e l'apice della piramide scientifica[133]. Lascio stare i difetti formali e materiali di questa divisione. Quel che vi ha in essa di profondamente vero, è questo: l'_unità concreta_ della Scienza, non solo come unità organica delle diverse parti in cui si divide ciascuno de' due lati della scienza ideale (filosofia e teologia), ma come unità oggettiva di questi due lati: di filosofia e teologia: e non nel senso che la filosofia sia assorbita dalla teologia, ma nel senso che la teologia universale non è altro che la stessa filosofia. Infatti, oggetto della filosofia è l'Idea, e l'Idea è _una_, è Dio stesso. Mondo, Esistenza, Finito, la filosofia li spoglia della loro finità e li considera nella loro infinità, come pensiero divino, come momento della infinità di Dio (_sub specie aeternitatis_). Quindi la filosofia è in ogni _sua parte_ scienza della divinità, o _teologia_. Ma come Dio non è il vero Dio, nè in quanto semplice Ente, nè in quanto semplice _Esistenza_ (Natura), nè in quanto semplice _Ritorno_ (Spirito), cioè dire, non in quanto una sola di queste tre Unità, di questi tre _Assoluti_, ma in quanto la loro unità assoluta ed unica; così la filosofia non è _veramente teologia_, se non come tutta la Scienza, come tutto il processo della Scienza. Ora Dio, come la unità di quelle tre unità, è l'atto assolutamente creativo, il _Creatore_, lo Spirito: Personalità assoluta. Quindi la filosofia è teologia, cioè intendimento di Dio (del vero Dio, del Creatore), in quanto intende il Creare: quella unità delle tre unità. Può intenderla? Non sono due oggetti: l'uno della filosofia, l'altro della teologia. Il così detto oggetto della filosofia è il _falso_ oggetto: oggetto _sciolto_ e senza _nesso_, non quel che è in sè veramente. _Ente_: unità senza nesso, pura moltipltcità. _Natura_: pura moltiplicità. _Spirito_: pura moltiplicità. Il vero oggetto è quello così detto della Teologia: Nesso de' nessi, unità di unità; il _Creare_. Può dunque la filosofia intender questo? il vero Dio? Sì: e Gioberti stesso lo afferma, dicendo: l'intuito (visione dell'atto creativo) è la potenza del conoscere. O il conoscere è niente, o è conoscenza dell'atto creativo. Gioberti parla sempre di due filosofie: divina e umana; ma non sempre nello stesso modo. Ora la divina è «fuori e sopra l'atto creativo: quindi impossibile all'uomo». Ora la divina «è l'idea creatrice, e quindi atto puro; e la umana è riproduzione o copia della divina». Questo è il vero Gioberti; quello è il vecchio. Quello che è «fuori e sopra l'atto creativo» è il Dio falso, astratto, indeterminato: il semplice Ente, quello che è, e non _crea_ nulla. Secondo questo concetto, la vera filosofia è la scienza dell'Ente, l'_ontologia_; e la bandiera l'ontologismo. Nel nuovo Gioberti è tutt'altra cosa. La filosofia è la _protologia_, la scienza di quel che è l'assoluto Primo, il Primo che è anche l'Ultimo; e questo non è l'Ente ma il Creatore. «Il Primo filosofico, avea detto Gioberti nella _Introduzione_, è l'Ente». Si potrebbe, dunque, credere che la protologia fosse la scienza dell'Ente, cioè, la stessa ontologia. Ora Gioberti stesso dice espressamente: «la scienza prima o la protologia non è l'ontologia; l'idea sola dell'Ente _non_ può costituire il principio protologico; questo è la _formola ideale_»; e perciò «la protologia è la scienza di Dio, considerato come Ente _creante_; la scienza dell'_atto creativo_». Ma quale _formola_? quale _atto creativo_? Quella formola che esprime, e quell'atto che è, tutta l'attività creativa, cioè insieme il creare e il ricreare, il Primo e l'Ultimo. E perciò «la protologia _discende_ dall'Ente all'Esistente e risale dall'Esistente all'Ente»; e così è insieme protologia e teleologia: e val quanto dire tutta la filosofia, giacchè la filosofia non è altro che «la scienza di Dio e di tutte le cose _in quanto_ a Dio si riferiscono e con lui si connettono». Dio così, come questa assoluta _relazione_ o _connessione_, è l'assoluta _Psiche_ o la _Mente_ assoluta. E perciò la protologia è detta anche «l'analisi del _principio costitutivo_ dello spirito umano»[134]. Il problema della filosofia è il _problema dello spirito_, e la sua nuova bandiera il _psicologismo trascendente_. LEZIONE DECIMA. EPILOGO E CONCLUSIONE. Il _soggetto_ della mia Introduzione era la esposizione de' principali momenti del pensiero italiano dal Risorgimento sino a Gioberti. La mia _intenzione_ era di vedere, se il progresso e il risultato del pensiero italiano s'accordano o no col progresso e il risultato del pensiero europeo. Io volea vincere il pregiudizio, che il nostro pensiero e il pensiero europeo siano in opposizione tra loro. Io credo aver dimostrato, che la nostra filosofia e la filosofia europea hanno avuto lo stesso progresso, più o meno, e lo stesso risultato. Ho vinto così quel pregiudizio? Giudicate voi. Io spero che sì. Io confido ne' liberi ingegni: in quegli ingegni che amano la scienza per se stessa, e non sono preoccupati da altro interesse che quello del Vero. Ritorniamo rapidamente sulla via che abbiamo percorsa, e fermiamo bene il punto, al quale siamo arrivati; fermiamo bene lo stato della nostra coscienza dopo la Introduzione. Io ho detto, che il carattere e lo sviluppo della nostra filosofia dopo il Risorgimento è quello stesso della filosofia europea: _Carattere_ = Ricerca del principio assoluto nella Mente assoluta. _Sviluppo_ = Esplicazione, opposizione e unità de' due momenti della Mente assoluta: oggettività e soggettività infinita. I. La nostra filosofia è da prima filosofia del Risorgimento: critica e negazione della Scolastica. La Scolastica è la negazione dell'oggettività (realtà della natura) e della soggettività (realtà dello spirito). La filosofia del Risorgimento è l'affermazione dell'una e dell'altra. Abbiamo visto le nuove determinazioni ne' filosofi del Risorgimento, italiani e stranieri: dal Cusano a Campanella e Bruno. Queste determinazioni si riassumono in Campanella e Bruno. Campanella = Principio della soggettività: il _sentire_. Bruno = Infinità della Natura; Dio come Indifferenza e Coincidenza assoluta: _Sostanza_: Sostanza essenzialmente _Causa_: Causa infinita, effetto infinito; Infinito generante, infinita genitura. II. Cartesio = il Pensare (Campanella: il Sentire). Spinoza: è la _chiarezza_ di Bruno. Bruno: _Coincidenza_ (Punto oscuro). Spinoza: _Insidenza, Contenenza_ (Punto chiaro: ma _immediato_; quindi, non veramente chiaro). Pregio di Spinoza e Bruno: Dio = Identità assoluta: Natura. Infinità della Natura, dell'Universo. Pregio riconosciuto da Gioberti stesso. [«La teologia volgare che dominò finora è finitesimale.... Così un mondo finito; un tempo mondiale finito etc. Meschinissime idee!»[135] — «Tre teologie. 1. Prima e imperfetta: _Iddio è l'Ente_ (l'ente si considera senza l'esistenze). Non dà tutti gli attributi di Dio; è la formola del vecchio testamento» (Puro monoteismo). 2. «Teologia cosmologica: _Iddio è il tutto_» (Bruno, Spinoza): 3. «la perfetta, fondata nella formola cristiana: _l'uomo è in Dio_». _L'uomo è in Dio_ significa: «la libertà è concreazione di Dio; perchè Dio, creando se stesso (mentalità assoluta, Trinità), in quanto l'uomo si accompagna all'atto creativo di Dio, viene a creare esso Dio »][136]. Difetto di Bruno e Spinoza: Dio semplice Sostanza Causa; cioè, teologia semplicemente _cosmologica_. Naturalismo, meccanismo: non _differenza_ de' due universi. III. Vico pone la differenza reale: le due provvidenze: il mondo umano. Unità non più come Sostanza-causa, ma come spirito (Unità dello Spirito): _Sviluppo_. Vico esige una _nuova metafisica_, e non si appaga più di quella dell'Ente. Esigenza fatta prima del tempo, cioè della dissoluzione della vecchia Metafisica. Con questa esigenza finisce la filosofia da Cartesio a Kant, e comincia la nuova. Questa esigenza _storica_ è Kant. — Si dice: Vico non ha metafisica. Vero e non vero ciò. L'ha, ma _incorporata_ colla _Scienza Nuova_. Voler comprendere Vico colla sua vecchia metafisica (_Italorum sapientia_) è non capirne niente. Quindi l'oscurità. IV. La _chiarezza_ di Vico è la filosofia dopo Kant. Problema del _conoscere_. _a_) Kant studia _tutto_ il fatto del conoscere e spiega il fatto non più col fatto, ma col _fare_ (Potenza del conoscere). — _Trascendentalismo_: _Puro conoscere_. Pregio di Kant: _Unità sintetica originaria_. Difetto: Il suo _puro conoscere_ non è assolutamente _fare_, ma _fare parziale_. Categoria: fare e fatto. Intuizione pura: fare e fatto. _b_) Fichte: Puro conoscere — assoluto fare — mentalità o soggettività pura — autocoscienza come produttività delle categorie: _assoluta_. _c_) Schelling: Se assoluta, richiede identità di natura e spirito assoluta: _Ragione_. _d_) Hegel: Ragione conscia di sè o assoluto spirito come Principio assoluto. Puro conoscere = Potenza _infinita_ del conoscere. Niente si conosce, se tutto non si conosce. _a'_) Galluppi: Puro conoscere = _Unità sintetica originaria_ dello spirito (_fondo proprio_ dello spirito, da cui provengono le idee d'_identità_, _diversità_, etc., cioè le vere idee, le _categorie_, non le rappresentazioni); giudizii sintetici _a priori_ pratici; idea dell'_universo_ e di Dio; la sensibilità come _pura_ cognizione (la _forma_ della coscienza). _b'_) Rosmini: Puro conoscere — _unità sintetica originaria _(ragione, sentimento fondamentale). Poi: semplice _Ente possibile, idea innata_. _c'_) Gioberti: Puro conoscere o possibilità del conoscere = assoluto spirito (creare e ricreare = _Creare_ assoluto). Potenzialità del conoscere = _Potenzialità infinita_. Il Principio assoluto è l'assoluto Spirito o la Mente assoluta; i cui momenti sono l'oggettività (natura) e la soggettività (spirito) infinita: il creare e il ricreare: i due cicli. La loro unità è l'Idea vera giobertiana. La vera Idea giobertiana non è l'_essere_, ma il _creare_, non l'_Ente_, ma lo _Spirito_. Atto creativo è dialettica, assoluta dialettica; e dialettica è l'organismo o vita ideale. La filosofia, come _riproduzione fedele_ di tale organismo, è dunque essa stessa dialettica; è, a suo modo, _creare_. Questo ripensare, che è creare, è il vero _pensare_: la scienza. La scienza è la pienezza dell'atto creativo: la realtà assoluta dello spirito. V. Tale è il grado, a cui è salito in Gioberti il pensiero italiano. È lo stesso grado del pensiero tedesco in Hegel. Ma tra i due gradi vi ha una profonda differenza, quando si considera non il nudo risultato, ma tutto il processo del pensiero. In Italia, checchè si voglia dire in contrario, manca il vero processo storico; da Bruno e Campanella a Vico vi ha, storicamente, quasi un salto; e similmente da Vico a Gioberti. I due indirizzi della speculazione dopo Cartesio si sviluppano originalmente fuori d'Italia, e il nuovo problema del conoscere è il campo chiuso della filosofia tedesca. Se da una parte lo stesso anacronismo di Vico dà maggior risalto alla sua originalità, non è meno vero d'altra parte, che Galluppi, Rosmini e Gioberti seguono una via già tenuta, per non dire aperta e spianata, da altri, e sono costretti dalla forza stessa delle cose ad essere imitatori e ripetitori, anche quando dicono di fare il contrario. So bene che questo discorso non piace, e si ha come un'offesa all'originalità dell'ingegno italiano. So questo e altro; ma io devo dire quel che penso. Questo ingegno italiano, tanto adulato e imbalsamato, e spesso così mal servito dai suoi medesimi adulatori, non ha niente a temere in tutta questa faccenda; e non è screditare l'originalità di nessuno il dire che chi vien dopo è preceduto da chi è venuto prima. Siamo arrivati tardi, dopo essere stati i primi: ecco tutto. Ma di chi la colpa? Di coloro, che ci hanno legato i piedi e le braccia, e non ci hanno lasciato fare. La colpa, in parte, è degli stessi imbalsamatori. Non ci è peggio, che il falso concetto dell'originalità. Si crede, che essere originale vuol dire troncare ogni relazione colla realtà e col processo storico, e fare da sè solo senza tempo e spazio, e creare un nuovo mondo a piacere e a ogni momento. Di tali _originali_ io ne conosco molti. Il processo del pensiero tedesco, è naturale, libero, consapevole di sè: in una parola, _critico_. Quello del pensiero italiano è spezzato, impedito e _dommatico_. Questa è la gran differenza. Ora l'Alemagna è entrata in un nuovo periodo critico, più ampio e vigoroso del precedente, e al quale succederà una nuova costruzione del reale. E noi altri italiani, prima di rimetterci davvero in via, e dar corso a tutta l'originalità precoce, che non ci cape in seno, abbiamo l'obbligo di rientrare ancora in noi medesimi, di orizzontarci, di guardarci anco attorno, di vedere e conoscere ciò che gli altri hanno fatto da sessant'anni in qua, e specialmente ciò che stanno facendo. Solo così noi faremo nel mondo del pensiero, come abbiam quasi fatta nel mondo politico, un'Italia che duri, non un'Italia immaginaria, pelasgica[137], pitagorica, scolastica, e che so io, ma un'Italia storica: un'Italia che abbia il suo degno posto nella vita comune delle moderne nazioni. III. SCHIZZO DI UNA STORIA DELLA LOGICA APPENDICE ALLE LEZIONI. AVVERTENZA. Nella Lezione nona ho detto: «I momenti storici del puro conoscere sono in Alemagna la Coscienza, l'Autocoscienza, la Ragione e lo Spirito; cioè Kant, Fichte, Schelling ed Hegel». In una Introduzione come la mia, il cui tema principale era la esposizione del pensiero filosofico italiano, io non poteva trattare più ampiamente questa materia della filosofia tedesca. Dissi un po' di Kant; ma quasi niente di Fichte, Schelling ed Hegel. E pure chi non sa il significato di questi filosofi nella storia della filosofia moderna, non può farsi un concetto giusto e adeguato della filosofia italiana di questi tempi. Nel mio _Corso di Logica_, che fece séguito immediatamente all'Introduzione, io dovei ritornare su questa materia, perchè, volendo giustificare il concetto che io m'era formato di questa scienza, stimai di non poter ciò fare altrimenti che coll'esporre in poche lezioni il suo sviluppo storico; e giacchè un tal concetto si fonda nel nuovo indirizzo della filosofia dopo Kant, questa parte storica dovea versare principalmente nella filosofia tedesca. Io do qui questa esposizione come appendice all'Introduzione. Avrei potuto abbreviarla anche di più, togliendo quelle parti, che non hanno una relazione diretta col fine, per cui la inserisco in questo volume. Pure l'ho lasciata tal quale, perchè da un lato si veda chiaro tutto il mio pensiero, e dall'altro il lettore abbia come un saggio di questo corso di logica, che forse — quando che sia — mi risolverò di pubblicare[138]. Questa esposizione è una brevissima storia della filosofia (occidentale), considerata da un certo punto di vista: dal punto di vista logico. Anche sotto questo aspetto esso può servire di chiarimento al soggetto principale della Prolusione e dell'Introduzione. PRELIMINARI. 1. La logica è la scienza delle categorie. Scienza, vuol dire sistema. Il problema della logica è dunque il _sistema delle categorie_. Ma cos'è, e come è possibile il _sistema_? Per Aristotele sistema era apodittica (la necessità che dimostra se stessa: la necessità razionale). La sua logica (più esattamente: l'intento principale dei suoi scritti logici) era la esposizione dell'apodittica: una propedeutica scientifica, ovvero un esperimento che il pensiero umano deve fare, appunto nell'apodittica, dell'unità dell'universale e del particolare, la quale viene poi conosciuta ontologicamente come Principio (nella metafisica)[139]. Anche per noi la logica è la esposizione del sistema come tale (della sistematica): cioè _teorica della scienza_. Ma è anche altro; cioè _metafisica_. Per Aristotele la logica, sebbene avesse in sè un fondamento nella metafisica (nella filosofia prima), pure era semplice avviamento a quella. Era dunque fuori della scienza (del sistema), cioè semplice _analitica_: una teorica dell'apodittica, senza apodittica. Per noi la logica è la stessa filosofia prima, la stessa metafisica; non propedeutica, ma — come teorica della scienza o sistematica — la scienza fondamentale: non fuori del sistema, ma parte essenziale e principale del sistema. Dire adunque _scientificamente_ cosa sia scienza o sistema è, per noi, tutta la Logica. La logica finisce nel concetto di sistema; il Logo è il sistema come sistema. 2. Intanto io credo utile far intendere _anticipatamente_ cosa sia sistema. E farò nel modo seguente. Dimostrerò, che il sistema come tale — la sistematica, e quindi il sistema della logica (la soluzione del problema logico, cioè della unità organica delle categorie) — non è possibile, che secondo il nostro punto di vista; cioè secondo il nostro modo di intender l'essere, il vero essere, e quindi la stessa logica; e che tutti gli _altri punti di vista_ rendono impossibile il _sistema_, e non risolvono il problema della logica. Io farò, brevemente, la critica di questi punti di vista, non per rigettarli assolutamente, ma piuttosto per far vedere che il nostro è il loro risultato necessario, e che esso solo può risolvere il problema; e come non è un punto opposto agli altri, ma contiene in sè gli altri. Fare la critica di questi punti è fare la storia del problema del concetto e del metodo della logica, e in gran parte della stessa filosofia. E avere così, mediante la critica, il concetto vero di sistema — il concetto vero della logica —, non è un modo assolutamente estrinseco di giustificare questo concetto. Sistema è in sè sviluppo, critica, storia. La logica, come sistema del semplice pensare, è la storia e direi quasi il dramma del semplice pensare: quella che davvero merita il nome di _storia pura ideale eterna_. A questo modo noi avremo il concetto di sistema come sviluppo di se stesso; cioè in quanto si forma e si fa realmente o storicamente quello che è. La scienza, infatti, è essenzialmente storia, perchè è ragione, assoluta ragione; e la ragione è assoluta, in quanto è risultato necessario di se stessa. In questa natura della ragione si fonda la necessità della storia della scienza: la necessità della storia in generale. La storia, si dice, serve a far conoscere il presente mediante la conoscenza e la critica del passato. Perchè? Perchè il presente, il vero presente, è la verità del passato: è il passato, in quanto _inverato_. Il che vuol dire, che il presente senza il passato è qualcosa d'astratto, e perciò non è assoluta ragione. L'assoluta ragione è appunto questo _continuo presente_, che senza storia non è niente, e la cui concretezza è la storia stessa. I. FILOSOFIA ANTICA. Filosofare è spiegare (conoscere) l'ordine, la connessione, la relazione delle cose. _a_) La filosofia greca prima di Socrate considera solo l'_ordine naturale_ delle cose, la _natura_, la _natura delle cose_, la _realtà naturale_: in generale, l'_Essere_, l'_essere naturale_. L'Essere è 1. semplice _essere_ naturale, essere e principio immutabile delle cose: cioè _principio materiale_ (Ionici), _numero_ (Pitagorei), _puro essere_ (Eleati). 2. semplice _divenire_ naturale: principio della mutazione delle cose: cioè _semplice indeterminato divenire_ (Eraclito), _divenire materiale_ (Empedocle, Atomisti), _divenire sopramateriale_ o come intelligenza (Anassagora). 3. _essere cosciente_ naturale. Il principio di Anassagora (il suo Noo), come _intelligenza naturale_, è il soggetto (la _realtà cosciente_) immediato, l'uomo come _individuo_: il principio della Sofistica. Tutta questa filosofia è filosofia naturale: 1. perchè considera solo la realtà naturale. La realtà cosciente, infatti, è considerata come realtà naturale (aequa, numero, ecc.); non è distinta chiaramente dalla naturale, e molto meno messa sopra la naturale. Così la _giustizia_ pei Pitagorei è un numero, etc. 2. perchè _conosce_, ma senza _riflettere sul conoscere_, sul _processo e autorità del conoscere_, senza _conoscere il conoscere_; cioè senza _conoscenza di sè_. Conoscere è _realtà cosciente_. Conoscere il conoscere è conoscere la realtà cosciente. Tutta questa filosofia è dunque semplice conoscenza della _realtà naturale_: dell'_ordine naturale_ delle cose. In essa non era possibile la logica; perchè la logica è _conoscenza della conoscenza_. La stessa Sofistica, avendo per principio il soggetto _individuale_, non _universale_, non poteva aver _logica_, ma solo _rettorica_. La quale pure è già qualcosa: è come il bozzolo della logica. _b_) Socrate, il primo si eleva all'_orizzonte_ della logica, elevandosi dal conoscere naturale al conoscere a _concetti_, dall'_oggettività_ naturale alla _oggettività ideale_. Questa è insieme l'essenza delle cose e l'essenza del pensiero (è questa, in quanto quella). D'ora innanzi il problema principale della filosofia è la _relazione ideale_ (_logica_) delle cose, non più la _naturale_. Platone sostanzializza i _concetti_ socratici: le _idee_. Ne fa un mondo, ordinandole mediante la _dialettica_; i cui momenti sono: _scendere_ dalle superiori alle inferiori mediante la _dieresi_ di quelle, e _salire_, al contrario, mediante la _sinagoga_[140] delle inferiori: _dall'uno a' molti, e da' molti all'uno_. Socrate e Platone attendono più alla forma della universalità che al contenuto. Platone non distingue nettamente i concetti, il cui contenuto è universale e non intuitivo, da quelli il cui contenuto è particolare e intuitivo: i concetti _puri_ dai _rappresentativi_. Aristotele li distingue: categorie. Mediante le categorie si _intende_, si _concepisce_ la _rappresentazione empirica._ Ma altro è quello, che fa concepire (la categoria); altro è l'_atto del concepire_, del pensare, del ragionare, del provare. Quindi _materia e forma_ del pensare: materia e forma _logica_. Quindi due parti o elementi della logica: cioè categorie, e forme del pensare (concetto, giudizio, sillogismo: prova). Quella è più metafisica; e val quanto dire si accosta e s'intreccia più colla metafisica aristotelica. Questa è più logica. Non dico già che Aristotele abbia fatto una logica così. Si sa che ciò che si è chiamato _Organo_ non è altro che la _raccolta_ de' suoi scritti logici. Ma quel che voglio dire è, che la distinzione tra materia e forma logica ci è in Aristotele, e che in Aristotele «logica» importa principalmente studio della _forma logica_. Quel che manca in Aristotele, è la soluzione del problema della relazione tra la categoria, senza di cui niente s'_intende_, e l'atto o la forma del pensare: tra la materia e la forma logica: in altri termini, tra la metafisica e la logica. La logica aristotelica non è _formale_, nel senso moderno di tal vocabolo; ma si presta a diventar formale. Non è formale, perchè non è opposta alla metafisica; si presta a diventar formale, perchè non determina la relazione tra la materia e la forma del pensare. Che non si opponga alla metafisica, tutti l'ammettono ora; anzi taluno crede, che non solo non ci sia opposizione in Aristotele tra logica e metafisica, ma invece una unità fondamentale; giacchè il concetto della _sostanza_ è insieme _categoria ontologica suprema_ e l'_essenza_ del sillogismo. Ora è vero, che il concetto della sostanza ha un tal valore in Aristotele; ma da ciò non segue, che egli abbia determinato la relazione tra la materia e la forma del pensare; come dicendo in generale: lo _stesso essere_ sotto due aspetti[141], non determina davvero la relazione tra questi due aspetti. Dice che sono _uno_; ma, non _traendoli_ dall'uno, non li _distingue_, nè li fa _uno_ davvero. Pare a me che il non determinare quella relazione sia appunto il difetto del sistema aristotelico; e che tal difetto sia quello stesso che si è chiamato dualismo di forma e materia (universale e particolare), la cui unità, — cioè il punto oscuro e non inteso, — è, come si sa, la _sostanza_. Il concetto della sostanza è _oscuro_; non inteso, ma presupposto. Questa posizione corrisponde a quella della _non unità_ e della _non opposizione_ tra logica e metafisica. Non vi è unità, perchè la sostanza non s'intende; non vi è opposizione, perchè la sostanza è presupposta. Perciò, come ho già detto, questa logica non è formale, ma si presta a diventare formale. Per la stessa ragione, questa logica non è metafisica, ma si presta ad essere metafisica. Questa _indifferenza_ ha la sua radice nel dualismo aristotelico di forma e materia. II. FILOSOFIA MODERNA. La filosofia antica è essenzialmente considerazione dell'oggetto (della natura). Lo considera prima _naturalmente_; poi _idealmente_. Nella prima considerazione il naturale è principio del naturale, il fatto del fatto. Nella seconda il principio è l'oggettività ideale, che _trascende_ la naturale; il fare che trascende il fatto. Originariamente essa non è conoscenza della _realtà cosciente_, come la filosofia moderna. Questo problema nasce in essa per risolverne un altro, che è il principale. Perciò è inteso in altro modo che nella filosofia moderna; è piuttosto il problema della _realtà saputa_, che della _realtà cosciente_. La filosofia moderna, al contrario, è essenzialmente considerazione del _soggetto_, della realtà cosciente, dello spirito. Si sa come per istinto (per tutta la esperienza da Talete a Cartesio), che, spiegato questo, tutto è spiegato. Essa procede rispetto alla _realtà cosciente_, al nuovo oggetto, come l'antica procedeva rispetto all'oggetto antico, alla realtà naturale. Da prima spiega il fatto col fatto; considera la realtà cosciente — la psiche, il conoscere — naturalmente, come qualcosa d'immediato[142]. — Dommatismo. Poi spiega il fatto col _fare_; studia il fatto intero e assegna come principio ciò che trascende il fatto; considera la realtà cosciente _idealmente_. — Criticismo. — Il fare qui è il _puro conoscere_ trascendentale. — Kant. Come il _concetto_ socratico (oggettività ideale) _trascende_ la realtà naturale, che si vuol spiegare, è la _realtà pura_, l'Idea; così il _puro conoscere_ kantiano (categorie, intuizione pura, unità sintetica _a priori_) _trascende_ il conoscere, la realtà cosciente come esperienza. Socrate fonda il trascendentalismo antico; Kant il moderno. Questa è la ragione, per cui Kant si chiama il Socrate moderno, e Socrate il Kant antico[143]. Ma tra l'antico e il moderno ci è infinita differenza; giacchè la filosofia antica è considerazione prima _naturale_ e poi _ideale_ della realtà naturale; la moderna è considerazione prima _naturale_ e poi _ideale_ della realtà cosciente. Perciò così il naturalismo come l'idealismo antico si diversifica dal naturalismo e dall'idealismo moderno. L'uno e l'altro nell'antichità sono oggettivismo; ne' tempi moderni, soggettivismo. E nello stesso modo il dommatismo antesocratico differisce dall'antekantiano, come il dialettismo socratico dal kantiano. _A_) Vediamo ora cos'è la logica in questa nuova _posizione_. Nell'antichità non poteva essere che quel che fu; giacchè, mancando la conoscenza diretta della realtà cosciente, non era possibile la soluzione del problema sulla relazione tra materia e forma. Ora, come nell'antico naturalismo non fu possibile la logica, e cominciò solo con Socrate, così nel nuovo naturalismo (da Cartesio e Bacone a Kant) non fu possibile la _nuova_ logica, la logica corrispondente alla _nuova posizione_ (problema della _realtà cosciente_); si riprodusse solo e si continuò l'antica logica (modificata più o meno in bene o in male, ma, in sostanza, la stessa sempre). Il nuovo naturalismo considera la _realtà cosciente_, il _conoscere_, come qualcosa di _naturale_, o un _fatto_; come _essenza, sostanza, causa_: come qualcosa d'_immediato_. Quindi due tendenze: Realtà cosciente come _Idea innata_; Realtà cosciente come _Senso_. Idea innata e Senso sono due _immediati_. Quindi due metodi, due principii, due indirizzi: Idealismo ed empirismo; processo a priori e processo a posteriori; assioma o immediato ideale, ed esperienza o immediato sensibile; deduzione (metodo matematico), e induzione; discorso dalla causa all'effetto, dal principio alla conseguenza, e dall'effetto alla causa, dalla conseguenza al principio. La spiegazione è sempre la relazione causale: il _pensare_ come _causare_[144]. Hume, infatti, nel quale questo naturalismo si dissolve, indirizza il suo scetticismo principalmente contro la _relazione causale_. Negata la causalità, è negata tutta questa filosofia naturale. È spiegata così la realtà cosciente? La _coscienza_ non è un _essere naturale_, non un _immediato_ semplicemente; non un semplice _effetto_; non risulta da quel che non è coscienza, da quel che è semplice realtà (il pensare non risulta dall'essere, il fare dal fatto); non risulta dall'_idea innata_; non risulta dall'_impressione sensibile_. Dunque, così non è spiegata. Come l'antico naturalismo si dissolve nella sofistica, così il nuovo si dissolve nello scetticismo di Hume. _B_) KANT. Il conoscere, la realtà cosciente, dice la Sofistica, non può essere spiegato dall'acqua, dall'aria, dal numero, dal puro essere, dal divenire, dallo stesso noo di Anassagora. Dunque, _nego_ il conoscere, l'oggettività del conoscere; giacchè, se deve essere spiegato da que' principii, cioè _naturalmente_, non si può spiegare; e se uno di que' principii, cioè la _natura_, è il vero principio, il conoscere, non potendo essere spiegato da questo principio, non ci è. — Ora, _negare_ il conoscere è già _affermarlo_; è dire: io _conosco_ di non conoscere. La proposizione: _non conosco_, presa dommaticamente, è un giudizio categorico, e perciò _conoscere_. Questa proposizione, dunque, annulla se stessa, se si prende assolutamente. Questa contradizione è la Sofistica. Il conoscere sofistico è un conoscere che non è vero conoscere; è opinione, conoscere individuale, soggetto empirico. — Pure la Sofistica ha un lato vero. Quando essa dice: _non ci è il conoscere_, dice ciò nella sua posizione _storica_, cioè reale, vera; per intendere la Sofistica, non bisogna astrarla da questa posizione. Ora in questa posizione essa, dicendo _non conoscere_, vuol dire _non conoscere_ nel senso della filosofia naturale, e non già _negazione assoluta_ del conoscere; e perciò è una negazione che non è annullamento: non è una negazione _dommatica_ (come quando si dice: non ci è il conoscere, _ut sic_), ma in sè semplicemente _critica_; non è in sè _dommatismo_, ma, se posso anticipare la frase, _criticismo_: la critica della filosofia anteriore. Questo è il lato vero della Sofistica. Il falso è la negazione presa assolutamente, cioè come annullamento; la critica presa come dommatica, cioè come non più critica, il _non essere_ preso come il _niente_, e non già come avviarsi al vero essere; come _annullarsi_ e non già come _inverarsi_. La critica, come inveramento e non già come annullamento (Sofistica), la critica, come vera critica, è Socrate. Socrate è la verità della Sofistica. Socrate nega la filosofia naturale, come la Sofistica; ma, negandola, pone il nuovo principio: il _concetto_. La negazione _fissata_, cioè presa assolutamente, è l'individuo sofistico; la negazione _risoluta_, cioè come inveramento, è la _coscienza_ e il _conoscere socratico_: il _conoscere a concetti_. Hume ha, rispetto alla filosofia anteriore da Cartesio e Bacone e rispetto a Kant, la stessa posizione che la Sofistica ha rispetto al naturalismo greco e a Socrate. Lo scetticismo di Hume come proposizione dommatica è la nuova Sofistica; come _critica_ è _inveramento_, è Kant. In Hume la filosofia moderna nega se stessa come _filosofia naturale_; e in Kant afferma se stessa come _filosofia del conoscere_, come filosofia critica, cioè come _filosofia della_ POSSIBILITÀ _del conoscere_. Socrate, dunque, fonda la filosofia della POSSIBILITÀ _della realtà saputa_, e quindi indirettamente della realtà cosciente: _ontologismo trascendentale_. Kant fonda la filosofia della POSSIBILITÀ _della realtà cosciente_ direttamente: _psicologismo trascendentale_. Socrate dice: la possibilità della realtà saputa è il _puro saputo_, il _puro conosciuto_, il _puro intelligibile_, il _concetto_, l'universale, l'oggettività ideale. — Quindi l'Idea platonica (ὄντως ὄν). (quindi l'Idea aristotelica: la Sostanza (οὐσία): unità di materia e forma: non vera unità, appunto perchè Ente. Kant dice: la possibilità della realtà cosciente è la _pura coscienza_, il _puro conoscere_, il _puro sapere_, il concetto, l'universale, l'idea, ma come _sapere_, come Io, _Io penso_, soggetto, e non già come saputo, non-io, oggetto. Socrate pone il concetto, l'universale, il _pensare_ come pensato, come _essere_. Kant lo pone come _pensare_, come _atto_ del pensare che è psiche, dell'_Io penso_, come _forma_ dell'_Io penso_. Concetto, universale, categoria (determinazione universale delle cose, determinazione ontologica, metafisica) = _forma del pensare_, dell'_Io penso_ (forma logica); cioè _materia logica_ = _forma logica_; _metafisica_ = _logica_: tale è _in sè_ il kantismo. Ma solo _in sè_. È il nuovo _orizzonte_ della filosofia. Ma Kant — il criticismo kantiano — è inferiore alla sua _potenza_; come il _concetto_ socratico è in sè il platonismo e l'aristotelismo e altro, ma, come attività puramente socratica, è meno della sua _potenza_. In Socrate il _concetto_ è tutto nell'attività del soggetto filosofante, nell'attività _induttiva_; non è ancora sistema delle idee, cioè _dialettica_ platonica (dialettica dell'Ente stesso); non è ancora _metafisica_ (Aristotele). Dialettica e metafisica sono come assorbite nell'_attività_ socratica, soggettiva, dialogica. In Kant, più che l'unità della metafisica e della logica, si ha l'assorbimento della metafisica nella logica, nella nuova logica: nella logica dell'_Io penso_ come semplice Io, del soggetto come semplice soggetto (e perciò non vera logica, in quanto non è logica e metafisica). È nuova logica, perchè la categoria è _forma_ (_attività_) dell'_Io penso_; non è vera logica (vera nuova metafisica), perchè la categoria così, come semplice forma dell'Io, del semplice soggetto, non è determinazione della _cosa in sè_ (noumeno), ma solo della cosa _rispetto a noi_, o in quanto conosciuta da noi (fenomeno). La logica kantiana è, come è stato detto, _metafisica del fenomeno_, non dell'Ente. Qui ci è del vero e del falso. Il vero (il nuovo) è aver posto la categoria come _forma_ (_attività_) dell'Io. Il falso è aver preso il semplice Io, il semplice soggetto, e aver opposto ad esso la _cosa in sè_, distinguendola dalla _cosa per noi_, alla quale sola compete la categoria. La _cosa in sè_; cioè considerare il puro conoscere come non assolutamente puro; il conoscere trascendentale come non assolutamente trascendentale; il _fare_, non come assoluto fare, ma come ancora _fatto_, e perciò non come assoluta trasparenza; l'Io o la Psiche, non come Io o Psiche assoluta, ma come Io o soggetto finito, semplice _coscienza_, tale è il difetto del kantismo, la sua contradizione: la contradizione colla sua stessa _posizione fondamentale_ (_unità sintetica originaria_). _Unità sintetica originaria_: questo è il fondamento e la possibilità della nuova logica, di quella che è logica e metafisica; della nuova metafisica (non più dell'_Ente_, nè del solo _fenomeno_, ma della _Mente_). _C_) FICHTE. 1. Vediamo lo sviluppo della nuova posizione: della posizione kantiana. Unità sintetica originaria vuol dire: unità che produce e unisce gli opposti. È dunque unità come _assoluto fare_; e, come assoluto fare, è _posizione di se stessa_. È la vera _apriorità_, l'assolutamente Primo, appunto perchè è _prima e dopo_ gli opposti. Come tale è in sè ciclo: sillogismo. L'apriori cartesiano è un falso apriori; è un dato naturale, un a posteriori. L'unità sintetica originaria è unità dell'apriori e dell'a posteriori (Cartesio e Bacone). Ma Kant stesso non intende l'unità sintetica originaria come assoluta produzione, come produzione di sè: ciclo, sillogismo. La intende come semplice _giudizio_[145]. _Giudizio_ (κρίσις) non è semplice unità, unità meramente immediata, ma _unità che si distingue_ in se stessa, unità nella _forma della distinzione_. L'unità non è annullata, ma permane e si _mostra_ come _distinzione_. Ma non è la vera unità, perchè non è _integrazione_ della distinzione, e perciò _rintegrazione_ di sè stessa. Tale è solo il _sillogismo_. Il _giudizio_ non è assoluto fare, il vero pensare; ma è fare _e_ fatto, pensare _e_ essere. È _pensare_, in quanto _distinzione_; è _essere_, in quanto unità. Distinzione come _pensare_ (nella forma del pensare; distinzione _pensata_), e unità come _essere_ (nella forma dell'essere): tale è il _giudizio_. Il _giudizio_ è, dunque, unità parziale tra intelletto e senso, soggetto e oggetto. Quindi il soggetto ha un limite nell'oggetto, l'_Io_ nel _non-io_. Questo limite è la _cosa in sè_. Quindi la _realtà cosciente_ non è per se stessa, ma per qualcosa che non è essa stessa e che la limita: per qualcosa di _naturale_. Ciò vuol dire, che essa non è _realtà cosciente_; che è _fatto_, non fare, non farsi. Dunque, così, la realtà cosciente, il conoscere, non è spiegato. E perciò il problema della logica non è sciolto. Ora Fichte dice: realtà cosciente, in quanto unità sintetica originaria, è _assoluto fare_: è _autocoscienza_, e come tale, _produzione assoluta di sè_. Quindi non più _cosa in sè_. La _cosa in sè_, il non-io, il limite dell'Io, è posto dall'Io stesso; e perciò non è più limite. L'Io (_tesi_) pone in sè il non-io (_antitesi_), e, ponendolo in se stesso (pensandolo e superandolo), pone davvero se stesso (_sintesi_). Questa produzione assoluta di sè — tesi, antitesi, sintesi — questa vera unità originaria è la produzione delle categorie. L'Io, l'autocoscienza, che, in quanto produzione di sè, è produzione delle categorie: — tale è la _logica_ di Fichte. L'unità sintetica originaria è una posizione, che è triplice posizione: _Prima posizione_: L'Io pone se stesso come semplice Io. _Tesi_. Io = Io, _Io sono Io_. Quindi il _concetto_ dell'_essere_: La _categoria_ della _realtà_ (metafisica): La _forma logica_ dell'identità (logica). _Seconda posizione_: L'Io pone il non-io. Antitesi. (Si distingue da sè come non-io). Io è _non-io_: Io _non sono_ Io. Quindi il _concetto_ del _non-essere_: La _categoria_ della _negazione_: La _forma logica_ della _differenza_. _Terza posizione_: l'Io, ponendo il non-io è nel non-io, in quel che ha posto; e perciò stesso il non-io è nell'Io (non è un _di là_, un limite insuperabile, _cosa in sè_). Ma l'Io pone se stesso, l'Io; e nell'Io è il non-io. Dunque, l'Io pone nell'Io il non-io. Dunque, è unità o sintesi dell'Io e del non Io. _Sintesi_. Quindi il concetto dell'_essere per sè_ (vero essere); La _categoria_ della _relazione_; La _forma logica_ della _ragione_. Questo _ritmo_ (tesi, antitesi, sintesi), è la vera _forma logica_: il _metodo_ della logica (la vera forma del pensare). Kant avea detto: categoria è Io, _forma_ dell'Io, _attività_ dell'Io. — Questo era un progresso. Ma Kant non determinò la relazione tra l'Io e la categoria, tra l'Io e la sua funzione. L'Io _è dato_ e la categoria _è data_. Sono due presupposti. Questa relazione è determinata da Fichte. Per Fichte, «_categoria è attività dell'Io_» vuol dire: l'attività dell'Io è il suo prodursi per se stesso, e il suo prodursi è la produzione delle categorie. L'Io, producendo se stesso, _categorizza_ (produce le categorie); categorizza sè; è Categorica; è attività categorizzante. Adunque, Fichte è il vero Kant —: Fichte _deduce_; Kant _descrive_. In Kant non è cessato interamente il _naturalismo_. 2. Per Aristotele la vera categoria è la sostanza (οὐσία): l'unità dell'universale e del particolare: l'Individuo. La sostanza — questa categoria — è la essenza, la _forma_ del _concetto_, del sillogismo aristotelico. In essa è la radice della unità tra la metafisica e la logica aristotelica. Ma Aristotele non _intese_ la unità dell'universale e del particolare. Questa unità (unità sintetica originaria) è _mentalità_ (autocoscienza). La _mentalità_ è il pregio (la scoperta) di Fichte. La mentalità è la _vera individualità_. È l'unità, non più come _giudizio_ (Kant), ma come _sillogismo_. Spinoza concepiva la sostanza (l'individuo) come semplice _causare_ (identità assoluta come causare). La sostanza spinoziana è la stessa sostanza cartesiana: _cogitare ergo esse_ come attività immediata. Fichte compie Aristotele (e Spinoza), ma solo _formalmente_. E in ciò è il difetto di Fichte. Fichte, infatti, spiega solo la realtà cosciente in quanto _cosciente_: spiega la _coscienza_. La spiegazione è: coscienza è _autocoscienza_. Conoscere, coscienza, nella sua realtà (come reale conoscere) vuol dire: Soggetto e oggetto, Io e non-io, realtà cosciente e realtà saputa, spirito e natura. Ma, da un lato, perchè il conoscere sia REALE _conoscere_ (non sia semplice apparenza), è necessario che l'oggetto, il non-io, la realtà saputa, la natura, sia un _reale_; qualcosa, che sia fuori e senza il soggetto. E dall'altro lato, ciò nondimeno, perchè il conoscere sia VERACE _conoscere_, cioè non sia semplicemente _posto_, ma _ponga_ se stesso, è necessario che il soggetto, l'Io, il sapere, sia _in se stesso_ — cioè appunto come soggetto o Io — sia, dico, Io e non-io, soggetto e oggetto, sapere e saputo, spirito e natura. La essenza del conoscere — il non esser semplice _effetto_, ma _causa sui_ — _esige_ questo lato. Questo ci vuole, perchè il conoscere sia _conoscere_, cioè non semplice realtà, realtà naturale, ma realtà _cosciente_, Io. L'altro lato ci vuole, perchè il conoscere sia _reale_, oggettivo: non sia la _pura forma_ del conoscere, la sua semplice essenza come conoscere. L'uno senza l'altro non è il conoscere nella sua realtà, il vero conoscere. Ora il pregio di Fichte (e originalmente di Kant) è appunto questo: conoscere è conoscere se stesso, coscienza è autocoscienza. E ciò, non nel senso semplicemente: «Io non posso conoscer _altro_, se non conosco prima me stesso; io non posso dire _non-io_ se non dico prima _Io_». _Coscienza è autocoscienza_ vuol dire: l'Io non sarebbe coscienza, conoscere, se non fosse in sè (come _Io_, come _Auto_) Io e non-io; l'_Io_, l'_Auto_, è in sè Io e non-io, e perciò come coscienza, come conoscere, è autocoscienza, conoscenza di se stesso. Coscienza è _Sè_ e _Altro_. Ora è autocoscienza, in quanto l'_Auto_, il _Sè_, è _Sè e Altro_; è, in sè, _Sè e Altro_. Io come Io e non-io: tale è il pregio di Fichte. Io come Io e non-io è l'unità sintetica originaria: quella unità (Io) che produce (pone) e unisce gli opposti (Io e non-io). Questa unità, che è produzione di se stessa, è l'autocoscienza. In quanto produzione di se stessa è ritmo, categoricità: produzione delle categorie. Il fichtismo è vero, in quanto s'intende così: conoscere vuol dire soggetto e oggetto; io dunque non _conosco_, se non sono in me — come soggetto, come conoscere — soggetto e oggetto. Se il conoscere non è in sè questa unità; se il soggetto non è in sè questa _forma_, il conoscere non è _certezza_, non è _mio_ conoscere, non è _Io_; è semplice _pictura in tabula_, non realtà _cosciente_, e quindi non _saputa_; quella che si dice realtà saputa, è semplice _impressione_ naturale in una realtà naturale; manca la _coscienza_, l'_Io_. La pittura è impressa nella tavola. Perchè la tavola non _sa_? D'altra parte il fichtismo è falso, se s'intende così, che il non-io (il mondo, la natura, l'oggetto) che è nell'Io ed è posto dall'Io, sia il _reale_ non-io; cioè dire, che l'Io crei davvero il mondo, il mondo reale. È falso, se s'intende che l'Io crei se stesso come Io _reale_. Io reale importa non-io reale; e, giacchè il non-io _reale_ non è nell'Io, ma solo il semplice non-io, e il non-io reale non è posto dall'Io, così l'Io non è posizione di se stesso come Io reale, ma solo come semplice Io; come _forma_ del conoscere, ma non come reale conoscere; come _certezza_, non come verità del conoscere. L'Io è dunque qui assoluto e relativo, infinito e finito, fare e fatto, a priori e a posteriori, posizione di sè e posto. Questa è la contradizione del fichtismo: fissato come fichtismo. È assoluto, in quanto è semplice _forma_ del conoscere, Io come forma e essenza dell'Io, come _mentalità_ (_Ichheit_). È relativo, in quanto è reale conoscere, cioè non semplice mentalità (forma della mente), ma mente, mente reale. L'Io, dunque, come autocoscienza, come _produttiva_ autocoscienza, come _attività logica_, non è veramente assoluto, appunto perchè è assoluto solo come forma. E perchè è assoluto solo come forma, anche come forma non è davvero assoluto. Questa non assolutezza si mostra nella stessa autocoscienza come tale, come forma; giacchè il non-io, sebbene posto dall'Io, è pur sempre limite dell'Io; è limite posto dall'Io, ma sempre limite; _deve_ essere eguale all'Io, ma, al far de' conti, gli rimane sempre opposto: altrimenti l'Io non sarebbe Io. Così l'Io di Fichte, non essendo davvero assoluto, non risolve il problema della logica. Questa logica è sempre, come la kantiana, _metafisica del fenomeno_, non della mente assoluta. Fichte, dunque, spiega solo l'_esser cosciente_, e questa spiegazione è l'_autocoscienza_. Ma non spiegando la realtà di cui si ha coscienza — la realtà saputa —, non spiega davvero nè anche l'_esser cosciente_. Anche qui la realtà _cosciente_ è _realtà_ cosciente, solo in quanto ci è la realtà naturale. Se Fichte la spiega come _cosciente_ (e non la spiega davvero), non la spiega di certo come _realtà_, cioè come _realtà cosciente_. Fichte, dunque, non spiega il conoscere come _reale conoscere_. _D_) SCHELLING. 1. Con tutto ciò la scoperta di Fichte — il conoscere è impossibile, se l'Io non è in sè Io e non-io — questa scoperta rimane, e diventa la base di una nuova costruzione. Ed ecco in che modo: Come è vero che l'Io è in sè — in quanto Io — Io e non-io, giacchè altrimenti il conoscere non sarebbe possibile; così è vero che il non-io è in sè — in quanto non-io — non-io e Io, giacchè altrimenti il conoscere sarebbe impossibile. Appunto perchè è vera la prima proposizione, è vera la seconda. Se l'Io, infatti, in quanto Io, è Io e non-io, ciò vuol dire che il non-io è anche Io, cioè se stesso e l'Io. Solo l'Io, il semplice Io come Io e non-io (autocoscienza), non è il reale conoscere, perchè il non-io non è reale. Il non-io solo, senza l'Io, senza in sè stesso l'Io, è la semplice realtà naturale, non la _realtà saputa_, non il _reale conoscere_; anzi non è realtà che si _possa sapere_, non è _realtà conoscibile_. La _conoscibilità_ vuol dire dunque non solo il non-io nell'Io, cioè l'Io insieme Io e non-io (Fichte), ma anche il non-io insieme non-io e Io: vuol dire, insomma, _identità d'Io e non-io_. Questa _identità_ è Schelling. Lo spirito, dice Schelling, è in sè la natura; la natura è in sè lo spirito. Questa identità — identità assoluta — è la Ragione: la Ragione assoluta. Questa _identità_ non è quella di Bruno (semplice coincidenza), non quella di Spinoza (semplice insidenza). Il non-io, in quanto è in sè l'Io (la natura in quanto è in sè lo spirito), è Io come Io di Fichte, come autocoscienza, come _mentalità_. La identità dunque qui non è semplice causalità o assoluta indifferenza, ma è identità o indifferenza come _mentalità_: _Ragione_ assoluta, e non semplice Causa-sostanza assoluta. Schelling così non è Spinoza, appunto perchè la sua _identità_ è mentalità, non semplice causalità; appunto perchè Schelling è rispetto a Fichte quel che Spinoza è rispetto a Cartesio, e appunto perchè Cartesio differisce da Fichte come _causare_ da _creare_, come _causalità_ da _mentalità_[146]. Per intendere il significato di Schelling, consideriamo meglio questa sua posizione rispetto a Fichte. 2. Fichte dice: perchè il _conoscere_ sia _possibile_ (cioè idealità, conoscere, sapere, Io, Se stesso, non _pictura in tabula_, non semplice impressione), il non-io deve essere nell'Io, cioè l'Io deve essere Io e non-io: l'Io come _Se stesso_ deve essere se stesso e l'altro. Ciò è solo la mentalità (il creare). Schelling dice: perchè il _conoscere_ sia _reale_, l'Io deve essere nel non-io, cioè il non-io deve essere non-io e Io. In altri termini, Fichte dice: conoscere è autocoscienza. Schelling dice: perchè il conoscere sia reale, la realtà deve essere _conoscibile_. E perchè la realtà sia conoscibile, deve essere in sè il _conoscere_ (Io). Dunque, realtà cosciente è = conoscere, autocoscienza, mentalità. Realtà in generale è = conoscibilità, in sè conoscere, in sè mentalità. Quindi _identità_ come Io (Ragione, mentalità). Pare, che la seconda proposizione di Schelling, da cui risulta la identità, sia una semplice _esigenza_ per la _realtà_ del conoscere, dicendo: perchè il conoscere sia reale, il reale deve essere _conoscibile_. Si può dire qui: «Chi ci assicura che il conoscere deve esser _reale_? Fichte ha ragione di dire che, se il _conoscere_ non è quel che dice lui (autocoscienza), non è conoscere, ma _pictura in tabula_. Ma voi fate l'esigenza che il conoscere deve esser _reale_ (che il non-io sia reale, e non solo nell'Io), per dire _identità_. Ora il conoscere non potrebbe essere semplice conoscere, cioè il non-io essere _semplicemente_ nell'Io, e l'Io essere l'unico _reale_? Se il non-io è reale, segue certamente che per esser _conoscibile_, deve essere in sè Io: quindi la identità. Ma se non è reale? Adunque, la identità, — almeno così pare, — nasce dal supposto della realtà del non-io. Si esige questa realtà, e si conchiude quindi la identità». Fichte prova la _possibilità_ del conoscere, non la _realtà_. Gli antichi volevano dalla _realtà_ (dall'oggetto) ricavare la _possibilità_. Non riuscirono. Il conoscere non si prova che da sè, non da quel che non è _conoscere_. Gli antichi supponevano la realtà; non ne dubitavano. E da questo dato, da questo _reale_, cercavano di spiegare il conoscere: il conoscere da quel che non è conoscere. Schelling, pare, rimetta in campo il _reale_, e dica: reale, reale _conoscibile_; dunque, identità. Non si potrebbe dallo stesso principio di Fichte, dalla _possibilità_ del conoscere (dall'autocoscienza), derivare il Reale, la _realtà_ del conoscere? E quindi la _identità_? Non si può. «_Io nel non-io, e non-io nell'Io_, e quindi identità d'Io e non-io (identità, che è l'Io, il vero Io)» , vuol dire solo identità d'Io e di non-io possibile, di non-io nell'Io, non già d'Io da una parte, e di non-io dall'altra fuori dell'Io, di non-io reale: vuol dire solamente: se il non-io è reale, per essere _conoscibile_ deve avere questa natura, che in esso sia l'Io. Adunque, l'_identità_ che risulta da Fichte — identità, che è il principio stesso di Fichte, cioè la semplice _mentalità_: identità dell'Io con sè stesso, e non altro — questa identità come _realtà_, come identità reale, come identità reale d'Io e non-io, come identità d'Io e non-io reale, come identità _fondamentale_, come Natura: questa identità è un _presupposto_ di Schelling (intuizione intellettuale). Schelling dice bene con Fichte, spiegando Fichte: Se il non-io è reale conoscibile, deve essere Io. Quindi identità. Ma il se rimane sempre un se. Il se diventa _è_ nell'intuizione intellettuale. Certo è, ciò nondimeno, che posto l'Io, il non-io è posto come _possibile_; giacchè, se non fosse il non-io, non sarebbe l'Io. _Mentalità_ è relazione necessaria tra Io e non-io. Se l'Io dunque è _reale_, il non-io è reale, è realmente. Ma è _reale_ l'Io di Fichte? L'Io di Fichte è la semplice possibilità dell'Io (la semplice _mentalità_), non l'Io _reale_. Non si potrebbe rovesciare il discorso, e come si dice: «perchè il _conoscere_ sia possibile, bisogna che sia identità tra Io e non-io, e questa identità sia l'Io, la mentalità», dire invece: «bisogna che questa identità sia il non-io»? No. Questa _identità_ = non-io è l'_essere_: e sarebbe lo stesso che derivare l'Io dall'essere, dal non-io. La storia della filosofia prima di Fichte ha mostrato, che ciò non si può fare. Il pregio di Fichte è questo appunto: aver provato, che l'Io (la mentalità; non l'Io _reale_: reale, in quanto Io) non può derivare che da se stesso; che, come mentalità, è assoluto; e che perciò, se quella _identità_ è non-io, ossia essere, non ne può derivare l'Io (tale è lo spinozismo). Adunque, l'_identità_ non può essere che Io, Ragione, Intelligenza. Fichte ha _dimostrato_ questo, lui primo. Ma questa identità fichtiana è un _se_: una _relazione necessaria_, ma solo _possibile_. Schelling ha oggettivata questa relazione coll'_intuito_; ed ecco la _Natura_: il _Reale_. 3. Il pregio di Schelling è di aver detto: senza _identità_ di natura e spirito, senza identità (notate bene) come _mentalità_, non ci è il _conoscere_, il _reale conoscere_. (E già il conoscere non è che tale: conoscere non reale non è conoscere). Per Schelling conoscere la realtà è appunto conoscere questa _identità_, che è mentalità; come per Spinoza conoscere la realtà è appunto conoscere quella identità, che è la Sostanza-causa. Conoscere la realtà è afferrare la _relazione_: la relazione come identità. Per Schelling, conoscere la realtà è afferrare la relazione come mentalità; per Spinoza, come causalità. Per Spinoza l'Idea, la Relazione, è _Causare_: per Schelling è _Mentalizzare_ (Creare. Creare è identità come mentalizzare). Spiegare il _conoscere_ (e quindi la realtà, tutta la realtà) è dunque — posto Schelling — spiegare la identità come mentalità (è spiegare il _creare_). Schelling spiega la sua identità? Non la spiega, ma la _presuppone_; la pone _immediate_ nella _intuizione intellettuale_. Questo presupposto, cioè la identità come mentalità, posta immediatamente; questo presupposto è la _Natura_ di Schelling. Quindi _nuovo_ naturalismo; nuovo dommatismo; nuovo spinozismo; nuovo parallelismo. Infatti la differenza che si fa comunemente tra Schelling ed Hegel è: in Schelling spirito e natura sono _coordinati_ semplicemente, in Hegel la natura è _subordinata_ allo spirito. Per Schelling la identità, in quanto presupposta, in quanto _intuita intellettualmente_, cioè la _Natura_, è il Primo. «La Intelligenza» (la Ragione, la mentalità, la identità), dice Schelling[147], «è _produttiva_ in duplice modo[148]: o ciecamente e senza coscienza, o liberamente e con coscienza; senza coscienza è produttiva nella intuizione universale; con coscienza, è produttiva nella creazione del mondo ideale». _L'intuizione universale è qui la Natura; il mondo ideale è lo Spirito_ (_ordo rerum, ordo idearum_). Ora per Schelling l'_intuizione_ è il Primo: è il fondamento universale. Quindi prima, la incoscienza; poi, la coscienza; quella produce questa, la natura lo spirito; la natura si contrappone a se stessa come spirito. — Questa contrapposizione è il _nuovo parallelismo_. Ora la Natura — la intuizione — non è il Primo; è Primo solo come un _presupposto_; e quindi un falso Primo. Schelling dunque, presupponendo e non spiegando la identità, cioè ponendo come Primo la Natura, non spiega il _conoscere_, ma lo presuppone e quindi non spiega la realtà. Schelling riduce tutto e ogni cosa a questa identità presupposta, a questo Primo; comprendere le cose è comprendere questa identità nelle cose. Come si comprende questa identità? Non col _discorso_, colla logica ordinaria, ma con un _organo_ adequato alla identità stessa. Questa identità, che è _intelligenza_, appunto perchè _immediata_, è _intelligenza-intuizione_, intelligenza intuitiva (Natura). Adunque, non può essere appresa che colla _intuizione intellettuale_. Questa è l'_unico vero organo_ della filosofia: questa è la _logica_ di Schelling. È una logica, che è un solo atto, un _atto immediato_: una, come è stato benissimo detto, esplosione di pistola[149]. È una logica, che non è logica. Questa esplosione è la spiegazione del conoscere: è spiegare e comprendere la realtà. — Non è una spiegazione. Così, posto Schelling, come fare? Come andare avanti? Come spiegare il conoscere? Ritornare semplicemente a Fichte, non si può: l'Io di Fichte non spiega il conoscere. A Kant, molto meno; e anche molto meno a Cartesio, ad Aristotele, a Platone. Dunque, come fare? Bisogna conservare tutto il progresso sino a Schelling, e vedere quel che manca. Fichte pone la _mentalità_; senza la mentalità non è possibile punto il conoscere. Schelling dice: senza identità reale, identità come mentalità, non ci è il conoscere. Fichte e Schelling hanno ragione. Ma Schelling _presuppone_ la identità, la identità come mentalità. Questo è il suo difetto. Bisogna dunque _provare_ la identità. Solo provando la identità, si spiega il conoscere; si risolve il problema della logica. Questa _prova_ è Hegel. _E_) HEGEL. 1. La Identità di Schelling è intelligenza, ragione, mentalità: è l'Io (l'autocoscienza) di Fichte, non come Io soggettivo, ma come identità di natura e spirito, come mentalità assoluta. Come mentalità, essa non è un semplice _immediato_, ma mediazione o relazione assoluta verso se stessa (tesi, antitesi, sintesi). Perciò essa non può essere appresa immediatamente, intuitivamente; non può essere _intuita_, ma solo _pensata_. Questa è la contradizione di Schelling. (È la stessa contradizione di Gioberti, tra il _principio_, che è il _creare_, e il _metodo_ del sistema, che è l'_intuito_ come _cognizione immediata_). L'_organo_ della sua filosofia non può essere che _logica_, _pensare_, mediazione del pensare con se stesso, perchè l'identità (che è il suo oggetto) è questa mediazione medesima, è Pensare. Intanto egli fa di quest'organo una _intuizione_, e così lo priva del suo vero carattere, che è di essere _pensiero, logica_. In altre parole, la intuizione di Schelling, come apprensione della mentalità assoluta, non è che mentalità assoluta; Schelling, ponendola o fissandola come _intuizione_, non la spiega; contradice a se stesso, alla esigenza del suo proprio principio. Questa è la critica che Hegel fa di Schelling. Hegel spiega la identità, che è mentalità, la mentalità assoluta, facendoci assistere, dirò così, alla sua generazione per se stessa. La spiega ricostruendola, riproducendola[150]; e questa riproduzione, questo _ripensare_, questo pensiero del pensiero come semplice pensiero, come semplice _mentalità_, come _forma_ della mente, questo _mentalizzare_ è la _logica_[151]. Come è possibile questa riproduzione, cioè come è possibile questa logica? Mentalità è pensare, semplice pensare. Riprodurre la mentalità è dunque riprodurre il semplice pensare, cioè pensare il semplice pensare, e perciò _pensare semplicemente_. Riprodurre è qui _produrre_; il pensare, riproducendo, produce, _pensa_; riprodurre la mentalità è mentalità. Se mentalità è ritmo, dialettica, pensare, la sua riproduzione è questo stesso ritmo, questa dialettica, questo pensare: cioè il pensare, semplicemente pensare. _Semplicemente pensare_: questa è la possibilità della logica. Hegel, spiegando la identità che è mentalità, spiega il _conoscere_; e così risolve il problema della logica. 2. Prima di Hegel nessun filosofo ha spiegato il _conoscere_, e così risoluto il problema della logica (il sistema delle categorie). Con ciò non voglio dire, che la logica di Hegel sia la logica perfetta, assoluta; che la sua filosofia sia l'ultima parola dello spirito speculativo; che dopo Hegel noi non dobbiamo far altro che ripetere o commentare macchinalmente le sue deduzioni come tante formole sacramentali. Può darsi, che ci sia chi pensi così. Per me, se ci è cosa che io abborro — mi pare di averlo detto già tante volte — è appunto la riproduzione meccanica delle altrui dottrine. Nei filosofi, ne' veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto, che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita. Ripetere macchinalmente i filosofi, è soffocare questo germe, impedire che si sviluppi e diventi un nuovo e più perfetto sistema. Se Platone non avesse fatto altro che ripetere Socrate, non avremmo avuto il _mondo delle idee_. Se Aristotele avesse ripetuto Platone, non avremmo avuto il primo concetto della sostanza, della individualità. Se Spinoza non avesse fatto altro che ripetere Cartesio, non avremmo avuto il primo _concetto_ di Dio come semplice causalità, come identità che è causa. Se Fichte avesse ripetuto Kant, non avremmo avuto il _concetto_ dell'autocoscienza, della mentalità. Se Schelling avesse ripetuto Fichte, non avremmo avuto il concetto della identità come mentalità, come ragione. Quel che io voglio dire, è questo: posto Fichte, — cioè che il conoscere sia impossibile senza l'_autocoscienza_, — e posto Schelling, — cioè che il _conoscere_ non sia reale senza la identità come _autocoscienza_ o mentalità, — l'unica via di risolvere il problema del conoscere, il problema della logica, sia quello di _provare_ la identità. Per me tutto il valore di Hegel, qui, è questo; _provare la identità_. L'ha provata egli davvero? Questa è un'altra quistione. Ora, provare la identità è _provare la creazione_. Non vi sbigottite di questa parola; e intendiamoci bene. Provare vuol dire _comprendere, concepire_ davvero: quanto si può da noi. Io non voglio dire che la nostra sarà l'ultima prova. Io dico: risolvere il problema del conoscere (della logica) è provare la identità come mentalità: provare la identità come mentalità è provare la creazione, giacchè la identità come mentalità è appunto l'attività creativa; dunque, risolvere il problema del conoscere è provare la creazione. — Provare la creazione! Ma la creazione provata è creazione necessaria, cioè non più creazione; la creazione provata vuol dire il contingente, la creatura, non più contingente, ma necessaria. Gioberti dice così, e dice benissimo: la creazione è un _fatto_; _s'intuisce_, non si _prova_!! Questo timore, questo orrore contro la prova della creazione non è che un equivoco. Provare la creazione non vuol dire provare il contingente come contingente, questo o quel contingente; p. e. che la tale o la tale pietra, la tale o la tal pianta, ecc. ci deve essere. Krug pretendeva a un di presso questo da Schelling. Schelling diceva: io devo costruire a priori la Natura; e Krug: costruitemi la penna, _questa_ penna colla quale io scrivo[152]. Schelling volea dire: la Natura, la _vera_ Natura, la _idea_ della natura (la natura, diremmo noi, quale è nella mente di Dio) è un a priori, e appunto perchè è a priori si può costruire a priori. Il che non vuol dire di certo, che si deve chiuder gli occhi e gli orecchi, e far tacere gli altri sensi, cioè far astrazione da ogni esperienza[153]. Provare la creazione vuol dire provare quel che vi ha d'_ideale_, di _mentale_, di _vero_, e perciò di necessario nella creazione. Questo è _provabile_, provabilissimo; è il _provabile_ stesso. O forse l'_ideale_ è il contrario della _necessità razionale_? E che altro vuol dire _prova_, se non necessità razionale? Gioberti dice: creare è pensare. Ebbene: provare è pensare, il vero pensare. Se non si prova il pensare, cioè se il pensare non può provare, cioè pensare sè stesso, non so davvero che cosa possa provare e pensare. In questa esigenza: _provare la creazione_, checchè mostrino in contrario le apparenze, è tutto Gioberti. La sua Idea è il creare; lo spirito è in sè l'intuito del creare; questo intuito è la potenzialità infinita dello spirito; la sua riflessione ontologica — cioè la filosofia — è ripensare, pensare davvero, cioè provare il creare. Ciò che differenzia Gioberti da Schelling è appunto questa _esigenza_: la riflessione ontologica. Que' giobertiani che pigliano l'intuito per una _cognizione immediata_ del creare, e non già per la semplice _potenzialità_ del conoscere, contro la mente vera di Gioberti, rendono inutile la riflessione ontologica, e non si accorgono che così fanno di Gioberti una copia di Schelling, niente altro. Ho detto altra volta, che per Gioberti il creare non è l'Ente in quanto Ente, ma lo Spirito, cioè l'Ente come in sè due cicli in uno, e quindi non più semplice Ente. Ora Gioberti, dicendo: _Ente semplicemente_, esige una ontologia, una metafisica, una logica proprio nel nostro senso; giacchè il suo Ente non è altro che la identità fondamentale (della natura e dello spirito) come mentalità. In ciò differisce da Schelling, pel quale la Natura è il Primo, e tutta la logica si riduce all'_intuizione intellettuale_. Fate che l'intuito giobertiano sia _cognizione immediata dell'Ente creante_, e allora l'Ente creante, appunto perchè appreso immediatamente, non sarà altro, checchè ne dicano i giobertiani, che la stessa Natura di Schelling. Si può dire: «Provare la creazione, anche in questo senso — nel nostro senso or ora spiegato — è fare necessario il contingente, creatore la creatura; lo spirito, in quanto prova la creazione, è lo stesso atto creativo». Ebbene, lo spirito è una creatura, è, se volete, un contingente; ma tal creatura, tal contingente, che si libera dal suo essere immediato, dalla sua contingenza, e diventa — come può — il necessario. Questa è la sua natura. Il nostro spirito _crea_, cioè _prova_, perchè è il _ricreare_. Questo è il senso delle parole di Gioberti: lo spirito è il contingente, fatto a immagine del necessario. Contingente è _mimesi_; contingente che si fa il necessario, è _metessi, ritorno, ricreare_. Quando io dico: risolvere il problema del conoscere (e della logica) è provare il creare (la identità come mentalità), non esco fuori delle tradizioni della filosofia italiana, non mi ribello a questa filosofia (anche politicamente, pochi anni fa, eravamo tutti ribelli); sono anzi in piena filosofia italiana; esprimo un'esigenza, che è l'ultima esigenza della filosofia italiana. D'altra parte io so bene quel che si dice da alcuni[154]: «Che importa a noi di filosofia italiana e non italiana? Noi vogliamo la verità; e la verità non ha che fare colla nazionalità». Certamente, la verità trascende la nazionalità; ma senza nazionalità è un'astrazione. _Trapiantate_ quanto volete la verità; se essa non ha veruna corrispondenza col nostro genio nazionale, sarà verità per sè, ma non per noi; per noi sarà sempre una cosa morta. Mostrare, dunque, che noi siamo vissuti nel grembo del pensiero europeo e abbiamo sempre promosso e partecipato a questo pensiero, che non siamo stati solamente noi e fuori della vita comune, non è un accorgimento, un procedere diplomatico, un rispetto umano, ma un nobile e rigoroso dovere per chi professa filosofia. Così io ritorno, nel conchiudere questa breve istoria del problema della logica, alla intenzione principale della mia _Introduzione_. Per me non ci sono due filosofie moderne; due, tre, quattro correnti filosofiche perpetue, quante sono le nazioni presenti di Europa: ma ci è una sola filosofia, essenzialmente una. Questa _unità_ è lo _sviluppo_ stesso della filosofia nelle diverse nazioni. E molto meno per me ci sono due filosofie italiane, due, dirò così, Italie filosofanti: l'una bianca e l'altra nera, quella innocente, e questa peccatrice, la filosofia di Gioberti e la filosofia di Bruno. Bruno filosofava come si poteva e doveva filosofare nel suo tempo; Gioberti come si poteva e doveva nel suo. Non sono due correnti, due vite contrarie: ma sono il correre della stessa corrente, il vivere della stessa vita. Vita è _sviluppo_; e Bruno e Gioberti sono due termini e stazioni di questo sviluppo, della nostra vita. Bruno concepiva la identità come _causalità_; Gioberti come _mentalità_. Per arrivare a Gioberti, bisognava passare per Bruno. Eliminate Bruno dalla storia della nostra filosofia, e voi non eliminate il peccato, non purificate l'Italia, ma la dimezzate, la guastate; voi non restituite, ma rompete l'aurea catena della tradizione nazionale; non avete l'Italia viva, ma una di quelle statue antiche, che si trovano negli scavi, senza braccia e spesso senza testa. Vi è certo, o almeno ci è stata, — o se ci è ancora, corre sotterranea e non si mostra, — un'altra corrente in Italia, la quale non solo è contraria alla nostra vera tradizione filosofica, così a Bruno come a Gioberti e anco a Rosmini; ma, se potesse, ingoierebbe tutto quel che vi ha di filosofia in Europa. Ma se questa corrente meriti il nome di filosofia italiana o semplicemente di filosofia, io non lo voglio dire. — Ritorniamo ad Hegel; e concludiamo. Se l'identità si prova — quella che noi intendiamo per identità, cioè la mentalità (e già questa sola può essere provata, perchè quella di Spinoza non è mentalità, e quindi non si può provare); se la nostra identità si _prova_, il problema della logica (e quindi del conoscere) è risoluto. Qual è infatti il problema della logica? Il sistema delle categorie. Che vuol dire _categorie_? Non solo _forme del pensiero_, atti o funzioni soggettive, ma predicati universali delle cose, _leggi oggettive_. E cosa vuol dire scienza o sistema? Vuoi dire mentalità; e cosa sia mentalità, e qual sia il suo ritmo, ce lo ha detto Fichte. Mentalità è tale, in quanto produce, crea se stessa. Categoria è atto originario di mentalità (atto mentale originario). Sistema delle categorie vuol dire, dunque, mentalità in quanto fa, produce, crea se stessa come mentalità: vuol dire _produzione_ delle categorie. Ora a questa doppia esigenza adempie appunto il nostro presupposto, cioè l'_identità provata_. Dicendo _identità_, adempiamo alla prima. Dicendo _provata_, adempiamo alla seconda. Infatti, _provare la identità_ vuol dire _identità che prova o produce se stessa_; giacchè provare è mentalizzare, e identità è mentalità. _Identità provata_, o meglio _che si prova_ (l'_atto_ della prova), vuol dire dunque _categorica_ (sistema delle categorie, logica, metafisica), che si produce come insieme funzione soggettiva e legge oggettiva. La soluzione del problema della logica non è dunque possibile che nella filosofia della identità, e della identità che si possa _provare_ (mentalità), e che _si provi_. Ora _identità che si prova_ non è più Natura, ma Spirito. Quindi non più dommatismo, ma dialettismo. _Identità che si prova_ è identità, che è conscia di sè. Questa identità conscia di sè, cioè questa non più _relativa_ (la fichtiana), ma _assoluta autocoscienza_, è appunto lo Spirito (il Creatore). Lo Spirito è la vera identità: la identità che sussiste, è concreta come identità. Infatti, vera identità non è la semplice identità senza la differenza, cioè solo quel che han di comune i due mondi, la natura e lo spirito, e che non è nè l'una nè l'altro, la pura loro indifferenza. Vera identità è quella che si realizza nella differenza, e dalla differenza ritorna identità. Così abbiamo: identità come pura identità, identità come differenza, identità come vera identità (unità, armonia). È la _identità che si sviluppa_: la mente, che si mentalizza eternamente e assolutamente: la mente assoluta. Così abbiamo, di nuovo, la divisione della filosofia, cioè: Logica = pura identità; Natura = identità come differenza; Spirito = identità come unità. La vera prova della identità è dunque _tutta_ la filosofia. La logica è solo prova della identità pura, indifferente, fondamentale. _F_) CONCLUSIONE; ED ENUNCIAZIONE DELLE DIFFICOLTÀ DELLA SCIENZA. 1. Qual è il risultato di questa breve storia? È quello, che ci eravamo proposto di conseguire? Io ho detto a principio: «Dimostrerò, che il sistema come tale — la sistematica, e quindi il sistema della logica — non è possibile, che secondo il nostro punto di vista; cioè secondo il nostro modo d'intender l'essere, il vero essere, e quindi la stessa logica; e che tutti gli _altri punti di vista_ rendono impossibile il _sistema_, e non risolvono il problema della logica. Io farò la critica di questi punti di vista, non per rigettarli assolutamente, ma piuttosto per far vedere che il nostro è il loro risultato necessario, e che esso solo può risolvere il problema». Ebbene: per noi il vero _Essere_ era il _Creare_. Creare è identità come mentalità, cioè assoluta autocoscienza, Spirito. Ora noi abbiamo visto, che la logica, la scienza o il sistema della logica, è possibile solo in questa filosofia, nel nostro modo d'intendere il vero Essere, secondo il nostro punto di vista. E questo punto di vista risulta da tutti gli altri, e li comprende: è la loro unità. Infatti, i momenti storici della logica sono: Socrate, che _forma i concetti_; Platone che li _ordina_ in un mondo ideale; Aristotele che ne scopre la _forma_ (il sillogismo, la prova: la sostanza, l'individuo); Kant che identifica la _categoria_ colla _funzione del pensare_; Fichte che concepisce la _mentalità_, e scopre il _ritmo logico_; Schelling che concepisce la identità come mentalità o ragione. La nostra logica, — in quanto l'_Identità che prova se stessa_, in quanto la _Ragione conscia di sè_, — abbraccia tutti questi momenti anteriori. 2. Perchè questo risultato di tutta la storia della logica porti i suoi frutti, bisogna intender bene la esigenza che esso esprime, cioè cosa vuol dire _provare la identità_. Questa quistione si connette intimamente con quella delle principali difficoltà della scienza. _a_) Sapere, certezza, scienza in generale è _prova_. Assoluta scienza, filosofia, è assoluta prova. Assoluta prova vuol dire, che tutto è provato; che nella filosofia non ci sia niente, nessuna parte che non sia provata. (Così la matematica non è assoluta prova, non solo perchè la sua evidenza non è la _vera_, ma anche perchè essa prova tutto, fuorchè il suo proprio principio, la quantità). Ora prova vuol dire: 1. pensare; 2. un processo, quale che sia, del pensare; 3. un _primo_ nel pensare, cioè un pensare come primo pensare, una base, un principio, un cominciamento della prova, di quel processo che è la prova. Così chi dice prova, dice sempre pensare: pensare come _primo_ nel processo; pensare come processo. Se la filosofia è assoluta prova, — cioè, se non deve presupporre niente che non sia provato, — deve, dunque, innanzi tutto provare il pensare, il primo nel pensare, il processo del pensare. Questi momenti sono la prova stessa. Dunque, la filosofia deve _provare la prova_. E ciò pare impossibile. Questa è una seria difficoltà, sin dal principio. Se non ne usciamo, non possiamo fare un passo. Per risolverla, bisogna intenderla. Che importa, dunque, provare il pensare? il processo del pensare? il Primo nel pensare? _b_) Abbiamo visto che la Scienza (la filosofia) è la identità (mentalità) che si prova come concreta identità, come mente assoluta. Cioè: Logo o pura mentalità, che si prova, si sviluppa come Logo; Provato, sviluppato, come Logo, si sviluppa come Natura; Provato, sviluppato, come Natura, si sviluppa come Spirito. Questa prova, la scienza, è il pensare, che si sviluppa come pensare. Ma questo sviluppo è sempre attività del pensare, del mio pensare, dell'Io: certo non di quello di Fichte, ma pur sempre dell'Io, del soggetto, del pensare _soggettivo_, come si dice. Chi mi assicura, che questo sviluppo sia anche sviluppo della _cosa_ dell'oggetto, del reale? Chi mi assicura, che il pensare sia il Vero? Questa è la prima difficoltà. _Provare il pensare_ vuol dire: provare che il pensare sia il Vero; che _pensando, puramente pensando_, io sono nel regno della verità. Provare il pensare pare un quesito impertinente. E pure, se s'intende bene cosa si vuol dire, non è. Infatti il pensare — il pensare filosofico, e la stessa riflessione colta — non è il pensare comune, la coscienza volgare. Come questa coscienza si eleva alla coscienza scientifica, alla scienza? A quella coscienza, in cui il pensare è la cosa stessa? Ora questo appunto è provare il pensare. È provare che il semplice pensare — questa funzione del soggetto pensante — è categoria, determinazione universale, essenza della cosa. — Ciò è stato sempre supposto, non provato mai. La seconda difficoltà è il pensare che procede, si sviluppa, si dialettizza. Il pensare è egli dialettica? Ciò si può vedere solo col fatto, cioè _pensando_, e facendo la scienza. E, risoluto affermativamente il primo problema, cioè, se il pensare sia il Vero, si vede che, se il pensare è dialettica, dialettica ha da essere anche la cosa, l'oggetto, il reale. La terza difficoltà è quella del _Primo_. — _Primo nella scienza_ vuol dire _Primo che sia provato_; e intanto _Primo_ vuol dire che _non si può provare_, perchè la prova presuppone già il Primo. _Primo scientifico_ è dunque una _contradictio in adiecto_. _c_) Le due prime difficoltà concernono direttamente la _identità_. Quel che importa qui è comprendere la loro differenza. La terza difficoltà concerne la identità indirettamente. La identità che si sviluppa, già suppone la identità come prima identità: la identità come Primo, come cominciamento. Identità è pensare, mentalizzare. Prima identità è primo pensare. Questo, dunque, bisogna provare: _identità è pensare_. Se poi si prova che _pensare è mentalità_ (dialettica), è provato già che _identità è mentalità_, sviluppo, dialettica. Fichte dice: coscienza (conoscere) è impossibile, se non è autocoscienza. Schelling dice: non è reale, senza la identità come mentalità (identità di natura e spirito). Ora noi già sappiamo, che Schelling _presuppone_ tale identità; e che questo presupposto è la _intuizione intellettuale_. Ma quel che non ancora abbiamo visto, è che la presuppone in due sensi. Infatti: 1. Presuppone la identità, — la pura e semplice intelligenza, — come già perfetta, come totalità o sistema in quanto semplice intelligenza: presuppone il Logo, tutto il Logo, il Logo come sistema completo. Questo presupposto (intuito intellettuale) è il reale, la _Natura_. Perciò ho detto: tutta la logica di Schelling è un sol atto, un atto immediato; non è _logica_ davvero (sviluppo, dialettica, sistema organico del pensare), ma _esplosione_. Questa esplosione è la Natura. Schelling comincia dalla Natura, e si getta dietro le spalle il Logo. Dalla Natura (intelligenza inconsapevolmente produttiva) passa allo Spirito (intelligenza consapevolmente produttiva: intelligenza intelligente), e così spiega il _conoscere_. Ma in realtà non lo spiega, perchè non spiega la natura; e non spiega la natura, perchè la presuppone; e la presuppone, perchè presuppone il Logo, la identità assoluta come indifferenza. Per spiegare il conoscere, la realtà COSCIENTE, bisogna prima di tutto spiegare (comprendere) il Logo, la Indifferenza. Non dico che ciò basti. Ma senza ciò non si spiega la natura, e quindi non si spiega lo spirito (il conoscere). Questo è il primo difetto di Schelling. — Schelling presuppone la identità come _mentalità_; presuppone la mentalità. La mentalità è il Logo. Schelling non prova il Logo. Egli dice: la Natura è _intelligenza_ inconsapevole. Ma come sa che essa è intelligenza? Come sa che cosa è intelligenza? Comprende egli e prova la intelligenza? Intelligenza è _sistema_. Sa egli questo sistema? Egli dice: identità è _intelligenza_ e non semplice _causalità_ (Spinoza). Deve dunque _provare_ la intelligenza: esporre il _sistema della intelligenza_. Hegel fa questo sistema; prova e comprende la intelligenza (essere, essenza, concetto). Questo sistema è la Logica di Hegel. Quel che dunque è qui _dommatismo_ in Schelling, in Hegel è _scienza_, dialettica, intelligenza stessa. Hegel scopre, fa vedere, svela la intelligenza come semplice intelligenza: _il regno della mentalità pura_. Questo regno è in Schelling occulto, sotterraneo; l'intuito intellettuale non arriva a scoprirlo; piglia la superficie, l'_essere_ soltanto; e questo è la _Natura_. La _mediazione_, che come immediato è la Natura, gli sfugge; e si mostra solo l'immediato, la Natura. 2. Ma non basta provare la intelligenza; bisogna provare la identità. La identità, la vera identità, è intelligenza, non semplice causalità (il pensare cartesiano). Ma la intelligenza, che io provo e sviluppo qui come sistema della logica, è la intelligenza come mia intelligenza, il pensare come mio pensare: insomma, il pensare soggettivo: nello stesso modo che la causalità, che si sviluppava nello spinozismo, era la causalità come il pensiero di Spinoza, il pensiero come atto del soggetto pensante, come pensiero soggettivo. Certamente nella logica stessa il pensare si mostra e prova come _identità_ (identità di pensare ed essere), in quanto si prova appunto come tutto il sistema del Logo. Ma si può sempre dire: questa identità di pensare ed essere, cioè la _identità_, è solo identità del pensare col pensare: pensare = pensare: pensare come essere, e pensare come pensare; ma è pur sempre pensare, niente altro. E l'essere, il reale? Dov'è, dunque, la _identità_? Ebbene, questa _identità_ è il pensare, non altro che pensare. Ma questo bisogna provare: cioè, che il pensare non è semplicemente una _funzione soggettiva_, ma _legge oggettiva_, realtà, essere; che _pensando_ io non sono fuori della realtà delle cose, ma sono la _realtà stessa_ delle cose, appunto perchè la realtà, l'entità, la verità delle cose è il pensare: che, insomma, il pensare non è solo il mio pensare, ma la cosa stessa, la _vera_ cosa. Ora questo non fa Schelling. Questo non ha fatto Spinoza, nè altri prima. Quindi in Schelling un altro dommatismo: un'altra _esplosione_, quella di cui parla propriamente Hegel nella prefazione alla _Fenomenologia_[155]. Schelling non prova che l'_Identità_ è il _Pensare_. Questo fa Hegel nella _Fenomenologia_. Quindi la differenza tra logica e fenomenologia è questa: la logica prova la intelligenza come intelligenza: il sistema della pura intelligenza; La fenomenologia prova che la intelligenza, non già ancora come sistema, ma come semplice astratta intelligenza, come semplice _atto_ d'intelligenza, come prim'atto, come prospetto e orizzonte d'intelligenza, è appunto _identità_. Senza la logica _non si può spiegare_ il conoscere, la realtà cosciente (e quindi nè anche la semplice realtà, la Natura). Senza la fenomenologia la spiegazione, — che è tutta la filosofia e il cui fondamento, la spiegazione fondamentale, è la logica, — non ha un _valore reale_; è sempre un'ipotesi, non una realtà. Chi vi assicura, infatti, che questa spiegazione, che è pensare, dialettica del pensare, funzione del pensare, sia anche la realtà della cosa? Nella spiegazione del conoscere — cioè nella filosofia — la logica e la fenomenologia stanno tra loro come Fichte e Schelling nel problema stesso del conoscere. Fichte dice: mentalità: _possibilità_ del conoscere. Schelling dice: identità: realtà del conoscere. Ora la logica prova la mentalità; la fenomenologia prova la identità. E Fichte non prova davvero quella; Schelling presuppone questa. Hegel poi compie l'uno e l'altro insieme. Compiendo Fichte, compie (nella logica) il primo difetto di Schelling. Nella fenomenologia compie il secondo difetto di Schelling; e compie Fichte, il cui difetto aveva avvertito Schelling, ma solo avvertito, non altro; giacchè la _identità_, che mancava anche a Fichte, Schelling la presuppone. 3. Di questi due difetti di Schelling — che sono suppliti da Hegel — uno solo ci è in Gioberti _assolutamente_, cioè il presupposto dell'_identità_. Gioberti non ha fenomenologia; e dice immediatamente: concetto = cosa; pensare = essere; quel che _penso è vero, è reale_; la dialettica del pensare è dialettica dell'essere. Domandate: perchè così? perchè quel che penso è vero? Perchè, risponde, l'Idea, il Vero, la vera realtà (il creare), è presente al mio intuito, al mio pensare; il pensare, il mio pensare è quel che lo fa l'Idea. Dunque, intuendo e ripensando, — nella riflessione ontologica, — io afferro il vero, il reale. Questo è dommatismo. Gioberti non prova, che l'intuito (lo spirito) è la potenzialità infinita del conoscere. L'altro difetto ci è in Gioberti, nel solo caso che per intuito s'intenda la _conoscenza immediata_ dell'Ente creante; giacchè allora l'Ente creante è Natura, quella di Schelling, o di Spinoza, secondo che la mentalità ci è, o manca. Dicendo _Ente_ semplicemente, Gioberti esige una logica; parla anzi di determinazioni dell'Ente come tale (concetti assoluti), sebbene questa logica ei non la faccia. Anzi, se si pone mente alla sua distinzione di riflessione psicologica e ontologica, e come l'ultima consista nell'uscire che fa il _soggetto_ da sè e cogliere quel _punto di contatto_ coll'oggetto, che è il Vero, si vede che in Gioberti ci è anche l'_esigenza_ di una fenomenologia: cioè d'una dialettica della coscienza, che, superando tutti i gradi del falso sapere, arrivi al sapere assoluto. 4. Gioberti dice: essere è creare, pensare è creare, creare è pensare. — Questa identità bisogna provare. Creare è l'_Ente concreto_; è fare, realizzare, individuare, sostanziare, _entare_, far esistere; è la realtà, l'assoluta realtà. È assoluta realtà, perchè, per Gioberti, Dio stesso è creare, creare se stesso. Togliete il creare, e avrete il _niente_. — E pure non si ha mai il niente; giacchè _togliere_ qui è pensare; il pensare rimane, e ci è sempre. Ciò vuol dire: il creare, tolto, rimane; perchè il togliere stesso è creare, cioè come semplice togliere — negare — è momento del creare. Ora come si prova la realtà, il creare? Il Pensare _è_; non può non essere. Il Pensare prova se stesso; negare il Pensare è Pensare. Il Pensare è Certo, assoluto Certo. Il Pensare è atto, dialettica, un mondo, totalità, sistema. Pensando, semplicemente pensando, io — come semplice pensare — fo, costruisco, creo questo mondo, questo mio mondo, che è lo stesso Pensare. Questo mondo, creato dal Pensare, è assolutamente certo come il Pensare; è lo stesso Pensare. (Il puro mondo del Pensare è appunto la logica). Ebbene, che cosa manca a questo Certo? Esso è certo, _è_, non solo come _Pensare_, ma come un _mondo_, un ordine, un sistema, una creazione, che è lo stesso Pensare. Se creare è dunque realtà, mondo, ordine, sistema, è certo che il Pensare è Creare. In altri termini, più semplicemente: è certo, che il Pensare è un Reale, Essere, _È_, appunto perchè non può non essere; dicendo _non è_, dico _è_. — Sia anche sogno il Pensare, e il suo mondo un mondo di sogni, è certo che questo mondo _è_. Ma tutto ciò vuol dire anco che il Creare sia Pensare? Che il Reale sia Pensare? Vuol dire, insomma, identità di Pensare e Creare? No, certo. Ma ci è presunzione che sì. E in vero, il Pensare _è_, è di certo; ed è, di certo, un mondo, cioè creare. Non è il Creare come tutto il Creare, come tutto l'Essere; ma è di certo creare, essere. Il che vuol dire, che Creare, Essere, è almeno in parte, dirò così, Pensare; vi ha un creare, un'attività creativa, un essere, che è Pensare. Vi ha egli un altro creare, un altro essere, che non sia Pensare, non sia assolutamente e in niun modo Pensare, e sia l'opposto assoluto del Pensare? Se così fosse, ci sarebbe un doppio Creare, un doppio Essere, due attività creative, senza punto unità, e sarebbe inesplicabile come il Pensare sia Creare, Essere. Se non altro, queste due attività creative (questo doppio Essere), hanno comune il Creare, l'Essere: quel Creare, che è il Pensare. Questo Comune — questa radice comune del Pensare e dell'Essere come opposti — questo Pensare, che è unità di se stesso e dell'Essere — è appunto la _Identità_. Ora la fenomenologia prova la _identità_: Pensare è Essere, Essere è Pensare. La logica prova il Pensare come mondo, come mentalità, sistema del pensare, pura creazione. Dunque, Essere, Creare, è questo mondo, mentalità, sistema, sistema del pensare. Dunque, _il sistema del mondo io l'ho pensando_, pensando il pensare, il sistema del pensare. 5. Quando dico, che la fenomenologia prova la identità, non bisogna intendere così: che sia da un lato il Pensare e dall'altro l'Essere, e che si provi che siano _identici_ (sebbene distinti); ma invece così: che si provi l'Essere (si provi, che il Pensare sia _oggettivo_), e questa prova sia la prova della identità. Infatti, io non posso dire: qua il Pensare, e là l'Essere, e proviamo l'Identità. Non posso dire: ci è l'Essere, l'Essere opposto al Pensare, e che non so se sia identico al Pensare. Non posso dir ciò, perchè presupporrei l'Essere. Io non posso dir altro — quando non voglio presupporre niente — che: _Pensare_; solo il Pensare, quell'Essere che è Pensare (Conoscere o semplice Pensare, secondo che io principio la fenomenologia o la logica), è assoluto Certo, Primo, non presupposto. L'Essere, dunque, io devo _provarlo_, cioè _trarlo_ dal Pensare. Non ci è altra via. Se io comincio dal Pensare come immediato semplice Pensare, e pensando fo il mondo del semplice pensare (la logica), io non traggo l'Essere dal Pensare, ma solo dal Pensare il Pensare, il mondo del pensare. Se io comincio dal conoscere come immediato conoscere (certezza sensibile) e procedo dialetticamente (fenomenologia), che cosa ne traggo? Che cosa ne posso trarre? L'Essere? L'Essere come opposto al Pensare, al Conoscere? No: questo non posso trarlo. L'Essere, in quanto tratto dal Pensare, del Conoscere, non è più opposto al Conoscere: è _Identico_ al Conoscere. Ne traggo dunque solo l'_oggettività_ del Conoscere. Questa oggettività è quel conoscere, che è il semplice e puro Pensare. Il risultato finale della fenomenologia è questo: lo spirito trova l'ultima sua soddisfazione nel semplice e puro Pensare; non va al di là; se va al di là, torna indietro. Ciò vuol dire: se lo spirito crede, che _al di là_ del semplice e puro Pensare, _al di là_ del Pensare (logica, scienza della Natura e scienza dello Spirito) ci sia qualcosa, un inconoscibile, un sovrintelligibile, un _al di là_ che sia puro _al di là_, e non già un _di qua_, già trasfigurato nella dialettica del conoscere e fatto trasparente, il sensibile, il percettibile, l'immaginabile, etc.; se crede ciò lo spirito, erra e s'illude. Questa illusione è un momento inferiore del conoscere. Adunque, il semplice Pensare, il _Pensare_, è _oggettivo_, è il Vero. _d_) La terza difficoltà è questa: di dove cominciare la scienza? — Si badi, che io dico _Primo nella scienza_, e non già _assoluto Primo, assoluto Principio_. Assoluto principio è Primo e Ultimo insieme, principio e fine, cioè tutta la scienza. Quando dico Primo nella scienza, dico invece semplice cominciamento, non già processo della scienza. — Quando dico _germe_, non dico _albero_, ma solo il Primo di quello sviluppo, che in quanto compiuto è l'albero. Un tale mi domandava un giorno: Qual è il vostro _punto di partenza_ (il vostro Primo)[156]? Questa domanda potrebbe far supporre, che ci potessero essere _più_ Primi, il mio, il vostro, di ciascuno di voi, il suo, e quello di altri, e nondimeno la scienza essere sempre scienza, qualunque fosse il Primo; come se io dicessi: tutti noi abbiamo diverse case, diversi luoghi di uscita e di ritorno, e nondimeno tutti _abitiamo_, siamo al coperto dalla pioggia, dall'intemperie, etc. Capisco che a diversi modi di filosofare possono corrispondere diversi Primi; ma quel che non capisco, è che la scienza possa avere questo o quel Primo ad arbitrio, a caso, ed essere scienza davvero. Ciò vuol dire, che il Primo deve essere provato; e se è provato davvero, non può essere che Uno, cioè quello che è. Ma qui comincia la difficoltà. Provare è derivare una cosa da un'altra, un concetto da un altro; e perciò presuppone un Primo. Adunque, il Primo, in quanto provato, non è Primo, ma Secondo; il Primo è quello da cui esso si deriva. E da capo questo, che ora è il Primo, se è, come ha da essere, provato, non è più esso il Primo, ma quello da cui viene derivato. E così all'infinito. Adunque: _Primo provato_ è una contradizione; giacchè se è provato, non è Primo. Dunque, si conchiude, non può essere provato. Ma d'altra parte, non può essere ammesso, così ad arbitrio, ammesso perchè ammesso, cioè deve essere provato; altrimenti sarebbe un Primo, ma non il _Primo nella scienza_. Dicendo, dunque, _Primo, io nego la prova_ (la necessità di provare); dicendo _Primo nella scienza_ o _Primo scientifico, affermo_ la prova. Ora il Primo che noi vogliamo non è un semplice Primo, ma appunto il Primo nella scienza. Adunque, il Primo nella scienza — quello che noi vogliamo — è una contradizione. In altri termini, _provato_ vuol dire derivato, _mediato_; _Primo_ vuol dire non derivato, non mediato, cioè _immediato_. Adunque, _Primo scientifico_ vuol dire _immediato mediato_. Questa è la contradizione. Ma, se riflettiamo bene, ci avvediamo che la nostra difficoltà, la quale si mostra come una contradizione, dipende da un _presupposto_. Noi abbiamo detto di non dover presupporre niente, e pure abbiamo presupposto una cosa, cioè il _concetto della prova_ o della _mediazione_, e quindi il _concetto della relazione_ tra i due termini di essa, l'immediato e il mediato, il Primo e il Secondo. Ora il concetto d'una cosa in quanto presupposto non è un vero _concetto_ (vero sapere, scienza), ma semplice _rappresentazione_, o _opinione_. Noi, infatti, abbiamo detto: provare è derivare, _mediare_: il Primo, dunque, non può essere provato, perchè se fosse provato, sarebbe mediato, e quindi non sarebbe Primo, cioè immediato; o l'uno o l'altro; _mediato e immediato insieme_ non può essere. — Noi qui opponiamo assolutamente Immediato e Mediato (Primo e Secondo). Perchè? Perchè abbiamo, cioè presupponiamo, questo concetto della prova o mediazione: Provare, mediare, è _fare, produrre un altro_, uno che produce un altro; di maniera che il Primo, il producente, il mediatore, sia semplicemente Primo, producente, mediatore, e il Secondo, il prodotto, il mediato, sia semplicemente Secondo, prodotto, mediato. Qui _mediare_ è causare, mediazione è relazione causale; la causa pone l'effetto, e perciò non è l'effetto; l'effetto è posto dalla causa, e perciò non è la causa. Quindi due specie in generale di prova: cioè, procedere dalla causa all'effetto, dal principio alla conseguenza, e procedere dall'effetto alla causa, dalla conseguenza al principio: deduzione e induzione. Se _provare_ non è altro che questo, bisogna confessare che il Primo non si può provare. Ma chi ci assicura, che non ci sia una terza specie di prova, che sia in sè l'una e l'altra, e quindi la verità di tutte e due; cioè non l'una dopo l'altra, ossia o l'una o l'altra, ma l'una in quanto l'altra, l'una e l'altra insieme? Non ci sarà; ma noi non possiamo _asserire_ così, che non ci sia. Già la stessa esistenza delle due prime specie di prova è come un segno — più che un segno — della possibilità della terza. Infatti, posta la deduzione, la induzione è possibile, in quanto quel che è Primo in quella, diventa Secondo in questa; e posta la induzione, la deduzione è possibile, in quanto quel che è Primo in quella, diventa Secondo in questa. L'una è il rovescio e come la _inversione_ dell'altra. Ora, come è possibile questa duplice, cioè _reciproca inversione_? Non si potrebbe dire: è possibile, solo in quanto ci è una terza cosa, una terza prova, che è in sè appunto questa reciprocanza, questa _conversione_, cioè insieme deduzione e induzione, scendere e salire, e della quale la deduzione e la induzione non sono altro che i momenti, astratti e divisi dalla loro unità: frammenti della Prova, e non già la vera Prova? Infatti, la deduzione presuppone il suo Primo, la causa, come un immediato, e non può provarlo; la induzione presuppone il suo Primo, l'effetto, e non può provarlo; e oltre a ciò quella non arriva mai all'ultimo effetto, questa all'ultima causa. L'una e l'altra è per sè manchevole, e non si suppliscono usate l'una dopo l'altra; sono come due linee rette, che messe insieme formeranno sempre una linea retta senza principio e senza fine, non il circolo. Concepiamo dunque la prova, la mediazione, non più come semplice deduzione, o semplice induzione, ma come insieme l'una e l'altra; e vediamo cosa diventa la _relazione_ tra i due termini, il Primo e il Secondo, l'Immediato e il Mediato: cosa diventa essa stessa, la prova. Ecco cosa avviene. Il Primo, che è tale in quanto la prova è deduzione, diventa Secondo in quanto la prova è insieme induzione, e il Secondo per la stessa ragione diventa Primo: la causa diventa effetto, e l'effetto causa; il principio conseguenza, e la conseguenza principio. Ciò vuol dire, che la prova, la mediazione, non è più _andare da sè a un altro_ (effetto o causa), ma da sè a sè: è andare che è riandare[157]. Brevemente: la mediazione qui non è più semplice causazione, ma unità, sintetica originaria, mentalità, la _relazione_ di Gioberti, che ponendo e insieme unendo i suoi termini, pone se stessa: _causa sui_, il creare, la dialettica. Questa _relazione_ è quel che innanzi ci è parso una contradizione, cioè l'_immediato-mediato_, l'uno in quanto l'altro; cioè _immediato_, in quanto mediato per se stesso e non per un altro; _mediato_, in quanto la _immediatezza_ ha in sè, qui, la mediatezza, non la esclude. Quindi immediato e mediato, in quanto opposti assolutamente l'uno all'altro, sono due astratti, non sono il Vero. E tali sono anche il Primo e il Secondo. Il Primo, il semplice immediato, è un falso Primo, un falso immediato, perchè il vero Primo e immediato è l'Ultimo, o meglio l'unità del primo e dell'ultimo (unità sintetica originaria); e il Secondo, il mediato, è un falso Secondo, un falso mediato, perchè il vero Secondo e mediato è il Primo, quello che è semplicemente Primo. Il semplice Primo è falso, perchè il vero Primo è posizione di se stesso, e perciò Primo e Ultimo. _Pare_ che il semplice Primo abbia posto l'ultimo, e perciò si dice Primo; ma, in verità, quel che pare Ultimo, ha posto il Primo, e perciò è il vero Primo. Tutto quel che ho detto fin qui di questa terza prova, non è che una semplice ipotesi. Ma poniamo che stia. Se sta, quel _presupposto_, da cui dipendeva la contradizione nella ricerca del Primo, non ha più valore, e perciò la contradizione deve sparire. Infatti, se io cominciassi dal primo conoscere, dal primo sapere, dalla prima coscienza, dalla _coscienza o certezza sensibile_ — da questo Primo e immediato, che pare veramente sia Primo e immediato, e mi riuscisse di elevarmi o meglio di elevarla (io e lei, spettatore e spettacolo, siamo in fondo la stessa cosa, cioè _coscienza_), se mi riuscisse, dico, mediante un certo processo insito nella coscienza stessa di elevarla all'assoluto conoscere; cioè di provare, che se la coscienza non fosse in sè assoluto conoscere, potenzialità infinita del conoscere, non sarebbe coscienza, conoscere, nè coscienza sensibile nè altro; se mi riuscisse di far ciò, cosa dovrei conchiudere? Forse che la certezza sensibile, da cui io ho cominciato, sia davvero il Primo, e l'assoluto conoscere a cui sono arrivato, sia davvero l'Ultimo; che quella abbia prodotto questo, e non al contrario? Così pare; ma in verità non è così. Io devo conchiudere, che l'assoluto conoscere ha prodotto la certezza sensibile, l'Ultimo il Primo, e che perciò quel che appariva Primo è un falso Primo. Tutto quel processo, che pare produzione di un altro, di un Secondo o Ultimo da un Primo, è il vero Primo come produzione di se stesso. Non è la certezza sensibile, che prova l'assoluto conoscere, ma questo che, provando se stesso, prova quella. «Il _pensiero immanente_, dice Gioberti, si contempla per via del _successivo_. Ma ciò non cangia la natura di quello, non _scema_ nè _distrugge_ la sua intrinseca evidenza, e non fa sì che il suo valore dipenda da quello dello strumento per cui arriviamo ad esso. Il pensiero immanente non tira la sua credibilità dallo strumento con cui lo avvertiamo, ma _si proclama vero per se stesso, anzi fa riverberare il suo proprio splendore sulla cognizione mediata_, per cui ci leviamo insino ad esso»[158]. Qui il pensiero immanente (il pensiero oggettivo, l'assoluto conoscere, l'intuito d'una volta) non è più semplice Primo o Immediato, ma Secondo o Mediato: noi arriviamo, ci leviamo all'Idea, non nasciamo più intuendo (conoscendo) l'Idea; il Primo è il pensiero successivo. E intanto il Pensiero immanente in quanto Ultimo si mostra come Primo, come mediatore di sè (si _proclama vero per se stesso_), e il Primo (il successivo) come Secondo (luce riverberata). «_Mimeticamente_, la sensibilità produce l'intelletto; _metessicamente_, questo produce, cioè crea quella»[159]. Ciò vuol dire: il Primo mimeticamente (in apparenza) è Ultimo metessicamente (in realtà), e viceversa. E similmente, se io cominciando dal primo pensare (dall'assoluto conoscere come primo assoluto conoscere) mi levassi, per un processo intimo allo stesso pensare, sino al pensare come assoluto Spirito, e così provassi che se il Pensare non fosse in sè assoluto Spirito, non sarebbe nè primo pensare nè altro grado del pensare; se facessi ciò, cosa dovrei conchiudere? Che l'Ultimo nella scienza, l'assoluto Spirito, è il vero Primo, e il Primo l'Ultimo; che l'Ultimo prova il Primo, e non il Primo l'Ultimo. Ebbene, queste due nostre ipotesi — cioè il processo dalla _certezza sensibile_ al pensare oggettivo, e il processo dal primo pensare all'assoluto Spirito — sono due parti essenzialmente distinte di tutta la filosofia, due filosofie, due scienze, e sono appunto la fenomenologia e l'intero sistema, l'introduzione alla scienza e la scienza. La prima finisce dove comincia la seconda; il Primo della seconda, cioè della scienza, il Primo che noi andiamo cercando, è il risultato della prima, cioè provato, e quindi mediato nella prima. Al contrario nella seconda, di cui è il Primo, esso è immediato, non provato come Primo, ma provato e _mediato_ soltanto come Secondo. Adunque, esso è insieme, come Primo nella Scienza, mediato e immediato. E tale deve essere il Primo scientifico. Adunque, posta la fenomenologia, il Primo scientifico non è una contradizione. Esso è provato, e pure è Primo. È provato in una scienza, che precede la scienza. Ciò pare una nuova contradizione. Si può dire infatti: e qual è il Primo di questa scienza che precede la scienza? Ci vorrà da capo un'altra scienza per provarlo? e così all'infinito? No di certo. Questa scienza, che precede la scienza, ha un'indole sua propria; comincia dal primo _fenomeno_, dal primo falso sapere, e risolve tutto il falso sapere nel conoscere assoluto, nel pensare oggettivo. Ora il fenomeno, il primo fenomeno si _ammette, non si prova_. Questo fenomeno è la coscienza, che _non è sapere_, e che si va elevando al vero sapere. In quanto _non sapere_ (semplice _opinione_), è _fatto_, non _scienza_. Perciò come Primo non si prova; non ci è bisogno di provarlo. Se si provasse, non sarebbe più opinione. Questa propedeutica, che è scienza e prova il Primo della vera scienza, ci è solo in quanto ci siamo noi, coscienza o spirito finito; noi dobbiamo elevarci alla scienza, non siamo immediatamente scienza. La vera scienza, invece, ci è in sè assolutamente; è non solo umana, ma divina; quando l'altra è solo umana, non divina. È divina come _momento_ della vera scienza, non come _propedeutica_. Dio non ha bisogno di propedeutica. A queste due scienze allude Gioberti, quando dice: «Due verità, due filosofie, due scienze. La relativa (che è la fenomenologia de' tedeschi), e l'assoluta. Quella è un misto di subbiettivo e di obbiettivo; questa è oggettività pura, intelligibile schietto. Mimesi e metessi»[160]. Adunque — conchiudiamo di nuovo — il _Primo scientifico_ non è una contradizione. La propedeutica che prova il Primo, è scienza prima _rispetto a noi_ solamente (καθ̓ἡμᾶς πρῶτον), e quindi il Primo è Ultimo; ma in sè (κατὰ φύσιν) l'Ultimo è Primo. Visto così che il Primo non è una contradizione, tolta la difficoltà che derivava dalla nozione del Primo, si domanda: quale è il Primo? L'ho già detto: il risultato della propedeutica. Questo è l'assoluto conoscere, il pensare oggettivo. Ma si noti bene; è il pensare oggettivo, non come mondo o totalità assoluto del pensare, come questa o quella _determinazione_ del pensare, ma come semplice grado in generale, orizzonte, prospetto del pensare, come pensare indeterminato, come semplice _infinita potenzialità_ (possibilità) _del pensare_. Ebbene, questo Pensare indeterminato, questa, dirò così, prima determinazione del Pensare, la quale è appunto l'indeterminatezza, questo _infinito potenziale_, questa potenzialità di tutte le determinazioni, ma che non è nessuna determinazione, questo pensare non è altro che l'_Essere_, semplicemente l'Essere, senz'altro, il Pensare come Essere. L'_Essere_, dunque, il _puro Essere_ è il Primo scientifico. NOTA. SPINOZA E CARTESIO. Ho detto[161], che Schelling è rispetto a Fichte quel che Spinoza è rispetto a Cartesio. Perchè sia chiaro tutto il mio pensiero, espongo qui questa seconda _posizione_, come io l'ho concepita. Il pensiero — il _cogito ergo sum_ (l'Io) — di Cartesio è _immediatamente_ pensare ed essere, unità immediata di pensare ed essere (Io e non-io). Questa unità (identità) — l'_ergo_ — non è il vero Pensare (il vero _ergo_); non è _processo_ (relazione, unità sintetica originaria), ma semplice _assioma, intuizione, evidenza, evidenza naturale_. Pensare ed Essere (Io e non-io), appunto perchè immediatamente _uno_ (identici), non sono veramente _uno_. Di certo, Pensare ed Essere non sono semplicemente così: o come due sfere, l'una accanto all'altra _indifferentemente_, e che si toccano solo in un punto della loro superficie, o come due sfere eguali e che _coincidono_ e si confondono perfettamente l'una nell'altra. Nel primo caso non ci sarebbe unità (identità) di sorta, o tanta che equivarrebbe a niente; ci sarebbe la semplice _differenza_. Nel secondo caso nè pure ci sarebbe l'_unità_, ma solo l'_Uno_, una sola sfera; mancherebbe assolutamente la _differenza_. Ma, se Pensare ed Essere non sono così, pure non sono davvero Uno. L'Essere è _insidente_ nel Pensare (è _contenuto_ nel Pensare) _immediatamente_, come l'effetto nella causa, la conseguenza nel principio. Questa _insidenza_ o _contenenza_ è l'_unità_ cartesiana. Questa unità non è l'Uno semplicemente; giacchè l'Essere non coincide assolutamente col Pensare, e si _distingue_ da esso, come l'effetto dalla causa, la conseguenza dal principio. E similmente questa unità non è il semplice _contatto_; giacchè l'Essere non è soltanto _distinto_ dal Pensare, ma è _contenuto_ nel Pensare (dipende, è posto dal Pensare), come l'effetto nella causa, la conseguenza nel principio. È dunque unità, che è insieme _distinzione_. Ma è vera unità? È vera _distinzione_? Quando Cartesio dice: «_Pensare è Pensare e Essere_ (_cogito ergo sum_); Pensare è il Primo, Essere è il Secondo; Pensare è principio e causa, Essere è conseguenza ed effetto», vuol dire semplicemente: l'_essere del pensare_ è conseguenza ed effetto del pensare; dire _Pensare_, è dire _implicitamente_ Essere del Pensare; l'Essere del Pensare è _implicito_ nel Pensare, come la conseguenza nel principio, l'effetto nella causa. Questa relazione (_identità_, non vuota, ma che è in sè _distinzione_. _Identità_: l'Essere è implicito nel Pensare, il principio è in sè la conseguenza, _Distinzione_: l'Essere come tale è distinto dal Pensare, in quanto è posto dal pensare; la conseguenza come tale è distinta dal principio, non è il principio); questa relazione tra Pensare ed Essere è, dunque, per Cartesio semplice relazione tra il Pensare e l'_Essere del Pensare_ (non è relazione tra il Pensare e l'Essere che non è il Pensare, l'Essere semplicemente Essere, l'estensione, il corpo). Ora l'Essere del Pensare non è tutto l'Essere; non è anche l'Essere semplicemente Essere, l'Essere semplicemente reale, la semplice realtà; ma solo l'_Essere_ NEL _Pensare_ (non è il non-io reale, ma solo il non-io nell'Io). Questa relazione non si può, dunque, intendere come relazione tra il Pensare e l'Essere in quanto tutto l'Essere, come se io dicessi: il Pensare è causa della semplice realtà, della _estensione_, del _corpo_; ma si deve intendere solo come relazione tra il Pensare e l'_Essere nel Pensare_. E ciò vuol dire: niente, senza il Pensare, è nel Pensare, quel che è nel Pensare, e in quanto è nel Pensare, non è posto da altro che non sia il Pensare, ma solo dal Pensare; in quello che è in esso, il Pensare ha se stesso, il suo Essere, la sua conseguenza, il suo effetto, la sua genitura: riconosce in quello se stesso. Altrimenti, quel che si dice sia nel Pensare, non sarebbe nel Pensare. Ora l'Essere nel Pensare vuol dire l'Essere in quanto conosciuto (l'essere in quanto _oggetto_, l'_esse obiective_); il _conoscere_. Adunque, la possibilità del conoscere è questa relazione necessaria (identità, nesso causale) tra il Pensare e l'Essere. Togliete questa relazione, e non sarà possibile il conoscere. Questa relazione è lo stesso conoscere. Questa relazione è il pregio di Cartesio (_cogitare ergo esse_. Pregio confessato dal Gioberti: inteso e migliorato da Fichte)[162]. Ma ciò non vuol dire, che il conoscere sia _reale_, che la realtà, la semplice realtà, sia _conoscibile_. Perchè la realtà sia conoscibile (perchè il conoscere sia reale), deve essere in sè questa relazione. Ciò vuol dire, che non vi ha _conoscere_, conoscere _reale_, se così la realtà _cosciente_, come la semplice realtà (spirito e natura) non è in sè questa relazione; cioè, se questa relazione non è la loro _identità_. Ecco Spinoza. Spinoza pone immediatamente, cioè _presuppone_ questa _identità_: la _intuisce_. Ed ecco la _sostanza_. La _sostanza_ è questa relazione, — _cogitare ergo esse_, — posta come la identità di spirito e natura, pensiero ed estensione, immediatamente. _Per causam sui_ (sostanza) _intelligo id, cuius essentia involvit existentiam, sive id, cuius natura non potest concipi nisi existens_[163]. La sostanza è essenzialmente _causa, causa sui_, causa del suo essere: _cogitare ergo esse_. Questa identità — la sostanza — non è un _terzo_, che non sia nè pensiero nè estensione assolutamente. Il pensiero è _identità_ di pensiero ed estensione (la sostanza stessa), ma come pensiero; la estensione è la stessa identità, ma come estensione. Questa identità di sè stesso e dell'altro, la quale è ciascuno de' due, è dunque la loro _identità_. Che è questa identità? L'ho già detto: l'unità cartesiana di Pensare ed Essere, la relazione causale: il _causare_[164]. Quale è la loro _differenza_? Quella, che, con tutta la loro identità, è tra i termini della relazione causale; cioè quella stessa che è tra i termini del principio cartesiano, Pensare ed Essere. Questa mia ultima affermazione pare contraria a quel che è stato detto sempre sinora, cioè che pensiero ed estensione in Spinoza non abbiano tra loro nesso causale, ma siano perfettamente _paralleli_. Vediamo. Il Trendelenburg dice[165]: «Appunto perchè sono una sostanza diversamente, i due attributi sono senza nesso causale». A me pare, invece, che appunto perchè hanno questo nesso, sono una sostanza diversamente. Causa ed effetto, principio e conseguenza sono appunto una sostanza differentemente. Ma Spinoza, si dice, non ammette _finalità_; non ammette che il pensiero _determini_ l'estensione, nè l'estensione il pensiero. Ebbene, relazione causale non vuol dire finalità. Causa ed effetto, come due sostanze, non sono possibili che dove il _causare è creare_, cioè dove la causa non è semplice causa, ma mentalità. — Si è detto sempre, che la Sostanza spinoziana è immobilità o indifferenza assoluta[166]. Ora Spinoza stesso dice, che la sostanza è essenzialmente _causa_: la causalità è la sua stessa _essenza_. Ciò è stato notato da uno storico della filosofia[167], e anche da me in un altro mio scritto[168]. Il parallelismo, come è stato inteso comunemente, cioè che escluda ogni relazione di causa ed effetto, di principio e conseguenza, si accorda benissimo colla immobilità assoluta della sostanza. Parallelismo, inteso così, vuol dire in verità che non ci è la sostanza come identità. Pensiero ed estensione sarebbero, in questo caso, una dualità, come due linee parallele nello stesso piano, la cui unità è solo il piano medesimo. Così non sarebbero la sostanza stessa come pensiero ed estensione, ma solo _parte_ della sostanza, cioè quel che dice il Mamiani[169]; la sostanza sarebbe tutt'altro che la loro identità. Se, invece, la sostanza è la loro identità, ed essi con tutto ciò sono differenti (paralleli), questo solo già vuol dire che la sostanza non è immobilità assoluta. Se è vero, com'è, che la sostanza è essenzialmente causa, anzi la causa stessa, come conciliare questa posizione col parallelismo degli attributi, intendendo per parallelismo la esclusione d'ogni relazione causale? Avremmo, dirò così, nella sostanza una duplice sostanza: l'una come sostanza-causa, e l'altra come sostanza-immobilità (indifferenza), alla quale ultima corrisponderebbe il parallelismo. Ora io dico, che la Sostanza non è identità e causa, ma è identità, che è causa; la identità, la sostanza spinoziana, è la relazione causale. Se la Sostanza è, in quanto sostanza, causa, bisogna dunque accordare con questa posizione la dualità, o, se si vuole, il parallelismo degli attributi; cioè il _contenuto_ della sostanza colla sua _forma_. Il contenuto è pensiero ed estensione; la forma è il causare, la relazione tra pensare ed essere, pensiero ed estensione. Senza questo accordo, la forma sarebbe estrinseca al contenuto; forma e contenuto farebbero due sostanze. Il parallelismo, insomma, deve aver radice nella _natura_ della sostanza stessa, cioè nell'esser essa causa, se davvero è causa. Se non ha radice nell'esser causa, e la Sostanza è causa, bisogna dire che l'abbia in un'altra natura; e così la sostanza avrebbe due nature. Ecco come, a mio credere, si accordano queste due posizioni, la sostanza-causa e il parallelismo, e quindi come si deve determinare il significato del parallelismo stesso; e vedere, se l'unità e la differenza siano vera unità e vera differenza. Il parallelismo ha radice nella sostanza, in quanto la sostanza stessa è questo parallelismo. Sostanza è unità, identità, come causa, come relazione causale. Parallelismo qui (il parallelismo spinoziano) non è opposizione assoluta, e nè meno indifferenza assoluta, perchè non esclude l'unità. Ora la relazione causale, la relazione tra principio e conseguenza, è appunto _questo_ parallelismo. Chi dice una relazione come quella che è il parallelismo spinoziano — che non è nè opposizione assoluta, nè indifferenza assoluta —, dice necessariamente quella relazione che Hegel chiama in generale, _determinazione riflessa_ (essenza): come p. e. _principio e conseguenza, forza ed estrinsecazione, interno ed esterno_; delle quali relazioni la più concreta è appunto la _relazione causale_: causa ed effetto. Questa relazione è l'_Ergo_ cartesiano. L'effetto è la ripetizione, la riproduzione, la riflessione, il riverbero della causa; ma ripetizione, dirò così, in un altro livello, in un altro piano, e nondimeno in modo che corrisponde perfettamente alla causa: cioè, che quel che è in esso, sia nella causa, sebbene come causa nella causa e come effetto nell'effetto, e vale a dire diversamente, in due livelli. Questa perfetta corrispondenza in diversi livelli è il parallelismo spinoziano; è la relazione tra causa ed effetto; quella relazione che è tra il Pensare e l'Essere nel principio cartesiano. La Sostanza — in sè identità cartesiana di Pensare ed Essere, cioè causalità — è la identità di pensiero ed estensione, de' due universi; ciascuno de' quali è questa identità (coll'altro), sebbene diversamente. Che vuol dir ciò? I due universi hanno la _stessa forma_, e pure sono _differenti_. Infatti: 1. Universo spirituale: il Pensiero come attributo è _causa_ (_infinita cogitandi_ POTENTIA); il Pensiero come modo infinito (Universo) è _effetto_ (_intellectus absolute infinitus_). 2. Universo corporeo: l'Estensione come attributo è _causa_ (_infinita, agendi_ POTENTIA, _quantitas infinita_); l'Estensione come modo infinito (Universo) è _effetto_ (_motus et quies_). Come la Sostanza in quanto Pensiero (_infinita cogitandi potentia_) è causa dell'Universo spirituale, così, e nello _stesso_ modo, in quanto Estensione (_infinita agendi potentia_) è causa dell'Universo corporeo. È una _medesima forma_: il _causare_. Questa _medesima_ forma, questa identità ne' due mondi, è la Sostanza. La Sostanza non è come un _soggetto_, in cui siano _inerenti_ i due attributi, come due proprietà, le quali, in quanto _attive_, siano cause de' due universi. La Sostanza non è il soggetto comune, fatta astrazione dalle proprietà, di modo che, poste sole le proprietà come _attive_ (come causa) e fatta astrazione dalle proprietà, la Sostanza, come tale, per sè, sia _inattiva_. La Sostanza, invece, non è Sostanza senza gli attributi; non si può fare astrazione dagli attributi, senza togliere la stessa Sostanza, la sostanza spinoziana; l'attributo, dice Spinoza medesimo, è la stessa Sostanza come _causa_[170]. La Sostanza — la identità — è dunque quella _medesima forma_. Comunemente s'intende Spinoza così. Si comincia col dire: _Natura naturante_, anzi una doppia natura naturante; e _Natura naturata_, anzi una doppia natura naturata (doppia causa, doppio effetto). Poi si fa astrazione dal _naturare_ e dal _naturato_, dal doppio naturare e dal doppio naturato, e si ha la semplice _Natura_, e si dice: — Questa è la _Sostanza_; _Substantia, sive Natura_. — No, dico io, la Sostanza non è la semplice Natura, _ut sic_; non è questo astratto; ma è il _Naturare_ e quindi il _Naturato_ (causa, _causa sui_). I due mondi (e i due attributi) non sono _identici_, in quanto semplice _Natura_, in quanto semplice _Essere_, ma in quanto _Nesso causale_, in quanto _Pensare_ (cartesiano); la Natura spinoziana non è semplice _Essere_, ma è il _cogitare ergo esse_ di Cartesio, e perciò essenzialmente causa: _naturare_. Ma come, avendo la _medesima forma_ (che è la Sostanza), i due universi (e i due attributi) sono _differenti_? La radice della loro differenza è la radice stessa della loro identità; cioè, la loro differenza è la loro identità stessa. Così la Sostanza non è identità come semplice _forma_, ma come _contenuto_. Forma e contenuto si corrispondono perfettamente nello spinozismo; non sono nè vera forma, nè vero contenuto; ma, come imperfetti, si corrispondono pienamente. Infatti, la Sostanza, cioè la identità come _essenza_, come _determinazione riflessa_ (come principio e conseguenza, causa ed effetto, come causare) è _parallela_ a sè stessa; questo è il difetto della Sostanza spinoziana, e quindi dello spinozismo. Perciò la Sostanza non è mentalità. Mentalità è la negazione del _parallelismo_ cartesiano. La Sostanza, come semplicemente parallela a sè stessa, non è nè vera unità, nè vera differenza. Come parallela a sè stessa, essa è i due attributi, i due mondi; ma è tal parallelismo, che non è indifferenza assoluta, ma invece vuol dire: _primo e secondo_ (Pensare ed Essere, _Esse obiective_ ed _Esse formaliter_), sebbene quel che è nel primo sia nel secondo: l'unica differenza è che il primo è primo (Pensare), e il secondo è secondo (Essere). Ma il primo è tal Pensare che è Pensare ed Essere (identità); e il secondo è tal Essere che è Pensare ed Essere (identità), perchè è l'Essere del Pensare, nel Pensare. Il parallelismo, l'esser parallelo a sè stesso (il non esser davvero uno con sè stesso o mentalità) è il principio cartesiano: _cogitare ergo esse. Cogitare_ ed _Esse_ sono lo _stesso_, e nondimeno sono _diversi_; quel che è il _Cogitare_ è l'_Esse_, perchè l'_Esse_ è l'Essere del _Cogitare_, e pure sono lo stesso _diversamente_, perchè l'_Esse_ non è il _Cogitare_. Tutto quel che si trova nel _Cogitare_ si trova nell'_Esse_, ma in diverso livello, in diverso piano; e si trova nell'Esse in quanto si trova nel _Cogitare_; l'_Esse_ (_ordo rerum_) è il contrapposto del _Cogitare_ (_ordo idearum_). Spinoza, dunque, oggettiva la _identità_ cartesiana _immediatamente_ (coll'intuito intellettuale. _Per substantiam_ INTELLIGO ecc.), come Schelling la identità fichtiana. La differenza delle due identità fa la differenza de' due _intuiti_. La identità cartesiana è semplice _parallelismo_ (tesi e antitesi): e perciò l'intuito è lo stesso _intendimento_ immediato. La identità fichtiana è _mentalità_ (tesi, antitesi, sintesi); perciò l'intuito è _intuito mentale_, è _mente intuitiva_. Perciò l'intuito spinoziano (naturalismo) non è un nuovo _atto logico_; e lo schellinghiano è un _atto logico_. (Il nuovo atto logico è la mentalità di questo intuito; mentalità, che è la _nuova logica_ di Fichte). Posso dunque conchiudere, che come Spinoza sta a Cartesio, così Schelling sta a Fichte. APPENDICE DI DOCUMENTI LETTERE DI BERTRANDO E SILVIO SPAVENTA. AVVERTENZA. Stimo opportuno ristampare qui alcune lettere, pubblicate già in uno scritto _Per la storia aneddota della filosofia italiana nel sec. XIX_ (nella _Raccolta di studi critici ded. ad A. D'Ancona_, Firenze, Barbèra, 1901, pp. 335-58): lettere scambiate tra lo Spaventa e il fratello Silvio durante quello stesso anno 1861-62, che fu il primo dell'insegnamento del nostro filosofo nella Università di Napoli, e al quale appartengono le lezioni raccolte in questo volume. Queste lettere narrano col tono dell'intimità fraterna la storia appunto del libro, facendoci assistere alle battaglie, in mezzo alle quali esso si venne formando, e da cui, infine, sorse vittorioso. Oggi una lotta come questa sostenuta dallo Spaventa all'inizio del suo pubblico insegnamento a Napoli riesce fin difficile a comprendersi. Ma bisogna riportarsi alle condizioni speciali dell'Università di Napoli subito dopo il 1860; per cui basta rileggere quello che ne scrisse nel 1862 Luigi Settembrini in un opuscolo, che fece scandalo allora fuori di Napoli (v. gli _Scritti varii_, racc. da F. Fiorentino, Napoli, A. Morano, 1879, I, 13-40). Bisogna sovrattutto ricordarsi dell'importanza che aveva avuto fin allora, in Napoli, l'insegnamento privato, al quale la nuova ricostituzione dell'Università diede un fierissimo colpo; e del quasi fanatico entusiasmo che dal '48, e anche prima, avevan suscitato nel campo sempre più chiuso della cultura napoletana le dottrine del Gioberti. Un professore all'Università, del valore dello Spaventa, simpatico ai giovani come fratello d'uno dei martiri più puri del liberalismo napoletano, e reduce egli stesso, proprio allora, da un esilio più che decenne, sofferto per quella fede politica, che ora trionfava, faceva naturalmente che gli studi privati di filosofia, una volta assai fiorenti, rimanessero tosto deserti. Onde quegli insegnanti abbandonati, difendendo, come potevano, Gioberti contro l'hegelismo dello Spaventa e contro quella sua critica, che faceva della stessa filosofia cattolica e nazionale del Gioberti un hegelismo appena abbozzato, difendevano insieme i loro interessi economici vitali; e però non potevano contentarsi di discutere. Costoro poi avevan l'appoggio aperto o segreto di alcuni degli stessi insegnanti dell'Università, avversarii personali o scientifici dello Spaventa; ai quali non sarebbe sembrato vero di veder costretto l'inviso filosofo ad allontanarsi, per tornare magari a quell'Università di Bologna donde era venuto. Dei più autorevoli tra essi era Luigi Palmieri, già professore di logica e metafisica nell'Università, da quando era morto il Galluppi: immediato predecessore dello Spaventa. Il quale, come s'è veduto (p. 7), a una allusione di lui, che era un'accusa coperta, dovette rispondere nella sua prolusione; e ritenne sempre, come vedremo, che a una sua denunzia si doveva se monsignor Mazzetti, presidente della P. I., aveva ordinato nel 1847 la chiusura della scuola di filosofia, che anch'egli, lo Spaventa, teneva allora privatamente in quello stesso Vico Bisi, reso celebre dalla scuola del De Sanctis. E se numerosi e accaniti erano i nemici, non molti erano gli amici pronti a pigliare le parti dello Spaventa. Le sue idee filosofiche e religiose, la rigidezza del suo carattere, la severità de' suoi giudizi, l'abituale per quanto bonaria mordacità della sua parola facevano di lui un solitario, guardato con occhio tra pauroso e sospettoso, anche tra gli uomini della stessa parte politica. Anche a Torino, dove era stato, meditando e scrivendo, tra il 1850 e il '59, egli sapeva — e si vede da queste lettere — che molti c'erano, che avrebbero goduto della notizia di un suo insuccesso nell'insegnamento universitario nella sua Napoli. Ma, oltre i nemici vicini e lontani, oltre gli amici tepidi e sospettosi, lo Spaventa guardava con fiducia ai giovani: «i quali, in generale, hanno un certo istinto per la verità, per la libera ricerca» (lett. V). I giovani accorsero in gran folla ad ascoltarlo; difesero la scuola dai tentativi di quelli che vi s'affollavano per suscitarvi disordini; vollero pubblicate quelle lezioni, che fecero intravvedere a loro un mondo nuovo. E i nemici, viste deluse le prime speranze, si fecero da parte. Qualche altro tentativo bensì venne fatto anche l'anno dopo, 1862-63. Infatti, un giornale cittadino del tempo (_Rivista napol. di polit., lett. e sc._, a. I, n. 10, 1.º febbr. '63: diretta dall'hegeliano Stanislao Gatti), ci dà notizia di un «piccolo tafferuglio minacciato di fare» all'Università, sullo scorcio del gennaio 1863, contro «due professori [l'altro era forse il Vera] di filosofia, che non son voluti tenere in conto di santità». — «I nostri studenti, — scriveva quel giornale, — si son ribellati contro i loro sistemi, giudicandoli prima che quelli fiatassero, e domenica scorsa volevano fare una dimostrazione, che non sarebbe stata certo filosofica. È colpa loro? Non credo, giacchè io li tengo abbastanza saggi e prudenti per non dare in simili ciampanelle. Credo invece che siano sobillati da qualche altro professore, e questo è il caso di dire che il medico è nemico del medico, il ciabattino del ciabattino. Infatti corrono certe stampe, che non fanno troppo onore a chi ebbele vergate; con le quali si tende ad aizzare i giovani inesperti contro l'insegnamento universitario, accusandolo come pericoloso ed antinazionale. In una di queste stampe la dimostrazione della nazionalità della filosofia si riduce ad una _sciarada_ sulla parola filosofia, la quale in greco vuol dire _amore della sapienza_. L'egregio professore ci dimostra, come due e due fanno quattro, che il primo è _subbiettivo_, il secondo _obbiettivo_: il tutto non lo dice, ma ve lo dico io: è pappolata». Lo spiritoso scrittore conchiudeva pregando «questi filosofi novellini di voler contenere la critica in que' termini di decoro che prescrive la civiltà de' nostri tempi». E ancora in una lettera del 14 marzo di quell'anno lo stesso Spaventa scriveva al fratello Silvio: «Mi dicono che il giorno 19 (te lo ricordi il 19 marzo 1849?) ci sarà gran dimostrazione, e che dopo aver gridato _viva Garibaldi_, si griderà: _abbasso Spaventa_ (me, non te). Son capaci di farlo. Sono i soliti minchioni e birboni. Io non me ne curo. All'Università non vengono, perchè i miei scolari son risoluti di batterli». — Il 19 marzo 1849 era stato il giorno dell'arresto di Silvio, e il principio della sua decenne prigionia. Le lettere qui pubblicate appartengono al carteggio ancora in gran parte inedito dello Spaventa[171], già posseduto dal suo degno nipote e mio amico carissimo B. Croce, e ora da lui depositato nella Biblioteca della Società storica per le provincie napoletane. G. G. I. B. SPAVENTA _al fratello_ SILVIO. Napoli, 27 novembre '61. Mio caro Silvio, Ho ricevuto la tua ultima lettera del 23. Mi dispiace che sei di cattivo umore. Ma spero che passerà, come il raffreddore che, credo, n'è la causa. A questo proposito, ricordati che Torino è Torino, e che ci vuole un po' di cautela. Guardati dal troppo calore delle stufe. È il mezzo più sicuro per evitare catarri. Fa anche i bagni, e moto. Sii di buon umore, e fa come fo io, che piglio tutte le cose in pace. Tu non mi parli di politica, e io non ho che dirtene. Qui le cose vanno come andavano. Il napoletano è quello che era. Parlo in generale. Se pensa, non pensa che a Napoli. Gli stessi imbroglioni, gli stessi ciarlatani, gli stessi vigliacchi: non senso comune, non vera conoscenza delle cose del mondo, la stessa spensieratezza. Il brigantaggio è sempre lì. Già cominciano a borbottar contro le nuove imposte. Calicchio[172] minaccia in iscritto, — giacchè Calicchio è divenuto scrittore, — i deputati che non faranno il dover loro. La camorra séguita a esser da per tutto. Come al tempo de' Borboni vi erano più specie di polizia, così ora vi sono più specie di camorra. Se Domeneddio si risolvesse ad essere napoletano, non potrebbe esser che camorrista. Altrimenti, gli suonerebbero la tofa. — Vedi che anch'io sono di cattivo umore, e vedo tutto in nero. Ho letto la prolusione il giorno 23[173]. Ci era gran folla, e, se devo credere a quel che ho visto e ho inteso, ho fatto chiasso. Credevano che io fossi qualcosa, ma ora credono che sia qualcosa più. Ne avevo fatta una, che mi piaceva e non mi piaceva. Il giorno 16, dopo aver udita l'apertura dell'Università fatta da Palmieri[174], pensai a un altro argomento, e seppellii il primo scritto. Non avevo che sei giorni di tempo. Mi misi a lavorare giorno e notte, e finii la mattina stessa che dovevo leggere. Il sig. Palmieri avea tra tante altre cose parlato (lui già professore di filosofia prima di me) della necessità che la filosofia fosse nazionale, e non forestiera, e specialmente non introducesse tra noi, nella patria, diceva egli, di Campanella, di Bruno, di Vico, di Galluppi, Rosmini, Gioberti, le nebbie, i vapori, le streghe, ecc. della _filosofia nordica_. E io mi misi a scrivere _Della nazionalità nella filosofia_, rifacendo la storia della filosofia da questo punto di vista, dall'India sino a Hegel e Gioberti. Non ti dico che cosa ho scritto. Stamperò la prolusione e te la manderò. Tu capisci che cosa abbia potuto dire. — Lignana[175] proluse lo stesso giorno, e anche molto bene. Dicevano: questi sono discorsi, questi sono professori. Ma, ma.... sin da quel giorno cominciarono certe voci contro noi due: bestemmie, eresie, forestierume, ecc.; ma specialmente contro di me. Dicono — già s'intende — che io sono hegeliano, cioè partigiano del diavolo; che io voglio pervertire la gioventù; che io non conosco la filosofia italiana; che non conosco Campanella, Bruno, ecc. sino a Gioberti. E io fo, come _introduzione_, una breve storia del pensiero italiano dal Risorgimento sino a Gioberti. E oltre le lezioni che sono obbligato a fare, fo una _conferenza_ sopra uno de' nostri filosofi: ora, sopra Gioberti. Questo disegno l'avea fatto prima che parlassero. Ero stato profeta. Intanto ieri ho fatta la prima lezione[176] dopo la prolusione. La scuola era pienissima; e applausi. Ma so che cercano di tentare i giovani. So anzi di certo, che Palmieri ha intenzione — e ha cominciato già a tastare il terreno — di far fare agli studenti una petizione al Ministro perchè sia allontanato dall'Università di Napoli un professore che non professa una _filosofia italiana_.... Nel 1847 mi fece chiuder la scuola con un ricorso a monsignor Mazzetti. Oggi crede che siamo al '47. Vorrei vedere anche questa. — Questa è una delle tante camorre di cui ti ho parlato. — Anche l'ex-professore di Bologna, il prof. Prodigio[177], va dicendo qualche cosa. Non dice che ho fatto fiasco; dice che la nostra filosofia è quell'armonia, la pitagorica, e non ha che fare con quella che professo io. Don Basilio si è fatto ora piccin piccino, e aspetta il caldo e la buona stagione per mostrarsi. Ti ho detto queste chiacchiere per non tacerti nulla. Tu fanne quel conto che credi. Se credi di non parlarne per ora a nissuno e aspettare che io ti scriva altro e come andrà a finire la cosa, fa così. Se credi di parlarne, e prevenire qualcuno, fa pure così. Fa insomma come ti piace. Io crederei di aspettare ancora qualche giorno, e vedere che sarà, e che faranno co' giovani. Rispondimi su questo. Salutami Ciccone[178], e digli che gli scriverò tra giorni. Digli che io non l'ho potuto vedere il giorno che partì, perchè stavo lavorando sulla Prolusione e non potevo uscir di casa. Addio. Scrivi subito. Salutami, se credi, Farini[179], al quale — se credi — potrai raccontare il rogo che mi apparecchiano i _briganti della filosofia_. Papà sta bene e ti saluta con Isabella e Millo. Saluto con loro anche Berenice[180], ecc. Scrivi. BERTRANDO. II. SILVO SPAVENTA _al fratello_ BERTRANDO. Torino, 7 dicembre[181] 1861. Mio caro Bertrando, Perdonami se non ho risposto subito alla tua lettera. Ti dissi come era infreddato, e questo raffreddore è andato sempre più crescendo e non vedo modo di disfarmene. Così mi dà una noia ed un malessere indicibile. Nulladimeno assisto ogni giorno alle discussioni ed agli Uffici della Camera. Non ho il coraggio di rimanere a letto, e questo mi fa forse più male. Bisogna che ricorra assolutamente a' bagni freddi, e non mi so ancora risolvere. Dopo quello che tu mi avevi scritto de' maneggi che ti facevano contro, ciò che ho letto poi nei giornali che ti è avvenuto, avrebbe dovuto meravigliarmi meno. Ho atteso con grande ansietà che mi narrassi tu stesso quello che successe. Spero che non si sia più rinnovato. Io sono certo che tu ti guadagnerai l'amore e il rispetto de' giovani, e che questi si premuniranno da sè contro simili scandali. Sono ancora certo che tu non ti sei sbigottito per ciò, e che hai continuato il tuo ufficio con perfetta calma e dignità. Oggi ancora continua la discussione sulle cose di Napoli, e non so se finirà, benchè in molti vi è un vivo desiderio di mettervi un termine. Si spreca un tempo prezioso; e le assurdità e i paradossi che la Camera è costretta di udire, le fanno perdere l'autorità, di cui ora è più che mai necessario che il Parlamento sia investito. Il Ministero avrà, io credo, una maggiorità notabile. I napoletani, venuti qui gridando che volevano sprofondare mezzo mondo, finiranno la più parte per votare a favore. Il connubio col Rattazzi è divenuto più incerto. Intanto, come farà il Ministero a completarsi, e come si _placherà_, l'Imperatore, che non ne vuole molto di Ricasoli? Il Re lavora anch'egli per Rattazzi. Ci è imbroglio difficile a snodarsi. Addio. _Tuo_ SILVIO. _P. S._ Saluto caramente Papà e Millo e Isabella. III. BERTRANDO _al fratello_ SILVIO. Napoli, 8 dicembre '61. Mio caro Silvio, Non ti ho scritto più, perchè non ho avuto tempo. Tu neppure mi hai scritto da un pezzo, nè so se il raffreddore e quindi il malumore ti sia passato. Aspettavo che mi dicessi qualcosa di politica. Io non ne so altro che quel che leggo ne' giornali. Non avendo a dirti nulla di nuovo di qui, ti parlo di me e delle cose mie. Ti scrissi della _petizione_ che si voleva fare contro di me. Dico meglio: non contro di me, contro la _persona_ (questa distinzione l'ho saputa dopo), ma contro la _dottrina_. Una petizione contro una dottrina! Questa è strana davvero; e tanto più, che di _dottrina_ io non ho detto niente sinora. Non so se la cosa sia andata avanti. Sarebbe una ridicola bricconeria. Ti scrissi che la prima lezione, dopo la Prolusione, andò benissimo. Ora devo dirti che le altre andaron anche meglio. La sala dove fo lezione, è la più ampia dell'Università, ed è sempre piena zeppa di uditori. Credo di averti detto quel che sto facendo ora. È una introduzione _sui generis_ alla filosofia. Io ho detto, ma in modo conveniente: Noi abbiamo un certo _pregiudizio_ nella nostra coscienza nazionale (se si può dire nazionale), il quale è nato dalle stesse nostre condizioni da tanti e tanti anni in qua. Questo pregiudizio è il concetto _un po'_ falso così della filosofia europea in generale, come del nostro stesso pensiero. La mancanza di libertà per tanto tempo ha fatto, che _noi_ diventassimo come un segreto per noi stessi. Questo pregiudizio bisogna vincere, questa falsa coscienza bisogna far vedere che è falsa. A che è arrivato il pensiero europeo? A che il pensiero italiano? La verità — direbbe Bruno[182] — è sopra il _nostro orizzonte_? Questa è la mia _fenomenologia_ — per questa volta, per quest'anno. Questo lo dico a te; non l'ho detto così a loro. Dunque, io fo una breve storia del nostro _pensiero_ dal Risorgimento sino al nostro tempo: le principali figure. So dove vado a finire, e lo sai anche tu. Ma ora lo so meglio e lo vedo meglio. P. e., su Bruno ho fatto altro di più. — Il sunto delle lezioni lo scrivo; e forse forse lo stamperò. Adunque, gran concorso. Ma non tutti coloro che vengono, vengono per amore e buona volontà. Di ciò mi accorsi sin da' primi giorni. So che i giobertiani, — non saprei come chiamarli, — i giobertiani fossili, cetacei, antidiluviani, asfissiati.... l'hanno con me tremendamente. M'asfissierebbero, se potessero. Hanno tutta la virtù de' settarii: l'intolleranza. Dicono che io _guasto_ Gioberti. — E se lo guastassero loro? Può essere l'uno e l'altro caso. Dunque, si vegga. — No: chiudiamo gli occhi, e non ci si veda affatto. Vogliono ripetere la storia di Aristotile tanto tempo fa. Ma Aristotile era Aristotile, e quel tempo era quel tempo. — Adunque, i giobertiani mandavano uno de' loro, un _professore_; il quale nella seconda lezione[183] m'interrogò su non so che cosa, che aveva a fare colla lezione come il coro col paternostro. — Qual è il vostro _punto di partenza_? — Lo saprà, quando deve saperlo. — Ma desidero di saperlo ora. — Ero per dirgli: Il mio punto di partenza è: «Porto di Napoli, 26 ottobre 1849»[184]. Gli dissi invece: Abbia pazienza. Ho aspettato io tanto tempo[185] (12 anni); può aspettar lei un paio di settimane (_Applausi universali_, direbbe Mancini[186]). — Così finì la cosa il primo giorno. Nel secondo[187], lo stesso professore. Io avevo detto, che ne' filosofi del Risorgimento le _nuove_ determinazioni, che negavano le determinazioni scolastiche, si vedevano sparse, confuse, — e parevano, per dirla così, tanti ceci che bollono in una caldaia[188]. Era un modo di dire. E il professore giobertiano: Voi avete detto, che gli Scolastici sono ceci. — No; se l'ho detto, l'ho detto de' filosofi del Risorgimento. — Ma no; gli Scolastici non sono ceci; piuttosto sono quelli del Risorgimento. — E sia: dunque avremo due caldaie di ceci. È contento? — Ma voi volete _distruggere_ la Scolastica. — Io non distruggo niente; è la storia che si è incaricata da un pezzo di questa faccenda. Se la pigli con essa. Se lei vuole risuscitarla, la Scolastica, è padrone: ci si provi[189]. — Ma voi dite che la _natura_ e lo _spirito_ sono _momenti_ di Dio, ecc. Dunque la natura è Dio, lo spirito è Dio, e io sono Dio. — Mi dispiace di doverla togliere da questa beata illusione. Io dico _momenti_; e ciò significa, ecc. Questo ci è stato, e niente altro. Qualcuno, del séguito del giobertiano, volle osservare che bisognava rispondere; ma non ebbe il tempo di finire, perchè i giovani, che ne sapevano più di me, — che s'erano accorti d'una specie di piccolo complotto per far chiasso in iscuola e _perturbar l'ordine pubblico_, — i giovani erano per dargli addosso. Capii che la cosa sarebbe finita male, e che quel _qualcuno_ avrebbe forse conseguito il suo intento. Licenziai i giovani, giacchè avevo già finito la lezione. Li licenziai di nuovo alla porta dell'Università, perchè volevano accompagnarmi per la strada, temendo forse che non avessi a avere le bastonate dai filosofi camorristi; accesi il sigaro, e via solo. Tu forse avrai letto nel _Nazionale_ il fatto diversamente; che mi aveano detto (i giobertiani) ingiurie; essere stato io nominato per favore, ecc. Niente vero. Il fatto è nè più nè meno quel che ti ho detto. La cornice deve essere o di Quercia o di Gatti[190], o di qualche altro, che pettegoleggia anche involontariamente. Io non ho risposto per non dar alla cosa un'importanza che non aveva. Quel professore non è comparso più. Quindi due giorni tranquilli. Ieri solo ci fu un nuovo incidente. Un prete anche professore volle dire non so che altro. E i giovani da capo a non volerlo far finire. Dovei difendere la _libertà_ del prete: ma nel tempo stesso feci capire _dolcemente_, che la libertà filosofica non era quella che s'imaginava il prete, e che io la voleva (e avea diritto di volerla) per tutti, per loro, per me, ecc. Non ci fu altro (Mancini: _Applausi universali_). Come vedi, anch'io nella mia piccola sfera ho i miei camorristi e i miei briganti. Non me ne sgomento; fo quel che devo fare; e fo il mio dovere; lo fo con quella maggior coscienza che posso: tollero tutti, e voglio che tutti facciano lo stesso verso di me. Libertà per tutti, e per me. Se loro credono di avere in tasca la verità, anch'io potrei avere la stessa pretesa. Fuori dunque le monete: vediamo quale è buona e quale è cattiva. Se non vogliono vedere alla luce, com'essi credono che la loro moneta sia buona, così io posso dire che la mia è buona. — Già mi avvio per la predica. Finisco. Scrivimi e dimmi qualcosa di positivo della _situazione politica_ e degli uomini politici. Voglio dire: i grandi uomini politici. Berenice come sta? Salutala colla famiglia per me. Papà sta bene. Isabella e Millo ti salutano. BERTRANDO. IV. BERTRANDO _a_ SILVIO. 17 dicembre 1861. Mio caro Silvio, Ti ho scritto ieri e confortato a rispondere alla _Patria_. Ci ho poi ripensato. Non vorrei esserti cagione di nuovi disturbi[191]. Fa come credi. Se credi di poterne far senza, fa pure. Addio. Scrivimi e ti scriverò a lungo, subito che ne avrò tempo. Ieri: ha proluso Vera. Io non l'ho sentito. Chi l'ha sentito e inteso mi ha detto: volgarità senza pari[192]. Vera, io già lo sapeva, non intende che Hegel, e l'intende molto superficialmente. Questo sia detto a te, solo a te. Addio. BERTRANDO. V. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 28 dicembre '61. Mio caro Silvio, Ieri ho ricevuto la tua del 24, e non ho risposto subito, perchè era tardi, e la posta già partiva. Aveva preveduto la difficoltà, di cui tu mi parli, nata dall'incidente del giorno 8, e la giudico come la giudichi tu, cioè come un bene ora, piuttosto che come un male. Quel che bisogna scansare sempre, è il porgere la menoma occasione a quella gente, che non fa altro che andare in cerca d'occasioni. Da loro non mi aspettavo e non mi aspetto altro! Fanno il loro mestiere. Anche se tu avessi parlato più pacatamente di quel che hai fatto, essi avrebbero fatto lo stesso; più che contro il tuo discorso, l'avevano contro di te. Questo è chiaro. Pazienza, e tempo: e la luce si farà. Di qui non ho a dirti niente. Le cose vanno sempre come andavano; forse meglio, giacchè, se non altro, si tira sempre innanzi, come Dio vuole. Il male è che le cose sono ancora, — e saranno per un pezzo, — in mano della canaglia: e chiamo così coloro che non hanno fede in niente, che non sono nè borbonici davvero, nè italiani, ma sono birbanti, intriganti, ladri, ciarlatani, bugiardi, adulatori; e che per tutte queste qualità si trovano bene. È un male che ci vorrà ancora tempo a estirpare, se pure ci si pensa. Anzi! E anche qui ci vuol pazienza. Bisogna, quando si può, turarsi il naso, per non sentire il fetore; e quando non si può, abbandonarsi al destino, incrociare le braccia, e aspettare. Passo a parlarti di me, giacchè non ho a dirti altro. Ho finito già la mia Introduzione, ed è molto probabile che la stampi. I giovani vogliono così. Le mie lezioni sono andate sempre bene, anzi di bene in meglio: sempre gran folla. Ora so quel si voleva fare contro di me. Si voleva far chiasso e tumulto nella scuola. Ma non ci sono riusciti. Io, credo, sono stato molto prudente. Non è stata astuzia, ma una certa confidenza in me stesso, un certo sentimento di dignità, una certa serenità d'animo, una certa noncuranza di certe miserie e pettegolezzi, un certo umore frizzante senza offesa, che, se non nascevano, erano certamente fatti più vivi dal paragone che io facevo tra me e loro. Era un piccolo complotto di professori di filosofia. La solita storia: guasta Gioberti. Ma in realtà il vero motivo era tutt'altro. È quel timore o odio involontario della luce che hanno le talpe. E la luce che io oppongo a loro, è appunto quella che non vogliono, la libera discussione. Credo che abbiano smesso il pensiero di far più nulla in iscuola; perchè si sono accorti che i giovani li accopperebbero. Già molti giovani, giobertiani a modo loro, si sono, dirò, convertiti. Ora ho saputo che vogliono fare una rivista giobertiana, e risuscitare una certa accademia dello stesso nome. Facciano pure. Alla testa di questo movimento contro di me ci sono de' pezzi grossi, o almeno tenuti per tali qui. Ma io non mi sgomento. Altro è gridare _abbasso_ a uno che amministra, e che non può _dimostrare_ che amministra bene; altro è gridare contro un professore. Se essi credono dimostrare, anch'io dimostro. Io spero ne' giovani, i quali in generale hanno sempre un certo istinto per la verità, per la libera ricerca. Vedo che il breve corso, che ho fatto finora, ha fatto buona impressione. Un tale che mi era ostile, venendo sempre a udirmi, ha finito col diventarmi favorevole, e dice che ora intende Gioberti. Anche altri, più o meno, così. Spero dunque che la cosa andrà, anche senza il favore de' pezzi grossi, che, dopo aver empito la pancia sotto i Borboni, l'empiono meglio anche adesso. E io non gl'invidio. Mangino pure, ma lascino stare i minchioni. Spero, dico, che la cosa andrà. Del resto, io fo quel che credo di dover fare. Non fo che la lezione: non penso ad altro; non vedo nessuno, eccetto gli scolari; non fo male a nessuno; sono divenuto il più grande _egoista_, direbbe qualche gran filantropo. Dunque, accada quel che deve accadere. Spero, ripeto, che non accadrà niente. Non ho più tempo di scriverti oggi. Tu intanto scrivimi a lungo. Papà e Isabella co' ragazzi stanno bene e ti salutano. Salutano con me anche Berenice con Raffaele e ragazzi. Mi dispiace che Berenice non sia ancora guarita. Ricordati di badare a' salassi, che a Torino fanno in gran copia. Falla curare da medici napoletani. E tu bada a' raffreddori. Scrivimi. BERTRANDO. _P. S._ Salutami Ciccone. E non dir niente a Massari di Gioberti e non Gioberti. VI. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 8 febbraio '62. Mio caro Silvio, Dal giorno 29 del mese passato non ti ho scritto più, e oggi ti scrivo in fretta per dirti quel che è accaduto ieri all'Università. Io non ci era; nè era giorno di lezione per me. Ieri sono stato tutto il giorno in casa a pensare a Brama e a Budda, e uscendo la sera ho saputo cosa c'era stato[193]. Un certo numero di giovani studenti, capitanati da qualche non studente, solito a farsi vedere in tutte le dimostrazioni — e studenti non dell'Università, ma degli studi privati, che sono qui numerosi come le formiche e forse più degli studenti — prima di mezzogiorno si presentano all'Università, vanno alla Biblioteca, pigliano la bandiera (la piglia quel tal capitano), e giù per le scale, per la corte, a gridare e schiamazzare: _abbasso il Rettore, abbasso Settembrini, abbasso i professori che non fanno lezione, viva Gioberti, abbasso Hegel, viva Rosmini e la filosofia italiana, abbasso la filosofia tedesca, viva Mandoi!!!_ (storico), _abbasso il Papa-re, viva Garibaldi_. Dopo aver gridato così più volte e stracciato dalle muraglie un ordine del giorno del Rettore[194], nel quale gli studenti venivano invitati a rallegrarsi delle parole che il Ministro della Pubblica Istruzione avea detto in elogio loro e della Università in una recente discussione, dopo avere stracciato altre carte, e mi si dice — ma non so se sia vero — cancellato certi nomi dall'Elenco de' professori; dopo queste ed altre amenità, uscirono, s'ingrossarono per la strada, e specialmente per Toledo, gridando: _Abbasso il Papa-re_. E così finì. È stato uno di que' pasticci che si vedono solo qui. Tutti i malcontenti vi hanno soffiato e operato: tutti i nemici de' nemici si sono riuniti. Il complotto o i complotti si sapevano. Si sanno le case dove si organizzano; i professori privati e non professori che istigano; anche qualche vecchio _valente_ professore universitario, conservato perchè _valente_ — nel valer poco e chiacchierare da mattina a sera, ecc. ecc. Non credo che la cosa finirà così, se il Governo non mostra energia contro una certa canaglia dell'insegnamento, che ne ha fatto un mestiere di polmoni e di.... Bisognerebbe pigliare misure giuste, ma pigliarle e farle eseguire. Qui sta il punto. Chi eseguisce a Napoli? — Ieri sera intanto — non so se sia vero — il _Nazionale_, l'organo della verità _ad usum Delphini_, mi si dice raccontasse la cosa in modo, da far credere che si gridasse solo: _abbasso certi professori_ INSEGNANTI. Non ho avuto il tempo di verificare il fatto. Credo utile farti questa prevenzione. Ho ricevuto la tua. E resto inteso di quel che mi dici sulla denunzia. Ti scriverò su ciò subito che avrò tempo. È un nido di birbanti, che si dovrebbe mettere a dovere. Ma di ciò appresso. Addio per ora. Dimmi di Berenice. Papà ti saluta con Isabella e Millo. BERTRANDO. VII. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 10 febbraio '62. Mio caro Silvio, Ti ho scritto l'altr'ieri in fretta, e fo lo stesso anche oggi. Ieri grande dimostrazione contro il Papa-re, e a favore del Papa non re. È stata fatta con ordine, con gran folla; e mi dicono che sia riuscita benissimo. Solo l'aveano, mi dicono sempre, con Lamarmora, che non si era affacciato, e non avea detto: — Bravi, così vi voglio. — Che giudizio! non arrivano mai a capire quel che capiscono anche le oche. Ti scrissi così, come m'era stato anche detto, dell'altra dimostrazioncella all'Università. Mi aveano esagerato le grida contro la filosofia; di ciò poco o niente. Il rumor maggiore, anzi principale, è stato contro il Rettore, il Ministro e i professori che _non fanno lezione_, (Credo che non ce ne siano. La fanno tutti, credo). Cominciarono dallo stracciare quel tale ordine del giorno a' giovani, e dal cancellare certi nomi dall'_Albo_ de' professori. Non erano studenti dell'Università, o pochissimi, ingannati o tratti a forza da certe birbe. Gli autori di più specie: istigatori senza parere, gesuiti perfetti; istigatori palesi, ma non esecutori, ecc. Coloro che dicono più male dell'Università, del Rettore e del Ministro, sono naturalmente coloro che sono stati favoriti, ma non come desideravano. Sono bricconi matricolati. In verità, la politica ha i suoi principii, — che non sono principii, — i suoi famosi temperamenti; e gli uomini stessi cangiano di proposito, e per timore o altro sono capaci di abbracciare in pubblico anche i loro nemici. Questo è l'uso. Ma, per Dio, io non so capacitarmene. Quando vedo certi serpenti — e mi ricordo delle nostre galere — quando vedo certi serpenti antichi, noti e famosi come serpenti, alzare ancora la testa e vibrare la lingua, e noi poveri minchioni ridotti ancora a tirarci da canto e guardarcene e pensare a' casi nostri, e quasi quasi sgombrar loro tutta la via e lasciarli divertire come si sono sempre divertiti: quando vedo questo, non so che dire. Dico: viva l'Italia! E così mi consolo. Questa è la mia dimostrazione. Il giorno dopo andai a far lezione, al solito. Trovai gran folla di studenti dentro e fuori la sala. Ci siamo, dissi tra me. Mi accolsero con applausi strepitosissimi, infiniti, inenarrabili, direbbe Mancini. Era, direbbe lo stesso, una protesta contro quel che s'era fatto il giorno innanzi. — Ti racconto queste miserie perchè non ho che dirti, e per opporre miserie a miserie. Mi imagino, che forse si sarà detto costà: «E poi entrarono nella scuola di Spaventa, lo fischiarono, lo fecero uscire, fuggire, scappare, ecc. L'indignazione de' giovani era giusta, ecc. Si salvò per miracolo» — Per darti un saggio dell'onestà e della stupidaggine di que' che dicono male di me, senti questa che è storica: «Spaventa ha detto giorni fa in una lezione: Signori, in otto lezioni vi dimostrerò che Dio non esiste». Ho bisogno di dire a te: quando mai? Ci sono i gonzi che lo credono, ma ci sono i birbanti che non dovrebbero essere creduti da coloro che non sono gonzi e non sono birbanti. Addio per oggi. Papà e Isabella vi salutano. Scrivi. BERTRANDO. VIII. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 21 febbraio '62. Mio caro Silvio, È già un pezzo che non ricevo tue lettere. Ieri sera ho visto Ciccone, che mi ha dato notizie di te e di Berenice. Io avrei dovuto scriverti, per raccontarti, se non altro, quel che è avvenuto — la seconda volta — nell'Università; ma, sempre al solito, mi è mancato il tempo. Più o meno, già saprai tutto. Pure, sebbene tardi, voglio dirtene anch'io qualcosa. Nella prima dimostrazione, di cui ti scrissi, i giovani o i così detti giovani — giacchè non tutti erano studenti, nè tutti gli studenti erano dell'Università — dopo aver lacerato un ordine del giorno del Rettore e cancellato dall'Elenco i nomi de' professori che non fanno, come dicevano loro, lezione, e aver gridato abbasso il Rettore, il Ministro De Sanctis, i Professori che non fanno lezione, ecc., e viva Tizio e Caio, ecc., dopo molto chiasso, presa la bandiera, escono e via per le strade gridando: Viva l'Italia ecc., abbasso il Papa-re, ecc. Si gridò anche: Abbasso la filosofia tedesca ecc.? Si gridò e non si gridò. Ci è di coloro che vogliono far credere che si gridò così, e quasi quasi che non si gridasse altro; che lo scopo principale della dimostrazione era appunto gridare così. Vogliono farlo credere; e capisci perchè[195]. Quel che so io, è questo. Tra i dimostratori ci era di coloro che aveano interesse o erano mandati da chi avea interesse a gridar così; cercarono di gridare e far gridare: ma la cosa rimase lì, e il grido fu soffocato nel nascere da altri giovani. È certissimo il seguente fatto: quando andarono alla biblioteca a pigliar la bandiera, un prete, — che è lì a far il vicebibliotecario, credo, — non solo non si oppose, ma disse: «Tenete, e gridate, figliuoli, contro questi panteisti e questi atei che hanno messo all'Università». Questo fatto è notorio; e il buon prete è ancora lì, come ci sono e lì e altrove tanti altri, e ci saranno chi sa quanto tempo ancora. — Quel giorno, uscendo di casa tardi, seppi che c'era stata la dimostrazione. La sera vidi il Rettore, al Consiglio di Pubblica Istruzione. Finito il Consiglio, e andando via: ch'è stato? gli domandai. — Hanno gridato, e fatto chiasso; hanno gridato: _Abbasso la filosofia tedesca, viva Gioberti, morte a Hegel_. — In verità, non mi poteva dire che aveano gridato: abbasso lui. Pettegolezzi sempre. Nella seconda dimostrazione presero la bandiera — dopo avere stracciato e cassato come prima — e uscirono; ma nacque un po' di discordia tra i giovani, tra que' di fuori e que' di dentro, e tira e stira, e parla e rispondi, finalmente i buoni la vinsero e la bandiera fu rimessa al suo posto. Questa seconda volta non so cosa avesse detto quel buon prete. I giovani dicevano di voler andare sotto le finestre del Console di Francia a protestare contro una sua lettera, in cui avea dichiarato di non aver udito altre grida in quella gran dimostrazione contro il Papa, che «Viva la Francia, Viva l'Imperatore». — In questa seconda dimostrazione non si gridò contro nessuna filosofia; e in quel giorno io neanche faceva lezione. La causa di queste turbolenze non è una. Ci è di certo una causa politica. Gli studenti in Napoli sono, come sai, moltissimi: è una massa rispettabile, ardente, piena di vita. Dunque, può servire a qualcosa. Quindi i soliti agitatori, i soliti capi, i patrioti per eccellenza, i _frementi_. Questo è positivo. Bisognava comprometterli con quella dimostrazione contro la Francia, e poi la cosa sarebbe andata da sè. Mi pare che gli studenti sinora abbiano avuto più senno che non si sarebbe creduto. Ma non tutti quelli che _dimostrarono_, aveano _intenzioni politiche_. E questo lo sapevano gli stessi agitatori. Quindi un'altra causa, che questi seppero benissimo _exploiter_: i professori che non fanno lezione. Questo era il motto d'ordine principale, e così si formava un nucleo abbastanza forte. In questo gli studenti non udivano consigli e parole di conciliazione. Rispondevano sempre: No, abbasso chi non fa lezione. — Cito questo fatto. S'era fatta girare una specie di protesta contro i disordini, nella quale gli studenti doveano dichiararsi soddisfatti de' professori ecc. Pochi firmarono. Non vogliamo firmare, rispondevano i più. Noi non vogliamo tumulti, siamo contenti di que' professori di cui siamo contenti; ma non vogliamo dire di essere contenti di questi, di cui non siamo contenti. — Non ci fu modo; non firmarono. — Altra causa: le gelosie de' professori privati, di aspiranti a cattedre rimasti delusi e di cattedratici, che hanno insegnato con lode sotto i Borboni. È positivo, che un professore dell'Università, celebre per le denunzie che ha fatte e che credo faccia ancora, ha avuta mano in questa faccenda. È positivo, che le dimostrazioni o parte di esse, sono state concertate in certi studii privati. È positivo che un impiegato dell'Università — un cazzaccio, — il quale ha 4000 lire all'anno di soldo, nelle conversazioni private e in pubblico non fa altro che dolersi dell'ateismo de' nuovi professori. È una combriccola di birbanti, di galeotti, pagati e pasciuti dallo Stato. Il Ministro domandò al Consiglio d'Istruzione Pubblica un rapporto su' _fatti_, sulle cause loro, e su' _rimedii_. Questo rapporto è andato; l'ho firmato anch'io. Ci è del vero, ma non tutto il vero; e ci è del falso, in quanto certe circostanze insignificanti sono state un po' _accentuate_, e certe significanti sono state appena toccate. È una specie di _velo impenetrabile_ gittato lì per coprire quel che non dovrebbe essere coperto. Ma il falso nel senso di falso assoluto non ci è. Che dovea far io? Saremmo venuti alle mani. Il rapporto non parla certo de' veri istigatori, preti e vecchi professori dell'Università, ecc. Ha però il coraggio, se ben ricordo, di parlare contro i borbonici. Il nostro presidente, il comm. De Renzi, è un antiborbonico de' più accaniti, e non ha niente paura di dirlo in pubblico! Il rapporto è dunque inutile, e servirà più come mezzo diplomatico, che come materia di studio per far il bene e migliorare le condizioni dell'insegnamento qui[196]. I poveri giovani non c'entrano. Come sono stati _cretinizzati_ in questi dodici anni! E pure hanno voglia di fare e sapere. Ma il male è ne' ciarlatani. Paroloni, ecco tutto. Ma l'Università, se va e va bene, può fare gran bene. In generale, fuori dell'Università l'insegnamento è anarchico, confuso, superficiale, e anche retrogrado. La rigenerazione, la vera rigenerazione dell'ingegno, non può venire che da essa. È cosa orribile a pensare quanti pregiudizii ha in generale il giovine napoletano. Ammettono una _dialettica_ nazionale; leggono Platone in Marsilio Ficino, la storia della filosofia in Gioberti, ecc. Credono che si nasca filosofo, o almeno basti avere una _formola_ così per esserlo. Il male, che ha fatto qui il giobertismo, è incredibile. Ma finirà. Sono giovani intelligenti, svelti; solo devono persuadersi che la scienza è cosa seria, e ci vuol pazienza assai. Lascio di scrivere, perchè non ho più tempo. — Fa quel conto che credi di queste notizie che ti ho dato. Ad ogni modo non mostrare a nessuno queste mie lettere, e non mi _compromettere_ co' pettegoli. Ti scrivo per dirti tutto. Hai capito? Regolati, e dimmi se seguitano a denunziarmi. Scrivi subito, e a lungo. Saluto Berenice e Raffaele, a cui risponderò. Papà sta bene e vi saluta con Isabella e ragazzi. BERTRANDO. IX. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 22 febbraio '62. Mio caro Silvio, Ti ho scritto ieri, e ti scrivo anche oggi per raccontarti un fatto, un altro pettegolezzo. È bene che non l'ignori. — Esiste qui un'Associazione così detta degli studenti. Ha un presidente; non so se sia studente. Dicono, che abbia anche de' patroni. Sere fa, ci fu riunione; l'invito diceva: visto che nell'Università sono successi disordini, ecc., gli studenti e i facienti parte della Società sono pregati d'intervenire per provvedere. Ci furono discorsi, molti, e al solito. La conchiusione fu questa: la nomina di una Commissione, la quale ha avuto l'incarico: 1.º di invigilare sull'_amministrazione_ dell'Università; 2.º di invigilare su' professori, e notare coloro che non fanno il proprio dovere, che non fanno lezione o la fanno e non la fanno; 3.º di esaminare, se tutti i professori dell'Università _siano all'altezza de' tempi_. Chi giudicherà dell'altezza de' tempi? Mi dicono che gl'ispiratori siano stati De Boni, Verratti, Zuppetta[197]. Io non lo so di certo. Dicono anche, che in mezzo a tali faccende ci siano delle persone venute da Roma. — Cito questi nomi a te. Non dirlo, per evitare i duelli! Intanto ieri (me l'han detto certi professori; io non l'ho visto) fu affisso alle cantonate un _placard_: «La Commissione degli studenti nominata il giorno _b_ è in _permanenza_ sino al giorno _c_; chi ha notizie a dare relativamente all'oggetto, ecc., si rechi nel luogo _d_, ecc.». È inutile ripetere che gli agitatori di diversi partiti si danno la mano qui. T'invio un Manifesto contro di noi altri..., non so come dire. Leggilo e vedi. È un appello alla insurrezione contro di noi. L'autore (Mengozzi) mi dicono che sia un pessimo soggetto: venuto qui quattro anni fa con raccomandazioni d'Antonelli, spia, ladro, ecc. T'informo di tutto ciò per informarti. Lascia che faccia chi deve fare. Tu sii semplicemente informato. Hai capito? Addio. Scrivimi. Di fretta. BERTRANDO. _P. S._ — Ci è chi dice anche, che la filosofia che noi insegniamo mena al dispotismo; che il Governo ci ha nominati a posta. Anche un ex-colonnello borbonico ci accusava in un caffè di professare una filosofia retriva, ecc. Che caos! — Riapro la lettera per dirti che ora appunto ricevo la tua. Non posso dirti altro. So che il Rettore dell'Università, la sera innanzi alla seconda dimostrazione, che io l'andavo cercando, perchè avevo saputo che si sarebbe fatta, — era in casa di Nicotera[198]. Che pasticcio! X. SILVIO _a_ BERTRANDO. Torino, 3 marzo 1862. Mio caro Bertrando, Sono quasi otto giorni che ho avuto le due ultime tue lettere e non ti ho ancora risposto per le solite cagioni: noia, raffreddore e svogliatezza indicibile di scrivere. Delle notizie che mi davi su' tumulti avvenuti nell'Università ho fatto l'uso più discreto, ma tanto che basta a darne un concetto giusto a chi ci ha interesse. Del resto, qui si sa da ognuno che tu sei molto voluto bene da' giovani, e che la tua cattedra è la più frequentata di tutte. Saprai dall'altr'ieri la crisi ministeriale. Il barone Ricasoli diede le dimissioni[199] giovedì la sera, scrivendo al Re come le voci corse e ripetute di un dissidio profondo tra il Ministero e la Corona avevano cagionato un tale stato di cose, che era impossibile che egli rimanesse più al potere. Il Re adoperò l'autorità del principe di Carignano per dissuadere il Ricasoli a non dare una dimissione _cosiffatta_: ma il Ricasoli tenne fermo. Il Re quindi rispose che, se il Ministero intendeva ritirarsi, avesse atteso un voto della Camera: ma il Ricasoli duro. Finalmente le dimissioni furono accettate l'altra sera. Questa mattina il nuovo Ministero si dice composto, ma io non ci credo. Il Rattazzi ha picchiato a tutte la porte, ma inutilmente. Basti dire che si è rifiutato il Conforti! Si crede che ci entrerà il Mancini. Il telegrafo vi porterà i nomi prima che non ti giunga questa. Eccoci dunque dentro una nuova fase. La situazione mi pare assai grave, e Dio sa che ne uscirà. Ciò che ha rovinato il barone Ricasoli fu quel tale discorso su' Comitati de' provvedimenti, che scandalizzò ognuno. Pur nondimeno io sono certo che il Rattazzi non avrà la maggiorità della presente Camera. Avrà il coraggio di scioglierla? Ed allora dove si andrà? Il Ministero nuovo è una combinazione prettamente piemontese; gli altri delle altre provincie non ci sono che per mostra, il Mancini (se è vero), il Cordova e il Matteucci. Prevedo quindi una riazione violenta del sentimento municipale delle altre provincie. Oltracciò, se il Rattazzi non ci conduce a Roma subito, è impossibile che si possa reggere; perchè tutti diranno che, se non ci si va, è perchè i piemontesi non vogliono andarci. Ma forse l'imperatore, per accreditarlo un po' agli occhi degli italiani, farà qualche concessione apparente, di cui si possa attribuire il merito a Rattazzi, e così potrà andare innanzi qualche tempo. Vedremo. Salutami Papà, e digli che gli scriverò un altro giorno. Salutami Isabella e Millo. _Tuo_ SILVIO. XI. SILVIO _a_ BERTRANDO. Torino, 30 marzo 1862. Mio caro Bertrando, Ricevo in questo punto la tua lettera. Sapevo qualcosa del tumulto avvenuto nell'Università da' giornali e da lettere degli amici, ma ignoravo che tu ti ci fossi trovato in mezzo. L'hai passata brutta, e non so come ne sei uscito salvo! Pare incredibile che le cose si sieno costà lasciate andare a cotesti termini. Le riflessioni che tu fai, sono giuste. Il De L... è quel furfante che io l'ho tenuto sempre. Basti; io ti prometto che sarò riservato oltre ogni misura. Quanto a te, non ci è ragione di avere il menomo timore che ti facciano torto. Avrai letto nei giornali i risultati della tornata del 17. Lo scandalo fu immenso. Il Rattazzi, gridando di voler uscire dall'equivoco, ci si sommerse fino agli occhi. Il Farini e il Minghetti e molti che erano per noi, dissero il sì per non rendersi impossibili. Fecero ogni opera con me, perchè dicessi anch'io _sì_; ma fu inutile: io non posso tollerare ambiguità. Del resto sii sicuro che io mi comporto molto moderatamente, e contro di me non vi è alcuna animosità ne' nuovi ministeriali. Si crede che il Farini entrerà nel Ministero degli Esteri. Nei nostri accordi stava però che non entrerebbe senza richiedere più profonde modificazioni nel Ministero. Questo era il senso della proposta da me fatta accettare a una gran parte dell'antica maggioranza. S'intende che io non mi conto oggi tra i ministri possibili. Ti risponderò per l'Angiulli[200] tra breve: ne ho parlato direttamente al Brioschi[201], che mi ha promesso una risposta. Addio. Tanti saluti a Papà.... SILVIO. XII. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 22 marzo '62. Mio caro Silvio, .... Ho letto i nomi de' votanti pel _sì_ e pel _no_ nella questione ministeriale[202]. È una maggioranza, che non ci è stata mai in Italia: Gustavo Cavour[203] e Brofferio insieme, ecc. Qui — i soliti — già cominciano a gridare che siete traditori della patria, perchè non avete votato pel Ministero. Insomma, traditori, quando appoggiavate un Ministero, ed essi gli facevano opposizione; traditori, ora che voi fate opposizione a un Ministero, ed essi l'appoggiano. Non mi meraviglierei, se domani uscisse la solita lista per Toledo: i traditori della patria. Io sto come stava. Dopo il 15 niente di più. Ma chi ci assicura che non ci sarà più niente? Finchè si trattava di parlare e ribatter parole, di esser chiamato non so che cosa, di essere denunziato, ecc., meno male. Ma aver che fare co' _revolvers_, — ti dico chiaro che la cosa non può andare così. Capisco che la seconda posizione è una conseguenza della prima, qui; e per me i veri assassini sono quelli della prima posizione. Ma è inutile: l'Italia si fa così, e non ci è che dire. Se un tal di tale p. e. che ha fatto il borbonico e lo fa anche adesso in tutti i modi che può, calunniando e ammazzando chi non l'ha fatto mai, se questo tal di tale non fosse la pupilla degli occhi di qualcuno che è su, di certo l'Italia non si farebbe. Dunque, per fare l'Italia, viva i borbonici e abbasso ecc. Accada quel che ha ad accadere. Ma ti ripeto che sono già seccato e stomacato di questo porcile di vigliacchi assassini. — Ho saputo chi erano quelli che sparlavano di te.... — La strada del Sangro non l'ha fatta concedere Don Silvio, nemico capitale della patria, e che pel suo modo d'agire non dovrà mai essere rieletto, ecc. — Vorrei sapere se tu hai avuto parto o no in quella concessione e come è andata la cosa. — Bisogna pensare nel caso di scioglimento della Camera. Rispondimi su di ciò. Chi scrive da Bomba — un artigiano — vorrebbe che tu dessi qualche attestato di non so che agli Atessani, vani sempre. L'artigiano ne sa più di me e di te. In caso di rielezione gl'imbrogli de' _patrioti_ sarebbero infiniti e la vigliaccheria anche infinita. Scrivo di fretta. Addio, e ti do i saluti di Papà, Isabella e Millo. Saluto Berenice, Raffaele ecc. BERTRANDO. _P. S._ Come va (cioè _va_) che Scialoja ha detto _sì_? XIII. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 16 giugno '62. Mio caro Silvio, È un pezzo che non ti scrivo, e l'unica cagione è che non ho avuto tempo. Finalmente, altre tre o quattro lezioni, ed è finito — per quest'anno. Ti dico, che con tutto il piacere che naturalmente posso avere a far lezione, ora già non ne posso più. Dunque, alla fine del mese, vacanze. È vero che abbiamo gli esami, che per me sono un vero martirio, tanta è la noia che mi cagionano. E sfido io a non annoiarsi a udire tanti spropositi da questi figliuoli di Vico, per non dir altro! Ma anche gli esami passeranno. E forse forse sai che cosa? Forse alla fine di luglio verrò per una ventina di giorni a Torino. È più facile di sì che di no. In altra lettera ti dirò come e perchè. Ti mandai subito per la posta quel libro sull'Amministrazione demaniale. Come vai con questo bell'incarico? Spero, che [non] ti seccheranno da qui i nostri bravi concittadini. Credo che hai fatto bene a votare pel sì nel 6 giugno. È vero che io ne capisco poco o niente; ma mi sarebbe parso un quasi pettegolezzo votare pel no, e anche un po' contrario ai principii. Ma cos'ha prodotto questo voto? Andrà il governo? Andrà la maggioranza? Qui dopo le 70,000 suppliche, il malcontento è moltiplicato all'infinito. Il Governo non si è accorto d'una cosa; ed è, che per contentare i napoletani ci vuol altro che _misure_ d'interesse generale e pubblico; questo si conosce poco qui, e se ne ridono, se tu ne parli. Quel che ci vuole è tante misure, quanti sono i singoli individui; bisogna contentarli uno per uno: a ciascuno una pensione, o un impiego, o una Croce, o qualcos'altro. Credo che lo stesso San Gennaro non sia contento del regalo di non so quante migliaia di franchi, una volta _tantum_, e gridi anche lui per una pensione. Perchè non impiegare San Gennaro? Non ti dico niente del chiasso che fanno i paglietti per la legge del registro e bollo. L'idea di non poter litigare più come prima è un gran boccone amaro per loro. Il popolo — sovrano — non ne capisce niente; ma i borbonici da un lato e gli _azionisti_ dall'altro soffiano e gonfiano tanto, che non ci è da scherzare; si finirà per crepare o in un modo o in un altro. Intanto il murattismo (capo del Comitato dicono sia il Bianchini) si affaccia di nuovo, e soffia e gonfia anch'esso. Anche le madonne — le centomila madonne de' contorni di Napoli — si sono scosse dal loro torpore, e cominciano a far miracoli: una ha impallidito, un'altra ha chiusi gli occhi, un'altra gli ha aperti, ecc. Si aspetta il gran miracolo di Santa Brigida. per la espulsione di cinque o sei frati da quel locale. Come vedi, da due anni si è fatto un gran progresso in Napoli: la stampa è libera, le opinioni sono libere, e gli asini e i maiali sono più liberi di prima di passeggiare per Toledo comodamente. Avrei tante cose da dirti, ma sono sempre pettegolezzi, e ci è tempo. Aspetto sempre una lettera politica da te. Berenice come sta? Salutamela co' suoi, anche da parte di Papà e Isabella, che stanno bene. Finisco qui, perchè devo andare agli esami. — Ho già pronte 900 lire, e tra giorni saranno 1000. Sono a tua disposizione. Ma, economia: non quella scritta sulla bandiera del Ministero. Scrivi. Saluto Ciccone. BERTRANDO. XIV. BERTRANDO _a_ SILVIO. Napoli, 1.º Luglio '62. Mio caro Silvio, Ho ricevuto l'ultima tua lettera del 22 giugno. — Sono già due giorni che ho finito le lezioni, e ora sono un po' più libero; sebbene mi rimanga ancora la coda degli esami per tutto questo mese. Ho lavorato un po' quest'anno: ho fatto una larga introduzione alla filosofia, delle lezioni sopra il Gioberti, e tutta la Logica (o Metafisica). Qualche po' di bene credo di averlo fatto; e se a principio tutti gli uditori e studenti erano o avversi o diffidenti o indifferenti, ora ci sono molti che, avendo continuato sino alla fine, avendo avuto tanta pazienza, hanno mostrato con ciò solo una buona disposizione verso di me. E aggiungo (v. Mancini), che gli applausi che mi hanno fatto nell'ultima lezione, sono stati strepitosissimi. — Insomma, se non altro un certo dubbio è nato nell'animo loro, che quel formulario, che è stato loro insegnato negli ultimi tredici anni, non sia che un formulario. È incredibile cosa hanno fatto di questi poveri giovani, e quanti pregiudizii hanno messo loro nel capo. A Napoli si nasce filosofo, e la filosofia è la cosa più facile di questo mondo; basta risolversi, e dire: io sono filosofo. Qui il giobertismo è diventato una specie di bramanismo; e i nuovi bramani formano una casta non meno tenace e intrigante dell'antica. Degni loro avversarii sono i così detti hegeliani napoletani, bramani anche loro in un senso opposto. È impossibile misurare la profondità della loro ignoranza — degli uni e degli altri — della storia della filosofia; ne hanno una, tutta di loro invenzione, che rassomiglia alla vera, come la geografia dell'Ariosto alla vera geografia. A questa babilonia contribuiscono non poco, anche in questi tempi, non pochi insegnanti, ufficiali e non ufficiali: que' tali ciarlatani _a sonagli_, di cui tanto abbonda il nostro paese. Spaccano e tagliano, che è uno stupore a udirli. Un tale ha tutto l'Oriente in tasca, un altro tutto l'Occidente, un altro tutto un altro mondo; e appena appena poi, quel che hanno in tasca, non è che uno straccio di carta dell'opera di Cesare Cantù[204]. È verità quel che ti dico. E i poveri giovani stanno a bocca aperta. Noi quando eravamo giovani _sapevamo_ Cesare Cantù. Oggi i giovani — meno pochissimi — non sanno niente, nè meno la storia romana e greca di Goldsmith e la geografia di De Luca. E continuerà così, se non ci si ripara. Io, che da un anno vado quasi ogni settimana a visitare quell'ospedale che si chiama sala degli esami, so quel che mi dico. È una malattia profonda e vecchia, e i protomedici eletti a regolare la cura, sono i primi malati. Siamo al _cura te ipsum_. — Se volessi continuare, non la finirei mai. Ti ho scritto che forse sarei venuto a Torino alla fine di luglio. Ora ti dico lo stesso.... Non ho risoluto ancora. Ma se verrò, sarà per pochi giorni. Sarete o non sarete sciolti? Credo che la cosa così non possa andare. È un po' di scandalo questo, che non si vedeva a' tempi di Cavonr. È certo che il cervello manca, e che ciò che non manca, sono le pretensioni infinite di aver cervello. Come si risolverà questa faccenda? Il Governo si scredita, il Parlamento si scredita: tale è la conchiusione. Mi pare che tutto l'ingegno ora consista ne' piccoli mezzi: in quei tali espedienti da padre guardiano, che nel 1859 mi facevano tanto andare in collera sul viale del Re. — Qui sempre lo stesso: ora aspettano Garibaldi. I nostri concittadini aspettano sempre; sono avvezzi a cercare sempre fuori di loro quel che _possono_ trovare solo in loro medesimi. Se poi non ce l'hanno, è inutile ogni fatica. E io credo inutile tutti questi rimedi esterni, queste mezze panacee degne solo de' tempi passati e del povero Don Liborio[205]. A proposito, Don Liborio è risorto ed è vivo, per l'unica ragione che era morto. Corse questa voce, or sono poche settimane; e un amico di casa andava a condolersi colla famiglia. E chi trova? Appunto Don Liborio, che, sdraiato sopra un seggiolone, leggeva in un giornaletto di Napoli la sua necrologia. Ti mando una lettera di Tari, che avrei dovuto mandarti da un pezzo; ma non ho avuto tempo. Il povero Tari teme che o tolgano la cattedra o lo lascino continuare come professore straordinario. Egli vuole essere nominato ordinario. Si raccomanda a te. Ha scritto a Conforti, a De Sanctis, ecc. Nessuno gli ha risposto. Puoi tu far qualche cosa per lui? Tari lo merita[206]. Papà sta bene e ti saluta con Isabella e Millo. Dimmi qualche cosa di politica. Saluto Ciccone. BERTRANDO. INDICE. Prefazione alla presente edizione _pag._ V Prefazione dell'autore 1-4 I. DELLA NAZIONALITÀ NELLA FILOSOFIA: PROLUSIONE 5-33 Nota alla Prolusione: _Intorno alla filosofia indiana_ 34-41 II. CARATTERE E SVILUPPO DELLA FILOSOFIA ITALIANA DAL SECOLO XVI SINO AL NOSTRO TEMPO — LEZIONI. _Lezione prima_: _Motivo e soggetto della introduzione_ — Pregiudizio della nostra coscienza nazionale — Necessità d'una storia del pensiero italiano nella sua relazione col pensiero europeo 45-51 _Lezione seconda_: _L'antica filosofia italiana_ — L'_antiquissima Italorum sapientia_ di Vico. Critica di questa ipotesi 52-66 _Lezione terza_: _Il Risorgimento_: I. Sua differenza dalla Scolastica — II. Determinazioni principali della nuova filosofia ne' filosofi del Risorgimento: Il Cusano, Pletone, Valla, Agricola, Ficino, Fico, Zorzi, Reuchlin, Tomeo, Achillini, Pomponazzi, Vives, Nizolio, Melantone, Paracelso, Telesio, Patrizio, Cesalpino, Zabarella, Cremonini 67-86 _Lezione quarta_ — _Tommaso Campanella_: Concetto della Restaurazione cattolica — Carattere generale della filosofia del Campanella 87-95 _Lezione quinta_ — _Giordano Bruno_: A) Carattere e destino di Bruno; — Differenza della sua filosofia da quella di Campanella — B) Spinoza: — C) Bruno precursore di Spinoza — Dio come Sostanza-causa 96-110 _Lezione sesta_ — _Giambattista Vico_: A) Difetto della dottrina di Bruno — Passaggio da Bruno e Campanella a Vico. — B) Il nuovo concetto della _unità dello Spirito_ — Di nuovo Bruno, Spinoza e Vico. — C) Il concetto dello _Sviluppo_ — Schema logico: La Psiche individuale; la Psiche nazionale; l'umanità. — Pregio e difetto di Vico. — D) Oscurità di Vico 111-135 _Lezione settima_ — _Pasquale Galluppi_: A) Vico e Kant — Il problema del conoscere nella filosofia antekantiana — Il problema del conoscere in Kant. — B) Kantismo del Galluppi 136-149 _Lezione ottava_ — _Antonio Rosmini_: A) Difetto di Kant, e sviluppo del kantismo in Alemagna — B) Galluppi e Rosmini; l'Ente; il puro conoscere; unità sintetica originaria; passaggio a Gioberti 150-164 _Lezione nona_ — _Vincenzo Gioberti_: Coincidenza di Hegel e Gioberti — Critica della filosofia di Gioberti 165-168 Parte Prima: Teoria del conoscere: A) Elementi del conoscere 169-175 B) Il conoscere assoluto 175-183 Parte seconda: Il sistema 184-196 _Lezione decima_: Epilogo e conclusione 197-203 III. SCHIZZO DI UNA STORIA DELLA LOGICA — APPENDICE ALLE LEZIONI. Avvertenza 207-208 Preliminari 209-211 I. Filosofia antica 212-215 II. Filosofia moderna 216-217 A) Prima di Kant 217-219 B) Kant 219-223 C) Fichte 223-229 D) Schelling 229-236 E) Hegel 236-245 F) Conclusione; ed enunciazione delle difficoltà della scienza 245-266 Nota: _Spinoza e Cartesio_ 267-277 APPENDICE DI DOCUMENTI: Lettere di Bertrando e Silvio Spaventa 281-314 DELLO STESSO AUTORE. 1. _La filosofia di Gioberti_, Napoli, Vitale, 1863. 2. _Principii di filosofia_, Napoli, Ghio, 1867. 3. _Saggi di critica filosofica, politica e religiosa_, Napoli, Ghio, 1867. 4. _Esperienza e metafisica — Dottrina della cognizione_. Opera postuma pubblicata a cura di D. JAJA, Torino-Roma, Loescher, 1888. 5. _Scritti filosofici_ raccolti e pubblicati con note e con un _Discorso sulla vita e sulle opere dell'autore_ da G. GENTILE, Napoli, Morano e F., 1900. 6. _Una lezione di B. Spaventa_ (la prima dell'anno 1864-65) [Intorno al concetto della Filosofia]; pubblicata da S. MATURI, Napoli, De Bonis, 1901. 7. _Principii di etica_, ristampati con prefazione e note di G. GENTILE, Napoli, Pierro, 1904. 8. _Da Socrate a Hegel_. Nuovi saggi di critica filosofica a cura di G. GENTILE, Bari, Laterza e Figli, 1905. DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE: B. SPAVENTA, _La politica dei Gesuiti nel sec. XVI e nel XIX_, a cura di G. GENTILE (nella Biblioteca storica del Risorgimento italiano, pubblicata da T. CASINI e V. FIORINI). G. GENTILE, _B. Spaventa e l'hegelismo in Italia nel sec. XIX_ (nella Coll. _I grandi pensatori_ di R. Sandron). NOTE: [1] Napoli, Stab. tip. di Federico Vitale, Largo Regina Coeli 2 e 4, 1862, pp. XII-214 in-8.º [2] Questa prolusione ha lo stesso titolo della parte II di questo libro: _Caratt. e svil. della filos. ital. dal sec. XVI fino al nostro tempo._ È rist. negli _Scritti filosofici_, ed. Gentile, Napoli, Morano, 1900, pp. 115-52. [3] Cfr. le osservazioni della mia Avvertenza a pag. 281 e sgg. [4] V. la prefazione ai _Principii di filosofia_, Napoli, Ghio, 1867. [5] Per questa e le altre lettere qui appresso citate v. B. CROCE, _S. Spaventa: Dal 1848 al 1861: lett., scritti, docc._, Napoli, Morano, 1898, pp. 202 sgg. [6] Vedi in questo volume pp. 110, 136, 202. [7] Pag. 288. [8] Orazione inaugurale del prof. PALMIERI, recitata il 16 novembre. [_Nuovo indirizzo da dare alle università italiche_: discorso accademico recitato dal prof. LUIGI PALMIERI nel dì 16 novembre 1861 in occasione della solenne inaugurazione degli studi nella R. Università di Napoli. Napoli, tip. Gargiulo, 1861. Per il luogo a cui si riferisce qui lo Spaventa v. il mio _Discorso_, premesso agli _Scritti filosofici_ di B. SPAVENTA, pp. XCII e sg]. [9] Vedi la mia Prolusione alle lezioni di storia della filosofia nella Università di Bologna. (_Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal sec. XVI al nostro tempo_, Modena, 1860; rist. nel vol. degli _Scritti filosofici_, ed. Gentile, pp. 115 sgg.) [10] L'_actus purus_ degli scolastici è Dio: e propriamente, in Averroè, l'atto conoscitivo di Dio. V. EUCKEN, _Gesch. d. philos. Terminologie_, Leipzig, 1879, p. 68. [11] [Intorno agli errori provenienti da questi paragoni tra filosofi diversi, perchè appartenenti a diversi periodi storici, per quanto possano rappresentarvi situazioni analoghe, è da vedere quello che lo Spaventa ne scrisse a proposito di Socrate, nel vol. _Da Socrate a Hegel_, pp. 3 sgg]. [12] Vedi il mio scritto: _La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia italiana_. Torino, 1860 [rist. negli _Scritti filosofici_, pp. 1-80]. [13] Vedi la mia Prolusione nella Università di Bologna: _Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI sino al nostro tempo_ [citata sopra, p. 20]. [14] ZELLER, _Filosofia de' Greci_ [ted., 2. ediz. Part. I]. [15] V. _Dhammapada,_ edit. Fausböll. [16] [Il _Karma_ o _Kamma_ è nel buddismo la retribuzione morale (propriamente l'_azione_), per cui l'essere di ciascuno è il frutto del suo operare, attraverso le cinque regioni delle trasmigrazioni delle anime. L'OLDENBERG (_Le Bouddha, sa vie, sa doctrine, sa communauté_, trad. franc., Paris, Alcan, 1903, pp. 45 sgg. e 226 sg.) addita le prime tracce di questa dottrina nella speculazione vedica]. [17] [L'A. cita l'ediz. Wagner. In questa ristampa si è però leggermente corretto il testo secondo l'ed. Gentile delle _Opere italiane_ del BRUNO, Bari, Laterza, 1907, I, 27, 30]. [18] [I giobertiani, allora numerosi a Napoli, i quali combattevano, sulle orme del Gioberti, il _psicologismo_ e il _panteismo_, come filosofie esotiche, in nome dell'ontologismo teistico, che il Gioberti dava per pura e schietta tradizione nazionale del pensiero italiano]. [19] Nel corso speciale di quest'anno — cioè oltre il corso di logica e metafisica, che aveva l'obbligo di fare — ho esposto una buona parte della filosofia di Gioberti. [20] [Si avverta una volta per tutte, per quel che concerne queste forme abbreviative, che questo testo serviva all'autore come traccia da svolgere nelle sue lezioni]. [21] [_De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda_, libri tres IOH. BAPTISTAE A VICO, r. Eloquentiae professoris, Neapoli, MDCCX, ex tip. F. Mosca; proemium]. [22] [L'A. cita l'ediz. della _Scienza Nuova_ per cura di FRANCESCO PREDARI, Torino, tipogr. Economica, 1852, nella «Biblioteca dei Comuni Italiani». Il luogo qui riferito è a pp. 410-11]. [23] _Scienza Nuova_, pp. 406-7. [24] Cfr. PRANTL, _Stor. della logica_, tomo I, sez. VIII. [25] [VICO, _Seconda risposta al Giornale dei lett. d'Italia_, § I]. [26] [Seconda risposta, § III]. [27] [Parole, come s'è visto, del Vico nel proemio al _De antiq._]. [28] Pagg. 190, 192, ediz. Predari [_Seconda risposta_, § I]. [29] Cfr. pag. 194, ecc.: «d'argomento che l'antica favella etrusca fosse sparsa fra tutti i popoli d'Italia ed anche nella Magna Grecia» [_Sec. risp._, ivi]. [30] 201 [_Sec. risp._, § III]. [31] V. MOMMSEN, _Storia romana_, I, 118. [32] MOMMSEN, ibid., 111. [33] Ibid., 115. [34] _Risposta seconda_. [35] Cfr. MOMMSEN, 115, 116; 164-5. Vico, dopo aver osservato nella Seconda risposta, che i Romani presero le leggi dagli Spartani e dagli Ateniesi, nella _Scienza Nuova_ (Cfr. special. _Scritti inediti di Vico_, per DEL GIUDICE, Napoli, 1862) difende l'opposta sentenza. [36] V. Prolusione [sopra pp. 16-8]. [37] V. la mia Prolusione alle lezioni di Storia della Filosofia nella Università di Bologna [cfr. sopra pag. 20]. [38] Sul carattere della Scolastica e della filosofia del Risorgimento vedi i miei articoli pubblicati nel _Cimento_ di Torino: _Principio della Riforma religiosa, politica e filosofica nel secolo XVI_ [1855; rist. nei _Saggi di critica_, Napoli, Ghio, 1867, pp. 269-328]. [39] [Nicolò Chrypffs o Krebs, n. nel 1401 a Kues (Cusa) sulla Mosella, creato cardinale da Niccolò V nel 1448; m. a Todi nel 1464]. [40] [_De docta ignorantia_, peroratio]. [41] [Giorgio Gemisto Pletone n. a Costantinopoli circa il 1355, m. nel Peloponneso nel 1450. Su di lui v. F. SCHULTZE, _Gesch. d. Philos. d. Renaiss._, vol. I: _Georgios Gemistos Pleton und seine reformatorischen Bestrebungen_]. [42] [Il Bessarione n. nel 1403, m. a Ravenna nel 1472]. [43] [N. a Roma nel 1405, m. nel 1457]. [44] [Rolef Huysmann n. a Baflo presso Groeningen nel 1443, m. nel 1485. Sua opera principale: _De inventione dialectica_, 1480]. [45] [I passi citati dallo Spaventa sono tolti dal _De hominis dignitate_ e dall'_Heptaplus_, c. 6; in _Opera Omnia_, Basilea, 1572, t. 1, p. 314, e 38-9]. [46] [Latin. Fr. Georgius, Veneto, autore di uno scritto: _De harmonia mundi totius cantica_, Venetia, 1525]. [47] [N. nel 1455, m. nel 1522. Sue opere filosofiche: _De verbo mirifico_ (1494) e _De arte cabbalistica_ (1517). Su lui: L. GEIGER, _J. R.: sein Leben n. seine Werken_, Leipzig, 1871]. [48] [Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim, n. a Colonia nel 1486, m. a Grenoble nel 1535]. [49] [Nic. Leonico Tomeo, 1456-1553]. [50] [Dove morì il 2 agosto 1512. Cfr. FIORENTINO, _P. Pomponazzi_, Firenze, Le Monnier, 1868, pag. 252]. [51] [N. nel 1462, m. nel 1525. Su lui v. il lavoro cit. del Fiorentino]. [52] [_De immortalitate animae_, Bologna, 1516, cap. 9]. [53] [_De immortalitate_, cap. 9]. [54] [Giov. Lud. Vives, spagnuolo, di Valenza, 1492-1540]. [55] [Mario Nizolio, 1488-1566. Cfr. la mia nota in _Opere italiane_ di G. BRUNO, I, 161]. [56] [N. nel 1515, m. nel 1572]. [57] [N. il 16 febbraio 1497, m. il 19 aprile 1560]. [58] [Teofrasto Bombaste von Hohenheim, 1493-1541]. [59] [Bernardino Telesio, di Cosenza, 1509-1588. Della sua opera maggiore _De natura rerum iuxta propria principia_, in IX libri, i primi due vennero in luce a Roma nel 1565 (rist. nel 1570): tutti poi a Napoli nel 1587]. [60] [_De rer. natura_, lib. I, c. 1]. [61] [_De rer. nat._, lib. VIII, c. 5]. [62] [Francesco Patrizzi, 1529-1597. L'op. cit. dall'A. _Nova de universis philosophia_ fu pubbl. nel 1591]. [63] [Andrea Cesalpino, 1519-1603: v. F. FIORENTINO, _Vita ed op. di A. C._, in _N. Antol._, 15 ag. 1879]. [64] [Giacomo Zabarella, prof. a Padova, 1532-1589]. [65] [Cesare Cremonini, n. 1550, m. 1631. Scarso valore ha l'_Étude historique sur la philos. de la renaiss. en Italie (C. Cremonini)_ par L. MABILLEAU, Paris, Hachette, 1881]. [66] [Giulio Cesare Vanini, n. 1585, a Taurisano, in Puglia, bruciato vivo nel 1619 a Tolosa]. [67] Su tutto questo periodo, oltre molte pregevoli monografie, di cui dobbiamo essere grati a' dotti tedeschi, cfr. il 1.º vol. della _Storia della fil. moderna_ (ted.) del RITTER, Amburgo, 1850. [Dal Ritter sono tolte le citazioni di testi che occorrono in questa lezione]. [68] [Vedi i _Saggi di critica_, pp. 3-36. Sono notissimi gli studi posteriori di L. AMABILE (_Fra T. Campanella, la sua cong., i suoi processi e la sua pazzia_, 3 voll., Napoli, Morano, 1882; _Fra T. Pignatelli, la sua cong. e la sua morte_, ivi, 1887; _Fra T. Campanella ne' castelli di Napoli, in Roma e in Parigi_, ivi, 1887); che illustrò con gran copia di nuovi documenti e con molto acume tutta la biografia del Campanella, mettendo bene in chiaro la storia della sua congiura]. [69] Vedi il loro giornale la _Civiltà Cattolica, passim_. [Negli anni 1854-6 tra questo giornale e lo Spaventa si dibattè nna lunga polemica intorno alle dottrine politiche dei gesuiti del sec. XVI e quelle dei gesuiti del secolo XIX. Cfr. il Discorso premesso agli _Scritti filosofici_, § III. Quegli articoli dello Spaventa dovranno veder la luce, per mia cura, in un volume della Biblioteca storica del Risorgimento italiano, diretta da V. Fiorini e T. Casini]. [70] _Tommaso Campanella_, nel _Cimento_ di Torino [nei _Saggi_ cit., p. 19, dove nota che l'osservazione era stata fatta dal RITTER, _Storia_ cit., t. II, 5]. [71] [RITTER, _Storia_, II, 15]. [72] Nos esse, et posse, scire et velle certissimum principium primum — Cognoscere est esse — Notitia sui est esse suum [_Metaph._, VI, 8, articoli 1 e 4]. — Mens ab objectis non movetur, sed excitatur ad notionem; ipsa vere _per se_ noscit. — Anima est infinita in potendo, intelligendo, appetendo [_Philos. realis_, parte I, q. LIV, art. 2]. Se novit nativo sensu, — arte propra innata [_De sensu rer._, II, 30]. — Animata et res cognoscentes notitia innata cognoscere se ipsas _praesentialiter_ [_Metaph._, VI, 8, art. 1]. Così Campanella è precursore di Cartesio. — Sentire est sapere [_Metaph._, I, art. 1]. Notitia aliorum est esse aliorum [_ibid._, VI, 8, art. 4]. Così Campanella, seguendo Telesio, è precursore di Locke. — Vedi i miei scritti su Campanella pubblicati nel _Cimento_ [e poi in _Saggi di critica_, pp. 33, 11]. [73] «Così noi siamo promossi a scoprire l'infinito effetto dell'infinita causa, il vero e vivo vestigio dell'infinito vigore, e abbiamo dottrina di non cercare la divinità rimossa da noi, se l'abbiamo a presso, anzi di dentro, più che noi medesimi non siamo dentro a noi». — Vedi la mia _Filos. prat. di G. Bruno_, in _Saggi di filos. civ._, Genova, 1852 [pp. 440-70] e _Dell'amore dell'Eterno e del Divino di G. B., Riv. Ital._, 1854, Torino [Entrambi questi scritti sono ristampati nei _Saggi di critica_, Napoli, Ghio, 1867; dove sono pure rist. una memoria sulla _Dottrina della conoscenza in G. B._ del 1865 e una nota sul _Conc. dell'infinità in B._, del 1866. Del B. lo Spaventa anche discorre nella prolusione _Car. e sviluppo_ citata, e nell'art. sulla _Vita_ del BERTI, rist. nel vol. _Da Socrate ad Hegel, N. Saggi di critica_, Bari, Laterza, 1905, pp. 65-102]. [74] [Allude probabilmente a C. BOTTA, il quale nella _St. d'Italia contin. da quella del Guicciardini_, lib. XV, t. III, p. 429 dell'ediz. Parigi, Baudry, 1832, dice: «Due frati domenicani furono mandati da Dio, o piuttosto dal suo avversario ad avvelenare queste sacre fonti, e spaventare il mondo di ciò, che più il doveva consolare. L'uno di questi fu Giordano Bruno da Nola, l'altro Tommaso Campanella da Stilo in Calabria. Costoro, usando, o per meglio dire, abusando della libertà nuova di speculare, trascorsero in opinioni empie e pericolose. Non fermerommi a parlare del primo, perciocchè avendo insegnato, che i soli Ebrei erano i discendenti di Adamo, che Mosè era un impostore ed un mago, che le sacre scritture sentivano del favoloso, ed altre bestemmie ancora peggiori di queste, fu arso a Roma al modo di Roma nel 1600, rimedio abbominevole contro opinioni pazze. Ma le opinioni pazze ed irreligiose di Giordano non ebbero sèguito...»]. [75] Jacobi, Buhle, Schelling, Steffens, Hegel. — Wagner fa l'edizione delle opere italiane; Gfrörer di gran parte delle latine. [L'JACOBI si occupò del Bruno nella 2.ª ediz. della sua opera _Ueber die Lehre des Spinoza in Briefen_ (1789), dove inserì un estratto dei diall. _De la causa, principio ed uno_: cfr. la mia prefaz. all'ediz. delle _Opere ital. del B._, vol. I, pp. X-XI. Il BUHLE nella _Commentatio de ortu et progresso Pantheismi inde a Xenophane Colophonio primo ejus auctore usque ad Spinozam_, Göttingen, 1790; e nella sua _Gesch, d. neuern Philosophie_, Göttingen, 1796-1804, II, 703 e sgg. — Lo SCHELLING nel dial. _Bruno oder liber das natürliche n. götlliche Princip der Dinge_, Berlin, 1802 (trad. in ital. dalla FLORENZI-WADDINGTON, Milano, 1844, e Firenze, 1859: per una più recente trad. it. v. _La Critica_, IV (1906), 461-66). — Lo STEFFENS ne' _Nachgelassene Schriften_ (Berlin, 1846), §§ 43-70: _Ueber das Leben des Jordanus Bruno_. — HEGEL nella _Gesch. d. Philosophie^2_, III, 201-18. L'edizione del Wagner, delle opere italiane, uscì a Lipsia nel 1830 (e una volta lo Spaventa aveva fatto il disegno di riprodurla; cfr. la mia pref. cit. alle _Opere ital._, v. I, p. XIII); quella del Gfrörer, delle opere latine, uscì a Stuttgart nel 1834]. [76] [Spinto = spento]. [77] Bruno, _Opp. it._, II, 108-9 [ed. Gentile, II, 5]. [78] [_Opp. ital._, ed. Gentile, I, 262]. [79] [A questo punto, nell'originale che servì alla 1.ª ediz. (e che ora è presso di me), lo Spaventa soggiungeva: «Tale era l'uomo, che a Roma era condannato come ateo»]. [80] _Opp. ital._, vol. II, p. 16; 336-7 [ed. Gent., I, 277-8, e II, 342-3. Il son. _Poi che spiegate_ è riferito dal B. negli _Eroici furori_, ma è del Tansillo. V. l'ediz. citata, p. 843 n]. [81] [HEGEL, _Gesch. d. Philos.^2_, III, 203]. [82] [_Car. e sviluppo_, ecc. in _Scritti filosofici_, pp. 133-4. Da questo scritto anche qui addietro l'A. riproduce testualmente alcuni brani]. [83] [Di Spinoza lo Spaventa s'era occupato in un art. del 1856, _Critica dell'infinità dell'attributo_, rist. in _Saggi di critica_, pp. 867 ss. Ne discorse poi a lungo nel vol. su _La filosofia di Gioberti_, Napoli, 1868, nel libro III (tutto consacrato «allo spinozismo del Gioberti»); e nel 1867 nella memoria _Il conc. dell'opposiz. e lo spinozismo_, in _Scritti filosofici_, pp. 277 ss.]. [84] «Per _Naturam naturantem_ nobis intelligendum est id quod in se est et per se concipitur, sive talia substantiae attributa, quae aeternam et infinitam essentiam exprimunt, hoc est _Deus_, quatenus ut _causa libera consideratur_. «Per _Natura naturatam_ intelligo id omne, quod ex necessitate Dei naturae sive uniuscujusque Dei attributorum sequitur, hoc est, omnes Dei attributorum modos, quatenus considerantur _ut res, quae in Deo sunt et quae sine Deo nec esse, nec concipi possunt_». _Eth._, I, 29, Schol. [La terminologia _natura naturans, natura naturata, naturari_ (= φύεσθαι) rimonta alla più alta Scolastica. In Eckheart si trova _ungenaturte natur_ e _genaturte natur_. Vedi EUCKEN, _op. cit._, pp. 68, 122, 172. Intorno al rapporto della dottrina spinoziana con la scolastica, vedi lo scritto di J. FREUDENTHAL, in _Aufsätze E. Zeller zu s. 50 jähr. Doctorjub. gewidm_, Lpz. 1887, pp. 83 ss.]. [85] V. il paragrafo seg. [86] [Sopra questo punto tornò tre anni appresso lo Spaventa nella cit. memoria su la _Dottrina della conoscenza in G. B._, rist. nei _Saggi di critica_, pp. 196 ss.]. [87] BRUNO, _De la causa, principio ed uno_; e _De l'infinito, universo e mondi_. [88] So bene, che la formola giobertiana è fatta oggi un po' ridicola; e devo anche confessare, che quando l'odo profferire con tanta solennità da certuni, non posso fare a meno di ridere anch'io; e rido, non come avversario, ma perchè.... mi viene da ridere. In verità, tale è il destino di tutte le formole, quando sono ridotte a non aver altro valore, che quello di tre o quattro parole enfatiche messe insieme e sostenute dalla vaga rappresentazione, e capitano in mano de' soliti guastamestieri. Non ci è angolo, dirò così, dell'esistenza e della vita, in cui non l'abbiano portata e ficcata per forza, come un chiodo in un asse; e credono che basti avere in tasca questo chiodo, per poter superare ogni difficoltà. Se devono dire che piove, o che fa caldo, non sanno dirlo che cominciando dalla formola. — L'Ente crea l'esistente; dunque piove. L'Ente crea l'esistente; dunque fa caldo, etc. etc. — Tutto questo, dunque, io lo so, e per esperienza oramai un po' lunga. Ma il ridicolo finisce qui, e la cosa diventa seria, quando si considera il nesso delle ricerche di Gioberti, la sua relazione con Rosmini, l'origine, dirò così, storica della formola, e specialmente il significato di essa, come è espresso in tutti que' luoghi delle sue opere, specialmente delle postume, che non sono nè una parafrasi del catechismo, nè uno sfoggio rettorico. La cosa diventa seria, sebbene sia vero che la scienza non è una formola, e che il vizio di Gioberti — divenuto poi malattia cronica ne' giobertiani — era appunto quello di creder troppo all'efficacia delle formole. [89] [_Carattere e sviluppo_ cit., in _Scritti filosofici_, pp. 139-41. Del Vico tornò lo Spaventa a parlare nella lettera _Paolottismo, positivismo, razionalismo_ del 1868; rist. negli stessi _Scritti_, pp. 291 ss.]. [90] _Protologia_ [ed. Torino, Botta II, 725-6: «La vita universale dell'esistenza è la evoluzione della _mentalità_, cioè la storia della coscienza da' suoi primi principii fino agli ultimi progressi. Ogni realtà è coscienza o iniziale o attuale. La realtà non è tale, se non possiede se stessa, se in sè non si riflette, se non è identica a se medesima. E questa riflessione, medesimezza è la coscienza. Fuor della coscienza non vi ha nulla, nè nulla può essere. Esistenza, pensiero, coscienza è tutt'uno. I varii gradi, stati, processi della realtà non sono altro che quelli della coscienza. Questo _psicologismo trascendente_ è il vero ontologismo. L'intuito di questo vero è la parte pellegrina e profonda del sistema di Fichte. Il resto è antropomorfismo. Cartesio ci preluse senza addarsene, dicendo: Io penso, dunque sono. Ma non ebbe il menomo sentore de' tesori, che si acchiudono in questa sentenza, ecc.»]. [91] [BRUNO, _De la causa, principio e uno_, ed. Gentile, I, 256-7. Questa critica di Aristotele era stata fatta dal CUSANO nel _De Berillo_, 1454. Cfr. la mia nota ivi]. [92] _Sc. nuova_, p. 458. [93] Op. cit., pp. 466-7. [94] Op. cit., pp. 284, 286. [95] Op. cit., p. 286. [96] Op. cit., p. 284. [97] Op. cit., p. 406 e segg. [98] V. _Prolus._, [qui sopra, pag. 27]. [99] [Vedi dell'autore la _Filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofa italiana_ (1866) in _Scritti filosofici_, ed. Gentile, p. 16; _Kant e l'empirismo_ (1880), ivi, pp. 81-114, e l'opera postuma _Esperienza e metafisica_, Torino, Loescher, 1888]. [100] V. la Lezione seguente. [101] [_Saggio filosofico sulla critica della conoscenza_, 1819-1832, in 6 voll.]. [102] [Cfr. i citati scritti _La Filos. di Kant, Kant e l'empirismo_, in _Scritti filosofici_, pp. 19-20, 96-100. Per le difficoltà che sono state opposte a questa interpretazione cho lo Spaventa diede della gnoseologia del Galluppi, v. FIORENTINO, _La filosofia contemporanea in Italia_, Napoli, Morano, 1876. Vedi anche GENTILE, _Dal Genovesi al Galluppi_, cap. VII]. [103] _Introd. allo studio della filos._, vol. II, 192 (ediz. Losanna, Bonamici, 1846). [Cfr. SPAVENTA, _La filos. di Gioberti_, pp. 430-7]. [104] [Questa critica sul Galluppi risale al 1857: cfr. la lettera di Bertrando a Silvio Spaventa del 18 luglio di quell'anno, in S. SPAVENTA, _Dal 1848 al 1861; lett., scritti, docc._ pubbl. da B. CROCE, Napoli, Morano, 1898, pp. 203-5]. [105] [Intorno al significato di _esperienza_ v. _Scritti filosofici_, p. 88]. [106] V. Lezione antecedente. [107] V. Lez. antecedente. [108] [Riassume dalla _Wissenschaftslehre_]. [109] _Kant e sua relazione_, etc., già cit. [_Scritti filosofici_, pp. 48-9]. [110] _La filosofia di Gioberti_ [pp. 288-300]. [111] [Vedi in proposito GENTILE, _Rosmini e Gioberti_, Pisa, Nistri, 1898, pp. 190-1]. [112] _Nuovo saggio sull'origine delle idee_, sez. V, part. VI, cap. I. [113] [Cfr. le parole del Gioberti ricordate più su, pag. 118]. [114] V. lo _Schizzo d'una storia logica_ [nella parte II di questo volume]. [115] V. il mio articolo: _Filosofia di Gioberti_, nell'_Enciclopedia popolare_ di Pomba, Torino. [Tutto questo capoverso «l'_Intuito_ è l'apprensione...» è un brano del detto articolo]. [116] _Protologia; Filosofia d. Rivelazione, passim_. [117] La esposizione completa di questi momenti e della loro contradizione, — la prova di quel che qui è detto solo in modo sommario e senza documenti, — si vedrà nell'opera: _La Filosofia di Gioberti_ [di cui il vol. I e unico venne in luce l'anno appresso: Napoli, Vitale, 1863]. [118] [Così lo chiamava V. Cousin]. [119] Il testo dice _creato_. È evidente, che è uno sbaglio, credo, di stampa. [120] § CXXIV, 188-192. [Cfr. l'op. cit. _La filos. di Gioberti_, pag. 72, n. 2, dove l'A. cita lo stesso passo e soggiunge: «Ecco il vero Gioberti. Se vi ha qui un difetto, è solo l'apparenza che l'autonomia sia lo stesso arbitrio dell'individuo»]. [121] [_Prolegomeni del Primato morale civile degli Italiani_ scritti dall'autore, Brusselle, 1845 (1.ª ediz.), pp. 425-26 e 891-2]. [122] [Ed. cit., II, 12-3]. [123] V. questo _circolo_ nella _Teorica del Sovrannaturale_, pag. 57 seg. Questo tema del sovrintelligibile sarà trattato ampiamente nella _Filosofia di Gioberti_ [pp. 72-99]. [124] V. Lez. VI. [125] GIOBERTI, _Introd._, II, pag. 448. [126] Vedi la _Prolusione_ [parte I di q. vol.]. [127] I, 156. [128] Cito un solo luogo: «Libertà della filosofia. Essa è Indipendente, e a ciò non osta l'autorità cattolica; perchè _il cattolicismo e il cristianesimo essendo fondati sulla filosofia_ (RAGIONE), questa perciò viene ad essere indipendente e superiore. Vero è che in ordine ai misteri la filosofia dee _famulari_; MA, ubbidendo ad una potenza da sè _costituita_, ubbidisce in effetto a se stessa. A stabilire la maggioranza assoluta della religione vorrebbe abbracciarsi il sistema _assurdo_ del Lamennais sull'autorità; il qual sistema si riduce a quello dell'_ubbidienza cieca de' Gesuiti_». _Riforma Cattolica_, § CLXXIV. [129] V. questa stessa Lezione, Parte prima. [130] [Il celebre teologo abruzzese Giovanni Pietro P. (1794-1878), le cui _Praelectiones theologicae_ raggiunsero la 31.ª ed., 1866]. [131] _Riforma Cattolica_, § CL. [132] [V. dello Spaventa la nota _Spazio e tempo nella prima forma del sistema di G._ (1864) In _Scritti filos._, pp. 153 ss.]. [133] GIOBERTI, _Introd._, vol. III, pag. 5-17. [134] _Prot._, I, 34, 36, 38, 39, 40, 41; 192-3. [135] _Prot._, I, 148. [136] _Rif. cattol._, p. 188 già cit. [137] [Pelasgi diceva il Gioberti le popolazioni primitive, da cui sarebbero provenuti gli etruschi (e quindi tutti i popoli italici) da una parte e gli elleni dall'altra; e la cui sede originaria («prisca Pelasgia») sarebbero state probabilmente «le falde e le pendici apennine» (v. _Primato_, I.ª ed., II, 53-4). E la civiltà pelasgica (o italo-greca) sarebbe stata la matrice di tutta la moderna civiltà europea: passata una prima volta nell'antichità classica, dall'Italia in Grecia per ritornare quindi in Italia; e poi una seconda volta mossa col cristianesimo da Roma, a cui sarebbe dovuta tornare col nuovo risorgimento del primato italiano]. [138] [Una parte di questo corso di logica lo Spaventa pubblicò infatti nei _Principii di filosofia_ (Napoli, 1867) rimasti incompiuti]. [139] Cfr. ZELLER, _Fil. d. Greci_, 2.ª parte, 2.ª metà, pag. 130 seg.; e PRANTL, _Stor. d. Logica_, sez. IV. [140] Più comune, in questo senso: _sinagoge_. [141] V. _Introduz._, Lez. VI [qui sopra pag. 111 e ss.]. [142] Vedi l'_Introduz._, Lez. VIII [qui sopra pag. 150 e ss.]. [143] [Per questo confronto v. pure SPAVENTA, _Da Socrate a Hegel_, pp. 89 e sgg.]. [144] V. _Introduz._, lez. VIII. [145] V. il mio scritto: _Kant e la sua relazione colla filosofia italiana_ [negli _Scritti filos._ cit.]. [146] V. la _Nota_ in fine [p. 267]. [147] _Einleitung zu seinem Entwurf eines Systems der Naturphil._, pag. 1 [1799; rist. in _Sämmtl. Werke_, I Abth. 3 Bd]. [148] Produttivo = creativo. Produrre qui è mentalizzare, creare; chi produce e l'Intelligenza, l'Io di Fichte come identità. [149] [HEGEL, _Phänomenologie des Geistes_, ed. Lasson, pag. 19]. [150] Gioberti dice: «riproduzione fedele dell'organismo ideale». [151] Gioberti dice: «l'unità del logo è rifatta dalla logica». [152] V. l'_Einleitung_ già cit., pag. 7 e segg. [V. tutta la pagina dello Schelling trad. dallo Spaventa nei _Principii di Etica_, Napoli, Pierro, 1904, pp. 41-3. Pel Krug e la sua pretesa cfr. HEGEL, _Encicl._, § 250; trad. Croce, pp. 202-3]. [153] v. nota prec. [154] [Allusione ad AUGUSTO VERA (1813-1885), l'altro maggiore hegeliano dell'Università di Napoli, il quale era appunto di quest'avviso. Vedi R. MARIANO, _A. Vera_, Saggio biograf., Napoli, Morano, 1887, pp. 60-61. E riflette appunto il pensiero del Vera il saggio dello stesso Mariano, _La philos. contemp. en Italie_, Paris, 1868 (scritto in opposizione a questo lavoro dello Spaventa). Vedi anche sul proposito, FIORENTINO, _La filos. contemp. in Italia_, Napoli, 1876, pp. 34-5]. [155] [Loc. cit.]. [156] [Vedi la lettera dello Spaventa al fratello Silvio, in data 8 dic. 1861, nell'Appendice di questo volume]. [157] V. _Introduz._, Lez. VI. [158] _Protologia_, I, 37. [159] _Prot._, II, 8 segg. [160] _Protologia_, II, 7. [161] V. lo _Schizzo_ precedente [pag. 230]. [162] V. _Introduz._, Lez. VI, B), nota. [163] [SPINOZA, _Eth._, I, Def. 1]. [164] V. _Introduz._, Lez. V. [165] _Sull'ultima differenza de' sistemi filosofici_, Berlino, 1847. [166] V. _Introduz._, Lez. V. [167] K. Fischer [nel I vol. della sua _Gesch. d. neuern Philos._, la cui prima ed. è del 1854-77]. [168] _Dell'infinità dell'attributo_, contro il Mamiani nella Rivista _Il Cimento_, Torino, 1855 [v. i _Saggi critici_, Napoli, 1867, pag. 368 e ss.; e leggi ivi la nota a pag. 373. Vedi anche la lett. dello Spaventa al fratello Silvio del 12 maggio, 1858, nel cit. vol. CROCE, _S. Spaventa, Dal 1848 al 1861_ ecc., pp. 225 ss. e la soluzione originale della famosa controversia tra l'Erdmann e il Fischer intorno al valore dell'attributo spinoziano nella _Filosofia di Giob._, I, 348 ss.: nonchè negli _Scritti filosofici_, pp. 284 ss.]. [169] Prefaz. al _Bruno_ di SCHELLING [nella trad. della Florenzi Waddington, Milano, 1844, pag. 81]. [170] V. _Introduz._, Lez. V. [171] Vedi le parti che ne abbiamo pubblicate B. CROCE ed io nella _Critica_ del 1906 (IV, 223, 397, 483): _Documenti inediti sull'hegelismo napoletano._ [172] Un tal Francesco Calicchio, sedicente democratico, che era stato fatto arrestare ai primi del 1861 da Silvio Spaventa, consigliere di luogotenenza e ministro di polizia, come pubblico perturbatore. Nel 1865 costui aggredì per via Toledo lo Spaventa; e fu processato e condannato. V. in difesa di lui l'opuscolo di MARZIALE CAPO, _Causa Calicchio-Spaventa_, Napoli, Stamperia del Popolo d'Italia, 1865. [173] Vedi sopra pp. 5 e seg. [174] Cfr. nota a p. 7. [175] Su GIACOMO LIGNANA (1829-1891) vedi la _Commemorazione_ di B. CROCE (Napoli, 1892) negli _Atti_ dell'Accad. Pontaniana, vol. XXII, e la mia nota negli _Scritti filosofici_ di B. SPAVENTA, pp. 279-80. [176] Vedi sopra pp. 45 e seg. [177] Si allude al prof. Enrico Pessina. Vedi il _Discorso_ premesso agli _Scritti filos._, pp. XCVI e seg. [178] Antonio Ciccone, n. in Saviano (Terra di Lavoro) il 7 febbr. 1808, m. il 2 maggio 1894, fu uno dei più cari amici dello Spaventa, e suo compagno d'esilio. L'opera sua più notevole i _Principj di Economia politica_, in 3 voll. Napoli. Vedi su di lui G. MIRABELLI, _Della vita e delle opere di A. C._, in _Atti dell'Accad. delle scienze morali e politiche di Napoli_, del 1897, vol. XXVIII, pp. 133-48. [179] Luigi Carlo Farini, che fu amico e grande estimatore dello Spaventa. [180] _Isabella_ Scano († 18 dicembre 1901) e _Millo_ (Camillo) Spaventa, tuttora vivente, furono moglie e figlio di Bertrando; Berenice una delle due sorelle, sposata al Sig. Raffaele Paolucci. [181] È scritto nell'originale «novembre»; ma, evidentemente, per errore, avendo Bertrando incominciato le sue lezioni, di cui si parla in questa lettera, solo il 28 novembre. [182] Cfr. sopra pag. 51. [183] Vedi sopra pp. 52-66. [184] Giorno in cui B. Spaventa partì in esilio. [185] Cioè: prima di tornare in patria, a Napoli. [186] Pasquale Stanislao Mancini, solito a siffatte iperboli. Per l'aneddoto qui accennato v. sopra p. 257. [187] Alla lezione corrispondente alle prime pagine (67-70) della lezione 3.ª [188] Cfr. sopra p. 70 «.... Tutte queste determinazioni sono sparse, un po' confusamente, nelle opere de' filosofi nostri e stranieri di quel tempo. Sono semplici indizii, semi e germi, i quali si raccolgono più o meno e hanno maggior vita nella coscienza di Bruno e di Campanella...». [189] Vedi pure sopra p. 71. [190] FEDERICO QUERCIA (di Marcianise, prov. di Caserta), n. 23 febbr. 1826, scolaro del Puoti, e in filosofia del Palmieri, come in diritto del Savarese. Fu per molti anni provveditore agli studi. Morì nel 1899. Vedi su di lui l'art, di R. DE CESARE, _Fed. Quercia e la Napoli letteraria di 40 anni fa,_ nella rivista _Flegrea_ di Napoli, II, 6. — GATTI (STANISLAO) è il noto scrittore, critico e giornalista, di cui si hanno due volumi di _Scritti varj di filosofia e letteratura_, Napoli, 1861, Stamp. Nazionale, e parecchi articoli sparsi per le riviste. V. intorno a lui in F. DE SANCTIS, _La letteratura italiana nel secolo XIX_, Napoli, 1898, p. 206, una nota di B. Croce. [191] Procurati allo Spaventa dal discorso da lui pronunciato al Parlamento l'8 dicembre 1861; v. R. DE CESARE, _S. Spaventa e i suoi tempi_, nella _Nuova Antol._ del 1.º luglio 1893, p. 50. [192] R. MARIANO scrive invece che quella prolusione fu per molti giovani che erano ad ascoltarla «come una rivelazione», e per lui «proprio la voce dall'alto sulla via di Damasco». _A. Vera, Saggio biografico_, Napoli, Morano, 1887, pp. 37. Essa venne inserita nel _Politecnico_ di Milano, fasc. di maggio 1862 (XIII, 199-222), ed è intitolata: _Della storia della filosofia_. Il VERA la ristampò quindi ne' _Mélanges philosophiques_, Paris, 1862 [193] Scrivendo forse la _Nota alla Prolusione_, pp. 34-41. [194] Era rettore dell'Università Giuseppe de Luca, insegnante di geografia, e dal 1884 incaricato anche dell'insegnamento della statistica; autore di varii libri di geografia. [195] M. MONNIER in un suo art. _Le mouvement italien à Naples de 1830 à 1865_, della _Revue dea Deux Mondes_ (15 avril 1865, p. 1038), accenna a «deux petites émentes» che sarebbero state suscitate nel 1861 dai professori privati e qui, n'ayant pu fournir leurs titres, avaient perdu leur gagne-pain» — «La première fut un soulévement d'étudians qui sifflérent leurs maîtres en criant à la fois: _À bas De Sanctis! à bas Hegel! à bas le Pape-roi!_ Le ministre et le philosophe étaient injuriés, comme on volt, en pieus compagnie». — E questa prima (nonostante la discrepanza delle date) deve corrispondere alla dimostrazione di cui parla lo Spaventa in questa e nella VI lettera. Dell'altra, dovuta a un cotal fanatico predicatore della chiesa del Salvatore (vicina all'Università), ricordata anch'essa, più avanti, in queste lettere dello Spaventa, così scrive il MONNIER: «La seconde émeute fut plus grave, elle vint du dehors. Excitée par an prêtre, la populace, armée de pierres et de couteaux, même de pistolets, se rua sur l'université, dont elle envahit les salles. Il y ent des vitres cassés, du sang versé. La garde nationale dut intervenir. On était encore en révolution, et l'on so permettait quelques vivacités de polémique. Le prêtre fut mis en prison; on lui conseilla de ne plus faire de philosophie en chaire, et on l'acquitta». — Questo tumulto avvenne il 15 marzo '62 e vi s'accenna nella lettera di Silvio a Bertrando Spaventa, più sotto riportata, del 20 marzo 1862 (lett. XI), responsiva ad una lettera di Bertrando andata smarrita. Cfr. anche la lett. XII. [196] Al solito! [197] Un tal Silvio Verratti, anche lui democratico di professione e autore di libelli contro Silvio Spaventa. È morto or è qualche anno. «Zuppetta» è Luigi Zuppetta, repubblicano e professore pareggiato di diritto penale. «De Boni» sarà il noto Filippo de Boni, di Feltre (1820-1870). [198] Il Nicotera era tra i capi del partito democratico nell'Italia meridionale; e tra lui e lo Spaventa era odio fierissimo. [199] Sul motivo di queste dimissioni vedi ciò che lasciò scritto Giovanni Lanza, in TAVALLINI, _La vita e i tempi di G. L._, Torino, Roux e C., 1887, vol. I, pp. 275-6, e la lettera di C. Cadorna al Lanza, ivi, II, 278 e sgg. [200] Il prof. Andrea Angiulli di Castellana (prov. di Bari), n. il 12 febbraio 1837, m. a Roma il 2 gennaio 1890; il quale potè, mercè l'appoggio dello Spaventa, andare quell'anno a Berlino pel perfezionamento negli studi filosofici. Giacchè l'Angiulli allora era anche lui hegeliano; e da Berlino il 15 dicembre '62 scriveva allo Spaventa: «Qui in generale si avverte una certa reazione contro gli studi filosofici. La cattedra di Trendelemburg è la più numerosa, appunto perchè si crede di restare con lui nel concreto; ma io vedo però che dalla sua scuola escono giovani, i quali di filosofia non sanno che dilettarsi su quistioni di qualche categoria, e, campati in aria così come è campato il movimento del maestro, credono di dare fondo all'universo e di rovesciare il colossale monumento dell'idealismo assoluto. Ogni volta che m'incontra di osservare la leggerezza di qualcuno qui, mi nasce forte nell'animo la speranza, che noi forse potremo riprenderci un dì il primato della filosofia in Europa, presentandola in una forma più compiuta e più armonica. Il che avverrà per mezzo della libera speculazione, di cui siete così degno maestro costì. Chè oramai i vecchi cenci della filosofia pretesca possono spacciarsi coi ferravecchi». Questa lettera ora è stata pubblicata integralmente dal CROCE nella _Critica_, IV (1906), 232. Sull'Angiulli vedi l'art. di G. A. COLOZZA nel _Dizionario illustr. di pedagogia_ di Credaro e Martinazzoli: e l'opuscoletto di F. ORESTANO, _Angiulli_, Roma, 1907 (_nella Bibl. Pedag. de «I diritti della scuola»_). [201] Francesco Brioschi, allora segretario generale della Pubblica Istruzione. [202] Per il ministero Rattazzi-Sella-Depretis, costituitosi il 3 marzo 1862. [203] Gustavo Benso marchese di Cavour, fratello maggiore di Camillo, filosofo rosminiano, in politica moderatissimo. Di lui ci restano un volume di _Fragmens de Philosophie_ (Torino, Fontana, 1841) e un _Saggio sui principj della morale_, nel _Cimento_ del 1852, oltre alcuni altri articoli minori nella stessa Rivista e altrove. Per notizie su di lui vedi D. BERTI, _Cavour avanti il 1848_, Roma, 1886, e il mio _Rosmini e Gioberti_, Pisa, Nistri, 1898, pp. 156-7. [204] La _Storia Universale_, di cui la prima edizione uscì a Torino, pei tipi del Pomba, negli anni 1838-46, in 35 volumi. [205] Liborio Romano (1794-1867), ultimo ministro degl'Interni dei Borboni di Napoli, che, dopo aver fatto partire Francesco II, invitò Garibaldi, e aiutò per qualche tempo il dittatore nel difficile governo di Napoli. [206] Sul Tari v. uno scritto di B. Croce nella rivista _la Critica_, V (1907), 365-6. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (Trendelenburg/Trendelemburg e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of the Project Gutenberg EBook of La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia euro, by Bertrando Spaventa *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA FILOSOFIA ITALIANA NELLE *** ***** This file should be named 59958-0.txt or 59958-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/5/9/9/5/59958/ Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by the Bibliothèque nationale de France (BnF/Gallica) at http://gallica.bnf.fr) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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